La stabilità nell’ufficio di Parroco: persona e ministero


A. IL TEMA

Trattare della “stabilità del Parroco” nel Codice latino del 1983 non è cosa facile poiché a rigor di testo non se ne parla che una sola volta nel Can. 522, senza darne alcuna illustrazione né motivazione. Semplicemente la si dà per supposta ed in modo non chiaro attraverso un ambiguo “oportet” assolutamente indecifrabile quanto a portata, ben diversa dal “debent” del Can. 454 §1 del CIC 17.

Va poi notato come, nonostante il termine sia lo stesso di CD 31, in realtà il suo utilizzo nel CIC 83 è praticamente opposto alla volontà dispositiva conciliare che –per di più– non fu affatto ‘fonte’ del Can. 522, che si mantenne –invece– più in linea col ‘riformando’ Can. 454 del 1917.

In CD 31, inoltre, la stabilitas era assolutamente relativa: “ea qua”, mentre nel Can. 522 è diventata un assoluto, al punto da poterne derivare –secondo i più– la necessità logico-giuridica della nomina del Parroco a tempo indeterminato come, di fatto, era sotto il CIC 17.

Per contro, l’interpretazione amministrativa che ne hanno dato le Conferenze episcopali, in ottemperanza al disposto della seconda parte del Canone (la c.d. nomina a tempo determinato), quantifica sostanzialmente tale stabilitas in 6 anni (soltanto), secondo quanto era già emerso durante i lavori conciliari, esprimendo in modo chiaro il pensiero dominante nell’Episcopato circa la reale ‘consistenza’ di questo ‘concetto’.


Già questo primo approccio evidenzia come la ‘stabilitas Parochi’ non si presenti né come un vero Istituto giuridico, né come un principio del Diritto; al massimo potrebbe essere invocata una ‘ratioIuris: un elemento, cioè, di sintesi tra diversi fattori circostanziali che possono acquistare portata giuridica in determinate situazioni e, soprattutto, cumulativamente.


Né pare esistere nella vita della Chiesa una storia autonoma di questa stabilitas precedente il XX sec. Il termine/concetto, infatti, in relazione ai Parroci (anziché all’Ufficio ecclesiastico come tale!) nacque in seguito allo stravolgimento del Concordato napoleonico che aveva negato la inamovibilità a tutti i Parroci non del capoluogo di municipalità, rendendoli semplici “desservents” (per non doverli pagare dalle casse dello Stato, come invece previsto dal Concordato).

La nuova situazione –che i Vescovi europei cercarono immediatamente di fare propria– fu regolata a livello normativo solo nel 1910 (un secolo dopo!) col Decreto “Maxima cura”, proprio a tutela di questi Parroci divenuti ormai semplici-inservienti.

Il Codice pio-benedettino adottò questo termine/concetto nel Can. 454 legandolo parzialmente allo status delle Parrocchie (amovibili ed inamovibili) in una linea comunque già regressiva rispetto alla precedente indubitabile ‘perpetuità beneficiale’. Della “necessaria stabilità” appena affermata si diceva infatti subito dopo che ciò non impediva –di principio– la rimozione, per quanto “ad normam Iuris” …spostando così il ‘baricentro giuridico’ dal fondamento alla tutela.

Tale linea continuò nel Vaticano II, che interpretò la stabilitas in chiave prettamente ‘pastorale’, volendo attribuire ai Vescovi una maggior gestibilità dei Parroci.


Non di meno, le altre ‘stabilità’ –che il Diritto tuttavia non riconosce né chiama tali!– espresse e specificamente normate dal CIC-83 sono ben diverse ed hanno natura ‘tecnica’ espressamente tutoria nei confronti di Uffici ecclesiastici particolarmente delicati quali l’Economo diocesano (Can. 494 §2), il Vicario giudiziale ed i Giudici (Can. 1422) che devono essere nominati per un “tempo determinato” e perciò non possono venire rimossi dal proprio incarico in modo ‘estemporaneo’, secondo volontà –forse– più ‘politiche’ che istituzionali, in una prospettiva che tutela la ‘permanenza’ in officio della persona proprio a salvaguardia della consistenza dell’Ufficio stesso, creando un vero e proprio status giuridico che potrebbe venir chiamato “stante munere”, contro il quale sia difficile poter intervenire per ‘cause’ di livello troppo basso.


B. LA PARROCCHIA

Per affrontare il tema della stabilità del Parroco è innanzitutto fondamentale considerare la dipendenza e ‘sottomissione’ dell’Ufficio di Parroco alla Parrocchia come tale: è questa, infatti, a costituire la vera premessa, la condizione stessa, della presenza del Parroco …e della sua ‘identità’: senza la Parrocchia non ci sarebbe neppure il Parroco; l’inverso non è ‘dimostrabile’ né partendo dal CIC né partendo dall’Ecclesiologia. Così è, d’altra parte, anche dal punto di vista giuridico strutturale: non si può affidare un Ufficio ecclesiastico (l’essere Parroco) che non sia stato previamente costituito …e proprio tale costituzione di Ufficio ecclesiastico comporta la sua ‘stabilità’: la “stabilitas obiectiva”, che riguarda l’Ufficio, cioè proprio la Parrocchia!


La questione è di primissim’ordine poiché pone subito in evidenza quale sia il vero punto di riferimento della tematica in esame: è la Parrocchia ad essere –oggi– una comunità cristiana ‘stabile’, persona giuridica gerarchica pubblica …diversamente si avrebbero la quasi-Parrocchia (Can. 516), la Cappellania (Cann. 564-572), la Missione (cfr. Art. 16 §2 dell’Ordinamento giuridico-pastorale dell’Istr. Erga migrantes caritas Christi), o eventuali altre forme che, per quanto giuridicamente istituite in modo non estemporaneo né accidentale, non presentano però la caratteristica della permanenza e continuità dei loro referenti/destinatari (migranti, lavoratori stagionali, militari, malati, comunità ‘rituali’, ecc.), senza che esista in merito una vera differenza tra base territoriale classica e base personale della Parrocchia stessa.

È la vera –ed innovativa– soggettività giuridica della Parrocchia a costituire il reale punto di riferimento dell’Ufficio di Parroco… anche se questo accade solo dal CIC del 1983, mentre in precedenza il vero ‘soggetto’ era l’Officium curatum, inteso quale centro giuridico d’imputazione di diritti e doveri, oneri e facoltà (persona morale)… tra cui –solo dal CIC 17– una maggiore o minore stabilitas dei loro titolari; erano infatti le Parrocchie ad essere amovibili o inamovibili, non i loro “rectores” in quanto tali!


La nuova soggettività della Parrocchia in quanto comunità stabile di fedeli (territoriale o personale non importa) fa sì che l’Ufficio di Parroco si trasformi da assunzione della titolarità della ‘persona morale’ (l’Officium curatum) in affidamento della cura pastorale della Parrocchia/comunità cristiana.

Il passaggio è decisivo poiché il cambio dei ‘soggetti’ coinvolti, insieme con le loro caratteristiche costitutive e funzionali, muta radicalmente anche i rapporti che con essi devono/possono instaurarsi da parte del loro ‘titolare/referente’.

Assumere l’Officium curatum parœciale che comportava sostanzialmente [a] l’esercizio delle sacre funzioni cultuali e [b] la dispensatio Sacramentorum, com’era fino al Vaticano II/CIC 83, non è certo come farsi carico della cura pastorale di una comunità di fedeli stabilmente costituita all’interno della Chiesa particolare in connessione/dipendenza dal pastorale munus del Vescovo (Can. 515 §1).

Né possono utilizzarsi le stesse categorie concettuali e logiche funzionali nel delineare in cosa ciò consista concretamente in factis. Tanto più che nel CIC 17 i ‘Parroci’, a questo fine, non erano chiamati tali, ma semplicemente “rectores” (Can. 454 et alii), visto che in effetti ‘reggevano’ un Officium (curatum); questo stesso termine, invece, non poteva essere utilizzato per un’altra grande varietà di Officia/Titula, com’erano tutti i c.d. Benefici manuali o i semplici stipendia o le pensiones, con cui si provvedeva in vario modo al mantenimento dei Chierici che svolgevano le stesse sacre funzioni ed amministrazione dei Sacramenti presso Confraternite, Istituti …e case private (nobiliari).


3. IL MINISTERO PARROCALE

Per quanto la cosa non risulti immediata attraverso la lettura dei Canoni 515-552 del CIC 83 su Parrocchie e Parroci, appare ormai incontrovertibile il superamento della prospettiva tridentina dell’Officium da parte di quella del Vaticano II del Munus/Ministerium, promossa sia da Lumen Gentium che da Christus Dominus e Presbyterorum Ordinis. Al di là, infatti, della semplice trasposizione al ‘nuovo’ Parroco conciliare di quanto ormai fossilizzato per quello tridentino, con uno stretto ‘parallelismo’ dei Canoni coinvolti, non pare dubitabile che gli elementi realmente in gioco non siano più gli stessi, almeno a livello sostanziale.

La persona fisica del Parroco tridentino era tenuta –vi Officii– a corrispondere –“ex iustitia”– ai battezzati ‘appartenenti’ al suo territorio i servizi religiosi ad essi legittimamente spettanti in ragione della costituzione dell’Officium curatum parrocchiale (in quanto centro d’imputazione di diritti e doveri, facoltà ed oneri), Sacramenti in primis; allo stesso tempo doveva celebrare ‘a loro vantaggio spirituale’ le sacre funzioni (Messe, officiature, sacramentali, ecc.) in base al Diritto (la Missa pro populo, dovuta ex iustitia, in ragione del beneficio goduto) o alle loro richieste, accompagnate da offerte e ‘tasse’ che gli dovevano essere corrisposte: i c.d. diritti di stola, bianca e nera. I fedeli, d’altra parte, avevano l’obbligo giuridico di rivolgersi a lui per tali richieste in ragione degli Istituti giuridico-pastorali della “Parœcia necessaria” e del “Pastor proprius” introdotti dal Concilio Lateranense IV nel 1215 ex parte subditorum e non ex parte Parochi, come erroneamente indicato da buona parte della dottrina, anche attuale.

La riduttività di questa lettura/interpretazione non può essere ragionevolmente contestata se si ponga attenzione a quanto accadeva, in ben altro modo, nei territori non soggetti al c.d. Ius commune canonicum, cioè, fuori dall’Europa, nella quale –sola– da oltre un millennio vigeva il sistema beneficiale.


La ‘nuova’ fisionomia del ministero parrocale impostata dal Concilio Vaticano II è stata abbondantemente delineata da F. Coccopalmerio tra gli anni ’80 ed ’90 del secolo scorso, e non richiede ulteriori specifiche.

Sia sufficiente porre in luce come ciò che oggi la Chiesa affida al Parroco non sia più un ‘centro d’imputazione di diritti-doveri’ (Officium) ma la “cura pastorale” di una comunità di fedeli stabilmente costituita …per quanto ciò che il Parroco conciliare debba svolgere non paia differire –a rigor di Codice– da quanto sempre ‘fatto’: Sacramenti, sacramentali (Cann. 528-530)… almeno primo ictu oculis.


4. LA PERSONA DEL PARROCO

Un cambio così radicale di ciò che il Parroco fa –e di conseguenza risulta essere dal punto di vista giuridico– non rimane certo privo di conseguenze esistenziali, e quindi personali. Basterà evidenziarne alcune soltanto, non essendo possibile mettere qui a fuoco l’intera problematica circa la ‘persona’ del Presbitero che eserciti il ministero di Parroco.


Senza dubbio, disporre individualmente ed in modo privatistico (usufrutto) di un ‘beneficio’, inteso come “complesso di rendite patrimoniali e diritti economici derivanti dalla propria attività istituzionale” ed in base a cui erogare una serie di servizi (normalmente gravati da ‘tassa’, oppure ‘oblazione’ indeterminata –ma spesso obbligatoria–) risulta del tutto diverso da porre la propria vita a servizio della vita cristiana di una comunità stabilmente presente su di uno specifico territorio o altrimenti caratterizzata su base personale …ma pur sempre ‘comunità stabile’; le due situazioni hanno impatti esistenziali e personali di tutta evidenza.


La soppressione del sistema beneficiale operata da PO 20 ha cambiato radicalmente gli elementi in gioco, scindendo il ministero presbiterale dalla remunerazione/sostentamento che oggi sono –di fatto– connessi alla Incardinazione e non all’Officium. Il nuovo assetto fornito dal Diritto comune al sostentamento del Clero (Can. 1272) ha infatti mutato radicalmente questo stato di cose facendo saltare la gran parte dei presupposti strutturali del precedente modo di essere Parroci, durato ben oltre mille anni. Ciò non ha impedito, tuttavia, che proprio la questione ‘esistenziale’ sia rimasta presente nel CIC 83 in modo significativamente tutorio, per quanto disorganico, non potendosi trascurare da parte dell’Istituzione ecclesiale la necessità di prendere in considerazione e gestire questa componente ineliminabile della vita dei Chierici, Presbiteri diocesani in particolare.


6. IMPLICANZE GIURIDICHE DELLA STABILITAS PAROCHI

Dopo quanto sin qui esposto sia dal punto di vista concettuale che sistematico, oltre che concreto e pastorale, emergono con significatività alcune istanze che paiono ad oggi intimamente connesse proprio alla c.d. stabilitas Parochi al punto, forse, da rappresentare la maggior ‘verità’ istituzionale di cui tener conto ‘in’ e ‘per’ il futuro nel dar significato a questa ‘ratio Iuris’: [a] consistenza dell’Ufficio parrocale, [b] nuove strutture di cura pastorale, [c] mobilità dei Parroci.


6.1 Consistenza dell’Ufficio parrocale

Innanzitutto va ribadito come non sia ragionevolmente discutibile neppure ai nostri giorni che alla guida delle comunità cristiane stabili in cui si articola –ragionevolmente– ciascuna Chiesa particolare (Parrocchie), continuino ad essere nominati in modo non-occasionale e per durate temporali significative ‘dei’ Parroci.

La deprecabile situazione di molte Chiese (anche europee) in cui –ai fini della sola mobilità del clero– si nominano solo Amministratori parrocchiali, senza alcuna ‘stabilitas’, va ricusata e condannata con decisione e lucidità, poiché le comunità cristiane hanno la necessità fisiologica di sapersi ‘affidate’ alla cura attiva ed alla responsabilità concreta di qualcuno in modo non estemporaneo, né occasionale… Ciò che, appunto, assicura il Ministero del Parroco legato ad uno specifico territorio e ad esso completamente dedito …non meno che ad una –eventuale– specifica comunità cristiana stabilmente costituita ratione personarum. Nessuna Parrocchia, tanto più se intesa e considerata come ‘tessuto di relazioni comunitarie’, può tollerare di esser lasciata allo sbando, a se stessa, senza alcuna progettualità, senza alcun investimento sul necessario futuro, senza una ‘stabile’ relazionalità e referenzialità gerarchico-ecclesiale …elementi che non possono esigersi da chi (Prete) sa con certezza di non potersi impegnare seriamente –seppure a termine– per una (quella) determinata causa/situazione.

La presenza di una guida ‘stabile’ –perché ed in quanto ‘univoca’ e ‘certa’– rimane indispensabile all’interno delle attuali comunità cristiane sempre più segnate dalla mobilità di porzioni significative dei propri membri e da –anche– repentini cambiamenti socio-culturali che richiedono una mano salda sul ‘timone’ della comunità stessa …senza che, per questo, il Parroco si trasformi in una sorta di ‘balia’ che continua a voler allattare il ventenne allo stesso modo dei mesi precedenti lo svezzamento.

La ratio è tuttavia ben diversa dalla precedente: la stabilitas non è più ‘diritto’ –o prerogativa– soggettivo-individuale della persona del Parroco in sé (ratione Officii), ma elemento/fattore sostanziale di un autentico servizio ecclesiale (Ministerium) che dev’essere svolto per il vero bene di una/ciascuna precisa comunità cristiana.


6.2 Nuove strutture di cura pastorale

Neppure le –ormai inevitabili– nuove configurazioni pastorali territoriali che si vanno diffondendo in varie parti del ‘vecchio Continente’ quali “unità o zone pastorali” possono e devono mettere in discussione il valore intrinseco –poiché relazionale– della presenza in loco e per tempi significativi sotto il profilo socio-relazionale di un Parroco (lo stesso per un certo tempo!).

Il problema, semmai, sta nella capacità di reale adeguamento delle strutture e funzionalità pastorali in ragione e forza dell’evidente mutazione degli standard abitativi ed esistenziali di buona parte della popolazione, soprattutto extra-urbana. Si tratta, in altri termini, di rimodulare la precedente suddivisione territoriale (numero ed estensione delle Parrocchie), dipendente in gran parte dai fattori connessi alla –difficile– mobilità personale di un tempo, in base alle attuali caratteristiche e configurazioni della mobilità personale e sociale …senza trascurare neppure l’evidenza che oggi la maggior parte della ‘relazionalità pastorale’ tra Parroco e fedeli non si basa più su di un modello sociale-societario (tipico della Christianitas) ma assume sempre più i tratti di una presenza missionaria in cui è la comunità cristiana stessa a giocare il vero ruolo protagonistico verso il territorio e la popolazione in esso presente …senza ignorare, inoltre, la drastica diminuzione dei fedeli c.d. praticanti cui indirizzare principalmente il proprio servizio ministeriale.

Il fatto che non sia più sostenibile la presenza di un Parroco per ciascuna Parrocchia/chiesa non significa né comporta affatto la privazione del territorio ‘antropologico’ –più che geografico(!)– della presenza ‘stabile’ di un Presbitero quale ultimo referente della vita cristiana (Can. 213) e della cura pastorale (Can. 515) di tale territorio… semplicemente sarà necessario rimodulare il concetto di ‘Parrocchia’ affinché ogni ‘reale’ comunità cristiana residenziale abbia un Ministro incaricato della sua ‘cura pastorale’. Si tratta, cioè, di reinterpretare non il Ministero di Parroco (e la sua ‘figura’ di conseguenza) ma il concetto di Parrocchia e, più ancora, la sua reale connessione con territorio e cittadinanza, superando l’ormai insostenibile identificazione ‘centro abitato-Parrocchia-Parroco’.


6.3 Mobilità dei Parroci

Secondo le ‘nuove’ prospettive ministeriali e personali sin qui delineate, appare piuttosto chiaro come quanto previsto dal Codice latino in tema di mobilità/durata dei Parroci non risponda in alcun modo all’attuale contesto e presupposto a-beneficiale circa eventuali ‘diritti’ del Parroco in quanto titolare di un centro d’imputazione di diritti e doveri intimamente connessi (e dipendenti) dal suo sostentamento.

La certezza –potenzialmente assoluta– che il sostentamento del Presbitero in questione, e con essa buona parte della sua situazione esistenziale meritevole di tutela anche istituzionale, non dipende –più– dalla permanenza in una specifica sede ministeriale (titulus) ma dall’Incardinazione, implica la necessaria rivalutazione e riconsiderazione delle rationes sino ad oggi connesse all’interruzione della c.d. stabilitas Parochi: [a] noxium vel inefficacia ministerii, [b] necessitas vel utilitas Ecclesiæ.


Presunta ex-Lege e garantita a Iure attraverso l’Incardinazione, la ‘condizione’ della persona del Presbitero, non paiono restare altri criteri di analisi, valutazione, giudizio e decisione, che la “salus animarum” richiamata dal Can. 1752 proprio in riferimento alla mobilità dei Parroci: è questa infatti, secondo la Legge, che deve prevalere …evidentemente sulla persona dell’ex Parroco.

 «§ 1. Qui parœciæ administrandæ præficiuntur qua proprii eiusdem rectores, stabiles in ea esse debent».

 «Parochi vero in sua quisque Parœcia ea gaudeant stabilitate in officio, quam animarum bonum requirat». 

 Sulla cui consistenza sostanziale si potrebbe discutere, non risultando comunque chiaro se si tratti di specifico ed intenzionale ‘mandato’ o solo di ‘concessione’.

 In realtà ‘beneficiale’.

 Cfr. F. COCCOPALMERIO, De parœciæ personalitate iuridica a Codice 1917 usque ad Codicem 1983, in Periodica, LXXIV (1985), 325-388; F. COCCOPALMERIO, De Vicariis parœcialibus, in Periodica, LXXVIII (1989), 319-344; F. COCCOPALMERIO, De Parochis, in Periodica, LXXVIII (1989), 54-112; F. COCCOPALMERIO, De parœcia, Roma, 1991.

 Cfr. gli interevnti di Montini e Baura in: GIDDC, La Parrocchia, coll. Quaderni della Mendola, n. 13, Milano,  2005.


 Oltre che sua concreta espressione.


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