Sulle tracce del Limes bizantino dell’Emilia occidentale attraverso il santorale parrocchiale appenninico


Per quanto negli ultimi decenni la Storiografia locale abbia conservato un certo interesse verso la consistenza –soprattutto territoriale– del limes bizantino nei territori appenninici dell’Emilia occidentale, complementata da nuovi apporti ‘geografici’ ed  ‘archeologici’, se si vuol giungere a ‘conclusioni’ di qualche consistenza, pare ormai necessario affidarsi a prospettive metodologiche più ampie di ciascuna di quelle che –anche specialisticamente– sono state sin qui utilizzate quasi sempre in ‘casi specifici’. In particolare sembrerebbe offrire qualche risultato l’applicazione di quella che, pur non potendosi comunque considerare una vera ‘tecnica’, è stata però spesso assunta, nell’ultimo secolo, almeno come ‘principio’ euristico in vari ambiti: l’analisi del c.d. santorale proprio di ciascun territorio, secondo i vari ambiti dell’indagine intrapresa.


Proprio la considerazione del “santorale appenninico reggiano” già proposto in chiave toponomastica da Mons. Costi qualche anno fa, unita ad una prima –seppur generica– ricognizione delle caratteristiche e ricorrenze di un certo numero di dedicazioni di chiese parrocchiali appenniniche, sollecitano un accurato approfondimento in tale direzione. Di fatto già il colpo d’occhio circa le ricorrenze, concentrazioni e distribuzioni del ‘santorale appenninico’ stimola la suggestiva ipotesi che l’elemento cultuale, se non può certo da solo –ed univocamente– indicare precisi e specifici insediamenti e presenze etniche, possa però non di meno ‘circoscrivere’ o almeno ‘evidenziare’, vere aree di ‘presenza’ socio-culturale utili alla ‘lettura’ insediativa –e politica– del territorio lungo il tempo.

In questa prospettiva, dopo vari decenni di elaborazione ed applicazione del criterio euristico ed ermeneutico dei c.d. “loca Sanctorum” (proposto fin dagli inizi del XX sec., su tracce ben più antiche), gli elementi disponibili e gli stessi dati tecnici offrono ormai un proficuo indirizzo metodologico in merito; indirizzo già applicato –seppure molto sommariamente– anche da vari storici, ma contestato nelle ultime decadi da una corrente di pensiero che non lo ritiene strutturalmente probante.

Il difficile e lento progresso della ricerca su di un tema ancora così aleatorio –ma anche ricco di possibili feconde conseguenze– come il limes bizantino appenninico dell’Emilia occidentale spinge però a non lasciar cadere questa promettente prospettiva metodologica, accogliendone le motivate critiche, ma sviluppando anche nuove tecniche d’indagine come, nel presente caso, quella puramente statistica in sede macro-territoriale, sino ad oggi sostanzialmente ignorata, per quanto già genericamente suggerita dallo stesso ‘padrino’ dei “Loca Sanctorum” che, tuttavia, ottant’anni fa la intendeva –solo– quale mera elencazione “completa, esatta e dettagliata”.


Come già anticipato dalla sommaria indicazione circa la dedicazione delle chiese parrocchiali appenniniche reggiane e modenesi, pare senz’altro possibile riscontrare una qualche forma di referenzialità ed interconnessione tra il santorale delle dedicazioni parrocchiali e le presenze bizantina e longobarda sullo stesso territorio; ciò merita un’adeguata indagine che permetta di ‘leggere’ –per quanto ad oggi possibile– il localizzarsi di presenze e prese di possesso del territorio di stampo etnico-culturale anche attraverso lo specifico fattore cultuale.


La ricerca e la riflessione saranno ‘assistite’ da uno studio del tutto assimilabile dal punto di vista teoretico e tecnico divenuto ormai storico in materia, ambientato nella Diocesi di Milano; similitudini e differenze soprattutto circa gli elementi di ‘qualificazione’ geografico-etnica offriranno preziosi spunti di controllo e verifica del percorso qui intrapreso che, tra l’altro, ben argina con la sua efficacia le perplessità di chi ritiene che il contributo di particolari dedicazioni religiose sarebbe «minimo per qualificare un’area come limitanea, e –addirittura– nullo per assegnare ad una determinata zona la presenza di un castrum bizantino o longobardo che sia».

Ciò che, non di meno, si propone di mettere alla prova ed esplicitare la presente ricerca, attraverso una metodologia rigorosa ed al contempo a-specifica com’è quella statistica atta, propriamente, ad offrire chiavi di lettura di ciò che già esiste …tanto più se i dati presi in esame non sono ‘singolari’ (come spesso accaduto …e contestato), né ‘a campione’, ma totali, com’è oggi possibile a riguardo delle dedicazioni parrocchiali italiane.


IL PRESUPPOSTO

Proprio per evitare –false– ‘dimostrazioni’ adatte solo ad un uso strumentale per una –o qualche– situazione già individuata per altra via (come contestato a certi studi da Castagnetti e Ghiretti), si adotterà quale ‘presupposto’ delle presente ricerca un elemento di espressa natura antropologica la cui portata ‘generale’ non potrà facilmente essere messa in discussione per la propria –pretestuosa– ‘occasionalità’, fornendo così risultati in qualche modo ‘assoluti’, non connessi cioè nei propri fondamenti alla ‘localizzazione’ scelta per la ricerca stessa, a differenza di quanto invece accade spesso quando si tratta di ‘questa’ o ‘quella’ singola chiesa e della sua dedicazione.


Alla base della possibilità stessa di svolgere questo tipo d’indagini, sta il comportamento universalmente noto e diffuso della ‘dedicazione cultuale’ di costruzioni alle varie divinità: stele, altari, edicole, cappelle, santuari, templi, ecc. Il fenomeno è propriamente ‘antropologico’ e trans-culturale, riscontrandosi in modo costante e ricorrente in varie culture di tempi e luoghi differenti e possiede una ‘stabilità’ del tutto particolare attraverso lo scorrere del tempo, risultando così legittimamente generalizzabile.

Si tratta della presa di possesso ‘cultuale’ del territorio: una sorta di sua ‘individuazione’ che ne giustifichi, prima, e tuteli, poi, la fruizione e la detenzione quasi “per volere/diritto sacro/divino”. Un tale comportamento era fondamentale per le antiche popolazioni nomadi dedite alla caccia o alla pastorizia per identificare il territorio frequentato ed instaurare con esso un rapporto rassicurante (totem), anche attraverso un elemento in qualche modo divinatorio (apotropaico). Non di meno, col passaggio all’insediamento stabile, la stessa logica ha teso a trasformarsi da semplicemente identificativa (in chiave di centralità del culto e dei suoi ‘luoghi’) –rimasta tale nelle ‘strutture’ urbane– a delimitativa del territorio stesso, assumendo –contemporaneamente– un progressivo andamento ‘confinale’ nei territori extra-urbani in aderenza ad una vera e propria funzione ‘limitanea’. In tale prospettiva il luogo di culto viene posto sul confine dell’area sociologico-culturale-etnica in questione… come un ‘limite’, una vera ‘soglia’ fisica, culturale e religiosa; un ‘avvertimento’ per amici e –più ancora– nemici: chi varca quella soglia si assoggetti al potere dell’entità superiore lì evocata …o subirà le ire sue o dei suoi devoti.

Lo stabilizzarsi di queste (due) funzioni cultuali –identificativa e limitanea–, insieme ad un diffuso ed ancestrale rispetto per la sacralità già ‘acquisita’ da tali luoghi/strutture (divenuti ormai vere istituzioni geografico-territoriali, come accadde per i valichi montani, le cime o i guadi) hanno poi fatto sì che nelle epoche successive gli stessi tendessero a subire, invece della ‘sacrilega’ (ed esecranda) distruzione, una nuova dedicazione ad altra divinità (detta tecnicamente esaugurazione). Quanto accaduto in modo massiccio col subentro delle ri-dedicazioni cristiane dei templi pagani precedenti ne rende sufficiente testimonianza.

Il ripetersi e consolidarsi del fenomeno dedicatorio-cultuale in relazione all’effettività degli insediamenti ed alla loro stabilità e durata permette così d’individuarlo come vero e proprio ‘criterio’ adatto a filtrare i dati stessi per rileggerli secondo logiche capaci di evidenziarne l’organicità e la portata strutturale …e strutturante.


Per rendersi conto della concretezza di questo genere di fenomeni, basti pensare, qui, come proprio a Reggio «la chiesa cattedrale, dedicata a S. Prospero fino al 903, dal 904 in poi sarà intitolata a S. Maria e S. Prospero; la nuova intitolazione può essere venuta dalla canonica di S. Maria e S. Michele esistenti poco prima dell’857. Alla fine del secolo X sorgono la chiesa di S. Prospero in Castello e il monastero di S. Prospero in suburbio». Di fatto in pochi secoli lo stesso perimetro accolse prima la –nuova?– chiesa di S. Michele (poi abbandonata e/o demolita), poi –a fianco– quella di S. Prospero, che divenne di S. Maria e S. Prospero ed ora soltanto S. Maria Assunta, man mano che cresceva il potere urbano del Vescovo e la popolazione tendeva alla progressiva ‘unificazione’…


IL CRITERIO

Una tale ricerca non potrebbe tuttavia attuarsi senza considerare la natura prettamente ‘statistica’ del criterio individuato e qui applicato, nella volontà di allontanarsi da ciascuno dei singoli ‘casi’ spesso contestati, cercando invece un’eventuale o possibile connessione tra loro che guidi la ricerca dal generale allo specifico. Tale approccio chiede tuttavia la consapevolezza della portata irrinunciabile e strutturante delle diverse delimitazioni degli elementi presi in esame, secondo criteri e ‘filtri’ già dimostratisi efficaci in altre occasioni o emersi con ragionevole certezza scientifica in specifiche indagini già condotte in materia.

In quest’ottica la presente indagine –volta a sondare la probabile estensione del c.d. limes bizantino appenninico emiliano-occidentale– non dovrà mirare tanto alla precisa qualificazione ‘etnica’ dei Santi stessi e delle loro dedicazioni e corrispondenti datazioni, ma, molto più blandamente, alla loro –eventuale/probabile– funzione strumentale di carattere limitaneo: è questo infatti il ‘dato’ effettivamente utile alla prosecuzione della ricerca su tale realtà geo-politica, sin qui troppo disattesa e sottovalutata.


Concretamente la ricognizione qui proposta riguarda le principali dedicazioni santorali già indicate da Barni, Golinelli, Tincani e Costi, in una rassegna forzosamente limitata ai pochi Santi segnalati come variamente significativi dagli autori e che rilevano statisticamente per il numero di ricorrenze sul territorio o che la Storiografia locale ci ha consegnati come ‘i nostri’.


IL METODO

La portata ed efficacia della presente ricerca saranno apprezzabili dal punto di vista storiografico solo tenendo presente che l’analisi condotta per via statistica s’indirizza prevalentemente a raccogliere, organizzare, strutturare e raffigurare, elementi fattuali diversi da quelli ordinariamente fruiti dagli storici quali sono i ‘documenti’, i ‘reperti’ o i ‘fatti’ (seppur di diversa natura), cui non sarà possibile effettuare alcun specifico riferimento di merito. Saranno fatte, invece, considerazioni di carattere storico partendo da elementi che appaiono formalmente ‘estrinseci’ rispetto a fatti e vicende di quasi 13 secoli fa …estrinseci ma non-indipendenti; estrinseci come il numero delle Parrocchie in Italia (25.672), in Emilia-Romagna (2.691) …a Reggio (317), non-indipendenti come la loro dedicazione santorale: nessuna Parrocchia di S. Gennaro nella Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla!

La Statistica, tuttavia, non è una disciplina scientifica adatta ad ogni utilizzo: essa infatti ‘tratta’ solo certi oggetti e secondo certe prospettive e tecniche, ed offre solo certe risposte, caratterizzate solitamente dalla sola probabilità, da leggersi come maggiore ‘concentrazione’ di elementi significativi, in base ad una –spesso lunga– serie di scelte di inclusione ed esclusione di elementi, valutati secondo specifici criteri di rilevanza specifica per ogni indagine.

La scelta di alcune dedicazioni santorali (solo 13) delle chiese parrocchiali dell’attuale Regione ecclesiastica Emilia-Romagna (2.691 Parrocchie) soddisfa esattamente a queste qualità della ricerca statistica: verificare se, quanto, dove e come, alcune dedicazioni santorali –già ‘note’ per loro specifiche caratteristiche– mostrino una maggiore concentrazione territoriale; spetterà poi agli storici motivare plausibilmente i diversi perché del fatto eventualmente appurato e trarne adeguate conseguenze in relazione a tutto quanto già conosciuto sul tema.

Considerando come «i cosiddetti “dati” […] non esistono al di fuori delle operazioni che il ricercatore compie in rapporto a un determinato quadro di riferimento teorico», è necessario esplicitare come tale ipotesi consista –qui– nel verificare la possibile esistenza di un’ampia zona limitanea (bizantino-longobarda) sull’Appennino emiliano-occidentale. Sarà –unicamente– in funzione di questa ipotesi che verranno fatte tutte le scelte ed opzioni su numeri e nomi, ottenuti e gestiti secondo criteri completamente ‘autonomi’ rispetto alla tematica trattata: elenco delle Parrocchie italiane e loro collocazione geo-politica.


La scelta delle dedicazioni santorali delle Parrocchie quali elementi di analisi da cui ‘estrarre’ i “dati” significativi per la ricerca è fondata su alcuni presupposti che intervengono a valorizzare anche gli stessi esiti dell’indagine; allo stesso modo la –successiva– scelta di ragionare sul territorio concreto riferendosi agli attuali Comuni:

a) la Parrocchia, a differenza di altri elementi geo-politici o socio-culturali, è strutturalmente soggetta al ‘fenomeno’ dedicatorio cultuale, il quale subisce rarissime variazioni nel tempo e sempre per motivi di specifico profilo;

b) la Parrocchia ha una portata istituzionale ed un legame al territorio in una prospettiva di lungo respiro attraverso i secoli e, pertanto, maggiormente garantita rispetto ad altri fattori di natura sociologica o politica, com’è per Comuni, Province… Contee o Principati;

c) il numero delle Parrocchie (25.672 in tutta Italia, 2.691 in Emilia-Romagna) appare statisticamente significativo, a differenza dei semplici ‘toponomastici’ le cui ricorrenze a livello nazionale risultano numericamente troppo esigue per un approccio di questo tipo;

d) le Parrocchie, per loro natura, costituiscono un buon parametro di monitoraggio degli insediamenti abitativi, pur mantenendo una certa indipendenza dalla loro consistenza demografica (fattore, questo, importante in prospettiva statistica poiché valorizza il ‘fatto’ in sé rispetto alla sua ‘estensione’);

e) la dedicazione parrocchiale non è un semplice “locus Sanctorumtout-court, ma costituisce una sorta di ‘esito’ di un lungo e profondo travaglio socio-religioso (in parte anche etnico-culturale) di maggior significato rispetto alla dedicazione di cappelle, maestà, ecc. più facilmente riconducibili anche a fattori individualistici (devozione personale, voto, ricorrenza familiare, ecc.), risentendo in modo inferiore di elementi e fattori emotivi e circostanziali difficilmente gestibili sotto il profilo storico;

f) il riferimento parrocchiale –e conseguentemente diocesano– permette, poi, di riferirsi ad una suddivisione territoriale molto più stabile nel tempo e prossima alla realtà ‘originaria’ di ripartizione del territorio rispetto a Comuni, Province, Regioni attuali;

g) da ultimo, non però tecnicamente, la scelta delle Parrocchie permette di utilizzare una base-dati già esistente –contenente il dato ‘santorale’– che offre all’indagine la totalità degli elementi disponibili (l’elenco IDSC-CEI), e non soltanto un loro ‘campione’.

h) Per quanto riguarda i Comuni (risalenti alla fine dell’Ottocento), va osservato come, pur trattandosi in sé di elementi del tutto ‘estranei’ alla gestione originaria dei territori presi in esame –ed alla stessa logica parrocchiale e santorale–, essi permettano tuttavia un’ulteriore facile manipolazione statistica capace di evidenziare dati significativi, tenendo conto che –nonostante tutto– un Comune rimane pur sempre indizio di una certa prossimità non solo territoriale ma anche viaria ed insediativa… soprattutto quando si tratta di valli montane e bacini orografici ed idrografici.


Tra le avvertenze –limitative– di cui tener conto nella presente indagine si pone anche la non piena corrispondenza tra il territorio diocesano e quello provinciale che renderà inevitabile considerare un certo numero di Parrocchie appartenenti a Province attualmente non emiliano-romagnole (Pavia, Genova, Firenze, Pesaro Urbino, San Marino) ma a Diocesi confinali (Piacenza, Forlì, Cesena-Bertinoro), escludendone al contempo alcune altre (pur emiliano-romagnole) appartenenti a Diocesi toscane: Lucca, Massa-Pontremoli. Si tratta comunque di numeri piuttosto esigui e che in gran parte non coinvolgono neppure l’area di maggior approfondimento, poiché la Romagna viene ben presto esclusa dalle considerazioni svolte.


IL DATO STATISTICO

L’analisi statistica delle dedicazioni parrocchiali dell’attuale Regione ecclesiastica Emilia-Romagna ha –in parte sorprendentemente– evidenziato elementi di tutta consistenza ed interesse per la finalità assunta.


a) Prima di tutto le (solo) tredici dedicazioni selezionate in ragione della loro rilevanza etnico -cultuale riguardano ben 799 Parrocchie su 2.691 dell’intera Regione ecclesiastica (circa il 30%) (grafico 1) con uno scostamento del 4% rispetto alla media nazionale (grafico 2): un elemento formale già sufficiente dal punto di vista statistico per indagare più oltre. Di fatto numeri di questa consistenza dimostrano l’effettiva significatività del ‘criterio’ di ricerca adottato, impedendo fin da subito qualunque recriminazione ‘parzialistica’ o ‘ideologica’: si tratta di un ‘dato’ di assoluto significato. Di grande rilievo è anche la constatazione che quasi il 59% di esse (468) sono collocate in collina e montagna (grafico 3), permettendo di evidenziare una loro non-indifferenza rispetto alla collocazione territoriale.

b) In secondo luogo appare evidente come le Province maggiormente interessate alle dedicazioni in esame siano proprio quelle dell’Emilia appenninica: da Piacenza a Bologna (565 Parrocchie su 799, pari a circa il 71% del santorale considerato (grafico 4) e circa il 21% delle dedicazioni parrocchiali della Regione), proprio quelle in cui la storia conosce la maggior presenza ed attività longobarda, oltre a ricordare la presenza ed attività dei kastra bizantini montani caduti solo ai tempi di Liutprando (primo quarto del sec. VIII), 40-50 anni prima del crollo dell’intero Regnum in mano ai Franchi carolingi.

c) Fissando l’attenzione solo al settore emiliano il dato diventa ancora più significativo poiché su 468 Parrocchie montane totali interessate alle 13 dedicazioni monitorate, non solo ben 388 (83%) si trovano in area emiliana (grafico 5), ma –molto di più– il territorio piacentino (87 dedicazioni) e parmense (106 dedicazioni) palesano l’intensità e la portata del fenomeno, che tende a scemare progredendo verso Est (55 a Reggio, 65 a Modena, 75 a Bologna).

d) In base alle ‘caratteristiche’ etnico-cultuali già evidenziate in dottrina in riferimento ai Santi monitorati, sembra emergere come le 388 dedicazioni del territorio appenninico emiliano siano riconducibili ad una ‘origine’ compresa tra il III e l’VIII sec.; in esse si evidenzierebbero infatti: [a] uno strato facilmente pre-longobardo di 164 Parrocchie (S. Pietro, S. Lorenzo, S. Stefano, S. Apollinare e S. Vitale), [b] uno strato bizantino-longobardo di ben 104 Parrocchie (S. Michele, S. Giorgio, Ss. Salvatore) ed [c] uno strato in qualche modo successivo di 39 Parrocchie. A queste si aggiungono altre 81 Parrocchie (56 dedicate a S. Giovanni Battista e 25 a S. Andrea) di difficile attribuzione, per quanto facilmente pre-carolingica.

e) Non meno significativo appare il dato più strettamente territoriale-geografico: dei 135 Comuni interessati nelle quattro Province emiliane, [a] ben 100 vedono al proprio interno almeno due dedicazioni significative dal punto di vista cultuale-etnico collocabili entro la fine dell’VIII sec., [b] 68 Comuni –cioè circa la metà– hanno poi sul loro territorio almeno tre dedicazioni di stampo cultuale-etnico, fino al ‘limite’ di Langhirano (PR) e Pavullo nel Frignano (MO) e che ne hanno rispettivamente nove e tredici… non serve certo la “Descriptio orbis romanæ” di Giorgio Ciprio per riconoscere le collocazioni di massima dei kastraKampsas” e “Feronianum”.


LO SPECIFICO REGGIANO

Un’attenzione più profonda può esser dedicata –ancora solo statisticamente– al territorio specificamente reggiano, per il quale sono anche a disposizione un numero maggiore di dati ‘dedicatori’: quelli di tutti gli edifici di culto attualmente appartenenti ad Enti ecclesiastici.

Su un censimento ufficiale di 612 edifici sacri si ha questa distribuzione ‘funzionale’: 315 chiese parrocchiali, 225 oratori sussidiari, 56 chiese sussidiarie, 13 santuari, 3 tipologie differenti (cfr. Allegato n. 1).

Ancora una volta il dato statistico, per quanto quasi doppio rispetto a quello semplicemente parrocchiale (612 dedicazioni totali contro 315 parrocchiali), conferma quanto già evidenziato su scala ben più ampia: 127 dedicazioni su 612 (18,62%) riguardano le 13 monitorate (cfr. Allegato 1), coprendo circa il 21% delle dedicazioni totali in Diocesi: 89 sono chiese parrocchiali, 38 oratori o chiese succursali; di queste 127 ben 89 si attestano nella fascia collinare-montuosa della Diocesi per una incidenza del 70% della loro ricorsività.

Altro elemento numericamente significativo è la ‘polivalenza’ di S. Giovanni Battista cui sono dedicate solo 8 Parrocchie, contro 12 oratori o chiese succursali; alla Ss. Trinità non è dedicata nessuna chiesa parrocchiale, ma solo 4 oratori.

L’esistenza di oratori o chiese succursali dedicati a qualcuno dei Santi considerati fa pensare ad un tipico caso di affiancamento successivo di nuova chiesa parrocchiale alla precedente struttura cultuale –probabilmente ‘etnica’– che non si è riusciti a ri-convertire al nuovo culto, come potrebbe essere per Prignano sul Secchia la cui attuale chiesa parrocchiale ha assunto doppia dedicazione dopo la distruzione di un oratorio periferico dedicato a S. Michele.

Delle pochissime ricorrenze appenniniche emiliane di S. Agata (due soltanto) una –secondaria– si trova in territorio carpinetano: a Poiago e potrebbe far parte della ‘corona’ longobardica di secondo periodo intorno al Castrum Verabulum, insieme ai S. Michele di Carù e Talada in Val Secchia …se ne fosse dimostrata l’ascendenza longobarda.


Uscendo ora dal dato puramente statistico, meritano qualche nota alcuni altri elementi strettamente ‘geografici’ già noti tanto per lo studio di Costi che di altri.

a) Se circa l’origine espressamente longobardica dell’attuale chiesa parrocchiale di S. Michele in Roncaglio (Comune di Canossa, sulla destra orografica del Torrente Enza) non esistono elementi di dubbio, poiché fu dedicata l’8 maggio del 1660; per contro la dedicazione della vicina chiesa parrocchiale di Ciano d’Enza a S. Martino risale con certezza alla fine del sec. XVII, sostituendo l’ormai cadente chiesa parrocchiale di S. Lucia.

b) Scendendo qualche decina di kilometri verso il piano lungo la stessa sponda orientale dell’Enza si trova ancora l’oratorio (privato, ormai dismesso) di S. Eufemia in Piazzola di Bibbiano, documentato in epoca matildica come dipendente dal Monastero di S. Apollonio di Canossa; la dedicazione ‘tricapitolina’ è di chiara matrice longobardica, così come si deve presumere fosse la ‘piazzola’(!) fortificata di cui si ricorda la presenza in tale sito e della quale il toponomastico mantiene memoria.

c) Oltre il santorale monitorato statisticamente, l’Appennino reggiano conosce altre dedicazioni chiaramente riconducibili ad un culto ‘etnico’: S. Basilide a Piolo, S. Macario a Monzone, S. Biagio a Busanella, Gottano e Toano, paiono sicuramente riconducibili all’area bizantina. Per quanto non sia oggi possibile determinarne l’origine greca (attraverso la Lunigiana) o ravennate, ciò conferma tuttavia la ‘tenuta’ di tale strato etnico e sociale anche durante il periodo longobardo; non di meno, se si confermasse la matrice ‘greca’ di queste dedicazioni si rafforzerebbero le ipotesi di radicamento e –lunga– durata proprio del limes appenninico.


Le altre singole dedicazioni di probabile matrice longobardica andranno verificate una ad una sul ‘loro’ stesso territorio …con un’operazione da storici e non più da statistici.


SCENARI

Dopo quanto sin qui illustrato –numeri alla mano– occorre provare a combinare tra loro i diversi dati, emersi attraverso le singole modalità di ricerca, in modo da prospettare ragionevoli ipotesi ricostruttive dello status quo del periodo storico considerato (secc. VI-VIII). Si tratta di articolare alcuni possibili ‘scenari’ che permettano di leggere in modo non conflittuale i dati in nostro possesso, verificandone la possibile ‘tenuta’ nei fatti.


Davanti alle molte ambiguità e polivalenze del culto di alcuni dei maggiori Santi presi in esame (in primis Michele e Giorgio), così come a fronte delle amplissime lacune storiografiche sia generali che specifiche, occorre però non dimenticare come esistano anche alcune certezze …qualcuna delle quali incontestabile e, pertanto, concretamente fruibile per ‘individuare’, ‘distinguere’, ‘classificare’, in modo organico e non occasionale una parte significativa dei dati evidenziati –anche– per via statistica:

- la prima di esse è il fatto stesso del limes lungo il versante settentrionale dell’Appennino tosco-emiliano, dato in sé certo anche per via documentale;

- la seconda è il confronto militare avutosi in quei territori dal VII all’VIII sec. tra Bizantini e Longobardi, dato altrettanto certo per via storica e documentale;

- la terza –normalmente ignorata dagli autori– è il limite minimo dell’uso longobardo di S. Michele e S. Giorgio: anno 665 circa col Re Grimoaldo il primo, anno 690 circa col Re Cuniberto il secondo;

- la quarta, pure spesso trascurata, è la fine del limes –solo– sotto Liutprando intorno al 720, come attestato da P. Diacono.


Sulla base di quanto sin qui evidenziato, pare possibile delineare sostanzialmente tre ‘scenari’ che rendano ragione della maggior parte dei ‘dati’ emersi; per quanto due di essi risultino piuttosto ‘estremi’ nei fatti, sono tuttavia utili per fissare meglio la problematica, delineando la fascia di oscillazione delle ipotesi più realistiche all’interno del terzo scenario.


Primo scenario: tutte le dedicazioni a S. Michele e S. Giorgio sono bizantine, risalendo –probabilmente– fino ai tempi di Costanzo o alla Guerra greco-gotica della metà del VI sec. In questo caso, dovendosi porre il limite di competenza bizantina a settentrione della linea che connette tutte le dedicazioni a Giorgio e Michele, occorre ipotizzare: [a] che il limes scendesse quasi ai piedi delle colline emiliane e [b] che i Longobardi non lo abbiano affatto scalzato fino al sec. VIII, ponendo come unica loro testimonianza ‘limitanea’ le dedicazioni a S. Martino, poiché collocate generalmente a Nord della linea già indicata.

Lo scenario è estremo e non realistico in quanto si ha certezza –anche documentale– che un certo numero di dedicazioni a S. Michele sono certamente longobarde, così come longobarde sono certamente altre dedicazioni insinuate più a Sud della linea indicata.

Secondo scenario: tutte le dedicazioni a S. Michele e S. Giorgio sono longobarde; in questo caso il limes sarebbe stato a Sud della linea che connette tutte le dedicazioni ai due Santi combattenti, estendendosi ad una fascia territoriale più ‘sottile’ della precedente (anche se di pochi kilometri) e con più facili insinuazioni di dedicazioni longobarde certe verso Sud; i S. Martino collocati a Nord potrebbero essere di origine franca (fine dell’VIII sec.). Questa situazione, tuttavia, non potrebbe essersi delineata che nell’ultimo terzo del sec. VII, sotto Grimoaldo e Cuniperto. Anche questo scenario appare irrealistico sul terreno per gli stessi motivi del precedente. Si osserva tuttavia che esso confermerebbe comunque [a] la stessa linea di dedicazioni santorali già considerata dalla precedente ipotesi …e con essa la sostanziale individuazione della portata territoriale del limes, [b] la tardività dell’interessamento longobardo per questa fascia territoriale montana.

Terzo scenario: S. Giorgio è –sostanzialmente– bizantino e S. Michele –sostanzialmente– longobardo; in tal modo la linea confinale si articola e frastaglia in modo intermedio tra le due ipotesi precedenti, assumendo un andamento anche molto discontinuo, segnato da evidenti e profonde intromissioni longobarde in territorio bizantino, specie lungo i torrenti. L’area di competenza del limes risulterebbe così minore e, soprattutto, meno compatta e continuativa nei punti di maggior debolezza. L’utilizzo longobardo di S. Michele con funzione limitanea –ed anti-bizantina– pare del tutto plausibile proprio per le origini stesse della sua introduzione da parte di Grimoaldo in funzione espressamente anti-greca dopo la battaglia del Gargano; ciò rimanderebbe la sua introduzione nel Regnum Italiæ agli ultimi 35 anni del sec. VII. Le dedicazioni a S. Martino potrebbero essere indifferentemente di successiva –molto probabile– introduzione franca o di ‘conferma’ e rafforzamento dello stanziamento longobardo, seppure dopo il deciso abbandono dell’Arianesimo (ancora: seconda metà del sec. VII).


Pur accogliendo come maggiormente realista e probabile il terzo scenario, in ogni modo i dati che riguardano la consistenza e collocazione del limes non cambierebbero nella loro sostanza:

- l’importanza della serie/successione dei S. Giorgio-S. Michele va sì interpretata …ma non può essere negata, né letta secondo le logiche di altre aree geografiche palesemente tanto diverse;

- tale ‘serie’ segna in ogni modo la ‘fascia/linea’ effettiva del confine bizantino-longobardo in Emilia occidentale …proprio come  Barni aveva già dimostrato per le Prealpi lombarde;

- S. Eufemia, S. Giustina, S. Alessandro, S. Agata, i Ss. Nazario e Celso serviranno quali ulteriori elementi ‘esterni’ per individuare meglio le aree più espressamente longobardiche, aiutando anche a discernere la paternità dei Santi più polivalenti.


IL LIMES APPENNINICO TOSCO-EMILIANO

I dati statistici sin qui illustrati permettono di delineare un quadro geografico piuttosto specifico di tutta evidenza. Se, infatti, si suddivide l’attuale Emilia-Romagna come in quattro quadranti secondo gli assi costituiti dalla viabilità ‘pedemontana’ a sud della Via Emilia (est-ovest) e dal sistema fluviale Panaro-Reno (nord-sud), è inevitabile osservare come le dedicazioni santorali così indagate e geograficamente ‘collocate’ si concentrino vistosamente nel quadrante sud-ovest: l’Appennino emiliano-occidentale (figura 1).

A questo punto, però, pur ammettendo per giusta ipotesi critica la posizione metodologica di Castagnetti e Ghiretti, secondo cui ciò non potrebbe essere atto –in sé soltanto– a ‘spiegare’ nulla circa la “qualificazione di un’area come limitanea” né «per assegnare ad una determinata zona la presenza di un castrum bizantino o longobardo che sia», non di meno, occorrerebbe invece proprio ‘spiegare’(!) ‘tale’ dato puramente fattuale, tanto più nella sua tenacissima sopravvivenza a tutte le vicende storiche, culturali ed istituzionali che hanno coinvolto quei territori negli ultimi millecinquecento anni …proprio le stesse vicende invocate dai ‘critici’ per disattenderne la significatività.


In tal modo, nonostante la contestata esiguità delle ragioni del Conti e dei suoi seguaci, dai molti numeri e nomi sin qui vagliati ed interrogati sembra senz’altro possibile individuare lungo il crinale appenninico dell’Emilia occidentale un’area globale ben definita –per quanto fluttuante in singoli luoghi– da poter considerare con certezza di stabile presenza e dominio bizantino per tempi ben più lunghi di quelli normalmente indicati dalla storiografia generale, che vedrebbe sparire tale presenza greco-romana travolta dall’urto di Rotari negli anni ’30 del VII secolo in quelle che, ormai appare chiaro agli storici, furono solo devastanti scorrerie senza effettive stabili conseguenze ‘politiche’.

Dalla concentrazione dei dati sin qui evidenziata, invece, emerge con chiarezza una linea confinale individuabile nella contrapposizione cultuale –ma in realtà geo-politica– di “loca Sanctorum” bizantini e longobardi; essa racchiuderebbe a Nord una ‘fascia’ profonda quasi quanto l’intero territorio montuoso e collinare a cavallo del crinale tosco-emiliano, estesa ad ovest fino alle Alpi Marittime e connessa col Mar Tirreno attraverso la Valle della Magra, passando per Suriano/Filattiera, fino al porto di Luni da cui con costanza per circa due secoli giunsero ai kastra appenninici rifornimenti e rinforzi fino ai tempi di Liutprando nel secolo successivo (oltre ottant’anni dopo Rotari).


A ben vedere, ciò avrebbe anche risposto in modo efficace ad una strategia bizantina di mantenere separati il Regnum Italiæ padano ed i Ducati longobardi centro-meridionali di Tuscia, Spoleto e Benevento, opera assolta più a Sud dal c.d. corridoio bizantino tra la Pentapoli adriatica e Roma attraverso l’Umbria. Non solo:

«dobbiamo –anche– dire che il regno longobardo non ha occupato subito tutta quella zona che potrebbe corrispondere all’incirca oggi all’Italia settentrionale, bisogna piuttosto pensare ad un ampio corridoio posto fra le Alpi, tenute dai Franchi e dai Bizantini, e la zona fluviale e quella appenninica ligure e costiera, tenuta dai Bizantini. Venivano quindi i Longobardi a trovarsi in una morsa che avrebbe potuto stringersi ad ogni momento.

Tale situazione durò non poco tempo: solo verso la fine del secolo VII circa riuscirono i Longobardi a rendersi padroni delle alte valli alpine verso i Franchi; troppo tardi»…


di lì a poco proprio i Franchi, quelli carolingi questa volta, avrebbero invaso la Pianura Padana appropriandosi del Regnum Italiæ per conferirlo al loro Re, il futuro Imperatore d’Occidente.


Occorre poi considerare anche, con le dovute attenzioni –e le necessarie implicanze–, come il limes bizantino appenninico tosco-emiliano non fosse una semplice ‘muraglia/trincea’ posta di fronte al nemico –come il Vallo d’Adriano in Inghilterra, o la ben più tardiva “Linea Maginot” in Francia–, ma un territorio abitato ed organizzato secondo le ‘regole’ delle missioni limitanee di cui i Romani erano ben esperti. Ai kastra, fortificati e collocati in posizione strategica presso gli incroci e lungo le vie di transito maggiormente accessibili e predisposte agli spostamenti di truppe e materiali, erano connessi pagi, vici e curtes in cui stanziavano e vivevano gli uomini (militari-coloni) in forza alle diverse guarnigioni …con essi le loro famiglie ed un’intera società agricolo-militare, con una propria struttura amministrativa e di governo –militare e civile– facente capo al Magister militum locale. È interessante in proposito che quando Paolo Diacono parla la prima volta del “Ferronianum” dal punto di vista semplicemente geografico lo qualifichi –insieme con Monteveglio, Sarsina (orig.: “Bobium”) ed Urbino– come “civitas” …forse a motivo delle mura?

Quanto, a causa dell’invasione longobarda dal Nord, non era stato possibile ‘mantenere’ nelle città e nei pagi della pianura emiliana, continuava, invece, floridamente nel territorio collinare e montano, attraverso il riadattamento e consolidamento della struttura ‘municipale’ tardo-antica che col nuovo millennio avrebbe costituito un’istanza di prim’ordine per lunghi secoli anche contro lo sviluppo della potenza comunale, incombente dalla Pianura padana.

Prima, però, doveva ancora giocarsi l’intero periodo canossano che, proprio in questa struttura montana mai venuta meno, avrebbe trovato non solo la propria miglior collocazione militare… ma anche quella socio-amministrativa, culturale e politica.


CONSEGUENZE

Il percorso sin qui seguito permette di trarre conseguenze –anche solo preliminari– utili alla ‘rilettura’ di alcuni dati ancora oggetto di discussione tra gli storici, non solo locali, fruendo di indicazioni significative per risolvere –forse– qualcuno degli enigmi cronologici ancora pendenti.


a) La prima questione che riceve innegabile consistenza è l’effettività e stabilità del limes bizantino appenninico tosco-emiliano occidentale a cui l’argomentazione limitaneo-santorale porta non solo conferme significative, ma anche ‘dati’ utili alla concreta ‘ricostruzione’ sul terreno. Significativi in questa prospettiva alcuni elementi:

- la stratificazione delle dedicazioni parrocchiali ‘limitanee’ tende a scomparire con l’avvicinarsi al territorio bolognese: laddove il limes nord-sud tra Modena e Bologna (prima sullo Scoltenna-Panaro e poi lungo il Reno) manteneva gran parte dell’Appennino in area bizantina e, pertanto, al di fuori del ‘modello’ sopra indicato; 

- il modello limitaneo-santorale si ripresenta secondo le stesse modalità e caratteristiche sul versante Sud dell’Appennino tosco-emiliano, ma con direzione Sud-Nord lungo il crinale apuano, tra Lunigiana storica e Garfagnana: bizantina la prima, longobarda la seconda.


b) Una seconda questione concerne la datazione di eventi ‘appenninici’ altomedievali quali, p. es., le modalità ed il contesto del passaggio dell’Abate bobbiese Bertulfo in prossimità del “Kastron Bismanto” nel 628. La quæstio disputata riguarda ancor oggi la data della caduta di tale kastron in mano ai Longobardi, collocata da molti –frettolosamente– già alla fine del VI sec. I risultati della lettura limitaneo-santorale permettono di fare alcune interessanti considerazioni sul tema:

- la Parrocchia di Ginepreto al cui territorio appartiene –oggi– la Pietra di Bismantova è dedicata a S. Apollinare; ciò testimonierebbe la presenza di un’antica comunità cristiana ben radicata sul territorio. La romanità di tale dedicazione, ed il suo espresso legame ravennate, possono aver mantenuto la propria adeguatezza anche sotto il ‘nuovo’ dominio bizantino conseguente alla guerra greco-gotica ed il consolidamento del kastron limitaneo bizantino senza suggerirne una mutazione dedicatoria (p. es. a S. Andrea o S. Giorgio). Per contro, la dedicazione della storica Pieve di Campiola [o Campiliola]  (Castelnovo ne’ Monti) alla Madonna Assunta, dev’essere fissata almeno al IX sec., come anche i documenti testimoniano;

- va osservato, d’altra parte, che se i Longobardi avessero in qualche modo preso stabile possesso del kastron bismantino o delle sue immediate vicinanze entro i primi decenni della loro presenza italica, non avrebbero affatto esitato ad erigervi una propria ‘postazione’ etnico-cultuale avanzata sotto la protezione di S. Michele, ‘segnando’così il proprio territorio. Un tale fatto, però, non pare avere alcun riscontro né documentale, né di altro tipo. L’assenza di significative dedicazioni a S. Michele lungo il percorso viario da Castelnovo ne’ Monti ai Passi di Lagastrello e Cento Croci (Cerreto) non offre esiti alternativi; anche perché Talada e Carù (dedicate a S. Michele) si trovano in posizione frontale lungo la valle del Secchia poco oltre (a Sud) la stretta di Castelnovo… probabile massimo punto di arrivo e penetrazione territoriale longobardica insinuata alle spalle delle zone di pertinenza dei Kastra Verabuli e Bismanto. Nessuna traccia poi lungo la strada dei Passi di Istituzioni –come il Monastero di Berceto o quello di Fanano– che rimandino in qualche modo ad un’attività di matrice longobarda, neppure successiva alla caduta del Kastron bismantino!

- Per di più: un Abate longobardo –gravemente ammalato–, con scorta militare longobarda, di ritorno da Roma, non avrebbe pernottato all’adiaccio se la strada, i paesi, il territorio fossero stati longobardi…

- Quanto detto per il legame S. Apollinare-Kastron bismantino pare valere anche per il Kastron Verabuli, facilmente collocabile nel carpinetano, laddove ad oggi persiste la Pieve di San Vitale, e non lontano da Valestra dove la cappella dedicata a S. Michele è giudicata con funzione esaugurale (ri-dedicatoria) anti-bizantina... quasi a voler imporre il nuovo culto dei conquistatori, una volta spentasi l’attività limitanea dell’avamposto bizantino.


c) Una terza questione cronologica immediatamente connessa alla precedente riguarda la ‘caduta’ in mano longobarda del Kastron Bismanto, troppo spesso risolta col semplice riferimento ad un ben tardivo Gastaldato longobardo di Bismantova dipendente da Parma. Ciò porterebbe anche ad un ridimensionamento delle correnti storiografiche più inclini ad identificare la provenienza dei nuclei longobardi presenti nella montagna reggiana dalla Garfagnana o dalla Lucchesia. Se il limes ha retto fino alla seconda decade del sec. VIII, l’unica provenienza ammissibile per tali nuclei etnici è la Pianura Padana …per risalita lungo il corso dei torrenti.


Non si possono non ripetere, concludendo, –ed a minori ad maius– le affermazioni del Barni di settant’anni fa:

«che dunque un influsso bizantino anche durevole vi sia stato nella nostra zona è quasi certo. L’importanza di questa influenza è grande, poiché può servire anch’essa per dimostrare quella continuità che alcuni volevano interrotta completamente, quasi spezzata, dall’invasione longobarda».


Quanto ciò sia vero per l’Emilia occidentale ben maggiormente che per la Lombardia non chiede né indagini né verifiche, quanto ciò si dimostrerà poi pregnante per l’instaurarsi del dominio canossano, non lo sarà di meno… 


Paolo Gherri