Se Bertulfo non andò a Roma. Aggiornamenti storiografici su Bismantova


Il secolo appena chiusosi ha conosciuto intorno al tema della viabilità appenninica altomedievale vari approcci da parte di autori –sia locali che non– mossi alla ricerca dai più diversi interessi e dotati delle competenze più eterogenee offrendo così alla Storiografia contemporanea un ‘repertorio’ d’informazioni tanto abbondante quanto disorganico, amplissimo quanto ad ‘elementi’ emersi ma purtroppo solo ‘cumulativo’, senza una reale capacità d’integrare gli apporti provenienti da decine di Discipline eterogenee (dall’Agiografia, alla Diplomatistica, alla Filologia…). In fondo: un insieme di ‘fatti’ isolati e considerazioni (puntuali e parziali) che continuano a confermare la ‘rarefazione’ di ciò che riguarda la conoscenza dell’Alto Medioevo. Occorre segnalare anche la pericolosa ‘compressione cronologica’ operata da molti autori con la quale si tende spesso a retrodatare ad un’epoca genericamente ‘longobarda’ condizioni e circostanze –soprattutto politiche e funzionali (come sono le strade)– spesso non presenti prima del periodo franco. È quanto accade, p.es., con la maggior parte delle c.d. vie Francigene/Romee, o le c.d. Abbazie longobarde (tali spesso solo di fondazione: Berceto: 718 ca, Fanano: 748 e Nonantola: 751). Sovente, poi, l’aggettivo “longobardo” viene utilizzato sia in senso ‘cronologico’ che ‘politico’ che ‘culturale’, generando confusioni significative, soprattutto per i non addetti ai lavori.


All’interno di questa cornice continua a porsi –del tutto irrisolta– anche la reggianissima questione del passaggio –o meno– da Bismantova dell’Abate Bertulfo di Bobbio nell’anno 628 di ritorno da Roma con la Bolla pontificia che stabiliva l’esenzione canonica del monastero dalla giurisdizione del Vescovo territoriale (Tortona, si disse al tempo). Alla vicenda, già novant’anni orsono, dedicò qualche attenzione critica A. Mercati senza tuttavia discostarsi dalla comune recezione storiografica giunta fino a lui. Da allora, più nulla: solo le continue ripetizioni di elementi (né ‘fatti’ né ‘dati’) che poco o nulla recepiscono dal progredire della ricerca più recente nei singoli ambiti specialistici. Uno status quæstionis delle congetture in merito può essere ben verificato in un articolo di questo B.S.R. dell’anno 2009 in cui si riporta sommariamente la ‘discussione’ sulla “conquista dell’Appennino” da parte dei Longobardi. In esso G. Fabbrici ripropone la maggior parte delle ‘date’ ed interpretazioni ad oggi variamente indicate: dal 593 di Dall’Aglio, al 727 del Formentini, con la maggior concentrazione, tuttavia, entro la metà del sec. VII.



1. PREMESSA

La tematica rileva in modo specifico (per quanto non ‘puntuale’) per la sua ricaduta immediata sulle ricerche volte ad individuare e verificare non solo [a] la presenza e consistenza del c.d. Limes bizantino dell’Appennino emiliano occidentale ma –forse molto maggiormente anche– [b] la conservata integrità territoriale-politica di quella che Paolo Diacono riconosceva e chiamava la Provincia delle “Alpes Apenninæ”. Provincia probabilmente di nuova instaurazione bizantina al termine della Guerra gotica (non se ne hanno notizie nel sec. V) oppure nella prima fase di instaurazione della struttura esarcale, quando l’Impero bizantino –dopo i primi decenni dell’invasione longobarda– prese sul serio il nuovo stato di cose in Italia e provvide all’organizzazione del territorio da troppo poco sottratto ai Goti e già preda di nuovi invasori. Erano gli anni della strutturazione di un nuovo assetto politico-amministrativo a forte connotazione militare difensiva, soprattutto per l’Italia settentrionale, centrata ormai su Ravenna con l’intento di una pronta riconquista del territorio padano, come ben dimostrano le imprese italiche dell’Imperatore Maurizio (582-602) e le riacquisizioni delle città della Pianura Padana (Parma, Reggio, Mantova, ecc.) ad opera del Patrizio Gallicino (590-603).

Quella di un’intera Provincia delle “Alpes Apenninæ” rimasta sostanzialmente bizantina fino a Liutprando è una prospettiva che, col proseguire delle [mie] ricerche su base regionale, appare sempre più plausibile e di ampio respiro, soprattutto per il chiaro progressivo delinearsi di elementi ‘localistici’ che permettono di ‘disegnarne’ con una certa precisione molti elementi funzionali, oltre che i probabili confini politico-geografici, anche al di là di quanto già ipotizzato dal Sorbelli che aveva accettato di vederla estendersi ad Ovest fino al Verabolo e non allo spartiacque tra le Valli del Trebbia (Alpes Cottiæ) e del Ceno-Taro, come parrebbe oggi dimostrabile. Ipotesi e ricerche che offrono buone prospettive di successo, nonostante una parte significativa della pubblicistica degli ultimi decenni si sia mossa in senso contrario.

Non di meno si tratta di una ricerca delicata e lunga nel suo svolgersi, a causa della complessità dei fattori interdisciplinari da considerare, non senza vere e proprie ‘campagne’ di ricerca sul campo; ad esse devono poi affiancarsi accurate ricerche documentarie e storiografiche su questioni molto specifiche, in modo da giungere –finalmente– alla chiara fissazione di (tutti) gli elementi puntuali che effettivamente entrano in tale ‘gioco’, lasciando decisamente fuori tutto quanto non sia specificamente correlabile al quadro organico (il solo sec. VII) che progressivamente pare delinearsi in materia. Non senza ‘ri-inquadrare’ e ‘ri-dimensionare’ criticamente il patrimonio storiografico giunto fino a noi, anche dal passato più recente.


Dal punto di vista metodologico la messa in evidenza di una Provincia bizantina delle “Alpes Apenninæ” in epoca longobarda comporta prima di tutto la verifica di una sua reale integrità e continuità politico-territoriale, senza della quale l’intero quadro non potrebbe reggersi. Modalità ragionevole (per quanto non infallibile) per ottenere un tale risultato è la seria considerazione di tutte e singole le istanze [a] di ‘discontinuità’ di tale territorio e [b] di suo ‘attraversamento stabile’ lungo il sec. VII, al fine di verificarne tanto l’effettività che la reale consistenza e durata, nella consapevolezza che proprio la loro ‘assenza’ (o la loro non-prova) costituirebbe la conferma dell’ipotesi proposta. Nessuna ‘rivoluzione’, pertanto, del quadro storico generale né delegittimazione di chi sino ad oggi l’abbia pensata in modo diverso… ma la proposta di un nuovo modello interpretativo ed euristico che dovrà misurarsi sul campo con quelli già applicati, finché non vinca il modello migliore: quello, cioè, che considera ed organizza più elementi …spiegando (meglio) più cose …ed offrendo la possibilità di capirne altre ancora, come vuole oggi la Scienza.


In questa prospettiva il passaggio o meno di Bertulfo da Bismantova costituisce solo un elemento in qualche modo ‘simbolico’ –ed al tempo stesso ‘sintetico’– rispetto alla [a] ‘precoce’ presenza longobarda in situ ed a [b] tutto quanto ad essa correlato come necessaria ‘premessa’ territoriale-politica. Ciò comporterebbe, non di meno, la differenza di almeno un secolo (anni 620-720 ca.) a riguardo dell’eventuale presenza e giurisdizione longobarda sull’Appennino emiliano occidentale, ponendo così alla Storiografia un problema che esige ormai una soluzione ‘organica’.

Il ‘transito stabile’ longobardo attraverso Bismantova (e la supposta necessaria giurisdizione barbarica) rappresenta infatti ad oggi non solo uno dei due (unici) pretesi ‘punti’ deboli della continuità politico-territoriale bizantina nell’Appennino emiliano, ma anche quello maggiormente pre-supposto, cioè: il meno/non provato.



2. BERTULFO A BISMANTOVA

Il passaggio dell’Abate Bertulfo di Bobbio da Bismantova nell’anno 628 appartiene ad una ‘tradizione’ storiografica plurisecolare: [1] Saccarelli (1785), [2] Jung (1906), [3] Mercati (1921), [4] Balletti (1925), ribadita anche recentemente: [6] Baricchi (1988); [7] Nuvolone (2000); [8] Garimberti (2007); [9] Fabbrici (2009).


In verità, sul fatto come tale gravano difficoltàveramente impressionanti” (per dirla col Mercati) di vario genere, a partire dall’ormai recepita critica alla ‘causa’ stessa del passaggio di Bertulfo da Bismantova: l’esenzione pontificia del monastero di Bobbio. Ad essa, nell’ultimo secolo, non ha creduto praticamente più nessuno …bobbiesi a parte (per i quali vale tuttavia il dantesco “amor mi mosse”) e loro diretti aventi causa.

Dal punto di vista sostanziale il passaggio di Bertulfo da Bismantova presenta due differenti ‘livelli’ di problematicità: [a] quello espressamente ‘geografico’ (Bismantova o no) e [b] quello più radicalmente ‘storico’ (verità o falsità del viaggio a Roma e correlata esenzione pontificia), dovendosi così procedere alla verifica di due diversi fattori di eventuale inautenticità del dato in modo tale che solo se e quando sarà verificato [b1] che Bertulfo andò realmente a Roma per ottenere la Bolla di Papa Onorio I (di cui s’interessano le presenti note) si dovranno considerare anche tutti gli altri elementi problematici riguardanti [a1] l’itinerario seguito e, solo allora, il passaggio o meno da Bismantova su cui non tutti i codici antichi concordano.


La questione è di vera attualità e risulta ancora del tutto ‘aperta’ (oltre che virulenta) a seguito della pubblicazione nell’anno 2008 della “Storia della Diocesi di Piacenza” da cui emergono forti contrapposizioni in merito. La recensione dell’Opera da parte di F.G. Nuvolone (estensore dei due contributi ‘bobbiesi’) risulta infatti in evidente polemica con la direzione scientifica che, assecondando sostanzialmente l’indirizzo critico proposto da G. Buzzi e condiviso dalla quasi totalità degli storiografi del Novecento, propende per la non autenticità della versione ‘tradizionale’ dell’esenzione bobiense. Il dissidio con la direzione scientifica della ricerca piacentina è evidente; non di meno, tuttavia, quanto effettivamente pubblicato nell’opera collettiva in merito alle questioni bobbiesi è rimasto alquanto ‘attenuato’, sia indicando come (solo) “verosimile” il viaggio a Roma di Bertulfo che non facendo alcun accenno alla giurisdizione del Vescovo di Tortona (normalmente presupposta).

Anche all’interno delle ricerche storiche e giuridiche [a noi] contemporanee sul monachesimo medievale continentale si rileva la stessa ‘tensione’ e ‘dialettica’ tra le posizioni di coloro che escludono con certezza l’esenzione bobbiese (almeno nei tempi e modi propugnati dalla ‘tradizione’) e coloro che invece continuano ad presupporla. Tanto [ci] basta per dedicare tempo ad una nuova ricognizione della vicenda e, soprattutto, ad un suo ‘aggiornamento’, utile –si spera– ai futuri ricercatori e storiografi, almeno reggiani.


Secondo le versioni agiografiche ‘tradizionali’ della “Vita Sancti Columbani et eius discipulorum” del monaco Giona di Bobbio (600-659?), redatta –in sede pressoché locale– intorno al 640, l’Abate Bertulfo (+642), secondo successore di Colombano (+615) a Bobbio, a causa del contrasto col Vescovo di Tortona per la giurisdizione sul cenobio bobiense si sarebbe recato a Roma per risolvere la questione. Il problema in realtà –narra Giona– era già stato presentato al Re longobardo Arioaldo (626-636) che tuttavia lo aveva lasciato fuori dalle proprie competenze, nonostante il cenobio fosse nato per concessione ‘regia’ longobarda e godesse pertanto di peculiari caratteristiche ‘giuridiche’ da essa conseguenti. Nella disputa tra un Vescovo ‘tricapitolino’ (=anti-romano) ed un Abate cattolico, il sovrano longobardo (deciso anti-cattolico) non sarebbe allora entrato, limitandosi a fornire a Bertulfo una scorta armata per raggiungere Roma (nel mese di giugno dell’anno 628) e presentare la questione al Papa perché la risolvesse ‘per via ecclesiastica’.

Secondo il cronista –che avrebbe accompagnato il proprio Abate in tale missione–, nel viaggio di rientro da Roma dopo aver ottenuto il prezioso documento (datato 11 giugno) che assoggettava il cenobio bobiense esclusivamente alla santa Sede, l’Abate Bertulfo –febbricitante (forse per malaria) già dalla partenza da Roma– avrebbe transitato e pernottato in ‘tenda’ («tenso tentorio, aspera in loca» 2, 47) in prossimità del “castrum Bismantum”, confortato (la notte del 28 giugno) da una visione mistica dei Ss. Pietro e Paolo Apostoli che lo avrebbero anche guarito dal suo male. Che l’attenzione narrativa del racconto sia posta sul miraculum con espresso accento agiografico più che cronistico appare chiaro; non si trascuri come anche in seguito l’elemento miracolistico sia ripetutamente stato usato dagli stessi monaci proprio per sostenere e difendere la vantata autonomia, quasi ‘divina ex auctoritate’.

Lo scarno elemento ‘geografico’ che egli ‘fornirebbe’ («et propter castrum cui Bismantum nomen est venissemus» 2, 43) non permette, di per sé, di trarre comunque nessuna ‘conclusione’ sull’attribuzione di tale castrum ad una guarnigione (e correlata giurisdizione) longobarda …come invece si è abbondantemente sostenuto nel secolo scorso da parte di molti autori, nonostante essa fosse già stata criticata dal Mercati, almeno per quella data. Tale indirizzo interpretativo, per di più, non appare neppure conciliabile con gli altri –e più numerosi e logicamente concatenati– elementi narrativi forniti circa il grave stato di malattia dell’Abate («ut omnino morte preveniri crederetur» 2, 44) ed il suo pernottamento in campagna sotto le tende: come mai, infatti, una tale ‘missione ufficiale’ longobarda non avrebbe ‘dovuto/potuto’ trovare ricovero ed alloggio presso le strutture, anche solo civili o ecclesiastiche, di una tale giurisdizione ‘amica’? Cioè: il castrum ed il Gastaldato longobardi cui gli storiografi si rifanno volentieri in merito?

Ciò nonostante, la linea ‘deduttiva’, secondo cui se un longobardo con scorta militare regia transita in un luogo, quel territorio dev’essere ‘longobardo’, continua a trovare ancor oggi ampia adozione in molte sedi risultando ai più ‘pacificamente’ acquisita. A partire dallo stesso presupposto ci si è spinti anche a dar per acquisita (già nell’anno 628), tuttavia senza alcuna dimostrazione, una discontinuità territoriale dei domini appenninici bizantini in Emilia occidentale ampia pressapoco quanto la distanza tra gli attuali Passo di Pradarena e delle Radici (ca. 32 Km in linea d’aria), pretendendo di trovare conferma in ciò nella –ben successiva!– testimonianza documentale del “Gastaldatus bismantinus” attestato –solo– nel sec. IX. Nella stessa prospettiva si muovono gli autori che vorrebbero tale Gastaldato consolidato già nel primo trentennio del VII sec.: Quintavalle, Rombaldi, non meno di quanti la collocherebbero al suo inizio: Fasoli (al 603-4) quando non anche già dalla fine del sec. VI: Dall’Aglio addirittura al 593.

La ‘credenza’ nei confronti di una “precoce occupazione” longobarda di Bismantova (e dei territori alle sue spalle verso Sud) appare poi tanto assodata presso gli autori da prevedere addirittura lungo quella stessa strada anche il viaggio di andata a Roma della stessa missione diplomatica, di cui nulla –invece– dicono le ‘fonti’.

«La missione è costretta a percorrere territori longobardi ed evitare i bizantini, quindi, a scartare sia da un lato l’Esarcato e la Pentapoli, che dall’altro la Liguria, il Monte Bardone e la Lunigiana. Il gruppo deve aver così preso la strada di Piacenza, fino a Parma, poi aver risalito la Val d’Enza fino a Vetto, Castelnovo ne’ Monti presso la Pietra di Bismantova, poi Cerré, Ligonchio, il Passo di Pradarena e lungo il Serchio fino a Lucca».



3. IL PROBLEMA STORICO

La questione, ancora nel 2008, continua ad essere lasciata nel vago dai ricercatori mentre già nel 1918 G. Buzzi nel terzo volume dell’edizione del “Codice diplomatico di Bobbio” aveva posto in serissimo dubbio addirittura l’intero fatto sin qui riferito riguardo proprio alla sua stessa ‘causa’: il provvedimento di esenzione di Papa Onorio I che Bertulfo sarebbe andato a Roma per chiedere e ricevere; fatto da cui dipende l’intera ‘narrazione’ a riguardo di Bismantova ma che –per tale autore– risulterebbe storicamente non-provato.


A tal proposito, va innanzitutto considerata la convergenza di fondo dei diplomatisti degli ultimi due secoli (Buzzi rimanda ‘anonimamente’ già al sec. XVIII) nell’individuare tra i manoscritti bobiensi un’ampia gamma di falsi, per quanto non sulla base degli stessi elementi, né secondo gli stessi criteri: Theodor von Sickel (1826-1908), Paul Scheffer-Boichorst (1843-1902), Carlo Cipolla (1854-1916), loro principali editori. Il Buzzi (collaboratore e continuatore dell’opera del Cipolla) individua, per parte sua, un proprio criterio collocando tali ‘falsi’ in due gruppi ben distinti: «quello per la esenzione dalla giurisdizione vescovile e la diretta dipendenza del monastero dalla santa Sede, e quello per i diritti di contea accampati dall’Abbate contro il Vescovo di Bobbio» (BUZZI, 31); quanto di nostro interesse circa il viaggio di Bertulfo a Roma riguarda soltanto la vicenda della esenzione pontificia.

Data l’importanza delle istanze proposte dal Buzzi, ai fini di una miglior leggibilità e fruizione dimostrativa in chiave storiografica, ci si riferirà agli elementi critici proposti disarticolandoli in tre [nostre] ‘linee logiche’ sostanziali: quella politico-ecclesiale, quella documentale, quella ‘polemica’.


3.1 Approccio politico-ecclesiale

La complessa situazione di Diritto e di fatto del monastero piacentino è illustrata dal Buzzi secondo alcuni punti di vista assolutamente ‘circostanziali’ ed, in qualche modo, esterni all’apparato documentale preso in esame e, pertanto, non auto-referenziali; in primis: lo status di monastero ‘regio’ e la dipendenza dal Vescovo di Piacenza. È il necessario ‘contesto’ in cui devono collocarsi storiograficamente le vicende e gli eventi di cui si tratta; in caso diverso si rischia di fare ‘narrazioni’ ma non Storiografia.


a) Non va trascurato in questa prospettiva il fatto che il cenobio bobiense fosse ‘regio’ quanto ad istituzione e dotazione originaria (il Re Agilulfo a S. Colombano), ma anche quanto al successivo ‘controllo’ giurisdizionale, al punto che «nel periodo longobardo ad ogni nuova elezione di Re o successione di Abbate il monastero chiede ed ottiene la conferma reale dei suoi beni, tanto di quelli già donati dalla Corona quanto di quelli di recente acquisto per donazione o per vendita di privati» (BUZZI, 32) fin quando, dal secolo X gli Abati furono nominati direttamente dalla Corona tra i dignitari ecclesiastici della corte imperiale germanica.


Di fatto nulla risulta da parte della Sede romana che non avrebbe certo perso occasione per ‘partecipare’ a tali momenti fondamentali di esercizio della ‘propria’ esclusiva giurisdizione ecclesiastica per di più in ambito ereticale (sia ariano che tricapitolino). Dai Regesti ed archivi pontifici, infatti, nessun documento risulta concesso o anche solo richiesto in vista di tali ‘conferme’ di diritti o di elezioni: a Roma non una domanda di conferma dell’Abate né una risposta pontificia, ma solo a Bobbio ‘conferme’ reiterate –puramente teoriche– di dipendenza esclusiva. È per lo meno ‘curioso’, inoltre, che siano andati perduti sia a Roma che a Bobbio tutti i ‘papiri’ utilizzati dalla Cancelleria pontificia fino ben oltre il sec. VIII, così come anche tutte le pergamene (di richiesta) vergate in ambito longobardo.


b) La ‘dipendenza’ piacentina dell’Abbazia risulta contraria alla tradizione che la vede in contrasto –invece– col Vescovo di Tortona (secondo Giona); questa, infatti, sarebbe stata la causa scatenante la questione risolta da Bertulfo ed Onorio. Di fatto, a cavallo tra IX e X secolo le Bolle pontificie indirizzate al Vescovo di Piacenza testimoniano con costanza l’appartenenza del monastero a tale giurisdizione ecclesiastica (cfr. BUZZI, 37).


Di fatto la referenza soltanto piacentina della documentazione –oggi– esistente mostra con chiarezza come i riferimenti al Vescovo di Tortona non abbiano fondamento storico. Per contro, il riferimento ad una pregressa vicenda (sec. VII) di carattere ‘episcopale’ ma ‘fuori-sede’ si presta molto bene come argumentum ad hoc per ‘dimostrare’ al Vescovo di Piacenza, nel sec. X, il proprio status di autonomia precedentemente conseguito.


3.2 Approccio documentale

Secondo il Buzzi i documenti bobiensi ‘falsi’ riguardanti l’esenzione dell’Abbazia sono 19: tra essi ben 13 Bolle pontificie sono solo indicate o ricordate in altri documenti (cfr. BUZZI, 39) …ma ‘non esistono’ (ad oggi). La loro ‘visione’ (ed il ‘riconoscimento’) è testimoniata –solo– dalla relazione del Vescovo Siccardo e dell’Abate Giovanni Buono a Papa Innocenzo III (20/11/1207) in occasione della fase istruttoria ad essi affidata del Processo instaurato dallo stesso Pontefice proprio per verificare la dipendenza o meno del monastero dal Vescovo di Bobbio piuttosto che dalla santa Sede, come (anche/proprio) allora sostenuto dall’Abbazia. Desta un certo stupore che, dopo circa sei secoli, a Roma non si sapesse nulla della –pretesa– condizione giuridica di tale monastero, al punto di dover indire un vero Processo ed incaricare qualcuno di raccogliere in loco la documentazione disponibile.


Poiché dunque sono soltanto due le Bolle effettivamente ‘possedute’ (sebbene in ‘copia’ molto posteriore), per quanto «che la Bolla di Teodoro I sia o totalmente apocrifa o profondamente interpolata è ammesso ora generalmente» (BUZZI, 40), tutti i problemi ricadono sulla Bolla che avrebbe transitato da Bismantova nel 628, circa la quale già il Muratori si era mostrato titubante, mentre il Di Meo l’aveva scartata con certezza, anche se i critici dell’Ottocento l’avevano poi ‘ricuperata’ ad autenticità in ragione del fatto che: [a] essa «riproduce letteralmente la formula LXXVII del “Liber diurnus”» (BUZZI, 40), [b] è ricordata nella “Vita Columbani” di Giona da Susa (proprio in relazione a Bertulfo) e nei “Miracula sancti Columbani” (di molto posteriore), [c] le allusioni ad essa in Diplomi imperiali datano dall’888 (Berengario I), [d] la sua tradizione è assolutamente indipendente dal gruppo documentale di quella di Teodoro I (642-649).


A tale ‘ricupero’ di autenticità il Buzzi risponde, però, criticamente.

a) Dall’anno 885 almeno una copia del Liber diurnus (sottratta dai monaci nonantolesi a Papa Adriano III morto improvvisamente a S. Cesario) si trova a Nonantola, per quanto non censita in alcun catalogo; anche a Bobbio nel sec. X esiste una copia del Liber diurnus (oggi alla Biblioteca Ambrosiana) censita nei cataloghi della biblioteca cenobitica sotto altro nome. Non di meno, della Bolla di Onorio non si possiede che una copia del sec. XI. Il testo della Bolla di Onorio, poi, dipenderebbe da quello del Liber diurnus nella ‘versione’ bobiense-ambrosiana e non nonantolese-vaticana; mentre la ‘formula’ utilizzata (la LXXVII) non apparterrebbe al corpus originario del Liber stesso (le formule I-LXIII) ma ad una prima appendice introdotta tra l’anno 680 ed il 700. Tanto basta per escluderne con certezza la pretesa origine dalla Cancelleria di Onorio I (625-638). Inoltre, poco credibilmente, «per tutto il secolo VII e fino agli inizi del IX la Bolla di Onorio I per Bobbio rimarrebbe il primo ed unico esempio di esenzione accordata dalla santa Sede ad un monastero» (BUZZI, 44).


b) Il contesto socio-politico dei tempi di Bertulfo non corrisponde a quanto emergerebbe dal racconto di Giona di Bobbio; Ario(v)aldo, infatti, anticattolico e alleato dei tricapitolini difficilmente «si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di definire quella controversia tra il Vescovo di Tortona e il monastero di Bobbio che è oggetto del racconto di Giona» (BUZZI, 47); tanto più che non si trattava di una questione ‘teologica’ ma eminentemente ‘giurisdizionale’ (ed economica: le ‘decime’), riguardante uno dei pochissimi monasteri regi dell’epoca collocato, per di più, in una posizione di assoluta strategicità per l’accesso al Mar Ligure: «tutto dunque induce a credere che tale controversia non sia mai sorta e che quindi né Ario(v)aldo né Onorio I abbiano avuto ad occuparsene mai» (BUZZI, 47).

Il racconto di Giona, pertanto, altro non sarebbe che una semplice ‘eziologia’: la proiezione ‘retrospettiva’ del fondamento di un fatto differente da ‘collocarsi’ a livello storico al fine di poterne sostenere gli esiti nell’attualità: «una posteriore interpolazione della Vita Columbani, interpolazione che è in istretto rapporto con tutto un gruppo di documenti falsi e interpolati, finora citati in sostegno della genuinità della Bolla di Onorio I» (BUZZI, 47).

Altro elemento contestuale tradizionalmente ignorato circa la vicenda bertulfiana è il presunto rapporto col Vescovo di Tortona, che avrebbe dato l’innesco alla questione all’inizio del sec. VII. Il Buzzi si mostra sicuro in merito sul fatto che tale ‘dipendenza’ non sia mai stata a tema: Bobbio, come ben testimoniano i documenti pontifici dei secoli successivi, è sempre stata soggetta alla giurisdizione episcopale piacentina!

Non di meno, sarebbe evidente anche il legame testuale tra la narrazione dei Miracula sancti Columbani (sec. X) e la presunta Bolla di Teodoro I, la quale (pure inesistente fuori dall’ambito bobbiese) sarebbe stata inserita in essi, mentre dal punto di vista testuale, sarebbe «la copia esatta di quattro false Bolle di Giovanni IV per alcuni monasteri francesi» (BUZZI, 48), evidenziando il tal modo lo ‘spirito’ sottostante all’agire del monastero: quanto –ritenuto– esistente ed efficace per altri (al momento della propria necessità) viene rivendicato anche per sé. Non di meno anche la stessa ‘causa’ formale di tale Bolla papale di esenzione (il c.d. Præceptum Rotharit) sarebbe falsa poiché identica «mutati i nomi, a quello della lettera dei Re franchi contenuto nelle false Bolle di Giovanni IV per i monasteri francesi dei quali si è sopra fatto cenno» (BUZZI, 51; cfr. 65), dimostrando –secondo l’autore– che si tratti di materiale «desunto semplicemente da un formulario, ora perduto, ma largamente usato nel secolo X nei monasteri per le loro falsificazioni» (ibidem): proprio quanto si afferma oggi del presunto Liber diurnus!

L’autore evidenzia poi come nell’intera serie dei Diplomi regi sia longobardi che carolingi ritenuti autentici non si abbia «la minima traccia di questa esenzione del monastero di Bobbio dalla giurisdizione vescovile e della conseguente sua diretta soggezione alla santa Sede» (BUZZI, 53).


3.3 Approccio ‘polemico’

La terza ‘linea’ di considerazioni ed argomentazione proposta dal Buzzi non può essere sottovalutata dal punto di vista logico, poiché coinvolge direttamente i veri protagonisti (almeno istituzionali) dell’intera vicenda: un Abate bobbiese ed un Pontefice romano, palesandone le reali posizioni de Iure.


Si tratta della forte reprimenda scritta di Papa Giovanni X (914-924) nei confronti dell’Abate bobbiese Teodelassio (+ 917 ca.) il quale –così risultava al Pontefice– ostentava presso i Vescovi viciniori una lettera pontificia pretendente autonomie ed esenzioni mentre, al contrario, la Cancelleria pontificia dimostra di non avere alcuna conoscenza diretta della natura e portata dei ‘diritti’ e delle altre prerogative vantate dall’Abate verso il Vescovo di Piacenza e la stessa santa Sede. Due le accuse pontificie all’Abate bobbiese: a) rifiuto di pagare le decime (dovute) al Vescovo di Piacenza, b) ricorso ad altri Vescovi diversi dall’Ordinario del luogo (quello piacentino, appunto!) per l’Ordinazione dei chierici del monastero ed altre funzioni ‘episcopali’ (cfr. BUZZI, 67). Di più: il Pontefice contesta direttamente all’Abate alcuni specifici comportamenti accusandolo espressamente di falsificazione della corrispondenza papale.

Al di là di molte altre considerazioni tecnico-diplomatistiche offerte dall’autore, non è possibile ignorare la portata ‘logica’ di tale intervento pontificio, e della sua datazione. Una condanna di questo tenore val più di qualunque pretesa ‘testimonianza documentale’, poiché manifesta la chiarissima consapevolezza pontificia –ancora all’inizio del X sec. (sic!)– circa l’inesistenza di qualunque posizione di privilegio dell’Abbazia bobbiese rispetto al Diritto comune canonico (i “sacri Canoni” citati). Cosa difficilmente credibile se, come allora millantato, proprio tale Abbazia fosse stata la prima a godere del ‘privilegio’ della diretta ed esclusiva sottomissione alla Sede romana. Come pensare che una tale ‘tappa’ giuridica non fosse già stata elevata a ‘modello’ per quanto sarebbe seguito (da oltre un secolo dopo)? Come pensare –non di meno– che proprio gli archivi ed i formulari della Curia papale non avessero né traccia né memoria di un tale evento (Bolla di Onorio I), né della sua reiterazione (Bolla di Teodoro I)? È la complessa questione del (già citato) Liber diurnus, circa il quale –però– le conoscenze contemporanee al Buzzi erano ancora molto parziali e non permisero all’autore di spingere oltre le proprie considerazioni e conclusioni.


3.4 Logica e necessità delle falsificazioni altomedievali bobbiesi

Proprio al sec. X risalgono, secondo il Buzzi (cfr. BUZZI, 31-32), le principali e maggiori questioni concernenti l’autonomia del monastero bobbiese, a cui –p.es.– i “Miracula sancti Columbani” intendono concorrere on-time per ‘confermare’ ex divina auctoritate (cfr. NUVOLONE 2008, 233-234; 239) ciò che non poteva ‘rendersi certo’ ex factis et probatis. Le circostanze storiche, d’altra parte, erano radicalmente mutate tra l’erezione dell’Abbazia ad opera di S. Colombano e la reprimenda di Giovanni X all’Abate Teodelassio trecento anni dopo. All’incipiente dominio longobardo era succeduto (dopo un secolo e mezzo) quello franco, poi quello più direttamente germanico che aveva consolidato l’impostazione feudale del Regnum, in una prospettiva ed assetti radicalmente diversi sia dal Tardo Antico che dall’Alto Medioevo. Anche la condizione ‘politica’ della Chiesa in Italia –e del Papato– era ben cambiata, sia col consolidarsi territoriale del “Patrimonium Beati Petri” che con l’affermazione del Sacro Romano Impero e della (sua) ‘interna’ potestà pontificia in progressiva concorrenza a quella imperiale.

Inevitabilmente anche l’originario status di monastero regio (longobardo) dell’Abbazia di Bobbio –non meno che Berceto, Nonantola ed altre aggiuntesi in seguito– si era progressivamente dissolto rendendo necessarie nuove ‘configurazioni’ ed ‘attribuzioni’ capaci di tutelare le pretese (autonomiche) di quella che era ormai –soprattutto– una vera potenza economica; la questione ripropostasi anche nel 1207 tra Abbazia e Vescovado di Bobbio ne dà piena conferma.


Se, tuttavia, per i primi secoli, la ‘copertura’ giuridica regia (facente capo ai molti Diplomi autentici a noi pervenuti) aveva difeso a sufficienza e con continuità le prerogative dell’Abbazia, non di meno, per l’ambito strettamente ecclesiastico, si dovette invocare l’autorità pontificia, adducendo ricorrenti Bolle papali esemplate su quelle maggiormente usuali e tendenzialmente ben spendibili in area non direttamente romana a causa della loro difficile verificabilità a livello di Regesti pontifici: in fondo il ‘modello’ utilizzato (il presunto Liber diurnus?) era coerente e ben attestato. Peccato che all’inizio del sec. X la falsificazione (anche) di una pretesa Bolla del vivente Giovanni X sia incappata nell’opposizione netta del Vescovo di Piacenza Guido, neo-eletto e quindi attivo nel farsi confermare da Roma le proprie prerogative; egli, davanti alla falsa Bolla pontificia vantata da Teodelassio protestò con Roma mettendo a nudo e denunciando le ricorrenti falsificazioni monastiche.


3.5 La pretesa esenzione bobiense

Proprio all’interno dell’approccio ‘dialettico’ tra la posizione abbaziale e quella pontificia non va considerato privo di valore, non solo dal punto di vista logico, l’esito finale dell’intera vicenda bobbiese, quando Innocenzo III nel 1208 confermò la sottomissione dell’Abbazia alla giurisdizione del Vescovo di Bobbio invece che alla Sede romana (cfr. BUZZI, 32) non potendosi di fatto opporre a quella che risultava –già/ancora allora– una evidenza incontestabile. Proprio tale decisione papale ‘contro’ il proprio interesse risulta probante della inconsistenza della posizione contraria; tanto più che negare un proprio diritto plurisecolare (la giurisdizione pontificia sul cenobio) sollecitato da terzi (il monastero) risulta certamente più improbabile che accettare, per contro, le pretese di un altro (il Vescovado bobbiese). D’altra parte in ciò risulta del tutto lineare la posizione pontificia che per oltre sei secoli non si era mai considerata ‘coinvolta’ in prima persona alla vicenda. Di fatto tutta la documentazione pro-exemptione risiede esclusivamente a Bobbio (presso l’Abbazia) e non ne esistono né menzioni né copie in altre sedi ad essa non connesse.


Allo stesso tempo nel X sec. un’effettiva ‘memoria’ di autonomia/indipendenza in grado di fomentare le pretese abbaziali di ‘esenzione’ può vedersi fondata nella storia più recente del monastero stesso: quella commendatizia che «di fatto se non di Diritto, per almeno oltre un ventennio nel secolo IX, dall’840 all’865» (Buzzi, 71) lo aveva sottratto alla giurisdizione vescovile di Piacenza. Non di meno il Buzzi (sempre intenzionato a mostrare l’assoluta falsità di tutta la vicenda bertulfiana) fa notare come un certo numero di elementi del racconto di Giona di Bobbio in relazione alla vicenda romana cui egli stesso avrebbe partecipato,

«troppo da vicino ricordano i distici […] incisi sulla tomba di quel Pontefice, perché si possa dubitare che l’autore del capo XXIII della Vita sancti Columbani non li abbia avuti sott’occhio. […]

Esse non potevano uscire dalla penna di Giona, la cui permanenza a Roma, documentata soltanto dal capitolo in questione, sarebbe stata una sola, nel 628, dieci anni prima della morte di Onorio; e neppure si può pensare che le desumesse dal Liber pontificalis dove invano si cercherebbero» (BUZZI, 72-73).


L’incipit dell’intera vicenda sarebbe, quindi, da ascrivere all’abbaziato di Teodelassio (o comunque) all’inizio del X sec. …immediatamente sconfessato dallo stesso Pontefice che lo accusò apertamente di falsificazione e lo richiamò al giusto ordine delle cose. Sulla stessa linea si sarebbe però mosso qualche decennio dopo l’Abate Gerlanno, Arcicancelliere del Re Ugo, il quale, trovando «le finanze del monastero dissestate, parte dei suoi beni usurpati [e] si metteva subito all’opera per rivendicarli» (BUZZI, 73); quale miglior occasione per «agitare nuovamente la questione dell’esenzione dalla giurisdizione vescovile di Piacenza» (ibidem)?


Per contro, ciò che balza all’occhio dello storiografo attento (mentre potrebbe anche non rilevare immediatamente per il paleografo o il diplomatista, concentrato unicamente sul ‘suo’ codice/testo) è che le condizioni giuridiche ‘vantate’ dall’Abbazia di Bobbio come risalenti al 628, in effetti saranno conosciute nella Chiesa solo almeno (e parzialmente) un secolo dopo Bertulfo ed Onorio (cfr. Papa Gregorio II o III a due monasteri di Benevento tra il 714-41) e, più ancora, verranno accordate esattamente con la “formula XXXII” del presunto Diurnus e non con la LXXVII (bobiense); non di meno «questa stessa formula 32 si riscontra in due importanti privilegi, concessi rispettivamente nel 751 da Papa Zaccaria a Fulda, in Germania e nel 758 da Stefano II a Saint-Denis, in Francia».


Ciò testimonia ancora maggiormente lo studio e la preparazione ponderata e specifica da doversi riscontrare e presupporre ‘dietro’ ad ogni falsificazione alto-medievale …per nulla assimilabile ad una bambinesca ‘bugia’ detta a fin di bene! Scrive in proposito (proprio) Nuvolone:

«nel contesto di queste querele, il ruolo della nostra Cartula sembra aver voluto corrispondere a quello d’un documento passe-partout, tendente ad eliminare il problema fin dal suo nascere. Infatti, da un punto di vista strettamente cronologico, e dalla sua interpretazione giuridica immediata, certo, ma primitiva, nella storia della fondazione rimaneva come già accennato, un periodo “scoperto”, dall’ottobre 614 all’11.VI.628. Si doveva cioè definire in modo inequivocabile che il restauro della “Basilica Sancti Petri” era stato fin dall’inizio un atto di appropriazione, perché preceduto dalla sottomissione romana di tutta la zona circostante per quattro miglia».



4. LA POSIZIONE DEL PROF. NUVOLONE

Il punto di vista in materia di quello che ad oggi può con ragione venir considerato il maggiore esperto di storia bobbiese è ben espresso in una sua pubblicazione dell’anno 2007 in cui lo studioso svizzero si propone di rispondere alle principali critiche emerse dal Buzzi in poi (1918), offrendo una soluzione definitiva: che chiarisca finalmente come davvero stanno le cose a riguardo del tema da sempre cruciale: la Bolla autentica di Papa Onorio e la situazione della fondazione bobbiese effettivamente sottratta ad ogni Chiesa particolare (cfr. NUVOLONE 2008, 233). In tale articolo egli sintetizza quelle che a suo parere sarebbero le sette istanze problematiche sollevate novant’anni fa dal Buzzi ed “ideologicamente” seguite anche dalla Storiografia attuale:

1) la costanza della sottomissione del monastero alla giurisdizione ecclesiastica piacentina;

2) l’incompatibilità tra la qualifica di ‘monastero regio’ e la c.d. esenzione attraverso la “protezione della santa Sede”;

3) la dipendenza diretta della Bolla di Onorio I dal Liber diurnus bobbiese-ambrosiano;

4) la datazione della ‘formula LXXVII’ del Diurnus come non anteriore all’anno 680;

5) l’unicità fino agli inizi del sec. IX dell’esenzione canonica di Bobbio, “nullius Diœcesis”;

6) la narrazione di Giona sul viaggio a Roma di Bertulfo mal adattata alla realtà storica del tempo, costituendo una interpolazione alla Vita Columbani;

7) la Bolla di Papa Teodoro I (risaputamente interpolata) come eziologicamente connessa ai Miracula Sancti Columbani.


4.1 Un doppio problema critico

4.1.1 L’approccio di Nuvolone

I maggiori apporti dell’autore sul tema sono da lui stesso identificati con un lungo ed articolatissimo studio pubblicato in tre parti dal 1982 al 1985 su alcuni testi ‘colombaniani’ tardivi/apocrifi in cui –in realtà– rimane assente ogni tipo di ‘dimostrazione’ a favore della propria posizione –anch’essa– puramente assertoria e, in effetti, non meno deduttivistica di quelle del tanto criticato Buzzi. Di fatto ciò che dovrebbe –continuare a– provare l’autenticità della Bolla del 628 sarebbe soltanto la “collazione dei MSS”, fatta dal Buzzi in modo “poco approfondito e calibrato” ed a vantaggio della propria tesi.


Per quanto la critica di Nuvolone all’affrettato lavoro di ‘collazione’ testuale tra la Bolla di Onorio ed i codici bobbiese-ambrosiano e sessoriano-vaticano del presunto Diurnus da cui il Buzzi volle ‘dedurre’ la derivazione della prima dal secondo (cfr. BUZZI, 42-43), si dimostri corretta dal punto di vista ‘testuale’, non di meno però i risultati di tale ‘collazione’ permangono molto problematici a causa degli importanti ondeggiamenti del testo rispetto a ciascuno dei tre codici del presunto formulario pontificio ufficiale, senza risultare comunque in grado di provare indubitabilmente alcunché in merito a ‘paternità’ e ‘parentele’ documentali varie. Che, poi, il testo del formulario in possesso dell’Abbazia (“A”) risulti sensibilmente diverso da quello posseduto a Nonantola (“V”), oltre a sottrarre uno specifico appoggio al Buzzi, non facilita affatto la soluzione del problema poiché nulla ‘garantisce’ in altre direzioni.


4.1.2 Altri elementi

Pur acquisita una migliore ‘collazione’ dei manoscritti –per quanto non certo risolutiva–, non si può tuttavia non chiedersi quanto essa possa realmente ‘provare’ dal punto di vista storiografico. Nelle argomentazioni proposte a più riprese dall’autore, infatti, è assolutamente evidente come la questione dell’autenticità della Bolla di Onorio dipenda esclusivamente dalle ‘presunzioni’ riguardanti il Liber diurnus, poiché è solo ad esso che si ancorano le varie datazioni. La decidibilità, tuttavia, non può essere unicamente ‘documentale’ visto che di tale Bolla si possiede solo una copia tardiva di dubbia origine.

Non si può trascurare neppure come lungo il ’900 la posizione del Buzzi abbia convinto –o almeno ‘impressionato’– la quasi totalità degli storiografi. Dal punto di vista prettamente storiografico, infatti, che il maggior peso della contro-dimostrazione poggi sulla non corretta ‘collazione’ dei testi di Onorio e dei codici “V” ed “A” non riscuote un’importanza decisiva quando si tenga conto che né “V”, né “A” sono –oggi, ad ogni buon effetto!– il Liber Diurnus citato da Deusdedit nel sec. XI (se mai esso esistette!), né tali –non uniche– raccolte di formule da Cancelleria possono essere –oggi– invocate per provare ‘molto’ circa la loro provenienza pontificia, visto che per il periodo dal 595 al 1071 esse risultano essere state ‘utilizzate’ solo in 104 documenti, di cui soltanto in 7 ad litteram.


Occorre, non di meno, porre grande attenzione anche al tema delle narrationes altomedievali ed alla ‘semplicità’ con cui spesso vengono accostare, dichiarando tranquillamente che lo ‘stile’ di un autore (narratore) –Giona, nel caso– sarebbe stato ben difficilmente imitabile. Di fatto buona parte dei falsi documentari che possediamo di quell’epoca dimostrano con chiarezza l’esatto contrario: i falsari del tempo erano in grado imitare perfettamente la forma di pressoché qualunque testo, dai giuridici in avanti; la stessa letteratura cristiana è zeppa di pseudo-autori (Dionigi, Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile…) variamente mistificati e falsificati proprio all’interno degli stessi scriptoria. Allo stesso tempo occorre anche tener presente che proprio la formazione dei futuri ‘maestri’ ed ‘officiali’ passava (e sarebbe passata ancora a lungo) attraverso un iter fatto proprio di ‘imitazione’ dei testi classici e dei loro ‘schemi’.


4.2 “Osservazioni in risposta” (cfr. NUVOLONE 2007, 199-205)

1) Il primo elemento critico è senza dubbio il vero ‘pomo della discordia’ alla base della contrapposizione tra i due autori: «l’assunto di partenza al quale viene fatto svolgere un ruolo ermeneutico “fondatore” ma plurivalente e martellante, consiste nel collocare il monastero di S. Colombano nel territorio diocesano del Vescovo piacentino» (Ivi, 200).

In merito l’autore evidenzia che, per quanto già il Kehr nel 1911 avesse notato che la Bolla di Stefano V in Piacenza (nella copia del sec. X) non contenesse la menzione dei monasteri di Bobbio e Mezzano tra le attribuzioni del Vescovado piacentino –posizione favorevole all’esenzione–, non di meno un’altra copia coeva presente nello stesso archivio piacentino, utilizzata –invece– dal Buzzi, evidenziava una loro ‘integrazione’ interlineare (Ivi, 201) a conferma dei diritti episcopali.

Il testo interpolato presentato a Papa Formoso (891-896) per la conferma sarebbe stato presentato, insieme alla stessa, anche più tardi a Giovanni X (914-928) (Ivi, 201). Un gioco, quindi, di falsificazioni incrociate tra Vescovi piacentini ed Abati bobbiesi… iniziato –ovviamente– dai primi che costrinsero i secondi (sic!) a ‘rispondere’ «a precedenti specifiche operazioni falsificatorie intese ad annullare proprio l’autonomia dei due monasteri immettendoli nella Diocesi piacentina» (NUVOLONE 2008, 234). Fu allora, infatti, che venne «combinato un ‘colpaccio’, falsificando ai danni di Bobbio la Bolla di Papa Formoso» provocando così la “contro-operazione” falsificatoria monastica (NUVOLONE 2008, 239).

La successiva questione, ancora irrisolta, di fronte «all’ipotesi ben affermata nel 1207 d’un privilegio dello stesso Papa Formoso in favore di Bobbio», non porta nessun elemento decisivo alla vicenda.


2) «Che il secondo successore [di Colombano] effettui il viaggio che era nei progetti di Colombano, nulla di sorprendente, neppure nelle finalità perseguite di fronte al Vescovo di Tortona, la cui candidatura territoriale –lo si comprenderà facilmente– rientra in lizza dopo l’“uscita” di Piacenza. Che il momento storico fosse contrario ad un’operazione del genere, non ci risulta con chiarezza» (Ivi, 202-203).


Non di meno: in che cosa queste considerazioni ‘rispondano’ alle articolatissime problematiche storico-politiche e giuridiche avanzate dal Buzzi non appare evidente. Un viaggio al soglio di Pietro non era certo lontano dalle aspirazioni né dalla biografia di molti monaci del tempo; che tuttavia l’intenzione di Bertulfo potesse essere la stessa “che era nei progetti di Colombano” appare più ‘gratuito’ che ‘dogmatico’. In cosa consista, poi, la “uscita” del Vescovo di Piacenza alla quale subentrerebbe la logica “candidatura territoriale” di quello di Tortona non appare, di nuovo, evidente. Il fatto, inoltre, che “il momento storico fosse contrario” non certo al viaggio romano dell’Abate Bertulfo ma all’azione politica del Re longobardo anti-cattolico che risulterebbe aver ‘rimesso’ al Pontefice una questione di giurisdizione –e tributi– su di un possedimento ‘regio’, risultava piuttosto chiaro nei ragionamenti del Buzzi.


3) Circa la Bolla di Onorio I del 628,

«la tesi secondo la quale il testo di Bobbio sia stato copiato dal Liber diurnus, presente a Bobbio […], risulta solo da una lettura partigiana. […] L’analisi dei contatti preferenziali offerta dal Buzzi è trascelta e s’arresta esattamente dove viene dimostrato il contrario! Invece si spiega ampiamente come il documento di Bobbio sia finito nella raccolta, ricopiato come sembra alcuni decenni dopo. Ricopiatura che non condiziona per nulla la creazione» (Ivi, 203).


Di fatto, però, non si recepisce la sostanziale inconsistenza e non-referenzialità ‘pontificia’ del Liber diurnus solidificatasi nella Scienza degli ultimi settant’anni. Il vero problema, infatti, a cui volgere l’attenzione non è [a] quanto e a quale codice del Liber diurnus assomigli il testo della Bolla bobbiese di Onorio (“V” meglio di “A”), ma [b] il fatto che il c.d. Liber diurnus non è il “formulario ufficiale della Cancelleria pontificia” –come anche il Buzzi aveva dovuto ritenere(!)–, quanto invece un ‘semplice’ formulario monastico …come altri (ad usum falsificationis?).


4-5) Circa la datazione della ‘formula LXXVII’ del Diurnus e l’unicità dell’esenzione canonica di Bobbio fino agli inizi del sec. IX l’autore procede con una certa celerità affermando sbrigativamente che

«le fasi redazionali interne alla confezione della raccolta a questo punto non ci paiono condizionare nulla circa la redazione della copia di Bobbio, che sarebbe stata invero immessa nel Liber alcuni decenni dopo, stanti invero le riconosciute precocità e rarità dell’operazione giuridica, altrettanto quanto isolata e precoce era nel settore la stessa esperienza monastica bobiense» (Ivi, 204).


Ciò, tuttavia, non rende alcuna ragione di una così evidente ‘eccezione’ rispetto alla norma canonica generale ribadita ancora agli inizi del sec. X da Giovanni X; non si dà  alcuna ‘dimostrazione’ in factis ma soltanto in opposito Iure. Non di meno non si vede come l’inserimento di tale provvedimento giuridico nel preteso “formulario ufficiale della Cancelleria papale” sia avvenuto già entro la fine del VII sec. senza che la Sede romana se ne sia mai servita ancora per altri due secoli, né abbia mostrato di averne contezza alcuna.


6) Venendo alla non meno radicale problematicità del racconto bertulfiano del cronista Giona di Bobbio, l’autore ne segnala la presenza anche «nei due testi manoscritti più antichi di circa la metà del IX s., di S. Gallo e di Metz, nonostante il loro carattere più lacunoso, e, pensiamo, poco corretto» (Ivi, 204).

Non di meno, poi, la questione della «dipendenza di parte del territorio trebbiese da Tortona (vedi Libarna) è accertata, ciò che non esige di per sé né un’appartenenza originaria del territorio primitivo proprio alla Abbazia colombaniana, né un’univoca evangelizzazione anteriore» (Ibidem). Nulla si aggiunge, di contro, circa l’esistenza del Vescovo tortonese Probo.


Per contro, circa la narrazione di Giona va osservato che la tradizione documentale maggioritaria della Vita Columbani tende a non portare con sé il ‘Libro II’ di tale opera (presente, però, nei due codici citati): quello cioè dei discepoli di Colombano, tra cui l’Abate Bertulfo; a questo si aggiunga che proprio questi due codici concordano nell’assenza del pernottamento di Bertulfo proprio a Bismantova(!) conoscendo un generico attraversamento degli Appennini a Nord della Tuscia («Tuscana arva postposita, Appennina attingimus rura»).

Sull’appartenenza del territorio bobbiese al Vescovado di Tortona, invece, non valgono qui le posizioni degli autori ‘classici’ della Storiografia sia ecclesiastica che civile, poiché spesso riferentesi a secoli successivi al VII, oppure non ‘documentate’. Non di meno lo stesso Savio sconfessa indirettamente l’appartenenza di Bobbio al territorio ecclesiale tortonese. Né pare valere l’argomento secondo cui l’appartenenza civile di Bobbio alla Provincia delle Alpes Cottiæ (asserita da Paolo Diacono) lo legherebbe anche ecclesiasticamente a Tortona invece che a Piacenza (Provincia emiliana): secondo tale criterio –infatti– l’intera Provincia delle Alpes Apenninæ non avrebbe dovuto avere governo ecclesiastico, visto che le sedi episcopali (Parma, Reggio, Modena) erano site in Emilia. Allo stesso modo appare problematica l’identificazione dei c.d. “fines sancti Petri” e “fines sancti Pauli” a sinistra ed a destra del Trebbia con territori di appartenenza ai Vescovadi di Tortona (sinistra) e Piacenza (destra) –conformemente alle coeve “judicariæ” civili, sulla traccia dei pregressi confini municipali romani–, tanto più che la giurisdizione assegnata originariamente da Agilulfo era per quattro miglia intorno alla ‘basilica b. Petri’, comprendendo con evidenza entrambe le sponde del torrente e tutta la larghezza della (stretta) valle.


7) «Non è nostra intenzione affrontare l’assieme del problema critico della Bolla di Papa Teodoro, ciò che ci allontanerebbe considerevolmente dall’obiettivo ristretto prefissatoci» (Ivi, 204).


Dal punto di vista sostanziale, per contro, lo storico svizzero non affronta affatto i vari ordini di criticità storiche, circostanziali e documentarie –“impressionanti” per il Mercati!– entro cui il Buzzi aveva racchiuso a più riprese la vicenda, creando un vero assedio alla pretesa esenzione pontificia del monastero bobbiese. Nulla dice, né nulla ‘dimostra’ in contrario.


4.3 Altri elementi di sviluppo critico

A seguito di quanto sin qui illustrato sembra irrinunciabile offrire alcuni ulteriori elementi di approccio critico (se non proprio di ‘valutazione’) di quanto sin qui addotto a diversi livelli.


a) La tesi di Nuvolone non pare potersi reggere senza ammettere una sorta di ‘postulato’ previo piuttosto ‘stravagante’ –a tenore, almeno, di Storia conosciuta–: un Papa corrotto e venale quale Giovanni X (sic) avrebbe accettato di ‘cedere’ ad un Vescovo diocesano (qualunque?) un vantaggio giurisdizionale (=conferma dell’Abate) ed economico (le decime, o un ‘censo’ o altra forma di tassazione o ‘obolo’) dopo che per tre secoli ciò era incontestatamente spettato alla Sede romana. Di fatto, però, di questo ‘esercizio’ non pare rimanere nessuna traccia coeva, almeno laddove ci si aspetterebbe –logicamente– di ritrovarla: nel “Liber censuum” attraverso il quale la Curia romana teneva i conti esattamente dei ‘censi’ di sua spettanza da parte degli enti che godevano della sua ‘protezione’ più diretta ed immediata; la cosa risulta maggiormente ‘strana’ se, poi, non di semplice esenzione ma di vera tuitio pontificia si fosse trattato “in Ius et proprietatis b. Petri consistens”.


b) Allo stesso tempo va segnalato il fatto che sia la tesi di Nuvolone che quella del Buzzi concentrano proprio sul sec. X e sugli ‘stessi’ personaggi la maggior parte del loro ‘peso’ argomentativo (l’alleanza tra Guido e Giovanni X secondo Nuvolone; il contrasto tra Guido e Teodelassio secondo Buzzi), prendendo atto anche di un quadro giuridico, o pretesamente tale, arricchito in tale epoca di una serie di ‘narrationes’ di stampo agiografico evidentemente anacronistiche tutte volte a ‘giustificare’ lo status esente del monastero bobbiese fin –addirittura– dalla sua stessa fondazione. Questo, però, costituisce a tutti gli effetti un’importantissima convergenza circostanziale che, seppur valutata in modi diversi dal punto di vista storiografico, non permette però di sviare altrove l’attenzione del ricercatore. Come afferma il Buzzi, e Nuvolone di fatto conferma con l’ostensione delle ‘proprie’ carte-pecora dello stesso periodo, lo snodo e la fucina dell’intera questione vanno collocate proprio nelle prime due decadi del sec. X, e non due secoli dopo nelle liti tra Abati e Vescovi di Bobbio.

In tal modo, tuttavia, cambiamo radicalmente gli ‘spazi’ e gli orizzonti storico-circostanziali entro cui vanno considerati tutti gli elementi in gioco, falsificazioni e status giuridici in primis: un conto, infatti, è litigare tra due ‘sacrestie’ poste sulla stessa piazza, invocando protezioni e prerogative di autorità sempre molto lontane (Papi e Imperatori), altro conto è dover prendere atto che molto di quanto ‘reso presente’ in loco non ha alcun risconto (né –tanto meno!– valore) da nessun’altra parte.

Che, sic stantibus rebus, il volgere del sec. IX possa ragionevolmente aver costituito il vero (primo?) innesco dell’aspirazione alla sottomissione petrina per liberarsi soprattutto dai problemi connessi allo Ius beneficiarium non pare fuori luogo; ancora una volta l’idea trapela dalle considerazioni di Nuvolone: «affiora pure, forse più in sordina, la ricerca della riconferma della sottomissione petrina» (NUVOLONE 2008, 238) …“riconferma”, certo, per la sua prospettiva, ma –non di meno– possibile prima aspirazione per la linea inaugurata dal Buzzi. Ideologie a parte, le circostanze sono chiare!


c) A questi elementi si potrebbe (forse?) connetterne un altro solo parzialmente indipendente e, ad oggi non ancora considerato, circa la reale ‘autenticità’ della narrazione/interpolazione di Giona del viaggio a Roma di Bertulfo Abate: i manoscritti più antichi attualmente in nostro possesso, oltre a non contenere (tutti) la menzione di Bismantova (sic), sono strutturati in due libri non dello stesso ‘peso’ (Libro I: vita di S. Colombano Abate; Libro II: vita dei suoi cinque successori) e non tramandati in modo costante ed unitario, come già ben visibile nel Krusch.

È questo un elemento sufficiente a sospettare che in realtà il “Libro II” della Vita Columbani non sia almeno parzialmente, per quanto precocemente, apocrifo? In effetti un ‘modello’ ispiratore ci sarebbe e proprio all’interno dell’Agiografia iro-scozzese: la “Vita Columbæ” di S. Columba (521-597) di Jona (Abbazia scozzese da lui fondata) –narrata dall’Adamnan– la quale (fortuitamente?) narra proprio la vita del fondatore del famoso monastero e dei suoi cinque primi successori. Probabilmente non a caso, ancora, le due agiografie si sono ritrovate spesso accomunate nelle stesse biblioteche monastiche ed abbaziali dell’Europa centrale (es.: Reichenau). Che la ‘struttura’ sia la stessa e che l’emulazione agiografica fosse uno degli elementi caratterizzanti quell’epoca storica non chiede ulteriori conferme. Tanto più che un fenomeno simile si dovette riscontrare nelle interpolazioni della stessa opera storica di Beda il Venerabile, in cui fu inserita proprio anche la storia di Bertulfo …emendata poi dal Mabillon, ma ancora recepita qualche decennio prima dal Surius. Non di meno, proprio lo stesso Nuvolone, testimonia –indirettamente– dell’esistenza di più ‘tradizioni’, tra cui una “italiana”, riguardanti l’opera letteraria di Giona. Pur trattandosi di una purissima illazione, tuttavia essa richiede meno ‘supporti’ e ‘puntelli’ di altre prese di posizione in materia ritenute (o pretese) conclusive.



5. CONCLUSIONI

Dopo quanto sin qui illustrato sul (non) fondamento e la tenuta del presupposto: se un longobardo con scorta militare regia transita in un luogo, quel territorio dev’essere ‘longobardo’; fondamento e tenuta dimostrati inesistenti poiché nessun Abate Bertulfo risulta sia mai andato a Roma a prendere da Papa Onorio una Bolla di ‘esenzione/protezione’ di Bobbio redatta secondo il formulario del Liber diurnus (ad oggi ‘inesistente’!), non pare inutile ricordare come anche il ‘santorale’ appenninico emiliano non solo non conosca, lungo la direttrice dei Passi a sud di Bismantova, alcuna presenza dedicatoria longobarda di chiese ed oratori ma, ben al contrario, attesti con fermezza quelle di origine pre-gotica, insieme ad un certo numero di almeno greche, se non proprio bizantine. La cosa vale, non di meno per il confinante Parmense, in modo tale da escludere con certezza l’intero alto corso del torrente Enza, almeno da Roncaglio (di Canossa - RE) in su, visto che l’attuale presenza a Castelnovo ne’ Monti della ‘tradizionale fiera’ di “San Michele” non è in alcun modo fruibile in chiave longobarda sia per la sua relativa ‘giovinezza’ (sec. XV) che per la sua data romana: 29 settembre.


Tanto basti –ora– per dover non essere d’accordo con quanto sino ad oggi prospettato su una presenza e giurisdizione longobarda da Bismantova al crinale appenninico durante il VII secolo, confermando –non di meno– la possibile continuità territoriale e socio-politica bizantina ad Ovest dello Scoltenna verso le valli del Taro e della Magra (= Monte Bardone), cui si daranno attenzioni in futuro.



in: BOLLETTINO STORICO REGGIANO, XLIII (2011), n. 144, 17-43