SICHELMO MAESTRO DI DIRITTO ROMANO (GIUSTINIANEO) A REGGIO NEL SECOLO PRECEDENTE BOLOGNA

SOMMARIO: Introduzione. - 1. I fatti. - 1.1 Sichelmo. - 1.2 Anselmo da Besate. - 1.2.1 Il personaggio e l’attività. - 1.2.2 La formazione di Anselmo. -  1.3 Giudizio di Garfagnolo (1098). 1.4 L’insegnamento romanistico-giustinianeo reggiano. - 2 Le circostanze. - 2.1 Circostanze reggiane. - 2.1.1 La Reggio d’inizio millennio. - 2.1.2 Le proprietà private canossane. - 2.1.3 La politica canossana. - 2.1.4 Il governo femminile delle Signore di Canossa. - 2.1.5 ‘Romanisti’ canossani. - 2.1.6 Il Placito di Marturi. - 2.2 Altri elementi e fattori circostanziali. - 2.2.1 Elementi romanistici emiliani (Nonantola). - 2.2.2 Giurisdizione ‘pontificia’ altomedioevale in Emilia centrale. - 2.2.3 Contratti agrari: enfiteusi e precaria. - 2.2.4 La presenza letteraria giustinianea pre-bolognese. - 2.2.5 L’evoluzione della cultura dominante. - 2.2.6 Irnerio e la sua opera. - 3. Conclusioni.

Introduzione

Alla “Scuola giuridica reggiana” avevano già dedicato attenzione e ricerche nel secolo scorso insigni studiosi come U. Gualazzini che ne tracciarono un soddisfacente ritratto dall’affermazione (fine del XII sec.) alla cessazione nei primi decenni del XIV sec. a causa del decadimento della vita comunale, attraverso figure quali Jacopo da Mandra (dal 1188), Giacomo Colombina (1194), Pietro Divino (1230-1240), Accursio reggiano (1266-1273), Guido da Baiso (canonista, 1270), Bernardo Talenti (1273), Guido da Suzzara (1270-1278), Giovanni da Bondeno (civilista, 1276), Pancratino (canonista, 1276).

Ciò che tuttavia ne rimane ancora in ombra è l’elemento (ed il momento) probabilmente più specifico: il prodromo su base romanistica, già alla metà dell’XI sec. Tale prospettiva non risulta ancora perseguita in modo esplicito in campo scientifico sia per una generale carenza di formazione specificamente giuridica degli storici in genere, sia per la sottovalutazione di un certo numero di elementi locali da parte dei giuristi che ne hanno trattato, intersecandosi tale tematica sia [a] con le questioni tecniche circa il passaggio dalle Scuole d’Arti liberali dell’XI sec. alle Universitates del XIII (nella impossibilità di essere univoci sull’uso di ‘Scuola’ e di ‘Studium’ per le strutture didattiche dell’XI sec., spesso neppure istituzionali) che [b] con quelle connesse alla presunta ‘riscoperta’ bolognese del Diritto romano-giustinianeo, visto emergere in quella sede come da un ‘nulla’ durato ben cinque secoli… Tematiche che, per la loro indubbia importanza, finiscono facilmente per sbilanciare la ricerca e la trattazione verso altre direzioni da quella che qui si vorrebbe invece intraprendere.

Lo stato attuale delle ricerche, tanto storico-giuridiche generali che di Storiografia locale, permette infatti ormai di rileggere molti dei dati già conosciuti ri-collocandoli in un ‘quadro circostanziale’ più completo che vada dal biografico al giuridico, al politico e didattico, soprattutto dell’era pre-matildica in modo da non patire tentazioni né rischi di deviazione dal tema. Ne emerge una solida ipotesi capace di prospettare nella docenza reggiana di Sichelmo (ca. 1035-1075) l’anticipo di quasi un secolo nell’insegnamento del Diritto romano-giustinianeo rispetto alla vulgata convinzione che ne attribuisce l’origine ad Irnerio (o almeno a Pepo) in quel di Bologna.

Si tratta, innanzitutto, di valorizzare adeguatamente le ricerche del Gualazzini alla metà del secolo scorso, pur sviluppandone alcuni esiti differenti: mentre, infatti, per la Scuola reggiana nel suo complesso egli si chiese soltanto «[3)] come e perché il principale insegnamento fosse stato quello del Diritto», sarà possibile dimostrare ora che tale Diritto era proprio quello romano-giustinianeo, autorevolmente insegnato –almeno– a Reggio già alla metà del sec. XI, per quanto in forma ‘generale’ e “per institutiones”. Allo stesso tempo forniranno una solida cornice contestuale e scientifica gli studi più generali –e recenti– di E. Cortese (per gli elementi più tecnici) e P. Grossi (per quelli più concettuali), affiancati ed accresciuti da un significativo numero di specificità ‘reggiane’ –o ‘canossane’ che dir si voglia (per quanto non esclusivamente ‘matildiche’)–.

L’esito prospettato –e le sue gravide conseguenze– richiede qualche elemento di premessa metodologica per illustrare la struttura della ricerca e validarne tanto la fondatezza che il risultato, perché possa trattarsi di plausibile ‘dimostrazione’ scientifica e non di semplici ‘argomentazioni’ strumentali a questo o quell’altro obiettivo ideologico.

Si procederà così su due livelli distinti ma complementari, secondo i gradi di certezza e specificità dei ‘dati’ in nostro possesso: a) fatti, b) circostanze. I fatti (concreti, accertati e specifici) reggeranno la maggior parte del peso dimostrativo indicando ‘puntualmente’ ciò che è accaduto; le circostanze (altri fatti concreti ma meno specifici e più generali) serviranno ad inquadrare i singoli avvenimenti all’interno di una prospettiva più ampia che ne permetta un’adeguata valorizzazione in rapporto all’effettiva cornice ‘fattuale’ in cui tali eventi si realizzarono, cercando in tal modo di sfuggire alla maggior parte delle costrittive ‘scelte’ ideologiche che già hanno profondamente segnato la materia, almeno nel suo versante italico (tradizionale).

1. I fatti

1.1 Sichelmo

Il primo interessamento monografico autonomo a questo insigne quanto misterioso personaggio emiliano va attribuito a Mons. L. Tondelli che nel 1937 ne tracciò un primissimo ritratto con grande accrescimento di dati, integrando e correggendo il Campanini che aveva dedicato a Sichelmo solo queste parole: «in nessun modo è dato provare che prima del 1068 esistessero a Reggio Scuole d’Arti liberali; in quell’anno le tenne Sichelmo, che fu a Parma eruditissimo discepolo di Drogone, dove poi andò Maestro»; il dato era già stato ripreso l’anno seguente dal Balletti in termini pressoché identici: «la prima notizia d’una Scuola laica è del 1068, quando Sichelmo, discepolo di Dragone (sic) a Parma, e poi là Maestro, tenne la Scuola di Reggio».

Sino ad allora non risultano trattazioni su tale Maestro ‘reggiano’ in quanto il futuro Card. A. Mercati, che pure nel 1891 (da Roma, dov’era studente) aveva raccolto, tradotto e pubblicato quanto sulle Università reggiana e modenese scriveva il Denifle, arricchendolo con note erudite, non aveva fatto cenno alcuno a Sichelmo, nonostante da Parma il Mariotti ne avesse già portato alla luce l’esistenza nel 1888, sulla scia del Dümmler (1872).

Tre gli elementi che Tondelli contesta ai predecessori: [a] la ‘laicità’ dell’insegnamento di Sichelmo (contro il Balletti), [b] la cronologia a suo riguardo (1068) e [c] l’insegnamento a Parma. Alla presunta ‘laicità’ dell’insegnamento delle Arti liberali di Sichelmo, Tondelli contrappone lo status ecclesiastico dello stesso: Arcidiacono e ‘Præpositus’ della Chiesa reggiana. Sulla cronologia, invece, egli interviene per doppia via: quella documentale, adducendone presenze certe dal 1061 al 1075 (che oggi possiamo spostare al 1077), e quella deduttiva dipendente dagli scritti pubblicati dal Dümmler sul principale allievo di Sichelmo: Anselmo da Besate. Secondo Tondelli 

poiché l’Imperatore Enrico III morì nel 1056, ed Anselmo il Peripatetico fu con lui quale Cappellano dal 1049 circa, la Scuola di Sichelmo a Reggio non poté incominciare dopo il 1045, e potremo dire che incominciasse verso il 1040 circa, se consideriamo il tempo necessario perchè si propagasse la fama del nuovo Studium sì da attrarre giovani lontani e nobili quale Anselmo di Besate.

Allo stesso tempo egli corregge un altro dato erroneo sul ritorno a Parma di Sichelmo:

abbiamo la prova che egli non passò ad insegnare a Parma: sia perchè nessun documento e nessuna fonte questo afferma (e sono sì limitate che le abbiamo tutte passate in rassegna), sia perchè, positivamente, da quando verso il 1040 Sichelmo, che doveva essere allora assai giovane, venne a Reggio, ivi l’attestano tutti i documenti che lo ricordano.

Chiara ne risulta la conclusione: «lo Studio aperto da Sichelmo in Reggio ebbe quindi anche per la sua durata, importanza assai maggiore di quanto non siasi sospettato sinora»; non dunque poco più di una dozzina d’anni (1061-1075) ma circa quaranta. Cosa sia stato possibile fare in tal tempo non è dato conoscere in modo diretto e –finché non compariranno nuovi documenti in merito– dovrà essere investigato attraverso elementi soltanto circostanziali, comunque non assenti né insignificanti.

Circa l’identità di Sichelmo quasi nulla ci è giunto tranne le poche ‘presenze’ documentali e le menzioni che ne fa il suo allievo d’origine pavese: Anselmo da Besate.

Di fatto gli unici documenti per conoscere il Maestro reggiano sono: [a] la lettera con cui Anselmo chiede a Drogone di Parma (di cui Sichelmo era stato allievo) di sostenere la presentazione della sua opera intellettuale presso la Corte imperiale, cui era nota la fama di Drogone e della Scuola parmense e [b] la dedica di tale opera all’Imperatore Enrico III. In tali scritti Anselmo loda Sichelmo sia davanti al di lui Maestro che allo stesso Imperatore enumerandone le capacità ed i meriti, celebrandolo fra tutti per la sua arte di retore pari a Cicerone e per le conoscenze giuridiche “quasi un Giustiniano”. 

Al di là dell’iperbole letteraria traspare la statura scientifica di Sichelmo; per il Tondelli l’affermazione di Anselmo secondo cui Sichelmo “docet gentes

non può certo esprimersi di un insegnamento privato e neppure di un insegnamento ad un uditorio locale. Come allo Studio di Drogo a Parma accorrevano gli scolari da tutte le parti d’Italia e delle terre straniere, così anche a Reggio per quello di Sichelmo.

Di fatto Sichelmo, pur essendo stato anche Præpositus del Capitolo cattedrale, pare abbia esercitato la propria attività di docente –anche– al di fuori della Scuola capitolare cittadina, sfruttando probabilmente condizioni favorevoli a tal genere di attività connesse anche col primo strutturarsi della municipalità, oltre all’interesse dei ‘potenti’ del tempo/luogo (i ‘da Canossa’); in tal modo si può presumere che

Drogone e Sichelmo fossero titolari di Scuole di natura privata che funzionavano con il benestare dei rispettivi Vescovi, i quali potevano trarre solo vantaggi dalla presenza in città di due Magistri tanto apprezzati.

Si spiegherebbe in tal modo la qualificazione di “Scuola laica” genericamente attribuita all’attività di Sichelmo; ‘laica’ nel senso di non-capitolare (cioè non-ecclesiastica), e non necessariamente –invece– perché tenuta da ‘laici’ per ‘laici’, né tanto meno svincolata dal Vescovo, unica autorità cittadina, in un tempo in cui

il declinare del prestigio dell’autorità centrale, già iniziatosi sotto i Franchi e che viene assumendo i suoi aspetti più tipici nel X e XI secolo, concorreva […] a permettere la fioritura locale delle Scuole, manifestazione dell’autorità vescovile, così come di essa era manifestazione, si può dire, ogni segno di potere organizzato. […] Lo sviluppo delle vicende scolastiche nelle città del distretto cremonese è analogo, tanto da giustificare il convincimento che le Scuole sieno tutte quante fiorite in medesime condizioni ambientali.

Di parere diverso G.C. Mor che, contrapponendo la propria teoria delle ‘Scuole marchionali’, non accetta la riconduzione di tutto l’insegnamento superiore alla matrice ecclesiastica, rivendicando l’esistenza di vere e proprie Scuole ‘laicali’. In realtà questo dissenso non compromette in nulla la figura di Sichelmo e delle sue competenze romanistiche, espressamente testimoniate da Anselmo da Besate; tanto più che tali testimonianze scritte riguardano la persona di Sichelmo e non già la sede o la forma più o meno istituzionale del suo insegnamento. Per di più l’assenza tanto del termine “schola” che del –successivo– “studium” negli scritti anselmiani –che parlano solo di “dottrina”, “Maestri” e “discepoli”– non osta al presupposto «che nel X-XI secolo gli insegnamenti fossero basati su una societas fra scolaro e Maestro» assunto dallo stesso Mor come risolutorio; questo, anzi, confermerebbe il non-passaggio di Anselmo da Parma a Reggio …da Drogone a Sichelmo, da Scuola a ‘Scuola’, nonostante sino ad oggi gli autori abbiano sostenuto –infondatamente– il contrario.

Secondo Gualazzini, poi, i volumi testimoniati (ben più tardi) presenti a Reggio sarebbero sicura prova di tale organizzazione scolastica, trattandosi di

opere classiche di Retorica e Letteratura, che ebbero una loro funzione precisa nella formazione delle generazioni colte dei secoli IX, X e XI. Opere di questo genere erano possedute nelle biblioteche viciniori, che risalivano ad epoche anteriori al mille. [Mi] pare logico, quindi, pensare che esse già preesistessero in Reggio allo stesso Sichelmo.

Ora si sa che dove esiste una biblioteca di solito esiste anche un insegnamento, onde sembra logico di poter dedurre che all’ombra della Cattedrale si fosse praticato un insegnamento, non solo per i chierici, ma anche per i laici. 

D’altra parte sarebbe difficile spiegare l’improvvisa fioritura di studi a Reggio nell’XI secolo, se non si fosse venuta alimentando una tradizione culturale.

Tali volumi addirittura, non solo, sarebbero «i relitti di quella biblioteca capitolare che alimentava la Scuola religiosa per laici», ma costituirebbero ulteriore prova «della perfetta continuità della Scuola in Reggio nei secoli IX e X, con l’insegnamento del Trivio e del Quadrivio», visto anche che la preesistenza della Scuola reggiana a Sichelmo risulta provata «da documenti di cui non si può mettere in dubbio il valore»; e già il Dresner, sulla falsa riga del Denifle, aveva computato Reggio tra le “grandi città” dotate in tal modo, insieme a Milano, Parma, Bologna.

Non si dimentichi in questa prospettiva ‘integrante’ come il Vescovo di Reggio Emilia possedesse già dall’età carolingia esercizio di vera giurisdizione per la Diocesi e, in seguito, per la stessa città.

Proprio il Vescovo di Reggio Emilia, d’altra parte, presiederà la prima seduta italiana di ‘laurea’ –in Diritto(!) –di cui si possieda documentazione scritta:

con esami solenni davanti al Collegio, all’Università degli studenti, al pubblico ed al Vescovo si assegnavano le lauree. Quella di Lettore veniva concessa dal Vescovo dopo un esame privato e lo Studio ne rilasciava diplomi, uno dei quali, dato il 5 febbraio del 1276 a Pietro Amedeo Cigincoli di Brescia, è il primo che si conosca nella storia degli studi italiani, e poiché quel diploma autorizza Amedeo a tener scuola a Reggio, se ne conclude che il nostro studio aveva tutti i gradi di vera Università.

A proposito di Sichelmo, tuttavia, alcuni autori indugiano nel contrapporre la sua posizione di docente a quella di altri personaggi reggiani –non meno oscuri– del tempo, conosciuti col titolo di Magischola: Domenico (nel 1038) e Giovanni (nel 1059), come appaiono in alcuni contratti delle Carte del Monastero di S. Prospero, che conoscono anche –negli stessi anni– lo stesso Sichelmo. In tal modo «Sichelmo non si identifica con la Scuola, la quale, […] ha vita sua, che supera quella del dotto sacerdote», pur non potendosi ancora neppure ipotizzare né identità né sviluppi con quanto caratterizzerà il periodo successivo in campo didattico. In proposito si è scritto recentemente:

non mi pare che si possa parlare per la Scuola di Sichelmo di uno Studio vero e proprio –come propone Leone Tondelli– anche se nelle sue lezioni passava agevolmente dalla Retorica al Diritto ed alla Teologia [?!]; è più in armonia con la documentazione in nostro possesso pensare ad una Scuola non del tutto svincolata dalle Arti liberali, nelle quali Sichelmo era peritissimus, e non rigidamente inquadrata nelle Scuole capitolari sotto la tutela del Magister scholarum, tant’è vero che nel 1073 Sichelmo, divenuto Canonico della Cattedrale, non ricoprì la carica di Magister delle Scuole, naturale per chi vi avesse insegnato da circa trent’anni, ma quella di Arcidiacono.

D’altra parte, se il titolo di Magischola era istituzionalmente riconosciuto ai responsabili della Scuola capitolare, lo stesso non avrebbe potuto venire attribuito ad un ‘semplice’ Magister privato che, come Sichelmo (e quanti altri ai quei tempi?), offriva formazione altamente specialistica ai ‘propri’ discepoli …non sappiamo presso quale sede. Allo stesso modo, i vari ruoli ricoperti da una persona in epoche diverse della propria vita non escludono che la stessa abbia potuto, proprio in tempi tanto diversi, esercitare anche attività –prima che ruoli istituzionali– differenti. Concretamente: un Chierico eccellente giurista, prima di assumere cariche ecclesiastiche di rilievo, avrebbe potuto tranquillamente dedicarsi –con tanto di consenso episcopale– alla formazione di un’intera classe di giuristi tanto utili alla vita civile che a quella ecclesiastica, senza che questo contrastasse necessariamente né col suo status canonico, né col suo eventuale esercizio ministeriale. La sua promozione alle cariche ecclesiastiche di maggior rilievo –Præpositus capitolare e più tardi Arcidiacono della Chiesa reggiana– potrebbe così risultare la semplice controprova della straordinarietà dell’iter seguito e dell’eccellenza della sua azione. Il fatto che a Sichelmo manchi la qualifica di magischola, propria dei Capitoli cattedrali, non significa affatto che non gli fosse attribuita –invece– quella di Magister; tanto più che la prima comportava la sostanziale responsabilità –amministrativa– dell’organizzazione e funzionamento della struttura scolare… attività non necessariamente coincidente con l’eccellenza della docenza svolta, tanto più se la persona in questione esercitava già altri prestigiosi incarichi.

Su questa espressa identità professionale del Maestro reggiano sembra gravare la critica del Mor, secondo cui «l’opera svolta da Sichelmo fu di Giudice, non di “conditor Legum” o di pseudo Leggi». Il docente modenese, criticando sia Fitting che Gualazzini, ironizza infatti:

ma è mai possibile che Anselmo, sia che fosse Cappellano di Enrico, sia che lo volesse diventare, gli ponesse come referenza l’esser stato a scuola da un tale che si poneva sullo stesso piano dell’Imperatore nel far Leggi? […] Ma era cosa da farsi cacciar sui due piedi, altro che ottenere un posto! […] Ma quello che mi par certo è che dalle ultime parole di Anselmo Peripatetico si deve ricavare che il Maestro reggiano non si diede arie di legislatore, ma esercitò un’attività pratica di giusdicente.

L’obiezione non può tuttavia essere accolta sia per l’effettivo contenuto del testo anselmiano stesso invocato a sua giustificazione, sia –e molto maggiormente– perché trascura (e dimentica o nega) alcuni elementi, non solo circostanziali, importantissimi: a) «non v’è, né vi può essere, il dubbio più lontano che Sichelmo fosse Maestro in una Scuola di Arti liberali e non un Giudice», come espressamente dicono gli stessi testi anselmiani, b) quale miglior scuola avrebbe dovuto frequentare un aspirante Cancelliere che quella in cui s’insegna a redigere Documenti ufficiali secondo lo stile ‘proprio’ della Curia imperiale (romano-bizantina)? c) L’aspirazione di Anselmo era la Curia/Cancelleria e non il Tribunale, d) l’insegnamento dello ‘stile’ legislativo non porta in sé alcuna irragionevole alterigia di porsi quale ‘legislatore’, e) i tempi della Lotta per le Investiture furono fecondissimo grembo di Documenti legislativi ‘falsificati’ e manomessi a regola d’arte… a prova di Cancellerie papali ed imperiali –e di secoli di critica letteraria successiva!–

Nulla ci è dato, infine, sapere del termine della sua esistenza, tranne la ‘presa a livello’ (già dal 6 maggio 1068) dai Canonici della Cattedrale di Parma di un terreno del suburbio di quella città, senza che tuttavia una tal informazione possa far ipotizzare specifiche conseguenze né didattiche, né residenziali, tanto più che la mobilità dei chierici è comunque assoggettata al consenso dei loro Vescovi; la scelta, d’altra parte, appare logica se la sua provenienza originaria risultasse effettivamente parmense. Un terreno preso a livello (sostanziale enfiteusi), poi, costituiva già da tempo una forma reddituale ‘privatistica’ conosciuta ed ampiamente praticata ai tempi canossani (v. infra).

Per quanto dai documenti in nostro possesso l’attività docente di Sichelmo –ed eventuali successori– non paia giungere alla fine dell’XI sec., tuttavia a Reggio «si hanno notizie dell’esistenza di cultori del Diritto, degni della considerazione dei contemporanei, anche dopo la scomparsa del Maestro insigne»… né basta la morte del maggior esponente per estinguere un’istituzione che –forse– gli pre-esisteva e che ricomparirà –per quanto mutata– dopo qualche decennio, facendo tesoro di quanto già seminato e raccolto a livello culturale. Anche l’ipotesi non-istituzionale e transeunte del suo insegnamento, tuttavia, non indebolirebbe affatto il suo profilo scientifico e didattico, né condizionerebbe la materia del suo insegnamento, di cui qui ci si occupa specificamente.

1.2 Anselmo da Besate

1.2.1 Il personaggio e l’attività

Testimone unico di Sichelmo reggiano è uno dei personaggi più complessi del sec. XI: Anselmo “il Peripatetico”. I dati che ci giungono dalla sua opera e persona sono gli unici in grado di dare corpo e spessore alla sede in cui ricevette la propria formazione ‘laica/civilistica’ (cioè non-ecclesiastica) ed al suo Maestro; dati sconosciuti –come pure la persona di Sichelmo– fino alla pubblicazione delle sue opere nel 1872 da parte del Dümmler.

Attivo presso la Cancelleria episcopale di Bamberga nel 1045 –avendo evidentemente già terminato gli studi reggiani–, passato poi alla Cancelleria del Regno d’Italia nel 1047, Cappellano dell’Imperatore Enrico III dal 1048 al 1050 circa è dai suoi scritti (connessi alla “Rhetorimachia”, scritta verso la metà del secolo) che si trae il maggior numero di elementi altamente probabili per l’argomento in esame.

Le notizie utili si reperiscono in tre documenti: a) la lettera al Maestro Drogone per ottenerne il patrocinio culturale presso lo stesso Imperatore (datata al 1050 circa), b) la lettera a Drogone ed agli studenti parmensi sulle dispute in Gallia e c) la Dedica dell’opera all’Imperatore Enrico III (v. infra).

La partenza obbligata per conoscere il Maestro reggiano di Diritto, a motivo delle forti annotazioni biografiche, è la prima lettera a Drogone parmense: è in essa che compaiono le principali notizie a riguardo di Sichelmo e del suo insegnamento. La circostanza indicata da Anselmo ed il testo della lettera mostrano l’evidente desiderio del giovane nobile longobardo di ingraziarsi un famoso Maestro del quale non aveva avuto fino a quel momento conoscenza personale e diretta, tanto da ricorrere –retoricamente– alle giuridiche (e romanistiche) adoptio e mancipatio (v. infra) per ‘passare’ dal gruppo degli studenti reggiani a quello dei discepoli ‘diretti’ di Drogone parmense (la “droconica secta”) la cui fama era attestata in tutta Europa.

Anselmo, che si autodenomina “peripatetico”, proveniva da famiglia nobile longobarda (i “da Besate”) di area pavese. Ecclesiastico e parente di molti Vescovi, compì i propri studi inizialmente nella vicina Pavia, recandosi poi a Milano per completare la formazione ecclesiastica. Si trasferì in seguito a Reggio a completare la preparazione ‘tecnica’ necessaria in vista della carriera ecclesiastico-imperiale cui i nobili ecclesiastici erano spesso ‘indirizzati’.

In tutta evidenza egli era predestinato a ricoprire quell’ufficio e il fatto che la famiglia lo indirizzasse a studiare verso le filoimperiali Parma e Reggio […] era, per ciò stesso, la controprova della fama delle due sedi scolastiche, che costituivano verosimilmente un passaggio obbligato per le nuove generazioni di burocrati dell’Imperatore. In Emilia, Anselmo venne dunque ad acquisire un livello di preparazione superiore.

Alla Scuola [di Sichelmo, infatti] accorrevano anche studenti forestieri, spinti ad abbandonare le loro città spesso dotate come Pavia di buone Scuole di Arti liberali, per prepararsi meglio alla loro futura carriera al servizio delle autorità laiche o ecclesiastiche in un momento in cui era notevolmente aumentata la richiesta di persone in possesso di una buona padronanza della lingua e di una adeguata conoscenza delle consuetudini cancelleresche e dei testi giuridici.

È certa la parentela di Anselmo con il Casato dei Canossa, non meno che con altre famiglie nobili longobarde residenti allora sia in Parma che a Lucca, circostanza, questa, interessante per far emergere il suo travaglio formativo e, forse, non solo: infatti pur potendo trasferirsi a Parma, più vicina a Pavia, alla Scuola di Drogone, ben più celebre che il reggiano Sichelmo, egli tuttavia elesse per la propria specializzazione proprio Reggio. Scelta non indolore quanto a prestigio, visto che in seguito dovrà ‘raccomandarsi’ a Drogone per ottenerne un adeguato patrocinio in campo europeo; «d’altronde qui era certamente un centro di insegnamento di non comune risonanza se Anselmo da Besate, venne a Reggio alla Scuola di Sichelmo, preferendo questo all’insegnamento pavese, che pur doveva essergli più comodo». Osservava in merito il Tondelli: 

apparentato con l’Arcivescovo Arnolfo di Milano e suo fratello Landolfo Vescovo di Brescia, e, per lato di padre, con l’Arcivescovo Giovanni di Ravenna e coi Vescovi Sigifredo di Piacenza, Kuniberto di Torino e Giovanni di Lucca, non si comprenderebbe perchè il giovane come centro dei propri studi avesse scelto Reggio, abbandonando Parma dove prima aveva studiato se non ci fossero stati una personalità ed uno Studium già noti ormai.

Ciò non rende tuttavia sufficiente ragione di troppi elementi –soprattutto ‘logici’– riguardanti la biografia del futuro Cappellano imperiale così come emergono nei suoi scritti. In effetti, quanto normalmente dedotto dalla lettera premessa alla “Rhetorimachia” non si concilia –dal punto di vista logico– con quanto posto al termine dello stesso scritto; in tale composizione infatti Anselmo dà informazioni preziose circa la sua vita e la sua carriera. Passato «a liberalibus [...] disciplinis [...] ad capellam [...] Imperatoris» nel suo peregrinare per ragioni di Ufficio, confessa di avere portato con sé l’opera –che si vorrebbe– composta sotto la guida di Drogone («opus quod apud vos edidi») e le relative lettere di approvazione rilasciate dal Maestro, di averle mostrate ovunque suscitando invidia per la “draconicam sectam” e per la “italicam disciplinam”. Di fatto, però, l’edizione critica del Manitius (1958) evidenzia a riguardo del probabile luogo di redazione della Rhetorimachia la variante “nos” della fonte “C” al posto di “vos” della fonte “P”; in tal modo il peso argomentativo si regge sulla scelta tra: «opus, quod apud vos edidi» e «opus, quod apud nos edidi»: nel secondo caso Anselmo avrebbe scritto (editum) la Rhetorimachia (opus) per proprio conto (apud nos), sottoponendola in seguito alle correzioni del famoso Maestro parmense. Solo ciò sarebbe perfettamente coerente con quanto appare nella prima lettera a Drogone in cui gli presenta lo scritto in questione per averne il patrocinio; tale prospettiva sarebbe, inoltre, corretta anche a livello contenutistico: poiché Anselmo ha scritto ‘per proprio conto’ la Rhetorimachia, la presenta al Caposcuola (il Maestro del suo Maestro) perché la riveda e corregga:

si quid aberratum est, corrige; oscure dictum elugubra; inscitia vel neglegentia pretermissum adiunge; diligenter positum tua confirma asseveracione.

Sull’ambientazione dello scritto in quel di Parma, indicata dagli autori in ragione dei riferimenti ‘locali’ in esso contenuti, non paiono esserci grossi problemi in quanto si è propensi a ritenere che l’opuscolo sia stato composto non nel periodo degli studi emiliani, ma in occasione di un passaggio da Parma per motivi d’Ufficio (1047-1048, appunto), ‘mantenendo’ così Anselmo come –puro– studente reggiano di Diritto. Un’ambientazione, per di più, non testimonia altro che la –semplice– conoscenza del luogo e la volontà di rifarsi ad esso; tanto più che sotto questo profilo va considerato come l’attività di Anselmo sia in realtà un’operazione ‘di Scuola’: egli cerca, cioè, di inserirsi all’interno di un movimento culturale già affermato, la “droconica secta” famosa in tutta Europa …e gli evidenti riferimenti alla città di Parma potevano certo favorirlo in questo. Un esame dei testi toglierà molti dubbi.

Tuttavia questa ipotesi non pare in reale conflitto con l’altra, poiché quando Anselmo scrive a Drogone lo fa dalla Francia(!) e, vista di là, Reggio è certamente apud Parma; in tal modo l’“apud vos” direbbe solo che l’opera fu redatta “lì da voi …costì”, non necessariamente a Parma, né presso lo stesso Drogone che, diversamente, l’avrebbe conosciuta fin dal suo nascere e non ci sarebbe stata alcuna necessità di sottometterla ad una sua ‘revisione’ potenzialmente tanto profonda come quella effettivamente richiestagli (v. supra).

1.2.2 La formazione di Anselmo

Un aiuto prezioso all’indagine su Sichelmo viene dall’esame critico dei testi anselmiani sin qui soltanto evocati …ed indicati in modo solo generico (pedissequo ed acritico) dalla maggioranza degli autori.

a) Il primo testo solitamente utilizzato dagli autori per derivarne sino ad oggi la frequentazione della Scuola parmense e del suo Maestro Drogone è la ‘dedica’ dell’operetta retorica all’Imperatore. Va preliminarmente notato come in esso i referenti della formazione di Anselmo siano indicati in terza persona, attenuando così in parte la portata delle presunte relazioni intrattenute con loro.

EPISTULA ANSELMI PERYPATHETICI AD IMPERATOREM HEINRICUM

[…] Talium enim Doctorum mihi fuit doctrina, quia mihi nulla videtur temeritas in illorum disciplina: tum quidem Droco phylosophum, flos et Italie decus, tum Aldeprandus ipse facundissimus, tum Sichelmus liberalium Artium peritissimus. Quem [Dümmler: Qui] ut pre omnibus in suis rethoricis noster habet [Dümmler: habetur] Tullius, sic Iustinianus pre omnibus in imperialibus suis Edictis et legalibus judiciis. Et nec in iudicandis causis potuit esse exiguus, qui in perorandis satis sonat eximius. Inestimabilis autem Droconis enutritus docmate docet gentes iste, factus ut aiunt ipse. Idem vero ipse et iam non alter ipse.

Si osserva innanzi tutto come la prima proposizione abbia per soggetto la “doctrina” (mihi fuit doctrina), che ritorna più oltre come ‘dogma’ di Drogo; non è dato intendere in alcun modo dal testo che Anselmo sia stato discepolo diretto del Maestro Drogo –in Parma– (o di Aldeprando), ma solo lo si riconosce come fonte della dottrina appresa attraverso Sichelmo. Drogo, Aldeprando, Sichelmo sono i Maestri di quella dottrina che già in Europa riscuote interesse ed ammirazione. Il discorso, inoltre, è con evidenza puntato su Sichelmo: è lui il ‘nostro’ Tullio (Cicerone) e Giustiniano; per gli altri (Drogo in primis) si tratta di un semplice riferimento alla ‘dottrina/disciplina’ di cui sono blasonati esponenti. Non di meno Drogo è caratterizzato semplicemente come “phylosophum” (non “Magister” o altro) ed introdotto con un semplice “quidem”, mentre per Sichelmo si usa il possessivo “noster”, enfatizzando il legame esistente con lui e non –invece– con Drogone. Sichelmo poi,  liberalium Artium peritissimus”, è considerato identico al suo stesso Maestro: “Idem vero ipse” al punto –forse– da non patirne alcuna concorrenza… risultando, quindi, del tutto indipendente dal Maestro parmense nella propria attività e fama.

b) Il secondo testo è forse il più interessante, poiché è quello che parla direttamente di Reggio come sede della docenza di Sichelmo e degli studi giuridici da lui proposti. Si tratta della lettera scritta da Anselmo a Drogo stesso per ottenerne il patrocinio in ambito culturale europeo; il valore del testo è fondamentale per comprendere la qualità e portata della relazione con Drogo e la Scuola parmense.

INCIPIT EPISTULA ANSELMI PERYPATHETICI AD DROGONEM PHYLOSOPHUM

Venerabili suo Droconi Magistro Anselmus Perypateticus salutem in Christo.

[…] Huius itaque simplicis intencionis oportunitate animi item fuit consilium audacter quidem sed non inutiliter istius aggredi operis tramitem.

[…] Itaque tunc temporis apud Regium civitatem Magistrum meum domnum Sichelmum, vestrum discipulum liberalibus disciplinis a vobis studiosissime eruditum adii. Quem vero, quia in hac arte sicut et in ceteris carissime prepollebat, rogavi, quatenus eam michi traderet.

[…] Quod opus, optime Doctor, licet arduum non tamen debet ascribi temeritati, cum creverim in famiglia tua, nec ullus temeritati patet locus in Drogonica disciplina. Quamvis enim emancipacionis iure a te quondam fuerit solutus, iam tamen per domnum Sichelmum adoptionis vinculo tuo iuri videor colligatus, et qui antea fueram nemancipi, nunc per Sichelmum tibi factus sum mancipi. Tali itaque patrono confisus invidorum detractiones pertimescere nolui, neque eorum putavi patere spiculis.

Dal testo emerge con chiarezza come l’inizio della lettera in cui Drogo è chiamato “venerabili suo Magistro” sia di evidente pura formalità; il ‘genere’ è quello del ‘saluto’ ad un personaggio di alto livello. Che non ci siano relazioni dirette e personali tra i due appare con immediatezza qualche riga dopo quando Anselmo, per ‘presentarsi’, deve spiegare di essere stato discepolo del discepolo di Drogo… e questo a Reggio. Se Anselmo avesse studiato a Parma –sotto Drogo– questa sarebbe stata l’occasione migliore per ricordarlo al ‘proprio’ Maestro… invece Anselmo è quasi ‘costretto’ a chiamare “Magistrum et Dominum meum” Sichelmo. Proprio a Sichelmo, inoltre, il besatese dichiara di aver richiesto di essere messo a parte della sua ‘arte’ (Sichelmum adii).

Anche il successivo riferimento all’“optime Doctor” è interessante: perché non chiamare Drogo “Magistrum et Dominum meum” se così fosse davvero stato in quel di Parma, prima di venire a Reggio da Sichelmo? Tanto più che proprio di Sichelmo dice essere stato “vestrum discipulum” e “a vobis studiosissime eruditum”.

Altro elemento di grande significato è, prima, il riferimento alla ‘crescita nella tua famiglia’ e poi quello alla “drogonica disciplina”; è chiaro in queste formule che l’intenzione di Anselmo è quella di legittimarsi nel suo legame (solo) dottrinale a Drogo, e nella sua pretesa di essere da lui riconosciuto quale ‘discepolo’ o comunque ‘adepto’, nonostante l’estrinsecità delle circostanze di fatto. Il contesto è evidente: si tratta di un discorso di ‘scuola’; Anselmo vuole potersi presentare come appartenente a pieno titolo alla “droconica secta” dei discepoli parmensi, seppure di ‘seconda generazione’ in quanto discepolo di un discepolo. Ed è proprio qui che s’inserisce, finalmente, l’immagine più chiara –e logicamente definitiva– in merito al rapporto col Maestro parmense, al di là di ogni enfasi letteraria. Il nobile lombardo si è fatto mancipium di Drogo attraverso Sichelmo: “nunc per Sichelmum tibi factus sum mancipi”… “per domnum Sichelmum adoptionis vinculo tuo iuri videor colligatus”. Non possono esistere dubbi: il legame con Drogo si realizza “per Sichelmum”, e solo così: non di filiatio si tratta, ma di adoptio/mancipatio! Anselmo non conosce personalmente Drogo e viceversa, ritenendosi tuttavia portatore del suo insegnamento (dirà altrove: “italica disiplina”) –attraverso Sichelmo– si presenta al ‘caposcuola’ di cotanto pensiero chiedendone l’autorevole patronato contro eventuali detrattori …del pensiero della Scuola più che della propria persona, sufficientemente protetta dal ruolo istituzionale.

c) Il terzo testo, posto a seguito della “Rethorimachia”, porta dati biografici generici e continua a non dare nessun indizio significativo per affermare che Anselmo abbia studiato a Parma sotto Drogone. Si tratta di una lettera scritta qualche tempo dopo dalla Francia per informare il ‘caposcuola’ ed i ‘condiscepoli’ del successo della sua operetta e, più ancora, dell’apprezzamento della dottrina coltivata ed insegnata alla Scuola parmense/emiliana.

EPISTOLA ANSALMI AD DROCONEM MAGISTRVM ET CONDISCIPVLOS DE LOGICA DISPVTATIONE IN GALLIA HABITA.

Droconi Magistrissimo et eius discipulissimis Ansalmus Gratia dei et vestra imperatorius capellanus. Magnificat anima mea dominum, quia exultavit spiritus eius in deo salutari suo. Magnificate et vos illum, quia exultavit vester Ansalmus in ipsum. A liberalibus enim vestris disiplinis cum ad capellam me contuli imperatoris et ex vestre philosophiæ otio cum seculari me dedi negotio, opus, quod apud vos [fonte “C”: nos] edidi, mecum ut precepistis detuli et universis in civitatibus quas in eundo perambulavimus vestris litteris aprobatum representavimus. Probanda cuius studia universa consonat Gallia, Burgundia, Saxonia, barbara quidem Frantia. Ex quis Maguntia tandem laudavit ingrata, Droconicam quidem sectam et penitus Italicam invidens disiplinam, tum in tanto opere iuventutem nostram retractans et adolescentiam.

Va notato anzitutto, e preso nella dovuta considerazione, lo stile ampolloso ed enfatico utilizzato in questa auto-celebrazione da parte di un altissimo dignitario imperiale (Cappellano) che si presenta ad un entourage di persone che non lo conoscono personalmente… e forse mai ne avevano sentito parlare prima. Il gusto discutibile della parafrasi dell’inizio del Magnificat è significativo del tenore e del ‘genere letterario’ del testo e deve guidarne l’interpretazione dando il giusto peso alle diverse affermazioni e ‘qualificazioni’.

La prima conseguenza di un tale stile riguarda l’uso enfatico dei pronomi personali con grande ambiguità tra “voi” e “noi”, al punto che non si capisce a chi si riferiscano; lo stesso dicasi degli aggettivi e pronomi possessivi.

Non di meno, sotto il profilo biografico non si trova nulla di più di un semplice “a liberalibus vestris disiplinis” che nulla dice né della ‘loro’ sede, né del loro Maestro. La “droconicam quidem sectam”, poi, non va necessariamente circoscritta alla sede parmense quanto, piuttosto, ampliata a comprendere legittimamente –così Anselmo ritiene– anche coloro che ad essa sono “colligati” attraverso i Maestri usciti da Parma. Il riferimento infatti è alla ‘setta’ e non alla Scuola come tale o al suo Maestro.

Il rimando, tuttavia, al ‘comando’ di Drogone (ut precepistis) pare effettivamente diretto al Maestro parmense che, dopo aver corretto ed emendato l’opera –secondo la richiesta della lettera a lui indirizzata–, ne avrebbe ‘sponsorizzato’ (vestris litteris) la presentazione nelle principali sedi culturali europee; questo non comporta però nulla di specifico dal punto di vista ‘geografico’ circa la sede di redazione dello scritto, né tanto meno dello studio effettuato ed è pienamente compatibile con la ricostruzione logica già prospettata.

d) Al di là degli esigui dati biografici che emergono nei testi citati, è però necessario effettuare una segnalazione che costituisce  una probabile –e non banale– novità in ambito giuridico, non segnalata ad oggi da alcuno (Gualazzini compreso): la ‘dedica’ della “Rethorimachia” all’Imperatore germanico si esprime con le stesse parole e categorie (Legibus et armis) della Costituzione “Imperatoriam Maiestatem” con cui Giustiniano aveva promulgato il testo delle “Institutiones” per le Scuole giuridiche di Costantinopoli, Roma e Beiruth nel 533; testo che non risulta trovarsi nelle diverse raccolte di “Novellæ (Constitutiones)” ma solo in apertura delle “Institutiones” stesse. Anche se, con evidenza, la sola citazione della Costituzione costituisce un dato troppo debole per affermare –per via solo deduttiva– la sicura conoscenza dell’intero testo giustinianeo… pur tuttavia ogni ulteriore elemento che rimandi a tale testo legale non potrà che dar forza alla deduzione stessa, confermandola, mentre ogni posizione contraria dovrebbe comunque farsi carico di un’adeguata spiegazione del fatto.

CONSTITUTIOIMPERATORIAM, Costantinopoli, 21 novembre 533

Anselmo da Besate: dedica della “Rethorimachia” all’Imperatore Enrico III

Imperatoriam maiestatem non solum armis decoratam, sed etiam Legibus oportet esse armatam, ut utrumque tempus et bellorum et pacis recte possit gubernari et princeps Romanus victor existat non solum in hostilibus prœliis, sed etiam per legitimos tramites calumniantium iniquitates expellens, et fiat tam Iuris religiosissimus quam victis hostibus triumphator.

Imperatoriam magestatem armis decorari et  Legibus, ut legimus, oportet armari, ut cum armis decorata tum et Legibus procedat armata.

Tu vero, Cesar inclyte, seminum fructus suscipe, quos in me sibi placuit seminare, ut sicut armis decoratus, sic et Legibus procedas armatus.

Come ben si vede, l’andamento dello scritto anselmiano è di assoluta omogeneità concettuale e soprattutto testuale a quello giustinianeo, ponendo una corrispondenza teoretica tra l’uso delle armi in tempo di guerra e del Diritto in tempo di pace, attribuendo altresì all’Imperatore il sommo grado di responsabilità nell’uno come nell’altro frangente. Cos’altro potrebbe inventarsi un (giurista) aspirante/neo Cappellano imperiale?

Non solo, tuttavia, il testo è ‘uguale’, ma si assiste pure ad una sostanziale ‘citazione’ dell’autorevole fonte attraverso l’inciso “ut legimus” con cui Anselmo rinvia senza dubbio al testo della Costituzione giustinianea. L’uso del “legimus” pare, poi, indicare non tanto una semplice conoscenza del testo (“ut tradunt”, “ut videtur”, ecc.) ma alla ‘lettura’ diretta ed immediata di un documento effettivamente posseduto e frequentato …come potevano ben essere le Institutiones Iustiniani in una ‘Scuola’ di Diritto romano.

1.3 Giudizio di Garfagnolo (1098)

Perché quanto appena illustrato sulla ‘conoscenza’ reggiana del Diritto giustinianeo non appaia troppo labile giova fare un ‘balzo’ avanti di mezzo secolo, sempre all’interno dello stesso ambiente socio-giuridico, verificandone il reale ‘spessore’.

Un elemento fattuale significativo per testimoniare la competenza giuridica romanistica a Reggio va rinvenuto nel c.d. Giudizio di Garfagnolo; in tale occasione infatti «abbiamo delle prove inequivocabili e dirette sulla conoscenza dei testi giustinianei agli albori dell’attività scientifica di Irnerio nel territorio reggiano e per opera di giuristi locali»:

ben cinque giuristi reggiani nel 1098 argomentavano fondandosi sul Diritto romano! E un Giudice di origine reggiana accetta per buone, in prima istanza, le argomentazioni svolte da uno dei contendenti sulla base del Corpus Iuris civilis!

Fu nella montagna reggiana, a Garfagnolo, che, dopo precedenti interventi da parte di Uberto da Carpineti e Bono da Nonantola,  l’Avvocato –reggiano– Eriberto e altri giuristi intervenuti citarono a favore del Monastero di S. Prospero brani tanto delle Istituzioni che dello stesso Codex giustinianeo, confermando come sia 

fuor di ogni dubbio che, diretta o indiretta che fosse, la conoscenza del Diritto romano era abbastanza diffusa nel reggiano almeno nell’XI secolo […].

Eriberto era evidentemente un cultore del Diritto romano se poté convalidare la propria tesi con testi giustinianei. È certo, infatti, che egli conoscesse le Istituzioni ed il Codice, dei quali rispettivamente citava il II, 6, 14 e il VII, 37, 1-3. Aveva intorno a sé altri “Causidici” del monastero che avevano analoga preparazione. […] E non soltanto può essere uscito dalla Scuola di Reggio l’Advocatus Abbatis, ma tutto il gruppo dei Causidici che con lui componevano il collegio di difesa. Con il Mor sottolineo la grande importanza della apparizione dei “patroni Causarum” (elemento caratteristico del Processo romano) che allegano testi giustinianei a difesa del proprio cliente. Si era fatto ormai un deciso passo avanti nel campo degli studi romanistici. E penso che proprio molta parte abbia avuto in ciò la Scuola di Reggio. Comunque è di notevole interesse la circostanza che il monastero reggiano di S. Prospero abbia avuti come legali Ubaldino, Eriberto, Giberto, Carbone e Frogerio che conoscevano il Diritto romano. Essi erano contemporanei di Irnerio e, senza avere le sue doti d’ingegno, certamente si erano accostati ai testi romanistici con interesse pari al suo…

per quanto senza l’apporto del suo specifico metodo (la Glossa), né la sua ricostruzione dei Libri legales, ma conoscendo e padroneggiando con sicurezza il Diritto (sostanziale) in essi contenuto, pur nella versione testuale allora disponibile. D’altra parte è risaputo che

la Scuola vescovile aveva relazioni culturali con il Monastero di S. Prospero, il quale ne premiò, una volta, perfino il Magiscola. Nulla di più logico, quindi, pensare che l’Avvocato sia uscito dalla Scuola dove, come si è visto, si conoscevano già le Istituzioni e il Codex oltre che altri testi romanistici.

Il duello giudiziale tenutosi a Garfagnolo è stato spesso utilizzato per ‘dimostrare’ (pro Bononia), proprio in quanto ‘duello’ e non ‘giudizio’, la sostanziale estraneità dei Giudici canossani al Diritto romano; osserva tuttavia Gualazzini che 

se si volesse eccepire che i due Giudici, uno di Carpineti, l’altro di Nonantola, erano restii completamente al Diritto romano, si direbbe cosa inesatta, perché, in fondo, Ubaldo in prima istanza aveva sentenziato a favore del monastero, che aveva certamente sostenute le proprie ragioni non solo per interpello e testi, ma anche suffragando la propria tesi con argomentazioni giuridiche, desunte certamente, come nella seconda fase del giudizio, dalla legislazione imperiale.

Non di meno

Bono, che pure entrò soltanto in sede di appello, ordinò la pugna solo in esecuzione all’ordine preciso espresso da Matilde. La funzione dei Giudici era, infatti, soltanto quella di constatare chi riusciva vincitore dalla sfida.

Va ulteriormente notato a questo proposito come la soluzione “per iudiciale duellum” imposta da Matilde ad una questione tanto annosa, appaia motivabile maggiormente per via ‘politica’ che non espressamente giuridica, come invece proposto dagli autori che intendono ‘confermare’ –o presuppongono– la carenza romanistica del tempo/luogo (“ignoranza dei Giudici”), o il “tradizionalismo della Contessa”. Propende –genialmente– per la soluzione ‘politica’, invece, chi considera l’assoluta necessità della Marchesa di mantenersi favorevoli e devoti coloro che (i ‘montanari’) le permettevano ed assicuravano i numerosissimi spostamenti inter-appenninici tra l’Emilia e la Toscana attraverso i valichi del loro territorio, come ben testimoniano le date delle diverse raccolte di Placiti e Giudizi matildici del periodo. In tale contesto il ‘duello’ manteneva la Marchesa fuori dai giochi di parte, né la si sarebbe potuta accusare di favorire i potenti (ecclesiastici) contro il diritto della povera gente di montagna che le si era sempre dimostrata fedele e devota …e le rimaneva necessaria.

Lo stesso Gualazzini scriveva come fosse «da tenere presente che il Diritto romano era considerato come il Diritto dell’Impero. Non è improbabile, quindi, che più profondi motivi di ordine politico avessero imposto un rigoroso rispetto all’uso locale», quando addirittura a non volere l’applicazione del Diritto romano non fossero stati proprio i Giudici marchionali cui volentieri rimanda il Mor. Nella linea ‘romanistica emiliana’ si colloca anche la lettura di Cortese secondo cui nei domini canossani «doveva essere invalsa di fatto la tendenza a preferire al sistema probatorio germanico quello romano» anche se la 

procedura ufficiale vigente nel Regnum Italiæ: il Capitolare italico di Ottone I, compreso nel Liber Papiensis, prevedeva [infatti] il duello come mezzo probatorio nelle cause “de investitura prædii” e ne estendeva espressamente l’uso anche ai Romani.

1.4 L’insegnamento romanistico-giustinianeo reggiano

Gli scritti di Anselmo da Besate, pur nella loro incidentalità riguardo agli studi giuridici reggiani, sono l’unica testimonianza dell’oggetto, qualità e metodo dell’insegnamento di Sichelmo, che va così ‘ricostruito’ dai pochi elementi colà emersi. Secondo il Gualazzini, Sichelmo «insegnava Diritto e Retorica insieme o, per essere più esatti, Retorica con particolare riguardo al Diritto e in genere a quelle Scienze che potevano essere utili alla cultura di un alto Funzionario di Corte».

È così che, dato il tenore delle affermazioni e delle nozioni/competenze giuridiche di Anselmo, pare pienamente ragionevole ipotizzare che Sichelmo insegnasse Diritto romano-giustinianeo!

Per quanto non soltanto, né in senso assoluto e, certamente, in un’ottica ben diversa da quanto accadrà dal secolo successivo a Bologna.

La già esaminata ‘dedica’ dell’operetta retorica all’Imperatore Enrico III ha infatti evidenziato tre elementi assolutamente significativi per sollecitare tale ipotesi: a) la descrizione di Sichelmo come qualificatissimo conoscitore di Editti imperiali (cioè Costituzioni giustinianee) oltre che grande ‘peroratore’ di cause giudiziarie, b) la dimestichezza, almeno concettuale, con l’attività ‘legislativa’ –di per sé ancora scarsissima nella coeva pratica di governo–, c) l’imprevedibile familiarità col vocabolario giustinianeo, tale da dover ipotizzare qualcosa di più concreto di semplici modi di dire o frasi fatte, rimbalzate lungo i secoli per inerzia retorica o in derivazione dall’attività notarile; elementi che, se certamente estranei alla cultura longobarda, non di meno non possono ragionevolmente venir riferiti ad una ‘romanità’ di stampo teodosiano come quella generalmente indicata quale standard italico settentrionale pre-bolognese.

Non va poi sottovalutato il fatto che le Institutiones fossero proprio il testo stabilito per Legge per lo studio/insegnamento istituzionale del Diritto romano-giustinianeo nelle Scuole imperiali; in tal modo la conoscenza a Reggio della Costituzione Imperatoriam Maiestatem appare quanto meno coerente con l’attività di chi, come Sichelmo, insegnava proprio tale Diritto; non per nulla una delle questioni cui si dedicarono i summi Doctores bolognesi del XIII sec. fu proprio quella della ‘legittimazione’ –almeno ‘regia’– dell’insegnamento del Diritto …questione che li vedeva di fatto parificati a qualunque altra sede scolastica europea.

A ciò si aggiungano le considerazioni del Gualazzini sull’inventario dei libri della Cattedrale reggiana che risultava contenere:

ben tria volumina inchiridion, cioè tre enchiridia, manuali scolastici probabilmente di istituzioni giuridiche, libri di “collectiones sententiarum”, di regulæ (sia pure canoniche), un Liber quæstionum. Chi ha pratica di Diritto romano ben sa che quelle erano le forme tipiche con cui veniva studiato il Diritto civile e quello onorario nelle Scuole imperiali romane.

Nella stessa linea anche la (prima) lettera a Drogone, Maestro parmense, evidenziava la dimestichezza di Anselmo con Istituti giuridici espressamente romanistici come la adoptio, anche se non esclusivamente giustinianei come la mancipatio, attraverso cui gestire in modo ‘straordinario’ il legame di filiazione/familiarità.

A questi inequivocabili elementi, il Gualazzini affiancava anche la meticolosa lettura di una pseudo-Costituzione giustinianea dell’XI sec. “De libellis accusatione” –contenuta oggi nella c.d. Glossa di Colonia (Codice italiano 328)– da lui accreditata allo stesso Anselmo da Besate quale esercitazione ‘scolare’, a dimostrazione dell’abilità giuridica acquisita. Tale scritto evidenzia una

precisione innegabile nella fraseologia giuridica che risente della consultazione diretta di testi di Diritto, specialmente delle Istituzioni giustinianee (III, V, 14, 15) e dell’Epitome di Giuliano (Iul. LXXXIX, 1). […] La pseudo-costituzione è, infatti, proprio presentata sotto forma di “imperiale Edictum” e contiene “legalia Iudicia”; e inoltre numerosi vi sono i riferimenti alle azioni desunte dal Diritto romano.

Continua Gualazzini:

è positivo che Sichelmo sia stato Maestro di “imperialia Edicta” e che il suo insegnamento sia stato, specie per la procedura, di efficacia non comune. […] Mi pare ancora possibile ritenere che la pseudo-costituzione “De libellis accusatione” abbia come autore uno degli appartenenti alla Scuola reggiana, che potrebbe essere Sichelmo, ma che potrebbe essere anche Anselmo il Peripatetico, suo scolaro in Reggio.

Il particolare pone in rilievo il metodo d’insegnamento di Sichelmo, ben lontano da quello che maturerà vari decenni dopo a Bologna: non la Glossa –ch’è lavoro da filologi– ma la creazione di ‘nuovi’ testi rispondenti alle necessità giuridiche in corso, come s’addice al giurista che deve operare risolvendo problemi concreti. In tal modo nella canossana Reggio Emilia, in piena Lotta per le investiture –con la relativa produzione di Costituzioni, Decretali e Capitolari falsi–, si apprendeva

a redigere trattatelli giuridici sotto forma di Costituzione, a comportarsi nel procedimento giudiziario […] non è certo solamente retorica la creazione di pseudo-Costituzioni. Mirava anche a dare nozioni di tecnica legislativa e a preparare i giovani all’ars judicandi. La Retorica è caso mai mezzo, non fine della Scuola reggiana. E Anselmo lo sottolinea proprio all’Imperatore del quale era o voleva essere Cappellano. E i rapporti fra Cappella e Cancelleria imperiali sono ben noti per non offrire motivi di particolare rilievo anche nel nostro caso.

Gualazzini non ha dubbi –anche al di là della pseudo-costituzione giustinianea– nell’affermare che Anselmo avesse chiare conoscenze di Diritto romano tanto [a] nello scrivere a Drogone (mancipatio) che [b] nella “Rhetorimachia” in cui «ha chiare allusioni alla traditio, alla donatio ante nuptias a brani dell’Epitome di Giuliano in materia di matrimonio e di ripudio della moglie, e così via». Allo stesso tempo l’autore non esita «nel ritenere che sia il “Burchardus”, sia gli “enchiridia”, sia il “Papia”, che sicuramente esistevano nella biblioteca della Cattedrale di Reggio fossero gli strumenti principali dell’insegnamento del Diritto romano», insieme «ai testi giustinianei allora circolanti, le Istituzioni e le Novelle, queste ultime note probabilmente nella versione parziale dell’Epitome Iuliani».

Ne deriva conclusivamente che 

è da mettersi in dubbio, dunque, l’affermazione categorica del Ficker che la zona matildica fosse estranea all’influenza romanistica anche se l’agnosticismo ufficiale dei Tribunali la può, quasi, giustificare. Ma, invero, chi può ancora ritenere che le conoscenze dei testi di Diritto romano fossero estranee alla Scuola, perchè di Scuola giuridica reggiana nella seconda metà del secolo XI nessuno ha mai parlato? Non si può negare che una Scuola giuridica esistesse. Le prove e le fonti non ammettono dubbi!

Per contro, secondo gli studi del Gualazzini, «in Parma si è estranei al movimento romanistico»; ciò tuttavia potrebbe ragionevolmente affermarsi solo sotto il profilo giuridico-didattico e non dal punto di vista della concreta vita e prassi giuridica, trovandosi Parma in condizioni sostanzialmente uguali a quelle reggiane dal punto di vista storico e socio-culturale, per quanto molto più defilata rispetto all’amministrazione canossana e di ferma impostazione ‘imperiale’ (v. infra).

Nel suo presentarsi, poi, all’Imperatore «Anselmo sottolinea l’enorme importanza delle Leggi come difesa e presidio dell’Impero», in tal modo egli, richiamando l’attenzione su di sé e la propria specifica preparazione giuridica, «consiglia al Monarca di usare della sua preparazione legislativa per procedere armato di Leggi, come lo era di armi», prospettiva non certo evidente alla mens germanica, quanto –invece– a quella romana. È per questo che Anselmo ci tiene a «far sapere di essere un buon conoscitore della tecnica legislativa in quanto aveva avuto un Maestro insigne al riguardo, quale era Sichelmo, abilissimo in imperialibus suis Edictis, cioè a stendere suoi Editti imperiali»; non appare pertanto motivabile «perché Anselmo non potesse vantarsi di essere stato allievo di un buon conoscitore delle tecnica legislativa».

Le Scuole vescovili non preparavano semplicemente dei sacerdoti, ma preparavano persone in grado di occuparsi della vita amministrativa e della Chiesa e dell’Impero. […]

Che cosa [d’altra parte] si richiedeva al Cappellano o al Cancelliere? Di conoscere bene la Teologia, o la Liturgia? Erano, questi, elementi di non eccessivo interesse, nei confronti delle attività preminenti che erano affidate ai funzionari di corte, attività che consistevano, il più delle volte, nella redazione dei Documenti o Diplomi imperiali, nella redazione dei provvedimenti legislativi, nella stesura delle Lettere imperiali e in genere nel concepimento di atti amministrativi ove occorreva, unito a una certa cultura generale, un non piccolo bagaglio di nozioni giuridiche.

Tali prospettive, per quanto generali, vengono rinforzate anche da chi –pur contrario ad elementi così specifici– ammette doversi

ritenere veri e propri insegnamenti di Retorica, con particolare riguardo al Diritto, senza che per altro si possa pensare all’esistenza di “Studia” organizzati e stabili: si tratta di corsi, chiamiamoli così, di perfezionamento rampollati presso le Scuole locali del Trivio, che talvolta potevano assurgere ad alta fama, ma che molto spesso avevan rinomanza solo cittadina. […] Insegnanti di Diritto, dunque, per un tempo più o meno lungo, e in diverse città, tanto nell’Emilia quanto in Toscana: fenomeno che se proprio non è il più adatto per semplificare il problema della ripresa romanistica del secolo XI, è indice di una vivacissima attività didattica e scientifica, e, sopra tutto, di una sostanziale modificazione dell’ambiente giuridico italiano in quel secolo.

Quanto basta come prima ‘cornice’ di plausibilità per l’ipotesi prospettata.

2 Le circostanze

Come già scriveva C.G. Mor all’inizio degli anni Cinquanta: «il fenomeno delle revivescenza del Diritto romano, come è universalmente risaputo, è [più] complesso e frutto di una lunga evoluzione, anzi una confluenza di molteplici fattori»; proprio ad una parte di questi si dedicherà ora specifica attenzione, in modo particolare per l’area geografico-socio-politica reggiana/canossana, a fondamento e sostegno dei ‘fatti’ già riportati e come plausibile contesto ed ulteriore corroborazione dell’ipotesi proposta.

2.1 Circostanze reggiane

2.1.1 La Reggio d’inizio millennio

La cornice in cui Sichelmo si trovò ad operare a Reggio era certamente una cornice istituzionale molto particolare in materia giuridica, che offriva elementi specifici di grande respiro e significato, legati al territorio come tale e che devono essere opportunamente valutati per coglierne l’effettiva portata e la legittima ‘autonomia’ –anche tecnica– rispetto alle altre città emiliane o lombarde.

È ancora il Gualazzini ad affermare, non inutilmente:

un particolare che non va dimenticato […] è che su Reggio, posta al centro della zona precollinare, convergono tutte le valli in cui più saldo era il dominio matildico. […] Da Reggio poi si dipartono le vie per l’oltre Po, dove pure Matilde aveva beni e terre. Reggio era, quindi, si può dire il centro della giurisdizione matildica che aveva un suo mondo e una sua organizzazione.

La città di Reggio va poi considerata secondo alcune altre caratteristiche di tutta peculiarità, spesso ignorate dagli autori non locali.

a) Prima tra tutte, il suo lungo rapporto col mondo bizantino, in riferimento al quale è necessario considerare una vera ridondanza di relazioni ed influssi, tanto di provenienza ravennate che –e forse molto maggiormente–  tosco-ligure’. 

- I legami con la Ravenna imperiale pre-barbarica sono evidenti nella titolazione di alcune chiese dedicate a S. Apollinare fin dal V secolo: l’attuale S. Lorenzo in Sant’Agostino di città, già dedicata a Sant’Apollinare e sede presunta, durante la dominazione longobarda di fede ariana, del Vescovo cattolico, le chiese parrocchiali di Ginepreto (Castelnovo ne’ Monti), Cadiroggio (Castellarano) e Casteldaldo (Carpineti). Il legame ravennate della città di Reggio è testimoniato ancora vivo a livello giuridico nel X secolo sotto il profilo eminentemente ecclesiastico:

Ottone III, nel 998, avrebbe riconosciuto la giurisdizione dell’Arcivescovo di Ravenna sull’Episcopato reggiano secondo un Decreto: “præceptum de Regiensi Episcopatu cum omnibus sibi adiacentiis a venerabile Othone tibi tuaque Ecclesiæ tuisque successoribus attributum confirmamus… ut teneas, defendas, regas et ad Dei honorem tam tu quam tui successores libere ordinetis”. Nel 998 Ottone avrebbe confermato alla Chiesa di Ravenna “Episcopatum Regiensem cum dono et consacratione sicut nos ipsi Ecclesie per preceptum nostrum in perpetuum confirmamus et tradidimus” [in G. TIRABOSCHI, Memorie storiche modenesi del Codice IV. Ottonis III Diplomata, Modena, 1793, Diplomatico, in MGH Scriptorum, nn. 330, 341].

Questo, però pare non poter influire sotto il profilo della conoscenza delle fonti giustinianee, in quanto Anselmo da Besate, pur parente dell’Arcivescovo Giovanni di Ravenna (non certo priva di cultura romanistica, come dimostra Pier Damiani), venne invece a studiar Diritto proprio a Reggio. Giova per di più notare –non senza perplessità!– come proprio nell’opera che più di tutte avrebbe dovuto fruire con dovizia del Corpus legislativo imperiale, la “Defensio Henrici IV Regis” (attribuita a Pietro Crasso) composta negli ambienti filo-imperiali ravennati nel 1080 l’interesse per il Diritto (imperiale) ‘antico’ risultasse ancora scarsamente presente, distinguendosi –invece(!)– per l’uso del Diritto privato romano (di derivazione ‘istituzionale’ o ‘codiciale’) al fine di sostenere il principio dell’ereditarietà dell’Impero ed ignorando il Digesto.

- L’influsso bizantino in terra reggiana, per contro, si era rafforzato sensibilmente dalla conclusione delle guerre greco-gotiche (535-553) quando l’intera Pianura Padana ritornò sotto il dominio greco-romano fino all’invasione longobarda della fine del VI sec., continuando però, ancora per decenni, un andirivieni di giurisdizioni tra Bizantini e Longobardi, soprattutto nella parte montagnosa dell’Emilia la quale mantenne un proprio –nuovo– legame alla giurisdizione bizantina attraverso i valichi appenninici tosco-emiliani verso la “Provincia maritima Italorum”, definitivamente debellata solo da Liutprando intorno al 720!

In questa prospettiva, anche se si è generalmente concordi nell’escludere la conoscenza diretta della “Pragmatica Sanctio” del 554 in terra emiliana, non si può tuttavia trascurare come l’intero Corpus legale giustinianeo fosse già stato promulgato in Italia per via edittale nei decenni precedenti, come ricorda la stessa Costituzione del 554 al num. 11: «Iura insuper vel Leges codicibus nostris insertas, quas iam sub edictali programmate in Italiam dudum misimus». Il ristabilimento del dominio bizantino sull’Italia attraverso le guerre greco-gotiche l’aveva resa a tutti gli effetti terra di Diritto giustinianeo; tanto più che l’invio della “Pragmatica Sanctio” sia al Prefetto d’Italia Antioco che al capo delle milizie bizantine Narsete ne aveva fatto il fulcro del consolidamento della ‘nuova’ giurisdizione.

La salda presenza bizantina nella Versilia, nella Lunigiana e nella Liguria dei secc. VI e VII –e VIII– ed il loro forte legame con le terre emiliane e del basso Piemonte –che fecero a lungo da cuscinetto settentrionale tra la Provincia maritima Italorum e gli invasori Longobardi lungo il c.d. “Limes di Costanzo” che allineava le Alpes Maritimæ/Cottiœ a quelle Apenninæ, è dunque favorevole per ammettere più che ragionevolmente non solo una –almeno– blanda conoscenza del Corpus giustinianeo ma un suo effettivo utilizzo e radicamento nel cuore del dominio canossano quale Diritto ininterrottamente vigente per quasi due secoli.

Si manifesta così del tutto inverosimile la presunta completa ‘scomparsa’ del Diritto giustinianeo con la caduta italica in mano longobarda, come la prospettiva ‘filo-bolognese’ ha sempre avuto interesse a sostenere.

Non di meno,

non va dimenticato che ai tempi di Giustiniano i Longobardi erano stati a lungo in contatto con la civiltà romana, erano divenuti milites fœderati e come tali avevano ottenuto in ‘dono’ dall’Imperatore la città di Norico e le fortezze della Pannonia. Nella regione erano rimasti secondo Paolo Diacono ben 42 anni dimostrandosi sottomessi all’Imperatore, avevano partecipato sotto le bandiere bizantine alla guerra di riconquista dell’Italia e persino dopo l’invasione del 569, precisamente nel 575, un grosso contingente era tornato a combattere sotto le insegne imperiali contro i Persiani, riprendendo il mestiere della militia fœderata

…ponendosi così nella condizione di adottare come base romanistica proprio il Corpus giustinianeo appena promulgato, al punto che «Paolo Diacono, lo storico dei Langobardi, […] nella sua Historia, descrive minutamente la raccolta giustinianea» e –particolare non insignificante– le sue stesse fonti …fatto non evidente se si vuol escluderne una conoscenza diretta negli ambienti longobardi. Ciò, per contro, non rende affatto agevole l’assunzione del presupposto vulgato che le Leggi romano-longobardiche fossero di origine/referenza teodosiana come era stato, invece, per quelle gotiche.

b) La città di Reggio, inoltre, ha sempre nutrito un forte spirito autonomistico rispetto a territorio e regnati e l’appartenenza al dominio canossano non ha certamente impedito una auto-strutturazione a livello civile-municipale, per quanto sotto il costante –stretto– controllo vescovile, come ben testimonia il Diploma di Corrado II (maggio 1027) col quale non solo si confermava al Vescovo cittadino la giurisdizione sulla città e sul distretto entro quattro miglia, ma la si allargava

sulle terre dell’Episcopato: “per omnes cortes totius Episcopatus Regiensis ubicunque terra Ecclesie ipsius” e concede il potere “duellum iudicandi, Legem et iustitiam fatiendi et quidquid alius regalibus Missis concessum est Regibus vel Imperatoribus faciendis.

Ciò si concilia perfettamente coi dati –locali– circa la prima strutturazione municipale ‘autonoma’(per quanto non ancora rispondente alla nozione di ‘libero Comune’) datata –comunque– prima di quella di Firenze, la cui analoga situazione vien fatta risalire almeno al 1063.

La presenza di giuristi con funzione ‘locale’, d’altra parte, sarebbe provata a Reggio già dal X secolo con Lodovico III e ribadita con Ugo e Lotario; poiché –pare logico ammetterlo–

il Diritto di giurisdizione non era esercitato direttamente dal Vescovo, ma per mezzo di persone a conoscenza del Diritto […] par logico il pensare che il Vescovo cercasse di facilitare la istruzione dei suoi dipendenti [i “suis”], come d’altronde succedeva un po’ dappertutto, per avere vicino a sé personale istruito e fidato a un tempo.

La situazione, per di più, non risulta affatto contraria al contesto giurisdizionale e politico canossano il cui interesse privilegiava le aree extraurbane, le curtes, i castra, i monasteri e le grandi vie di comunicazione (nord-sud), riservando alle città –spesso già affidate al potere comitale del Vescovo– una mera funzione residenziale e di rappresentanza, mantenendo così gli ‘occhi indiscreti’ ben lontani dalle fortezze appenniniche che costituivano il vero cuore di tale dominio.

In questo nuovo contesto cittadino, davvero ‘rinascimentale’, in cui stavano ormai mutando attività, modalità, percezioni e concezioni della vita sociale, politica ed economica, anche i consunti strumenti giuridici ‘volgari’ abbracciati –a modo loro– dalle prime popolazioni barbariche cominciavano a mostrare le proprie gravi insufficienze; per contro, invece, la straordinarietà dell’impianto istituzionale e normativo giustinianeo appariva sempre più come risorsa plausibile ed adeguata.

Essendo imperniato sulla città, il Corpus Iuris civilis –piegato e aggiornato alle esigenze della nuova realtà istituzionale– avrebbe risposto bene all’impellente necessità della società comunale di dotarsi di un ordinamento congruo e differente da quello feudale. A Reggio come altrove, toccò ai giuristi e ai glossatori mettere in dialogo l’antico Diritto di Giustiniano con la realtà dei secoli XII e XIII, traslandolo in una “normativa del presente, suscettibile di concreta applicazione e utilizzabile nella prassi del tempo”. 

Puntellarsi a un funzionariato abilissimo nell’impiegare questo instrumentum regni, allo stesso tempo strumento di difesa e di offesa (nonché di mediazione sociale), diventò imperativo. Le Scuole di studi giuridici, dove i pubblici ufficiali avrebbero appreso a conoscere e utilizzare il Diritto romano, divennero allora indispensabili a garantire un futuro all’istituzione comunale. Per questa ragione, una volta raggiunta una riconosciuta ossatura istituzionale con la pace di Costanza (1183), molti comuni –e, tra questi, Reggio– diedero vita a uno Studio cittadino;

le cui basi, però, erano già radicate nella profondità di oltre un secolo di efficace pratica e docenza, per una (micro-)società che stava già battendo il ritmo dei nuovi tempi.

2.1.2 Le proprietà private canossane

Altra circostanza –in realtà non– propriamente ‘locale’, e forse unica in Europa (e per questo ignorata dalla maggioranza degli autori, o scarsamente considerata), ma dalle grandi conseguenze pratiche in campo giuridico era la natura fortemente ‘allodiale’ del dominio canossano:

le giurisdizioni erano giunte a Bonifacio attraverso l’appoggio degli Imperatori, in special modo di Corrado il Salico; ma la potenza dei Canossa si era sempre basata sulla combinazione dei diritti avuti dai sovrani con le consistenti proprietà allodiali, cioè private, della famiglia.

I signori di Canossa infatti, a differenza dei ‘signori’ coevi, non erano semplici ‘concessionari’ ma veri padroni di una parte significativa dei propri possedimenti, non avendoli ricevuti per via di vassallaggio feudale ma per ‘acquisto’ (non sempre e solo lecito) o per eredità o per matrimoni. Il Casato dei Canossa, infatti, aveva ampliato i propri beni principalmente attraverso l’acquisto di terre o la permuta di beni e/o diritti cercando di cedere beni sparsi, in favore della creazione di un consistente nucleo di proprietà ‘privata’.

Con una serie di spericolate operazioni di permuta –tutelate in prima persona persino da Ottone I– e con pochi documentati acquisti, Adalberto Atto cedette a chiese e a monasteri piccoli e produttivi possessi, frammentati e sparsi però, fra il medio e il basso Appennino modenese e reggiano, per ottenere in cambio ampi beni patrimoniali, scarsamente produttivi perché vi dominava l’incolto, soprattutto boschi e paludi, strettamente coesi, però, e strategicamente rilevanti per diversi ordini di motivi. La collocazione, in primo luogo, a ridosso delle sponde del Po, che garantiva il controllo della più grande arteria di mobilità di uomini e merci dell’Italia del nord; la costante presenza di castelli nelle terre acquistate che ne facevano luoghi forti dal punto di vista militare ma pure politico, perché costituivano i punti saldi delle nascenti signorie di banno e infine, ma in modo strettamente correlato, la stessa conformazione ancora incolta di quelle terre che, in anni di sviluppo demografico ed economico quali quelli furono, garantivano la disponibilità di masse di uomini disposti a correre il rischio di investire sul futuro, per sottrarsi ai canoni sempre più gravosi delle aree restate sempre coltivate dell’alta pianura e delle prime colline, disposti a scommettere, insomma, insieme con il nuovo signore, sulla messa a coltura di nuove terre, svincolate dai poteri tradizionali più forti.

Beni allodiali si trovavano così in quasi tutti i territori di Reggio, Modena, Mantova, Brescia, Cremona, Ferrara, oltre che nelle Contee di Verona e di Parma, in Romagna, in Toscana e addirittura in Lorena, in quanto la madre di Matilde –Beatrice– era originaria di quel paese.

Era sicuramente una delle maggiori proprietà private europee! Al punto che:

alcune fonti lo [Bonifacio] chiamano “Marchese”, non perché egli avesse giurisdizione su una Marca (regioni molto estese, poste ai confini dell’Impero o in zone strategicamente delicate), ma per indicare la vastità del suo dominio, che il solo titolo di Conte non sarebbe stato in grado di dimostrare.

 Solo per avere qualche idea in merito alla portata patrimoniale cui ci si riferisce basti pensare che il 14 maggio del 1044 Beatrice di Lorena –seconda moglie di Bonifacio di Canossa– comprò sei curtes per un totale di 5.900 iugeri, mentre nel 1010 Richilde –prima moglie di Bonifacio– ne aveva acquistate il doppio (dodici curtes) per l’estensione approssimativa di 8.000 iugeri.

Si è parlato in proposito di un ‘principato’ ma tale modello non pare adeguato, dovendolo riferire con maggior appropriatezza a situazioni più proprie dell’ambito germanico, di natura più specificamente feudale; per i Canossa si è trattato, secondo insigni studiosi, di una dinamica molto differente in cui il bilanciamento tra proprietà e giurisdizione ha assunto una forte specificità, alla base della quale sembra possibile/necessario individuare la peculiare matrice longobarda della concezione della proprietà e del potere, caratterizzato da una netta propensione per la proprietà diretta (allodiale) piuttosto che per il sistema beneficiale commendatizio ‘germanico’ in cui la fides dei feudatari inferiori veniva compensata con la concessione di beni fondiari dati in utilizzo secondo diverse modalità, non sempre riconducibili pienamente all’usufrutto ‘classico’. Quanto accaduto in occasione della creazione del Regnum Italiæ nelle mani di Autari nel 584 è inequivocabile: furono infatti i trentacinque Duchi longobardi a ‘dotare’ patrimonialmente il loro Re con l’attribuzione alla corona della metà dei loro possedimenti. Presso i Longobardi, infatti, erano le diverse faræ (clan/dinastie/Casati) a possedere il proprio territorio, occupato ed acquisito manu militari e quindi a titolo funzionalmente originario; per Franchi e Sassoni, invece, era il Re ad essere titolare della terra su cui il popolo era insediato ed a concederne la commenda ai Vassalli attraverso l’attribuzione di varie facoltà di fruizione e giurisdizioni.

La sottomissione, in realtà meramente amministrativa, alla dominazione dei Franchi di quello che era comunque rimasto il Regnum Italiæ non aveva molto interferito con la strutturazione interna delle diverse entità socio-politiche longobarde che avevano progressivamente associato al loro precedente status le nuove attribuzioni giurisdizionali di matrice imperiale franco-sassone-sveva.

Nessuna meraviglia, quindi, che la stirpe canossana (longobardica) non solo possedesse de suis ampie proprietà terriere ma avesse attuato un articolato progetto di sviluppo patrimoniale di portata davvero eccezionale, almeno per il territorio italico. Lucca, Parma, Canossa, Mantova, Brescia, Verona, una successione di territori, tanto in piena proprietà che in gestione diretta (enfiteusi e ‘livelli’), gettati come un ponte da sud a nord lungo un corridoio aperto verso il cuore dell’Europa imperiale: dal Passo dell’Abetone verso il Brennero senza attraversare la proprietà o la giurisdizione di nessun altro; con altrettanta libertà –a sud dell’Appennino tosco-emiliano– di raggiungere Roma sempre autonomamente, al punto che, tranne che via mare, nessuno dal centro dell’Europa avrebbe potuto raggiungere la Sede pontificia romana se non col permesso dei ‘da Canossa’ che per decenni decisero –anche– chi fosse il ‘vero’ Papa proprio col loro accompagnarlo attraverso l’Italia fino alla sede petrina (ducatus Papæ). E fu proprio questa solidissima base patrimoniale ‘autonoma’ ad offrire –quasi a posteriori– i presupposti per il salto di qualità nella scala gerarchica del tempo, quasi esigendo la creazione di un vero e proprio Comitatus canossano laddove –nel cuore dell’Emilia– tale potere non aveva lunga storia o appariva poco più che formale nella sua collocazione modenese… ma come lasciar ‘sciolto’ sotto il profilo politico e giurisdizionale un tale centro autonomo di ricchezza e potere?

Atto formò in tal modo un consistente patrimonio terriero, che non comprendeva per il momento le città sedi del Conte-Vescovo, ma che era sufficiente a permettergli di chiedere la nomina di Comites. A partire dal 962 la figura di Conte per i territori di Modena e di Reggio riappare, dunque, nella persona di Adalberto Atto. Veniva a crearsi nel cuore del Regno italico una nuova potenza che sin d’ora, con le precedenti acquisizioni e proprietà in Garfagnana, veniva ad occupare una posizione interregionale strategica nel territorio italiano. Godeva infatti del possesso di due passi appenninici tra i più importanti (Radici e Pradarena) su cui transiteranno spesso Papi e Imperatori.

Fu così che, imprevedibilmente, Adalberto Atto nel gennaio 962 venne nominato Conte da Ottone I… Conte ad personam, senza un territorio, senza un preesistente Comitatus di riferimento. La significativa anomalia durò solo pochi mesi poiché ben presto ci si riferì a lui come “Conte di Reggio e Modena”, ponendo così in risalto che il vero centro del potere andava individuato nella potenza economica –personale– canossana (Reggio), prima che nelle istanze politiche (Modena).

Una logica, dunque, del tutto ‘inversa’ rispetto a quella feudale ordinaria: là infatti, per motivi fiduciali personali, si riceveva dapprima una giurisdizione, si esercitava così un dominio e si acquistavano poi, poco alla volta, beni sul territorio ‘amministrato’, poi ‘esenzioni’ (giurisdizionali e tributarie), fino all’ereditarietà dello stesso feudo ed alla conseguente configurazione del potenziale ‘Principato’ o ‘Signoria’; per i Canossa, invece, si partì dal proprio potere oggettivo –economico e pertanto anche militare– per ricevere giurisdizioni che confermarono la stabilità (e legittimità formale) di quanto già esistente in modo autonomo; l’intervento di Adalberto Atto nel 951 per accogliere e difendere la Regina Adelaide sfuggita da (Re) Berengario ne è la chiara riprova: chi, senza un’autentica forza propria –effettiva e riconosciuta–, avrebbe potuto sfidare in tal modo il nuovo regnante?

Non diversamente fu per Matilde contro l’Imperatore stesso… che uscì sconfitto proprio sui campi di battaglia delle colline reggiane.

Occorre poi non dimenticare come il ‘modello canossano’ non si limitò al solo possesso agrario ma, originando specificamente da esso, assunse le caratteristiche della gestione fondiaria diretta, traendo le maggiori risorse dalle proprie attività di conduzione agraria, prima che dall’imposizione di pedaggi e tributi, com’era per la comune struttura feudale commendatizia. I Canossa, cioè, disponendo già di una propria efficiente struttura fondiaria, prendevano volentieri in gestione patrimonio agrario appartenente ad enti ecclesiastici lontani (monasteri, canoniche, Capitoli, ecc.) pagando loro una rendita contrattuale (enfiteusi o livello) ma esercitandone in prima persona la conduzione attraverso personale proprio o vassallatico, come se si trattasse di beni propri. Un’immensa macchina gestionale ed amministrativa che andava dall’attività portuaria sul Tirreno e lungo il Po all’allevamento, dalla coltivazione cerealicola alla fienagione, dalla gestione boschiva all’edilizia civile, religiosa e militare di corti, borghi, castelli e monasteri, in cui accumulare e difendere i proventi –non solo economici– di tali attività. Proventi nuovamente investiti in acquisti produttivi, o nel soldo dei miliziani e mercenari necessari per tutelare tale mole d’interessi ‘privati’, o nella creazione di istituzioni religiose (monasteri e canoniche) attraverso cui (continuare a) presidiare politicamente i territori maggiormente strategici, soprattutto se a grande distanza. Non per nulla Enrico III ostacolò in ogni modo l’unione dei “da Canossa” con la dinastia di Lorena (sostenuta invece dal Papato proprio come ‘bilanciamento’ a lui favorevole verso la crescente potenza imperiale sveva), temendo la creazione di un vero ‘regno’ nelle mani di Goffredo il Barbuto, all’interno dell’unico Regno (l’Impero) che avrebbe dovuto esistere.

Una tale complessità di rapporti fondiari, commerciali, economici e patrimoniali (permuta di beni con rendite, o giurisdizioni, o diritti reali), se da un lato anticipava di fatto il risveglio socio-culturale che avrebbe attraversato l’intera Europa dal XII secolo, dall’altro poneva già l’irrinunciabile necessità di disporre anche di adeguati strumenti per il suo ‘governo’ quotidiano. Tali strumenti non potevano ormai più ridursi a quelli (‘primitivi’) dei fondatori del Casato, non potendo rischiare –proprio ora– la distruzione di corti, borghi, monasteri e città e dei loro comparti produttivi; alla forza delle armi e del fuoco dovette sostituirsi quella, non meno efficace, del Diritto… molto più adatta a consolidare lo status quo del Casato canossano all’interno delle mutanti situazioni sociali e politiche, oltre che a tutelare in ogni senso il nuovo ‘valore’ ormai consolidatosi: il patrimonio produttivo.

In tali innovative condizioni non erano certo fruibili né le Consuetudini dei popoli germanici, né le loro ‘Leggi’ –la salica, la longobarda–, così come non ci si potevano attendere importanti ausilii dalle diverse Leges romano-barbariche (teodosiano-gotiche), che in precedenza avevano garantito l’interfacciabilità funzionale tra le differenti popolazioni vetero e neo-europee; la complessità di una società evoluta come quella canossana dell’XI secolo necessitava di strumenti giuridici di prim’ordine e di grande efficacia quali solo la perfezione tecnica del Diritto giustinianeo poteva assicurare. Tanto più che proprio tale ‘ceppo normativo’ si era conservato in discreta forma –seppure prevalentemente su alcuni specifici ambiti (come il Diritto ‘canonico’ e quello privato)– nell’uso della Chiesa, che anche lungo l’Alto Medioevo aveva continuato ad applicarlo in quanto tendenzialmente favorevole ai suoi interessi; la rinascenza canonistica connessa alla Riforma ecclesiale già dal IX sec. ne offriva poi ampi stralci alla società del tempo, come ben dimostrano la “Lex romana canonice compta” o la “Collectio Anselmo dedicata”.

Ecco, allora, il ruolo irrinunciabile che dovettero avere nella logica canossana i giuristi della prima metà dell’XI secolo:

in tutto consapevoli della “fonction quasi-architectonique” del Diritto, alle prese con la disposizione di una sorta di criterio riordinatore e unificatore del Diritto, ordito in consonanza alle esigenze di governo dei Canossa.

Questo manipolo di pratici del Diritto, che vantavano una formazione retorico-giuridica, incarnò dunque la “rinascita” del Diritto romano; ne fu, per così dire, l’anima nascosta. Nelle regioni canossane si stava insomma iniziando a pensare in grande, perché grandi erano del resto i poteri stessi esercitati dalla Casata, che, qualsiasi aspetto esibissero (delegati, signorili o feudali), andavano disponendosi su di un patrimonio di beni impressionante per estensione areale e giurisdizionale. Più o meno occultamente, si stava assistendo così alla definizione di un organismo statuale […] che dalla Toscana, dall’Umbria perugina e dal Lazio settentrionale si spingeva verso l’Emilia occidentale, la Romagna, la Lombardia cremonese, mantovana e bresciana e il Veronese. In ogni modo, un sistema di domini “cresciuto fino a rivaleggiare […] col potere stesso imperiale.

Su di una fetta d’Italia in tal misura consistente, la squadra di Giudici matildici rivestì il ruolo di agente connettivo, traducendo il governo della giustizia nel collante fondamentale per innervare e amalgamare le circoscrizioni in cui si articolavano i patrimoni canossani. La giustizia diventava il mezzo per informare i territori sottomessi a una stessa ratio giuricentrica di orientamento romanistico, il cui scopo era di superare la frammentazione dei Diritti particolari in favore di un’uniformità giuridica. Si passava dalla personalità –e dalla pluralità– del Diritto alla sua applicazione su base territoriale: la Lex romana, che era stata trasformata anch’essa in Diritto etnico in età altomedievale, tornava a essere omnium generalis.

2.1.3 La politica canossana

L’utilità –e/o necessità– di una profonda e competente conoscenza del Diritto romano nelle terre canossane si poneva tuttavia anche per motivi prettamente ‘politici’.

Di fatto un governo com’era quello di Beatrice di Lorena –e sarà poi quello di Matilde– interessato, oltre che a se stesso, anche alla causa della Riforma della Chiesa ed al sostegno dei diritti e delle proprietà ecclesiali contro la crescente logica feudale trovava nel Diritto romano il proprio maggior alleato; tanto più che tale patrimonio si era sviluppato ed organizzato in ambito ‘romano’, godendo così dei vantaggi connessi alla ‘personalità’ del Diritto, che sempre entrava in ogni atto giuridico del tempo attraverso la dichiarazione della Legge di appartenenza: longobarda, salica, romana (sempre per gli ecclesiastici ed i beni della Chiesa).

Il riferimento ad un generico Diritto romano (teodosiano, giustinianeo, volgare?), tuttavia, non basta più in queste circostanze.

Occorre infatti prendere atto che anche nell’Italia centro-settentrionale tale Diritto aveva ottime ragioni d’essere non più quello teodosiano di riferimento delle diverse Leges romanæ barbariche del ceppo gotico, ma specificamente e motivatamente –dopo la loro sconfitta da parte dei Bizantini ed il loro subentro da parte dei Longobardi– quello giustinianeo, imposto alla Pars Occidentis con le vittorie ed il governo di Belisario e Narsete (535-553), e trovato in loco dai Longobardi dalla fine del VI secolo fino agli inizi dell’VIII, e fermamente praticato da quella Chiesa romana, ormai così influente sull’Italia centro-settentrionale, che lo aveva ‘richiesto’ all’Imperatore attraverso Papa Vigilio ed a cui fu re-indirizzato attraverso la Prammatica Sanctio del 554.

Proprio tale Diritto romano giustinianeo poteva inoltre apparire già agli inizi del sec. XI come un vero e proprio ‘Diritto ecclesiastico’ ante litteram, quale si presentava ad ogni buon effetto una legislazione già ampiamente cristianizzata, aliena dalle strettoie del feudalismo e certamente più filo-papale degli Imperatori germanici: una sorta di Ius proprium latinum da opporre efficacemente alle “ragioni germaniche”.

Siamo informati del resto che, negli anni sovreccitati dalla Riforma e tormentati dalla Lotta per le investiture, Chiesa e Impero guerreggiarono a colpi di Jus. In massimo grado, a occuparsi dell’applicazione, dell’interpretazione e dell’insegnamento della scienza giuridica furono giocoforza gli ambienti implicati direttamente nello scontro, come appunto la Reggio canossana.

In una partita in cui, da entrambe le direzioni, non era lecito sbagliare una mossa, gli specialisti che trattavano la Lex romana dovevano essere quanto di meglio in circolazione. Non stupisce allora che le menti e le lingue migliori del Regnum Italiæ fossero prima o dopo assunte da Beatrice e, soprattutto, da Matilde di Canossa per dirimere le vertenze legali nelle terre di loro giurisdizione.

È sicuramente possibile ricondurre questa circostanza, delicata e ‘particolare’, a quanto E. Cortese esprime sul risveglio romanistico del secolo successivo –anticipato però in qualche modo presso i Canossa–:

quel Rodolfo Niger che insegnava a Parigi Arti liberali nella seconda metà del secolo, […] dice che la rinascita del Diritto romano e della relativa scienza era ispirata in senso antigermanico […] perché la Chiesa era contraria al parvus ritus Iudiciorum germanico, ossia al duello, al giuramento. Oltre che, come si è visto, alle compositiones pecuniariæ.

Si sa in effetti che la prassi giudiziaria italiana, specialmente nei territori più influenzati dalla Chiesa, tendeva sin dall’XI secolo non solo ad adottare il sistema probatorio romano, ma in generale a riqualificare il Processo applicandogli regole giustinianee.

Sotto questo profilo, per la tematica di nostro interesse, è decisivo non scivolare –come invece capita a molti autori– nel periodo tardo-matildico tout court e, quindi, nei suoi legami bolognesi. È maggiormente a Beatrice, infatti, che occorre guardare, fissando come soglia (metodologica) il cambio di governo tra madre e figlia nell’anno 1076 (lo stresso del Placito di Marturi e della quasi ‘scomparsa’ di Sichelmo); in quest’ottica, infatti, quanto già abbondantemente scritto –a lungo e da tanti– su Matilde e la ‘Scuola’ bolognese non ha interesse alcuno… rilevano invece tutte le premesse pre-bolognesi: quanto accaduto nei territori canossani fino al 1076, prima –senza dubbio– che Bologna fosse…

Ne deriva l’assoluta plausibilità degli elementi sin qui venuti in considerazione: a Reggio, in una ‘Scuola’ d’Arti liberali (forse su base municipale-vescovile, non estranea alla gens canusina), nell’XI sec. s’insegnava il Diritto romano-giustinianeo necessario a formare il personale della formidabile amministrazione giudiziaria, civile (cittadina) e privatistica canusina, oltre che in grado di gestire la complessa diplomazia che teneva la posizione filo-papale del Casato matildico in equilibrio con la contrastata autorità imperiale germanica.

Il fenomeno prevale con evidenza a Reggio rispetto a Parma, probabilmente tanto per motivi di prossimità geografica al cuore del dominio canossano (Quattro Castella, Canossa, Carpineti), che per la troppo accentuata propensione filo-imperiale che ha sempre caratterizzato –anche ecclesiasticamente– la vicina Parma, sede anche di un antipapa pre-matildico. Tale maggior rarefazione dei legami canossani con la città di Parma (ed i suoi Vescovi) può forse spiegare anche l’assoluta specificità dell’insegnamento reggiano (v. supra).

2.1.4 Il governo femminile delle Signore di Canossa

Tra gli elementi specifici della situazione ‘reggiana’ del secolo XI non si può neppure trascurare la portata, al tempo stesso strutturale e funzionale, di un altro fattore generalmente trascurato dalla Storiografia: il governo al femminile che per oltre 60 anni esercitarono Beatrice di Lorena (1052-1076) e Matilde di Canossa (1076-1115) sul grandissimo patrimonio allodiale e gestionale messo insieme in Italia ed Europa dai Canossa, oltre che nell’esercizio della giurisdizione ‘pubblica’ loro affidata per via vassallatica.

Nel 1052, infatti, Beatrice era rimasta vedova di Bonifacio (assassinato a Mantova) e nel 1054 aveva sposato Goffredo il Barbuto, lorenese come lei –e  suo parente–, cui tuttavia l’Imperatore Enrico III impedì lungamente di recarsi in Italia presso la consorte, che rimase pertanto da sola nella reggenza del Casato canossano fino al subentro della figlia Matilde, rientrata nel 1071 dalla Germania dopo aver rotto col marito Goffredo il Gobbo. La Contessa rimarrà praticamente sola al governo del Casato per circa altri quarant’anni.

In un mondo di uomini, dominato dalla legge della forza e capace di riconoscere solo ciò che davvero s’imponeva in modo incontrovertibile –come il potere economico che portava con sé anche quello militare– queste due donne hanno saputo tener testa ad approfittatori, concorrenti ed avversari (tra cui spesso gli stessi Imperatori), difendendo ed accrescendo un patrimonio sterminato ed una giurisdizione estesissima, evitando quanto più possibile di scendere in campo aperto alla testa delle loro –pur temibili– milizie. Di fatto al primo matrimonio pur fortunato di Beatrice, sotto questo aspetto, non diedero seguito né il suo secondo, né quelli di Matilde e nessun’altra via si aprì efficacemente davanti ad esse che la forza del Diritto, di cui si mostrarono non solo idealmente convinte ma anche efficaci fruitrici e promotrici, come ben dimostra la grande attività di rinascenza giuridica nei loro territori lungo tutto l’XI secolo.

È abbastanza recente la consapevolezza sul fatto che «Beatrice e Matilde avessero creato un vero e proprio corpo giudiziario stabile, un gruppo di Giudici e Causidici che seguono le Margravie nei loro spostamenti, tanto in Toscana, quanto in Emilia», costituendo una «costellazione brillantissima» che ruotava soprattutto intorno a Matilde: Rotecarius Iudex Regiensis, «Nordilo di Castelvetro, Signoritto, Opizone di Gonzaga, Sasso di Bibbianello, Gandolfo di Argelata, Gerardo di Piazza, Ubaldo di Carpineti, Bono di Nonantola e molti altri» che «fanno capo alla corte margraviale, e occasionalmente anche con compiti di amministrazione e di governo».

I documenti matildici […] ci hanno dimostrato una stabile organizzazione giudiziaria nell’interno dei domini canossani, di qua e di là dall’Appennino, accentrata, come Tribunale di ultima istanza, nella “Curia” (chiamiamola così in mancanza di un termine migliore) risiedente presso le Duchesse e Contesse Beatrice e Matilde, un organo che evidentemente ha il compito di unificare il Diritto o, per lo meno, di renderlo più omogeneo e consono alle nuove idee giuridiche, di ispirazione romanistica.

2.1.5 ‘Romanisti’ canossani

Tra gli elementi ‘circostanziali’ da considerare nell’ottica sin qui proposta (senza però scivolare troppo avanti verso le soglie del XII sec.) si pone irrinunciabilmente anche la constatazione della presenza nei territori canossani di uomini di Legge (Doctores, Periti, Causidici) di grande rilievo che precedettero ed accompagnarono (sic!) l’esperienza bolognese, dimostrando quantomeno dimestichezza (anche se non ancora vera ‘maestria’) nell’utilizzo di fonti giuridiche giustinianee.

La figura di Nordilo (a cui si farà riferimento più oltre per il celebre Placito di Marturi del 1076) richiama quella dei suoi ‘colleghi’ e compaesani Bono e Adigerio (da Nonantola –v. infra–), Giudici canossani di formazione pre-matildica. Ad essi va aggiunta un’altra grande figura: «il Legis Doctor reggiano Ubaldo da Carpineti, che si trovò gomito a gomito con Warnerius de Bononia in diversi placiti imperiali»; oriundo o meno del territorio reggiano, il suo titolo e la sua presenza ‘a fianco’ di Irnerio ne testimoniano comunque una almeno equivalente valenza e, soprattutto, capacità giuridico-romanistica, per quanto iniziata almeno nel trentennio precedente. 

Non si può ignorane neppure l’esistenza nella vicina Modena, già verso la metà dell’XI secolo, dei primi Causidici e Legis Doctores: Alfredus Lei Doctor (1063) e Albertus Legis Doctor (1067), Albertus Causidicus de Villa Saliceti (1074), Iginulfus Legis Doctor (1076) e Sigefredus de Panzano Legis Doctor (1088-1104), coevi di Pepo e prodromi di quella Scuola che –con Pillio da Medicina (docente: 1169-1207)– entrerà immediatamente in conflitto metodologico con Bologna proprio grazie ad una ‘diversa’ cultura giuridica già assestatasi a sufficienza nell’Emilia centrale ed in grado di competere ‘ad armi pari’ con la ‘prima’ delle Università. Se di questi singoli non è possibile accertare la formazione –o anche solo la prassi– ‘romanistica’, non si può tuttavia ignorare come già un documento modenese del 1069 ricordi Giustiniano “summo Iuris emendatore” e contenga una citazione del Digesto “nuovo”(!) (D. 45.1-3; 5).

Per altra via lo stesso Mor è convinto «che costoro provengano dalla scuola grammaticale del Trivio», evidenziando il «progressivo e lento evolversi della scuola giuridica da quella del Trivio».

Ciò tuttavia non basta ancora poiché, se

vi sono alcuni che portano il titolo di Legis Doctores, non molti, ma quanto basta per concludere che nei domini canossani, tanto in Toscana quanto in Emilia, vi erano parecchi centri culturali, parecchie scuole che, derivate da quelle tradizionali della Retorica, andavano specializzandosi nell’insegnamento giuridico,

non si potrà certo facilmente sostenere che si trattasse di qualche forma ‘legale’ diversa da ‘il’ Diritto –romano–. Quali altre ‘Leges’, diversamente, avrebbero costituito la materia di tali insegnamenti e competenze professionali? Il Diritto feudale, ancora di là da fissarsi? Le Consuetudini germaniche, orali? Comunque non certo la Glossa bolognese.

Proprio facendo tesoro di questo background ormai abbastanza diffuso e consolidato, tanto a livello didattico che giudiziale, non è più dubitabile che proprio

un gruppo di Doctores, di Judices, di Causidici della “jurisdictio canussina” è stato sicuramente il nucleo generatore della Scuola di Bologna, […] tanto che il contrasto tra i bolognesi e i canussini fu profondo su certi argomenti pur fondamentali non tanto per disparità di vedute nel campo dommatico, quanto per questioni pratiche.

D’altra parte, come avrebbero fatto a trovarsi in Bologna già all’inizio del XII sec. tanti e tali esperti, già chiaramente divisi per provenienza formativa, se tutto fosse sorto in Bologna a partire –quanto meno– da Pepo, vari decenni dopo Sichelmo a Reggio?

Si potrebbe addirittura pensare che, nonostante la Glossa sia «oltremodo chiara nell’affermare che il territorio matildico fu sordo a certe influenze, specie per la prassi giudiziaria», ciò non faccia che confermare –e contrario– la sussistenza e fondatezza in loco proprio di un’altra impostazione giuridica, espressa dalla Magistratura anziché dalla –allora solo incipiente– Scuola metodologica dell’Accademia felsinea. 

La chiara evidenza del contrasto dev’essere pertanto mantenuta al solo livello metodologico e non di ‘fonti’ giuridiche –romanistiche o meno–, considerando anche il perdurare della ‘personalità’ del Diritto, valida in sede contrattuale ma anche processuale …attività di per sé aliena –invece– alla Scuola bolognese. In tali termini, poi, il contrasto tra ‘prassi processuale’ –«a maggior ragione nel secolo XI, […] restia ad ogni innovazione»– e teoresi accademica –maturata nel secolo successivo–, non può evitare di esplicitare come «attraverso i palesi ricordi della dominazione matildica e soprattutto degli usi della sua Curia abbiamo un nuovo argomento per assicurare che Accursio accolse nel suo lavoro, senza esplicitamente distinguerle, glosse anteriori» di origine non bolognese.

Forse, più di tanti ragionamenti ed illazioni di carattere pseudo-contenutistico, basterebbe qui la semplice –definitiva(!)– verifica della consecutio temporum: la Magistratura e relativa prassi canossana precedono cronologicamente gli apporti irneriani, riguardando l’XI sec., la Glossa bolognese –di contro– non può datare che dal secolo successivo, guadagnando il ‘proprio’ culmine soltanto vari decenni dopo, ed accampando le proprie pretese contro una prassi ormai –già– secolare e, proprio perché tale, da combattere aspramente. Risulta pertanto metodologicamente scorretto, su questa tematica, utilizzare il termine/concetto di “matildico” per indicare ex æquo ed in modo unificato/nte un periodo di circa quarant’anni, sbilanciandolo tutto sulla seconda decade del sec. XII (Matilde muore nel 1115, mentre Irnerio comincia a comparire nel 1112!), quando in realtà, la maggior forza di questa problematica ha il proprio baricentro poco dopo la metà del secolo precedente …sotto Beatrice (con Sichelmo reggiano in piena attività docente).

2.1.6 Il Placito di Marturi

Tra gli elementi ricchi di considerazione in fatto di ‘romanità canossana’ pre-matildica merita uno specifico rilievo il Placito di Marturi del 1076, sotto la Contessa Beatrice di Toscana; in tale occasione, tuttavia, occorre tener presente come la presenza di Pepo –antesignano delle schiere bolognesi– in qualità di ‘assessore’ della Contessa non abbia, concretamente, alcun rilievo contenutistico, poiché attore protagonista dell’evento giuridico là realizzatosi fu in realtà

con un certo grado di certezza, il presidente del collegio giudicante, il nonantolano Nordilo, che nei documenti si trova variamente designato come Notaio, Giudice, Causidico, Legis Doctor, nonché Missus canossano. Quello stesso Nordilo che aggiornati studi paleografici additano come uno dei due autori materiali del Codice Vaticano latino 1406 del Digestum Vetus, databile ai decenni finali del secolo XI e, forse, realizzato proprio a Nonantola o, in ogni modo, in quella fascia centrosettentrionale dell’Italia che brulicava di Notai e Giudici collegati ai Canossa.

Fu proprio Nordilo –del quale «è certo che egli conoscesse le Istituzioni ed il Codice»–, infatti, a citare materialmente la Lex Digestorum di Ulpiano (D. 4.6.26.4) che permise al locale Monastero di San Michele di vincere la causa, ottenendo ragione dei beni di Papaiano, contesi con Sigizo di Firenze, che ne vantava l’usucapione per scaduti termini di prescrizione.

Il fatto, ben al di là della prima comparsa ufficiale di Pepo –a cui solitamente viene piegato dalla Storiografia–, testimonia invece una ben più importante ed efficace presenza e fruizione del Diritto giustinianeo nelle assise canossane pre-matildiche e, quindi, pre-bolognesi, attraverso l’azione di giuristi centro-emiliani che, come Nordilo, partecipavano all’esercizio giurisdizionale canossano dove se ne presentasse la necessità.

Non va poi scordato neppure come nel 1076 la quarantennale avventura reggiana di Sichelmo volgesse ormai al termine… mentre, per contro, Pepo –chiunque egli fosse e comunque si fosse mosso– non aveva ancor messo piede a Bologna.

In ben altra prospettiva rispetto all’esperienza reggiana di Sichelmo –adita da studenti pretenziosi per il proprio futuro, come il Peripatetico–, si muovono anche le considerazioni circa le reali conoscenze e l’elementarità delle concettualizzazioni giuridiche di cui lo stesso Pepo darà prova nella propria attività giuridica …oltre che la sua dimessa presentazione ‘storica’ da parte di Odofredo come colui che –semplicemente– “cepit autoritate sua legere in Legibus”. In tal modo, mentre Anselmo da Besate parla di Sichelmo come di un novello Giustiniano, conoscitore e commentatore di Editti imperiali e grande personalità del foro, Pepo(ne) risulta poco più che un semplice ‘autodidatta’ di dubbie competenze tecniche, per quanto non inascoltato in quel di Bologna.

2.2 Altri elementi e fattori circostanziali

Altri elementi e fattori circostanziali corroborano la tesi proposta, palesandosi non solo inadatti a falsificarla in alcun modo, quanto addirittura ad essa complementari.

2.2.1 Elementi romanistici emiliani (Nonantola)

Il primo fattore non espressamente ‘canossano’ in tema di presenze giustinianee emiliane pre-bolognesi ma di grande rilievo ‘contestuale’ è costituito da quanto concerne l’Abbazia di Nonantola (Modena) sulla cui storia gli studi dell’ultimo ventennio si sono concentrati da vari punti di vista, offrendo all’indagine sin qui intrapresa non solo svariati ‘spunti’, ma anche veri e propri ‘dati’ difficilmente –oggi– trascurabili.

Al di là delle varie questioni legate alla fondazione, orientamento politico, patrimonialità, collegamenti, declino… dell’importante Abbazia benedettina longobarda, vanno posti senz’altro in evidenza alcuni dati significativi per la plausibilità (verosimiglianza, direbbe Popper) di una presenza consapevole ed ‘attiva’ del Diritto giustinianeo all’interno di vari elementi ad essa connessi; presenza ed attività palesemente non-dipendenti –soprattutto cronologicamente (e questo è decisivo!)– dall’attività irneriana a Bologna.

a) Prima di tutto occorre riferirsi a due elementi di natura territoriale, cronologicamente risalenti, che portano a non poter escludere in linea di principio –quanto meno– la ‘conoscenza’ del Corpus giustinianeo a Nonantola.

- Il cenobio ‘longobardo’ intratteneva con Costantinopoli uno stabile rapporto a causa dei beni patrimoniali là posseduti, beni che andavano –ovviamente– amministrati e ‘difesi’ secondo la Lex loci. Proprio la stabilità e la saldezza di tale rapporto giustificarono, probabilmente, la nomina dell’Abate Pietro (803-824, d’origine francese) come ambasciatore imperiale carolingio alla corte di Bisanzio nell’813 presso l’imperatore Michele I (811-844), per concludere il lungo percorso della c.d. Pax Nicephori (detta anche “Trattato di Aquisgrana”) tra i due ‘Imperi’ cristiani definendone essenzialmente le relazioni: in cambio del riconoscimento a Carlo Magno del titolo d’Imperatore d’Occidente si riordinarono i confini, soprattutto nel bacino dell’Adriatico con la restituzione di Venezia, dell’Istria e della Dalmazia all’Impero bizantino.

- In secondo luogo, la fondazione dell’Abbazia –regia– di S. Silvestro in Nonantola nel 751 da parte di Anselmo, cognato del Duca del Friuli e poi Re dei Longobardi Astolfo, era stata preceduta sullo stesso territorio (tra Nonantola e Persiceta) da quella di altri monasteri benedettini alle dirette dipendenze di Montecassino: in primis il Monastero di S. Benedetto in Adili, risalente –presumibilmente intorno al 730– a Giovanni (figlio del Duca Orso di Ceneda) che si fregiava del titolo di duca di Persiceta, probabilmente appena ottenuto attraverso le campagne di Liutprando che strapparono l’Emilia orientale all’Esarcato.

L’erezione di Adili, proprio perché a levante del corso del Panaro di allora, ci sembrava da assegnare a questa fase dell’offensiva longobarda. Castra, castellari e Adili stesso con le sue dipendenze monasteriali, distribuiti lungo la striscia di terre divenute pubbliche, orientate obliquamente tra Sant’Agata e San Giovanni in Persiceto, costituirono probabilmente punti fortificati, Bizantini e Longobardi, a ridosso del limes, rispondenti a forme nuove di controllo territoriale in grado di organizzare altrettanto nuovi accorpamenti fondiari. […]

Il patrimonio iniziale era in parte di provenienza privata, ricavato nell’area territoriale tra Nonantola e San Giovanni in Persiceto, interessata dal confine politico tra Longobardi e Bizantini e da quello religioso tra le Diocesi di Bologna e Modena. Su quest’area la fondazione del cenobio andò a sostituire numerosi monasteri di modeste dimensioni, qui eretti alle dipendenze di Montecassino,

presso il quale la conoscenza del Corpus giustinianeo non pare questione discutibile.

b) Anche il fattore espressamente giuridico, non di meno, si palesa di tutta significatività.

- Innanzi tutto la provenienza certamente nonantolese di Bono, Adigerio e Nordilo, già evocati in precedenza quali Advocati e/o Missi/Giudici matildici (v. supra); ad essi studi recenti vorrebbero affiancare addirittura due dei Quattuor Doctores bolognesi:

le ricerche di Wandruszka sono importanti, poiché tese a dimostrare la discendenza dalla famiglia ‘da Nonantola’, che annovera capitanei e fedeli matildici, di Ugo e Bulgaro, ossia di due tra i principali esponenti delle prime generazioni di glossatori bolognesi, e che perciò deriverebbero i propri interessi in campo giuridico dalla più antica e consolidata tradizione sviluppatasi nell’ambiente egemonizzato, anche culturalmente, dall’Abbazia benedettina.

Non di meno occorre anche considerare come la critica letteraria più recente (A. Petruccilo e G. Nicolaj) stia valorizzando l’ipotesi di

un’origine nonantolana del Codice Vaticano Latino 1406 contenente il Digestum vetus –la porzione riaffiorata già in epoca preirneriana– e assegnabile a un intervallo compreso tra il terzo quarto del secolo XI. […]

Tanto più che alla confidenza con questo testo il monastero anselmiano sarebbe già stato avvezzo, giacché la sua tradizione manoscritta in età prebolognese, […] può contare anche un fascicolo contenente i primi sette titoli del primo libro del Digesto, inserito nel Codice Berlinese Latino fol. 269, che ha buone possibilità di essere ricondotto a un’origine nonantolana tra i secoli VIII e IX. Ed è questa un’ipotesi dotata di un notevole valore aggiunto. Il frammento di un Digesto nonantolano –in particolare un Digestum vetus– collocabile a un’altezza cronologica così precoce rispetto alla vita del monastero potrebbe attestare il ruolo svolto dalla fondazione anselmiana nel raccogliere tale preziosa reliquia poco dopo la dissoluzione dell’Esarcato bizantino, valorizzando l’eredità giuridica proveniente dalla capitale di quest’ultimo.

- Recenti studi, frutto di nuova consapevolezza scientifica, hanno poi messo in luce «la precoce citazione di fonti giuridiche, per esempio dal Digestum Novum, per di più con una modalità di citazione che non coincide con quella di Bologna»: già nel 1155, infatti, il potente cenobio emiliano utilizzava in ambito giudiziario citazioni dirette del Digesto, oltre che del Codex. La questione rileva non solo per la ‘data’ praticamente coeva allo strutturarsi dello Studium felsineo (in un tempo in cui l’influsso bolognese non era ancora sufficientemente diffuso extra mœnia) ma principalmente per le(!) citazioni dai Libri 41, 43 e 44 del Digesto: quelli che l’epopea bolognese attribuirebbe più espressamente (al ‘caso’? ed) al duro lavoro di Irnerio nel ‘ricupero’ del c.d. Digestum novum (Libri 39-50) e che –ordinariamente– vengono ricondotte solo a tale(!) ‘paternità’. Che, poi, la sentenza sulla Causa de qua poggi su di una citazione diretta delle Institutiones (4.15.4) rileverebbe molto di meno se non confermasse che il Tribunale presieduto dal Vescovo Alberio di Reggio Emilia (delegato da Papa Adriano IV) utilizzava quale Lex proprio il Diritto giustinianeo.

È chiaro che, considerati gli assunti giuridici, nel circondario del Monastero di Nonantola si argomentò piuttosto precocemente con il Diritto romano. Il citato Digestum Novum, le Istituzioni e l’applicazione dei concetti giuridici ivi contenuti implicano già una certa conoscenza giuridica, illustrata dal ricorso alla materia non certo semplice degli interdetti. […] Tutto questo mostra chiaramente che anche a Nonantola erano presenti conoscenze giuridiche che andavano al di là del semplice utilizzo di formule contrattuali e che inoltre, nella prassi giuridica, si utilizzavano piuttosto liberamente le fonti di Diritto romano. Nelle controversie giudiziarie un’argomentazione che si basava sul Diritto romano aveva maggior possibilità di successo.

2.2.2 Giurisdizione ‘pontificia’ altomedioevale in Emilia centrale

Un secondo ‘genere’ di fattori circostanziali non espressamente ‘canossani’ ma strettamente connessi, quanto meno, al territorio d’interesse della ricerca sulla presenza e portata del Diritto giustinianeo nell’Emilia centrale pre-irneriana è costituito da vari elementi che spingono ad assumere come ‘fatto’ assodato la vigenza di un sostanziale impianto giuridico giustinianeo nel territorio –almeno– emiliano fin dall’Alto Medioevo; questione che non [ci] risulta ancora neppure ‘notificata’.

- Il primo elemento da considerare con estrema attenzione –almeno teoretica– consiste nella giurisdizione, non si sa quanto effettiva in re, ma di certo legittimamente pretesa e –potendolo– anche imposta in Iure, del romano Pontefice in terra emiliana centrale dalla fine del sec. VIII. Si tratta dell’adempimento carolingio della c.d. Promissio Carisiaca (754) con la quale Pipino si sarebbe impegnato, prima di impossessarsi della Monarchia merovingia e di sferrare l’assalto al Regnum longobardo, a consegnare alla Chiesa romana i territori dell’Italia centro-settentrionale rimasti incontestatamente bizantini fino all’ultimo quarto del sec. VII. Il confine geografico così delineato, come riportato dal Liber pontificalis, scende da Berceto (sull’Appennino emiliano occidentale) a Parma, Reggio, Mantova, Monselice… ‘Esecutore/beneficiario’ dell’adempimento della ‘promessa’ sarebbe stato Papa Adriano I (772-795), instaurandosi così –almeno de Iure– il primo ‘nucleo’ del c.d. Patrimonium Beati Petri in area non-romana. Non pare dubitabile che questo abbia comportato la correlativa e necessaria sottomissione di quel territorio al Diritto romano-giustinianeo poiché quello –da Papa Vigilio in poi– era il ‘Diritto romano’ ad uso pontificio.

Il fatto, al di là delle molte ed evidenti oscurità connesse alla effettività della Promessa di Chiersy ed alle sue differenti interpretazioni, trova tuttavia una conferma indubitabile quasi due secoli dopo nel c.d. “Privilegium Ottonis” (962) che ricalca esattamente lo stesso confine: Berceto, Parma, Reggio, Mantova, Monselice… confermando, almeno giuridicamente, e soprattutto –per noi– ben prima che si potesse parlare di Bologna, Pepone, Irnerio… una giurisdizione pontificia sui territori emiliani in pieno X secolo …esercitata in quale modo/forma non pare oggi conoscibile.

Ciò, tuttavia, non basta ancora alla causa del Diritto giustinianeo emiliano pre-bolognese… è necessario, infatti, inserire un ‘intermezzo’ espressamente legale e di grandissima portata: la “Constitutio romana” (nota anche come “Constitutio Lotharii”) emanata l’11 novembre dell’824 da Lotario I co-imperatore, con la quale si definivano i legami (soprattutto di controllo) dell’Impero romano-germanico verso la Sede romana. Al di là di quanto stabilito in fatto di elezioni pontificie, protezioni imperiali ed altre materie ‘ecclesiasticistiche’ è necessario porre l’attenzione sul quinto articolo della Costituzione:

Volumus ut cunctus populus Romanus interrogetur, qua Lege vult vivere, ut tali qua se professi fuerint vivere velle vivant; illisque denuntietur, quod hoc unusquisque sciat, tam Duces quam et Iudices vel reliquus populus, quod si in offensione sua contra eandem Legem fecerint, eidem Legi quam profitentur per dispositionem pontificis ac nostram subiacebunt.

Si tratta della c.d. professio Iuris che caratterizzò tutto il Medioevo facendo sì che ciascuno prima di compiere un atto giuridico che lo riguardava dichiarasse secondo quale legge ‘viveva’: romana, longobarda, salica; nessuna novità –di per sé–, trattandosi della c.d. personalità del Diritto che resistette fino alla Modernità giuridica.

Ciò che, tuttavia, non viene solitamente né notato, né tanto meno considerato, è la ‘cornice’ in cui la norma si pone: la Constitutio Romana (che normava proprio le relazione tra l’Impero e la Chiesa romana) non concede infatti un’eccezione agli oriundi italici, permettendo loro di non attenersi alle Leggi del Regnum, bensì il contrario: poiché –ope jurisdictionis– il Diritto ‘territoriale’ per il dominio pontificio era quello romano-giustinianeo, ai Franchi e Longobardi ivi residenti viene concesso/riservato di poter seguire la loro legge etnica, evidenziando come la ‘normalità’ fosse lo Ius romanum, l’eccezione quelli barbarici.

Che cosa sia concretamente avvenuto sul territorio dell’Italia centro-settentrionale post-carolingia, con la crescita del potere territoriale dei diversi Casati ducali, marchionali, ecc. soprattutto longobardi, come ben testimonia la stessa ascesa canossana, non pare oggi facilmente definibile; ciò che tuttavia non potrà più essere dato per assunto in tale territorio è l’assenza del Diritto giustinianeo …almeno nelle sedi amministrative e giudiziarie in qualche modo connesse a strutture e giurisdizioni ecclesiastiche più o meno dirette. Quanto tutto ciò possa stare –anche– alla base della discussa ‘donazione/restituzione’ matildica di tutti i propri possedimenti alla Sede romana (in quanto ad essa sottratti dagli avi canossani) non è questione di queste pagine. Ciò spiegherebbe anche (molto meglio delle ipotesi di stampo ravennate) perché/come/dove Irnerio avrebbe “trovato” il materiale necessario alla ricostruzione testuale dei Libri legales; opera non certo fattibile avendo a disposizione ‘una sola copia’ dei testi in oggetto.

- Un secondo elemento da porre in evidenza, quasi come conseguenza pratica del precedente e sua conferma, riguarda un modo di operare se non proprio ‘diffuso’ comunque ‘praticato’ in epoca pre-matildica (sempre) dagli stessi Canossani.

Il già ricordato acquisto del 1010 da parte di Richilde (moglie di Bonifacio di Canossa) di dodici curtes non avvenne affatto per mezzo di semplici ‘prestanome’, come comunemente creduto, ma attraverso una vera e propria ‘triangolazione’ inter-ordinamentale che vide Bonifacio vendere al chierico Domenico dei beni immediatamente rivenduti da questi a Richilde, allo stesso prezzo, nello stesso giorno. In tal modo, proprio a causa dell’effettiva vigenza del Diritto romano giustinianeo per i chierici soprattutto in temporalibus, il passaggio attraverso di essi (a nome della Chiesa) probabilmente ‘sterilizzava’ la titolarità dei beni, costituendo per l’acquirente ab Ecclesia una sorta di acquisto a titolo ‘originario’, di fatto incontestabile poiché nessuno avrebbe messo in discussione la validità dell’acquisto di beni ‘dalla Chiesa’; acquisto che veniva necessariamente fatto per Ius romanum …tanto più che il territorio emiliano –almeno dal Privilegium Ottonis– era ufficialmente di Diritto romano-giustinianeo in quanto ‘pontificio’.

2.2.3 Contratti agrari: enfiteusi e precaria

Uno degli elementi tecnici di rilievo nella ricerca della ‘presenza’ giustinianea nell’Alto Medioevo dell’Italia settentrionale è senza dubbio l’esame dei contratti agrari, che hanno costituito per lungo tempo la maggior espressione giuridica di quella società, oltre alle varie donazioni a scopo di religione e culto. L’assenza di teorizzazioni giuridiche coeve a quel comportamento sbilancia necessariamente la ricerca sulla concretezza dei contratti stessi posti in essere ed a noi tramandati attraverso le peripezie di centinaia di archivi, muti testimoni di una effettività indiscutibile (anche se spesso parziale). 

Tre risultano essere i termini chiave di questa contrattualità, dapprima estranea e poi parallela a quella più specificamente feudale (commendatizia): livello, enfiteusi, precaria… in perfetto stile romanistico bizantino.

L’elemento di rilievo in chiave giustinianea non è però costituito tanto dall’enfiteusi né dal livello in sé, né dalla loro sostanziale identificazione medioevale, quanto piuttosto dall’utilizzo della c.d. precaria quale forma di tutela voluta da Giustiniano stesso per i beni ecclesiastici.

Dopo, infatti, che l’Imperatore Zenone intorno al 480 aveva fissato che l’enfiteusi non fosse riconducibile né ad un contratto di locazione né a quello di vendita propriamente detta, e che dovesse venir fondata su di un accordo scritto (libellus) tra concedente e conduttore, era stato il deciso intervento dello stesso Giustiniano a regolare definitivamente l’Istituto soprattutto per quanto concerneva i beni ecclesiastici.

L’enfiteusi (letteralmente: “piantagione”), infatti, era nata quale Istituto giuridico in epoca imperiale per regolamentare lo sfruttamento di terreni –solitamente incolti– di proprietà in qualche modo ‘pubblica’: lo Stato,  l’Imperatore (per la sua proprietà personale), oppure città o altri enti pubblici dell’Italia e delle province e, ben presto, la stessa Chiesa.

Lo ius emphyteuticarium, vero tipo giuridico dell’età giustinianea, era un diritto reale su fondo altrui, diritto amplissimo il cui titolare godeva di tutela non soltanto contro i terzi ma anche verso il proprietario, potendo fare uso del fondo nel modo ritenuto più conveniente: coltivarlo direttamente, alienare ad altri il suo diritto tanto per contratto che per testamento, assoggettare il fondo a servitù, trasmetterlo agli eredi, darlo ad altri in usufrutto od in subenfiteusi. La durata del rapporto per il primo concessionario poteva anche essere senza limiti di tempo (ius perpetuum); l’enfiteuta, poi, aveva anche il diritto di affrancare il fondo pagando una somma corrispondente alla capitalizzazione del canone e conseguendone in tal modo la proprietà definitiva.

Nell’Alto Medioevo, soprattutto per gli enti ecclesiastici non in grado di condurre direttamente i fondi agricoli di proprietà (Capitoli, canoniche, monasteri femminili, ecc.), l’enfiteusi divenne lo strumento ordinario per mettere a reddito tali patrimoni, soprattutto quelli distanti dalla sede dell’ente proprietario… ma anche un ottimo modo per perdere tali beni!

Proprio la concessione in enfiteusi di terreni di proprietà ecclesiastica aveva già preoccupato Giustiniano che volle tutelarne l’effettiva titolarità vietandone il conferimento perpetuo ed introducendo la c.d. precaria.

La necessità della tutela del loro patrimonio aveva originata la limitazione della durata al tempo della vita del primo concessionario e dei suoi due primi eredi successivi, figli e nipoti, limitazione sanzionata dalla Novella settima di Giustiniano, con esclusione quindi della enfiteusi perpetua; tale disciplina particolare fu però revocata in seguito tranne che per la Chiesa di Costantinopoli; a tutte le altre fu consentita la pratica del Diritto comune con la Novella 120 dell’anno 544. Tuttavia nel Medioevo la Chiesa si preoccupò di disciplinare con regola più severa l’Istituto per il quale non mancava la diffidenza e ne abbiamo testimonianza in una lettera di Papa Adriano a Carlomagno, nella quale il Pontefice lamentava i gravi danni che la pratica consueta dell’enfiteusi arrecava alla Chiesa. E nella realtà gli enti ecclesiastici ritornarono all’applicazione dell’antica regola della Novella di Giustiniano che vietava con l’alienazione dei beni delle chiese anche l’enfiteusi perpetua. 

L’osservanza della norma giustinianea per via di normatività canonica è soltanto ‘una’ delle svariate testimonianze di conservazione –e conoscenza?!– del Diritto giustinianeo nell’Alto Medioevo, soprattutto nella sua portata gius-publicistica (ed ecclesiasticistica); era infatti in tal modo che venivano concessi e presi in uso la maggior parte dei terreni di proprietà ecclesiastica, privilegiando l’enfiteusi per una durata standard di 29 anni e la precaria per tre generazioni maschili del concessionario. Questo stato di cose non comporta certo la necessaria disponibilità e conoscenza dell’intero Corpus giustinianeo, non di meno però non permette neppure di affermarne la completa eclissi dalla conquista longobarda di Spoleto, Benevento, Lucca e Pavia, fino alla Bologna irneriana del XII secolo.

A queste considerazioni di livello più generale si aggiunga specificamente che

le indagini del Leicht hanno dimostrato, per es., che l’Istituto della medietas, nei rapporti patrimoniali tra coniugi, o la precaria enfiteutica del tipo in uso a Ravenna erano applicati anche nel territorio reggiano.

2.2.4 La presenza letteraria giustinianea pre-bolognese

Attenta considerazione ai fini di questa ricerca merita anche la reale diffusione dei Libri legales giustinianei nell’Italia settentrionale prima di Bologna; dovendo, anzi, essere proprio questa la prova cruciale che conferma o falsifica (l’ipotesi o) l’assunto di riferimento di tutta l’epopea bolognese giunta sino a noi… solo infatti l’assenza fuori e prima della Bologna irneriana dei testi normativi giustinianei confermerebbe quanto propugnato da Odofredo e dai suoi seguaci circa l’opera di Irnerio e del ‘suo’ Studium.

A questo livello, tuttavia, non è negabile che a Pavia si conoscessero testi di Diritto giustinianeo ben prima di Irnerio, visto che Paolo Diacono descrive in modo non sommario l’intera opera legislativa bizantina; che poi l’Historia Langobardorum sia stata redatta a Montecassino invece che a Pavia non fa grande differenza rispetto al necessario collegamento tra questo autorevole monastero e la sede del Regnum Italiæ e tante ‘sue’ istituzioni.

Vanno tuttavia considerati con grande attenzione anche interi ‘apparati’ giuridici già conosciuti da tempo quali:

a) il “Codex Veronensis” (VI –VII sec.) che conteneva l’intero Codice, comprese le Costituzioni greche –in genere poi comprensibilmente omesse nell’ambiente e periodo barbarico–, 

b) manoscritti come il Codice Pistoriensis (X–XI sec.) con i primi otto libri (Lib. I: Diritto ecclesiastico, Libb.: II-VIII: Diritto privato), oltre le diverse Glosse pre-bolognesi ai testi giustinianei come la Glossa Pistoiese (X sec.),

c) la Glossa Torinese (VI sec.), la “Summa Perusina (X sec.) di autore ignoto che fece brevi sommari di ciascuna Costituzione ed altre, testimoniano la conoscenza e l’uso –pur cauto– di tali testi.

Anche Attone, vescovo di Vercelli (925-960), nelle sue lettere si richiama spesso alle Istituzioni, al Codice, alle Novelle.

Allo stesso tempo non si può trascurare come «a metà dell’XI secolo lo studio del Diritto romano era come nell’aria, e un po’ dappertutto v’era gente che vi si dedicava».

Specifica attenzione va anche dedicata ai territori toscani (ormai pienamente canossani) in cui lo stretto contatto coi Bizantini nei secc. VI-VIII non risulta affatto marginale: Anselmo da Lucca (+1086) portò citazioni dell’Autenticum nella sua Collectio canonum; lo stesso Pepo era toscano… Ma, in modo ancor più rilevante, risulta di lunga storia toscana la maggior versione del Digesto pre-bolognese: la Littera Pisana/Florentina. 

In prospettiva di possibili ‘connessioni’ occorre considerare anche la contemporaneità della ‘fase romanistica reggiana’ con la c.d. Riforma gregoriana, non certo estranea a Beatrice e Matilde ed al loro entourage spirituale-tecnico-politico: proprio in quel frangente, infatti, le collezioni canoniche iniziarono a mostrare la conoscenza fondata e qualificata dei testi giustinianei –Digesto in primis–, come ben dimostrano tanto Anselmo di Lucca che Ivo di Chartres che, soprattutto la c.d. Collectio Britannica.

2.2.5 L’evoluzione della cultura dominante

Dopo quanto sin qui illustrato su vari fronti circa l’effettiva diffusione e permeazione romanistica –anche specificamente giustinianea– della cultura e della prassi giuridica dell’Italia settentrionale, non si possono trascurare le pregnanti osservazioni recentemente riespresse da P. Grossi proprio circa la ‘rinascita’ romanistico-giustinianea del XII secolo ma, più ancora, circa le sue premesse. Due gli indirizzi di sviluppo utili alla presente trattazione: [a] quello socio-culturale e [b] quello riguardante le Fonti giuridiche in argomento.

a) Sotto il profilo socio-culturale è solo il caso d’indicare qualche elemento che caratterizza non soltanto il secolo XI come tale, ma in modo davvero notevole, l’esperienza canossana con le peculiarità già menzionate: un profondo cambio di mentalità connessa alla –finalmente– ricuperata produttività delle campagne, all’inurbamento dopo i terribili anni delle ‘invasioni’ barbariche e delle scorrerie ungare, alla ripresa delle attività commerciali su scala crescente, all’organizzazione di un territorio ormai sempre più padroneggiato dal lavoro agricolo che progressivamente andava prevalendo sul semplice allevamento, un’organizzazione civile ormai di crescente portata pubblicistica che, pur ancora lontana dall’idea di Stato, usciva comunque dai confini del contado, un’effervescenza della vita cittadina che preparava la splendida epoca comunale. Il salto rispetto al secolo precedente –fortemente anticipato dalla specifica impostazione aziendale-commerciale canossana– era marcato e non poteva non cercare nuove ‘fonti’ anche tecniche per affrontare una realtà di complessità ben maggiore rispetto al primo profilarsi della Civitas medioevale. Tutto ciò comportava necessarie ricadute, anche di una certa immediatezza, sulle ‘regole del gioco’; mentre infatti il

Diritto proto-medievale è prevalentemente Diritto agrario, cioè imperniato sui fatti economici fondamentali della coltivazione e della produzione, e su soggetti economicamente connotati quali allevatori, coltivatori, boscaioli; ed è tutto teso non certo al culto del proprietario formale (che pur c’è e resta), ma allo scopo di una maggiore e migliore produzione agraria, scopo in nome del quale si possono chiedere sacrifici anche rilevanti al titolare catastale del bene,

l’ordine giuridico (il Diritto) di cui necessitavano i commerci, le operazioni finanziarie, la vita cittadina ed i rinnovati rapporti di potere e giurisdizione esigeva di andare ben oltre, iniziando a distinguere ciò che mai s’era prima ipotizzato differenziare. Cosicché quando

alla dimensione agraria si congiunge –intersecandosi– una vivace dimensione mercantile, ecco che emerge prepotente l’esigenza di quegli schemi generali, di quelle categorie generali ordinanti e anche di una tecnica giuridica rigorosa e raffinata che il fattuale universo consuetudinario non è in grado di fornire. I fatti hanno bisogno di una intelaiatura ordinante che non li soffochi ma che li organizzi e li sistemi, che realizzi una unità delle diversità, perché incombe altrimenti lo spettro di un caos indominabile.

b) Ecco, allora, ricomparire gradatamente il Diritto romano riscoperto ora per la sua concreta utilità, allo stesso modo che la sua concreta inutilità lo aveva precedentemente relegato nel dimenticatoio di quella ‘conservatoria’ generale che furono –per tutta la cultura classica– i monasteri proto-medievali. D’altra parte sotto il dominio gotico, longobardo, franco, sassone,

a chi potevano giovare le eleganze teoriche racchiuse nei cinquanta libri del Digesto, ossia nel tesoro delle elaborazioni scientifiche romane? In una realtà socio-economica, come quella che prende sempre più campo dalla fine del secolo IV in poi, non servono eleganze ma strumenti –magari rozzi e incolti– capaci di rispondere alle esigenze di una grama vita quotidiana. La grandezza del Diritto romano era stata di indole scientifica, ma non c’era più spazio per le speculazioni di uomini di scienza; bastano ormai invenzioni pratiche ispirate a un realistico buonsenso.

Non meno significative risultano le considerazioni di carattere metodologico che si possono trarre dall’apporto di Grossi, il cui interesse appare focalizzato –unicamente?– sulla scienza giuridica romanistica invece che sulla più classica categoria dei Libri legales, cui la Storiografia giuridica si era generalmente riferita in passato. L’osservazione è importante perché sposta il cuore del problema della rinascita giustinianea bolognese del XII sec. non più a livello dispositivo (Codex, Institutiones, Novellæ) ma lo concentra sulla Giurisprudenza romana classica elevata essa stessa a Legge da Giustiniano: i Digesta a cui Irnerio ridiede consistenza (testuale) e vitalità, dopo che erano rimasti «ignorati perché incomprensibili per tutti i secoli proto-medievali, perché inidonei, perché non servivano cappelli piumati e lustrini a un volgo di agricoltori e di pastori». Non di meno, tuttavia, 

se quelle architetture generali e raffinate, quella sapienza tecnica, quel linguaggio specifico elaboratissimo puntuale, aveva condannato il Digesto all’esilio per tutti i secoli protomedievali, ora si prospettavano come buoni motivi per riesumarlo.

Una tal prospettiva rende ipotizzabile –sotto il profilo metodologico– che nel sec. XI tanto la pratica che l’insegnamento giuridico fossero maggiormente interessati al Diritto romano giustinianeo come impianto generale (quello delle “Institutiones”) ed alla legislazione come tale (“Codex” e “Novellæ”) –Leges– che non alla Giurisprudenza fissata nel “Digestum” –Iura–.

Ciò avrebbe anche piena ragionevolezza sotto il profilo metodologico che rispetterebbe così le tappe di un autentico ‘rinascimento giuridico’, sia teoretico-concettuale che operativo, all’interno di una società ancora piuttosto estranea all’incipiente ‘Ordinamento giuridico imperiale’: prima l’impianto, poi le norme, poi la scienza… Così, di fatto, si studia ancor oggi il Diritto: istituzioni di Diritto (romano, privato, pubblico, internazionale, canonico, ecc.), Codici e normative varie, Giurisprudenza. Il Digestum, d’altra parte, secondo l’intendimento di Giustiniano era ‘solo’ il ‘tesaurus auctoritatum ufficiale’ da cui –unicamente– era lecito attingere le ‘citazioni’ degli Iura… formulario ufficiale ed esclusivo della Giurisprudenza, e non ‘raccolta’ di norme e di Leggi: Iura non Leges.

Bologna, in tal modo, potrebbe ostentare ‘solo’ una specificità –non certo marginale– nell’introduzione della Schola textus: la Glossa, applicata ad un testo finalmente ricostruito in una integrità e ‘purezza’ perdute da secoli. Una questione, dunque, sostanzialmente di metodo e non di fonti.

Se tale prospettiva fosse corretta, ne conseguirebbe la necessità di rileggere in modo più equilibrato il fenomeno bolognese individuandone la specifica consistenza ed il valore non tanto nel –primo– ‘possesso’ dei testi giustinianei ma in un nuovo modo di utilizzarli. Una questione non (sol)tanto di Fonti, dunque, ma principalmente di metodo… germogliata dallo stesso ceppo giustinianeo mai effettivamente estirpato dalla dominazione e cultura longobardica e dai suoi sviluppi: Canossa e Sichelmo reggiano ne fanno scuola!

Giustamente, pertanto:

di fronte a un’attività così diffusa e quasi frenetica di ricerca, di sistemazione e di prima esegesi di testi giuridici, l’immagine tradizionale di un Rinascimento giuridico tutto centrato soltanto sulla riscoperta del Diritto romano e sul magistero della Scuola di Bologna sembra sbiadire progressivamente a mero pregiudizio storiografico, mentre invece il fenomeno sembra avere orizzonti culturali e coordinate geografiche molto più ampi e complessi.

2.2.6 Irnerio e la sua opera

Per non scostarsi dalla linea sin qui tracciata (e fedelmente seguita) è necessario considerare come l’inevitabile confronto che si delinea rispetto al ‘primato’ bolognese sull’insegnamento del Diritto giustinianeo, non debba essere inquadrato –come viene invece fatto abitualmente– tanto a livello ‘istituzionale’ in riferimento alle strutture di docenza: Scuole d’Arti liberali, Scuole, Studia, Universitates (e la loro tenuta nel tempo) ma solo in considerazione della specifica materia d’insegnamento: il Diritto giustinianeo.

Necessarie, quindi, alcune sommarie considerazioni sul solo Irnerio e quanto lo riguarda più direttamente.

La storiografia dell’ultimo secolo è concorde nel presentare il Maestro bolognese fortemente caratterizzato come ‘filologo’ (mentre Sichelmo era un ‘retore’) cui va ascritto l’incomparabile merito di aver ‘ricostruito’ il testo ‘critico’ dei Libri legales ormai corrotti da cinque secoli di copiature amanuensi e sostanziale non-utilizzo pratico da parte di popolazioni che si reggevano attraverso ‘proprie’ Leges, secondo il principio della personalità del Diritto, in una società rurale-agricola sedentaria ed autoreferenziale, senza le esigenze di un Diritto complesso come quello che aveva dominato il mondo da Roma/Bisanzio.

Ed era proprio di una sistemazione che avevano bisogno anche le fonti giustinianee: non solo circolavano raccolte parziali in cui si mischiavano passi tolti da libri diversi, ma anche manoscritti di singole parti della compilazione presentavano difformità sia nella scelta delle Leggi, sia nella loro collocazione.

La distanza di questo fatto rispetto alla ‘comparsa’ quasi epica di tali opere ed alla loro adozione in sede didattico-universitaria, come se null’altro fosse esistito prima, è abissale… ed oggi non facilmente ammissibile.

Di più: dal punto di vista ‘professionale’ Irnerio entra davvero sulla scena giuridica del suo tempo solo col Placito di Baviana (1113) –ottant’anni dopo Sichelmo [ca. 1035]– in quanto ‘eccellente’ conoscitore dei testi legali giustinianei da lui stesso ricostruiti; quei testi divenuti ormai utili-necessari all’Imperatore tedesco per imporre il ‘proprio’ Diritto –tributario– ai popoli europei. Chi meglio del loro ‘editore’ poteva conoscere tali norme e sostenere ad litteram le ragioni imperiali nelle diverse contese connesse alla renovatio Imperii? Non è per nulla casuale che un tedesco (Warnerius) che ben conosce il Diritto imperiale (così era recepito al momento quello romano-giustinianeo) venga introdotto quale membro dei collegi giudicanti che vedono posti in questione proprio gli Iura regalia (Diritto tributario); di qui il passo alla qualifica di ‘giurista’ –contro l’originale grammaticus– è del tutto scontato.

Anche il fatto che quello irneriano fosse già Studium –diverso dalla Scuola d’Arti liberali– risulta insostenibile: Irnerio, infatti, è presentato come Magister Artium –per di più ‘autodidatta’, a dire del suo stesso devoto cantore Odofredo–, al pari dei suoi predecessori (Pepo) e contemporanei; fu solo la straordinaria coincidenza di svariati fattori –sociali, culturali, tecnici, didattici e politici–, cui lo stesso Irnerio non risultò estraneo, a mutare lo status istituzionale della struttura didattica bolognese conferendole primati ‘estrinseci’ rispetto alla concreta docenza irneriana. L’affiancamento della didattica del Maestro Graziano in ambito canonistico evidenzia l’assoluta irripetibilità di quei pochi decenni che, partendo da Bologna, cambiarono le basi della storia europea.

Sarebbe oltretutto sbagliato attribuire al solo Irnerio la responsabilità della nascita dello Studio felsineo, quando è ormai chiarito che la sua prima radice procedette da “orientamenti filologici e romanistici già presenti nell’aria” e non solo di marca bolognese.

3 Conclusioni

Qui giunti è finalmente possibile esplicitare quanto sino ad ora perseguito attraverso un percorso ‘concentrico’.

Prima di tutto –e fondamentalmente– il fatto che Bologna, in fondo, abbia caratterizzato la propria posizione e preminenza in campo giuridico dal sec. XII soltanto per tre elementi ‘intrinseci’: a) l’integrità del Digesto, b) l’edizione critica dei Libri legales, c) il metodo della Glossa.

Posto ciò, diventa allora possibile anche affermare come l’insegnamento reggiano delle Arti liberali che ebbe come Maestro Sichelmo dal 1035 circa al 1077 almeno, risulti senz’alcun dubbio precedente all’esperienza bolognese nell’insegnamento gius-romanistico giustinianeo, seppure privilegiando l’operatività e la ‘struttura ordinamentale’ (Institutiones) alla precisione ‘testuale’, che avrebbe potuto sgorgare solo dalla piena conoscenza dell’intero Corpus normativo.

Ne deriva che neppure la data del 1088, indicata in modo del tutto convenzionale, come inizio dell’Alma Mater reca interferenze all’individuazione in Reggio con Sichelmo di un vero –per quanto non unico– polo qualificato d’insegnamento giustinianeo del nuovo millennio. Le ragioni della politica –tributaria imperiale– hanno però fatto sì che lo studio del Diritto romano giustinianeo quo tale (Reggio e varie altre sedi) cedesse allo studio del Diritto imperiale (Bologna) al quale i testi giustinianei furono strumentalmente ridotti per l’onnipotente ragion di Stato: “unum necesse esse Ius, cum unum sit Imperium”.

Non di meno la peculiarità dei fatti, delle circostanze e dei fattori centro-emiliani (e non solo) sin qui abbondantemente indicati permette di considerare l’esperienza reggiana dell’XI secolo come assolutamente specifica, per quanto –probabilmente– non unica, e comunque tale da esigere adeguato ‘riscatto’ rispetto alle generali –e generiche– attribuzioni ed alla ‘prestanza’ lungamente tributate alla sola Alma Mater bolognese in fatto di insegnamento medioevale del Diritto giustinianeo.

Per rendersi adeguatamente conto della reale portata innovativa della prospettiva sin qui palesata vale certamente la pena considerare come lo stesso Gualazzini, pur convinto della propria tesi (che illustra e motiva documentatamente, e reiteratamente), non sia però riuscito a liberarsi dall’inerzia bolognese e ne abbia manifestato la portata anche attraverso il pensiero di altri, come il Fichter. È significativa in merito la più volte rilevata contrapposizione metodologica tra i protagonisti della Iurisdictio canossana e quelli della scuola felsinea, anche se i termini del contrasto non paiono colti adeguatamente, poiché manca una sufficiente consapevolezza metodologica nel non riuscire a riconoscere alcuni elementi del tutto decisivi in questa prospettiva. Prima di tutto, la concreta non vigenza ‘universale’ del Diritto giustinianeo fino al sec. XII: i Giudizi, infatti, si tenevano ancora secundum propriam Legem e la prassi nel Tribunale dei ‘pari’; allo stesso modo non è corretto identificare il Diritto romano univocamente con la sua proposta bolognese tramite la Glossa, visto che i secoli precedenti già lo conoscevano ed utilizzavano: il non-bolognese non è necessariamente non-romano o non-giustinianeo, ed il matildico non è affatto regressivo; non si può neppure paragonare ex æquo una prassi giudiziaria pluridecennale col ‘solo’ pensiero di una Scuola, per quanto ‘ufficiale’ e –perciò– blasonata.

A proposito di metodo, poi, pare necessario suggerire alcune ulteriori considerazioni di portata più generale per questo genere di studi.

a) Va prima di tutto sottolineato come la Glossa non sia in sé un metodo ‘intrinsecamente giuridico’ quanto, piuttosto, un procedimento tecnico comune a tutte le Discipline che facciano di un testo il proprio oggetto d’interesse e studio –altrettanto dicasi per l’Esegesi–.

A rigor di logica –epistemologica–, invece, sono proprio le Institutiones il metodo più tipicamente giuridico; è attraverso di esse, infatti, che s’inizia a mettere a fuoco e poi si acquisiscono le caratteristiche –sempre più specifiche– dei singoli Istituti giuridici, fino a possederne la ratio più profonda ed a poterne adattare la fruizione (esecutiva) e l’applicazione (forense) secondo le norme giuridiche vigenti in ogni tempo/spazio …come, in fondo, aveva già insegnato parecchi secoli prima Celso (I secolo d.C.): «scire Leges non est earum verba tenere, sed vim ac potestatem». L’esperienza giuridica ormai bimillenaria del mondo occidentale ha inoltre mostrato in varie occasioni proprio una sorta di gradualità metodologica al riguardo: [a] si parte dal ‘testo normativo’, se ne fa l’Esegesi (dopo o insieme alla Glossa a seconda della complessità e notorietà del ‘linguaggio’ utilizzato nel testo stesso), seguono dapprima [b] il Commento (spesso su base giurisprudenziale, dando così corpo al Digesto) e poi [c] le Istituzioni (quando la comprensione del testo è matura ed ormai completa), in coda al processo metodologico si colloca –dal sec. XX– [d] la c.d. Dogmatica giuridica come ‘ricostruzione ordinamentale’ in grado di colmare ‘a posteriori’ le eventuali falle e carenze dell’Ordinamento stesso così emerso e delineato. E ciò ciclicamente, ad ogni nuova legiferazione di una certa portata ordinamentale.

b) Vale la pena anche rilevare (sotto il profilo metodologico) come l’opera scientifico-giuridica del secondo grande Maestro bolognese, Graziano –di poco successivo– sia stata di ben altra tempra metodologica rispetto a quella irneriana. La sua “Concordia discordantium Canonum”, infatti, insegnò non tanto cosa si debba ‘leggere’ nei testi degli antichi Canones (glossa textus) ma come si possa/debba trarre il Diritto vigente dalle norme pur contrastanti che la storia trasmette attraverso i secoli. Senza dubbio ciò mostra una consapevolezza teoretica, metodologica e sistematica, che proprio la stessa Bologna –ammaliata dalla Schola textus: la Glossa– dimostrò di non saper recepire, assoggettando ben presto a Glossa anche lo stesso Decretum.

c) Uno degli errori commessi spesso durante il secolo scorso, soprattutto per le Discipline umanistiche, è stato quello di confondere ‘fonti’ e ‘metodo’, identificando il ‘metodo’ semplicemente con le ‘fonti’, senza accorgersi che, se è pur vero che senza ‘fonti’ non c’è scienza, in realtà è solo il ‘metodo’ a ‘fare’ la scienza. Così accadde a Bologna: la nuova scienza giuridica derivò dal nuovo metodo (la Glossa), non dalle ‘fonti’ giustinianee come tali che da sempre avevano circolato in Italia settentrionale, più o meno corrotte o critiche…

d) La lacuna d’informazioni che si estende ancora sulla prima parte del secolo XII –ormai discretamente documentato però in campo giuridico– è senz’altro imputabile a carenze documentarie, ma fa riflettere che i nomi dei Magistri e Doctores che si addensano nelle carte di tale tempo vadano ricondotti costantemente al secolo precedente.

Di fatto senza la “Rhetorimachia” di Anselmo da Besate –emersa solo a fine Ottocento– nulla avremmo saputo neppure di Drogone di Parma né di Sichelmo di Reggio e della sua docenza romanistica.

Se è pur vero che non si può pretendere di fare storia sulla base di documenti non (ancora) esistenti, non di meno, –solo– la plausibilità contestuale ed organica delle migliori ipotesi sarà in grado di ‘accogliere’ i documenti ed i fatti di nuovo rinvenimento per ri-collocarli nella loro culla natia: proprio ciò che accadde a Bologna quando Irnerio, dopo lunga gestazione, diede alla luce l’edizione critica del Corpus Iuris civilis.

La consapevolezza di chi scrive si orienta, per il futuro, alla ricerca di tutto quanto possa dare sponda all’ipotesi prospettata, corroborandone i fondamenti ed inspessendone la struttura; ciò soprattutto attraverso l’approfondimento degli elementi storici ‘localistici’: gli unici –forse– oggi ancora in grado di offrire ‘novità’ in fatto di ‘dati’ e ‘fonti’. Si tratterà, in massima parte, della faticosa ricostruzione delle vicende storiche del periodo bizantino-longobardo nei territori dell’Emilia occidentale appenninica: laddove nel sec. XI si trovarono i capisaldi, anche culturali, dell’esperienza –anche– giuridica canossana.


in RIVISTA DI STORIA DEL DIRITTO ITALIANO, LXXXIV (2011)