SOMMARIO: Introduzione. - 1. I fatti. - 1.1 Sichelmo. - 1.2 Anselmo da Besate. - 1.2.1 Il personaggio e l’attività. - 1.2.2 La formazione di Anselmo. - 1.3 Giudizio di Garfagnolo (1098). 1.4 L’insegnamento romanistico-giustinianeo reggiano. - 2 Le circostanze. - 2.1 Circostanze reggiane. - 2.1.1 La Reggio d’inizio millennio. - 2.1.2 Le proprietà private canossane. - 2.1.3 La politica canossana. - 2.1.4 Il governo femminile delle Signore di Canossa. - 2.1.5 ‘Romanisti’ canossani. - 2.1.6 Il Placito di Marturi. - 2.2 Altri elementi e fattori circostanziali. - 2.2.1 Elementi romanistici emiliani (Nonantola). - 2.2.2 Giurisdizione ‘pontificia’ altomedioevale in Emilia centrale. - 2.2.3 Contratti agrari: enfiteusi e precaria. - 2.2.4 La presenza letteraria giustinianea pre-bolognese. - 2.2.5 L’evoluzione della cultura dominante. - 2.2.6 Irnerio e la sua opera. - 3. Conclusioni.
Introduzione Alla “Scuola giuridica reggiana” avevano già dedicato attenzione e ricerche nel secolo scorso insigni studiosi come U. Gualazzini che ne tracciarono un soddisfacente ritratto dall’affermazione (fine del XII sec.) alla cessazione nei primi decenni del XIV sec. a causa del decadimento della vita comunale, attraverso figure quali Jacopo da Mandra (dal 1188), Giacomo Colombina (1194), Pietro Divino (1230-1240), Accursio reggiano (1266-1273), Guido da Baiso (canonista, 1270), Bernardo Talenti (1273), Guido da Suzzara (1270-1278), Giovanni da Bondeno (civilista, 1276), Pancratino (canonista, 1276). Ciò che tuttavia ne rimane ancora in ombra è l’elemento (ed il momento) probabilmente più specifico: il prodromo su base romanistica, già alla metà dell’XI sec. Tale prospettiva non risulta ancora perseguita in modo esplicito in campo scientifico sia per una generale carenza di formazione specificamente giuridica degli storici in genere, sia per la sottovalutazione di un certo numero di elementi locali da parte dei giuristi che ne hanno trattato, intersecandosi tale tematica sia [a] con le questioni tecniche circa il passaggio dalle Scuole d’Arti liberali dell’XI sec. alle Universitates del XIII (nella impossibilità di essere univoci sull’uso di ‘Scuola’ e di ‘Studium’ per le strutture didattiche dell’XI sec., spesso neppure istituzionali) che [b] con quelle connesse alla presunta ‘riscoperta’ bolognese del Diritto romano-giustinianeo, visto emergere in quella sede come da un ‘nulla’ durato ben cinque secoli… Tematiche che, per la loro indubbia importanza, finiscono facilmente per sbilanciare la ricerca e la trattazione verso altre direzioni da quella che qui si vorrebbe invece intraprendere. Lo stato attuale delle ricerche, tanto storico-giuridiche generali che di Storiografia locale, permette infatti ormai di rileggere molti dei dati già conosciuti ri-collocandoli in un ‘quadro circostanziale’ più completo che vada dal biografico al giuridico, al politico e didattico, soprattutto dell’era pre-matildica in modo da non patire tentazioni né rischi di deviazione dal tema. Ne emerge una solida ipotesi capace di prospettare nella docenza reggiana di Sichelmo (ca. 1035-1075) l’anticipo di quasi un secolo nell’insegnamento del Diritto romano-giustinianeo rispetto alla vulgata convinzione che ne attribuisce l’origine ad Irnerio (o almeno a Pepo) in quel di Bologna. Si tratta, innanzitutto, di valorizzare adeguatamente le ricerche del Gualazzini alla metà del secolo scorso, pur sviluppandone alcuni esiti differenti: mentre, infatti, per la Scuola reggiana nel suo complesso egli si chiese soltanto «[3)] come e perché il principale insegnamento fosse stato quello del Diritto», sarà possibile dimostrare ora che tale Diritto era proprio quello romano-giustinianeo, autorevolmente insegnato –almeno– a Reggio già alla metà del sec. XI, per quanto in forma ‘generale’ e “per institutiones”. Allo stesso tempo forniranno una solida cornice contestuale e scientifica gli studi più generali –e recenti– di E. Cortese (per gli elementi più tecnici) e P. Grossi (per quelli più concettuali), affiancati ed accresciuti da un significativo numero di specificità ‘reggiane’ –o ‘canossane’ che dir si voglia (per quanto non esclusivamente ‘matildiche’)–. L’esito prospettato –e le sue gravide conseguenze– richiede qualche elemento di premessa metodologica per illustrare la struttura della ricerca e validarne tanto la fondatezza che il risultato, perché possa trattarsi di plausibile ‘dimostrazione’ scientifica e non di semplici ‘argomentazioni’ strumentali a questo o quell’altro obiettivo ideologico. Si procederà così su due livelli distinti ma complementari, secondo i gradi di certezza e specificità dei ‘dati’ in nostro possesso: a) fatti, b) circostanze. I fatti (concreti, accertati e specifici) reggeranno la maggior parte del peso dimostrativo indicando ‘puntualmente’ ciò che è accaduto; le circostanze (altri fatti concreti ma meno specifici e più generali) serviranno ad inquadrare i singoli avvenimenti all’interno di una prospettiva più ampia che ne permetta un’adeguata valorizzazione in rapporto all’effettiva cornice ‘fattuale’ in cui tali eventi si realizzarono, cercando in tal modo di sfuggire alla maggior parte delle costrittive ‘scelte’ ideologiche che già hanno profondamente segnato la materia, almeno nel suo versante italico (tradizionale). 1. I fatti 1.1 Sichelmo Il primo interessamento monografico autonomo a questo insigne quanto misterioso personaggio emiliano va attribuito a Mons. L. Tondelli che nel 1937 ne tracciò un primissimo ritratto con grande accrescimento di dati, integrando e correggendo il Campanini che aveva dedicato a Sichelmo solo queste parole: «in nessun modo è dato provare che prima del 1068 esistessero a Reggio Scuole d’Arti liberali; in quell’anno le tenne Sichelmo, che fu a Parma eruditissimo discepolo di Drogone, dove poi andò Maestro»; il dato era già stato ripreso l’anno seguente dal Balletti in termini pressoché identici: «la prima notizia d’una Scuola laica è del 1068, quando Sichelmo, discepolo di Dragone (sic) a Parma, e poi là Maestro, tenne la Scuola di Reggio». Sino ad allora non risultano trattazioni su tale Maestro ‘reggiano’ in quanto il futuro Card. A. Mercati, che pure nel 1891 (da Roma, dov’era studente) aveva raccolto, tradotto e pubblicato quanto sulle Università reggiana e modenese scriveva il Denifle, arricchendolo con note erudite, non aveva fatto cenno alcuno a Sichelmo, nonostante da Parma il Mariotti ne avesse già portato alla luce l’esistenza nel 1888, sulla scia del Dümmler (1872). Tre gli elementi che Tondelli contesta ai predecessori: [a] la ‘laicità’ dell’insegnamento di Sichelmo (contro il Balletti), [b] la cronologia a suo riguardo (1068) e [c] l’insegnamento a Parma. Alla presunta ‘laicità’ dell’insegnamento delle Arti liberali di Sichelmo, Tondelli contrappone lo status ecclesiastico dello stesso: Arcidiacono e ‘Præpositus’ della Chiesa reggiana. Sulla cronologia, invece, egli interviene per doppia via: quella documentale, adducendone presenze certe dal 1061 al 1075 (che oggi possiamo spostare al 1077), e quella deduttiva dipendente dagli scritti pubblicati dal Dümmler sul principale allievo di Sichelmo: Anselmo da Besate. Secondo Tondelli poiché l’Imperatore Enrico III morì nel 1056, ed Anselmo il Peripatetico fu con lui quale Cappellano dal 1049 circa, la Scuola di Sichelmo a Reggio non poté incominciare dopo il 1045, e potremo dire che incominciasse verso il 1040 circa, se consideriamo il tempo necessario perchè si propagasse la fama del nuovo Studium sì da attrarre giovani lontani e nobili quale Anselmo di Besate. Allo stesso tempo egli corregge un altro dato erroneo sul ritorno a Parma di Sichelmo: abbiamo la prova che egli non passò ad insegnare a Parma: sia perchè nessun documento e nessuna fonte questo afferma (e sono sì limitate che le abbiamo tutte passate in rassegna), sia perchè, positivamente, da quando verso il 1040 Sichelmo, che doveva essere allora assai giovane, venne a Reggio, ivi l’attestano tutti i documenti che lo ricordano. Chiara ne risulta la conclusione: «lo Studio aperto da Sichelmo in Reggio ebbe quindi anche per la sua durata, importanza assai maggiore di quanto non siasi sospettato sinora»; non dunque poco più di una dozzina d’anni (1061-1075) ma circa quaranta. Cosa sia stato possibile fare in tal tempo non è dato conoscere in modo diretto e –finché non compariranno nuovi documenti in merito– dovrà essere investigato attraverso elementi soltanto circostanziali, comunque non assenti né insignificanti. Circa l’identità di Sichelmo quasi nulla ci è giunto tranne le poche ‘presenze’ documentali e le menzioni che ne fa il suo allievo d’origine pavese: Anselmo da Besate. Di fatto gli unici documenti per conoscere il Maestro reggiano sono: [a] la lettera con cui Anselmo chiede a Drogone di Parma (di cui Sichelmo era stato allievo) di sostenere la presentazione della sua opera intellettuale presso la Corte imperiale, cui era nota la fama di Drogone e della Scuola parmense e [b] la dedica di tale opera all’Imperatore Enrico III. In tali scritti Anselmo loda Sichelmo sia davanti al di lui Maestro che allo stesso Imperatore enumerandone le capacità ed i meriti, celebrandolo fra tutti per la sua arte di retore pari a Cicerone e per le conoscenze giuridiche “quasi un Giustiniano”. Al di là dell’iperbole letteraria traspare la statura scientifica di Sichelmo; per il Tondelli l’affermazione di Anselmo secondo cui Sichelmo “docet gentes” non può certo esprimersi di un insegnamento privato e neppure di un insegnamento ad un uditorio locale. Come allo Studio di Drogo a Parma accorrevano gli scolari da tutte le parti d’Italia e delle terre straniere, così anche a Reggio per quello di Sichelmo. Di fatto Sichelmo, pur essendo stato anche Præpositus del Capitolo cattedrale, pare abbia esercitato la propria attività di docente –anche– al di fuori della Scuola capitolare cittadina, sfruttando probabilmente condizioni favorevoli a tal genere di attività connesse anche col primo strutturarsi della municipalità, oltre all’interesse dei ‘potenti’ del tempo/luogo (i ‘da Canossa’); in tal modo si può presumere che Drogone e Sichelmo fossero titolari di Scuole di natura privata che funzionavano con il benestare dei rispettivi Vescovi, i quali potevano trarre solo vantaggi dalla presenza in città di due Magistri tanto apprezzati. Si spiegherebbe in tal modo la qualificazione di “Scuola laica” genericamente attribuita all’attività di Sichelmo; ‘laica’ nel senso di non-capitolare (cioè non-ecclesiastica), e non necessariamente –invece– perché tenuta da ‘laici’ per ‘laici’, né tanto meno svincolata dal Vescovo, unica autorità cittadina, in un tempo in cui il declinare del prestigio dell’autorità centrale, già iniziatosi sotto i Franchi e che viene assumendo i suoi aspetti più tipici nel X e XI secolo, concorreva […] a permettere la fioritura locale delle Scuole, manifestazione dell’autorità vescovile, così come di essa era manifestazione, si può dire, ogni segno di potere organizzato. […] Lo sviluppo delle vicende scolastiche nelle città del distretto cremonese è analogo, tanto da giustificare il convincimento che le Scuole sieno tutte quante fiorite in medesime condizioni ambientali. Di parere diverso G.C. Mor che, contrapponendo la propria teoria delle ‘Scuole marchionali’, non accetta la riconduzione di tutto l’insegnamento superiore alla matrice ecclesiastica, rivendicando l’esistenza di vere e proprie Scuole ‘laicali’. In realtà questo dissenso non compromette in nulla la figura di Sichelmo e delle sue competenze romanistiche, espressamente testimoniate da Anselmo da Besate; tanto più che tali testimonianze scritte riguardano la persona di Sichelmo e non già la sede o la forma più o meno istituzionale del suo insegnamento. Per di più l’assenza tanto del termine “schola” che del –successivo– “studium” negli scritti anselmiani –che parlano solo di “dottrina”, “Maestri” e “discepoli”– non osta al presupposto «che nel X-XI secolo gli insegnamenti fossero basati su una societas fra scolaro e Maestro» assunto dallo stesso Mor come risolutorio; questo, anzi, confermerebbe il non-passaggio di Anselmo da Parma a Reggio …da Drogone a Sichelmo, da Scuola a ‘Scuola’, nonostante sino ad oggi gli autori abbiano sostenuto –infondatamente– il contrario. Secondo Gualazzini, poi, i volumi testimoniati (ben più tardi) presenti a Reggio sarebbero sicura prova di tale organizzazione scolastica, trattandosi di opere classiche di Retorica e Letteratura, che ebbero una loro funzione precisa nella formazione delle generazioni colte dei secoli IX, X e XI. Opere di questo genere erano possedute nelle biblioteche viciniori, che risalivano ad epoche anteriori al mille. [Mi] pare logico, quindi, pensare che esse già preesistessero in Reggio allo stesso Sichelmo. Ora si sa che dove esiste una biblioteca di solito esiste anche un insegnamento, onde sembra logico di poter dedurre che all’ombra della Cattedrale si fosse praticato un insegnamento, non solo per i chierici, ma anche per i laici. D’altra parte sarebbe difficile spiegare l’improvvisa fioritura di studi a Reggio nell’XI secolo, se non si fosse venuta alimentando una tradizione culturale. Tali volumi addirittura, non solo, sarebbero «i relitti di quella biblioteca capitolare che alimentava la Scuola religiosa per laici», ma costituirebbero ulteriore prova «della perfetta continuità della Scuola in Reggio nei secoli IX e X, con l’insegnamento del Trivio e del Quadrivio», visto anche che la preesistenza della Scuola reggiana a Sichelmo risulta provata «da documenti di cui non si può mettere in dubbio il valore»; e già il Dresner, sulla falsa riga del Denifle, aveva computato Reggio tra le “grandi città” dotate in tal modo, insieme a Milano, Parma, Bologna. Non si dimentichi in questa prospettiva ‘integrante’ come il Vescovo di Reggio Emilia possedesse già dall’età carolingia esercizio di vera giurisdizione per la Diocesi e, in seguito, per la stessa città. Proprio il Vescovo di Reggio Emilia, d’altra parte, presiederà la prima seduta italiana di ‘laurea’ –in Diritto(!) –di cui si possieda documentazione scritta: con esami solenni davanti al Collegio, all’Università degli studenti, al pubblico ed al Vescovo si assegnavano le lauree. Quella di Lettore veniva concessa dal Vescovo dopo un esame privato e lo Studio ne rilasciava diplomi, uno dei quali, dato il 5 febbraio del 1276 a Pietro Amedeo Cigincoli di Brescia, è il primo che si conosca nella storia degli studi italiani, e poiché quel diploma autorizza Amedeo a tener scuola a Reggio, se ne conclude che il nostro studio aveva tutti i gradi di vera Università. A proposito di Sichelmo, tuttavia, alcuni autori indugiano nel contrapporre la sua posizione di docente a quella di altri personaggi reggiani –non meno oscuri– del tempo, conosciuti col titolo di Magischola: Domenico (nel 1038) e Giovanni (nel 1059), come appaiono in alcuni contratti delle Carte del Monastero di S. Prospero, che conoscono anche –negli stessi anni– lo stesso Sichelmo. In tal modo «Sichelmo non si identifica con la Scuola, la quale, […] ha vita sua, che supera quella del dotto sacerdote», pur non potendosi ancora neppure ipotizzare né identità né sviluppi con quanto caratterizzerà il periodo successivo in campo didattico. In proposito si è scritto recentemente: non mi pare che si possa parlare per la Scuola di Sichelmo di uno Studio vero e proprio –come propone Leone Tondelli– anche se nelle sue lezioni passava agevolmente dalla Retorica al Diritto ed alla Teologia [?!]; è più in armonia con la documentazione in nostro possesso pensare ad una Scuola non del tutto svincolata dalle Arti liberali, nelle quali Sichelmo era peritissimus, e non rigidamente inquadrata nelle Scuole capitolari sotto la tutela del Magister scholarum, tant’è vero che nel 1073 Sichelmo, divenuto Canonico della Cattedrale, non ricoprì la carica di Magister delle Scuole, naturale per chi vi avesse insegnato da circa trent’anni, ma quella di Arcidiacono. D’altra parte, se il titolo di Magischola era istituzionalmente riconosciuto ai responsabili della Scuola capitolare, lo stesso non avrebbe potuto venire attribuito ad un ‘semplice’ Magister privato che, come Sichelmo (e quanti altri ai quei tempi?), offriva formazione altamente specialistica ai ‘propri’ discepoli …non sappiamo presso quale sede. Allo stesso modo, i vari ruoli ricoperti da una persona in epoche diverse della propria vita non escludono che la stessa abbia potuto, proprio in tempi tanto diversi, esercitare anche attività –prima che ruoli istituzionali– differenti. Concretamente: un Chierico eccellente giurista, prima di assumere cariche ecclesiastiche di rilievo, avrebbe potuto tranquillamente dedicarsi –con tanto di consenso episcopale– alla formazione di un’intera classe di giuristi tanto utili alla vita civile che a quella ecclesiastica, senza che questo contrastasse necessariamente né col suo status canonico, né col suo eventuale esercizio ministeriale. La sua promozione alle cariche ecclesiastiche di maggior rilievo –Præpositus capitolare e più tardi Arcidiacono della Chiesa reggiana– potrebbe così risultare la semplice controprova della straordinarietà dell’iter seguito e dell’eccellenza della sua azione. Il fatto che a Sichelmo manchi la qualifica di magischola, propria dei Capitoli cattedrali, non significa affatto che non gli fosse attribuita –invece– quella di Magister; tanto più che la prima comportava la sostanziale responsabilità –amministrativa– dell’organizzazione e funzionamento della struttura scolare… attività non necessariamente coincidente con l’eccellenza della docenza svolta, tanto più se la persona in questione esercitava già altri prestigiosi incarichi. Su questa espressa identità professionale del Maestro reggiano sembra gravare la critica del Mor, secondo cui «l’opera svolta da Sichelmo fu di Giudice, non di “conditor Legum” o di pseudo Leggi». Il docente modenese, criticando sia Fitting che Gualazzini, ironizza infatti: ma è mai possibile che Anselmo, sia che fosse Cappellano di Enrico, sia che lo volesse diventare, gli ponesse come referenza l’esser stato a scuola da un tale che si poneva sullo stesso piano dell’Imperatore nel far Leggi? […] Ma era cosa da farsi cacciar sui due piedi, altro che ottenere un posto! […] Ma quello che mi par certo è che dalle ultime parole di Anselmo Peripatetico si deve ricavare che il Maestro reggiano non si diede arie di legislatore, ma esercitò un’attività pratica di giusdicente. L’obiezione non può tuttavia essere accolta sia per l’effettivo contenuto del testo anselmiano stesso invocato a sua giustificazione, sia –e molto maggiormente– perché trascura (e dimentica o nega) alcuni elementi, non solo circostanziali, importantissimi: a) «non v’è, né vi può essere, il dubbio più lontano che Sichelmo fosse Maestro in una Scuola di Arti liberali e non un Giudice», come espressamente dicono gli stessi testi anselmiani, b) quale miglior scuola avrebbe dovuto frequentare un aspirante Cancelliere che quella in cui s’insegna a redigere Documenti ufficiali secondo lo stile ‘proprio’ della Curia imperiale (romano-bizantina)? c) L’aspirazione di Anselmo era la Curia/Cancelleria e non il Tribunale, d) l’insegnamento dello ‘stile’ legislativo non porta in sé alcuna irragionevole alterigia di porsi quale ‘legislatore’, e) i tempi della Lotta per le Investiture furono fecondissimo grembo di Documenti legislativi ‘falsificati’ e manomessi a regola d’arte… a prova di Cancellerie papali ed imperiali –e di secoli di critica letteraria successiva!– Nulla ci è dato, infine, sapere del termine della sua esistenza, tranne la ‘presa a livello’ (già dal 6 maggio 1068) dai Canonici della Cattedrale di Parma di un terreno del suburbio di quella città, senza che tuttavia una tal informazione possa far ipotizzare specifiche conseguenze né didattiche, né residenziali, tanto più che la mobilità dei chierici è comunque assoggettata al consenso dei loro Vescovi; la scelta, d’altra parte, appare logica se la sua provenienza originaria risultasse effettivamente parmense. Un terreno preso a livello (sostanziale enfiteusi), poi, costituiva già da tempo una forma reddituale ‘privatistica’ conosciuta ed ampiamente praticata ai tempi canossani (v. infra). Per quanto dai documenti in nostro possesso l’attività docente di Sichelmo –ed eventuali successori– non paia giungere alla fine dell’XI sec., tuttavia a Reggio «si hanno notizie dell’esistenza di cultori del Diritto, degni della considerazione dei contemporanei, anche dopo la scomparsa del Maestro insigne»… né basta la morte del maggior esponente per estinguere un’istituzione che –forse– gli pre-esisteva e che ricomparirà –per quanto mutata– dopo qualche decennio, facendo tesoro di quanto già seminato e raccolto a livello culturale. Anche l’ipotesi non-istituzionale e transeunte del suo insegnamento, tuttavia, non indebolirebbe affatto il suo profilo scientifico e didattico, né condizionerebbe la materia del suo insegnamento, di cui qui ci si occupa specificamente. 1.2 Anselmo da Besate 1.2.1 Il personaggio e l’attività Testimone unico di Sichelmo reggiano è uno dei personaggi più complessi del sec. XI: Anselmo “il Peripatetico”. I dati che ci giungono dalla sua opera e persona sono gli unici in grado di dare corpo e spessore alla sede in cui ricevette la propria formazione ‘laica/civilistica’ (cioè non-ecclesiastica) ed al suo Maestro; dati sconosciuti –come pure la persona di Sichelmo– fino alla pubblicazione delle sue opere nel 1872 da parte del Dümmler. Attivo presso la Cancelleria episcopale di Bamberga nel 1045 –avendo evidentemente già terminato gli studi reggiani–, passato poi alla Cancelleria del Regno d’Italia nel 1047, Cappellano dell’Imperatore Enrico III dal 1048 al 1050 circa è dai suoi scritti (connessi alla “Rhetorimachia”, scritta verso la metà del secolo) che si trae il maggior numero di elementi altamente probabili per l’argomento in esame. Le notizie utili si reperiscono in tre documenti: a) la lettera al Maestro Drogone per ottenerne il patrocinio culturale presso lo stesso Imperatore (datata al 1050 circa), b) la lettera a Drogone ed agli studenti parmensi sulle dispute in Gallia e c) la Dedica dell’opera all’Imperatore Enrico III (v. infra). La partenza obbligata per conoscere il Maestro reggiano di Diritto, a motivo delle forti annotazioni biografiche, è la prima lettera a Drogone parmense: è in essa che compaiono le principali notizie a riguardo di Sichelmo e del suo insegnamento. La circostanza indicata da Anselmo ed il testo della lettera mostrano l’evidente desiderio del giovane nobile longobardo di ingraziarsi un famoso Maestro del quale non aveva avuto fino a quel momento conoscenza personale e diretta, tanto da ricorrere –retoricamente– alle giuridiche (e romanistiche) adoptio e mancipatio (v. infra) per ‘passare’ dal gruppo degli studenti reggiani a quello dei discepoli ‘diretti’ di Drogone parmense (la “droconica secta”) la cui fama era attestata in tutta Europa. Anselmo, che si autodenomina “peripatetico”, proveniva da famiglia nobile longobarda (i “da Besate”) di area pavese. Ecclesiastico e parente di molti Vescovi, compì i propri studi inizialmente nella vicina Pavia, recandosi poi a Milano per completare la formazione ecclesiastica. Si trasferì in seguito a Reggio a completare la preparazione ‘tecnica’ necessaria in vista della carriera ecclesiastico-imperiale cui i nobili ecclesiastici erano spesso ‘indirizzati’. In tutta evidenza egli era predestinato a ricoprire quell’ufficio e il fatto che la famiglia lo indirizzasse a studiare verso le filoimperiali Parma e Reggio […] era, per ciò stesso, la controprova della fama delle due sedi scolastiche, che costituivano verosimilmente un passaggio obbligato per le nuove generazioni di burocrati dell’Imperatore. In Emilia, Anselmo venne dunque ad acquisire un livello di preparazione superiore. Alla Scuola [di Sichelmo, infatti] accorrevano anche studenti forestieri, spinti ad abbandonare le loro città spesso dotate come Pavia di buone Scuole di Arti liberali, per prepararsi meglio alla loro futura carriera al servizio delle autorità laiche o ecclesiastiche in un momento in cui era notevolmente aumentata la richiesta di persone in possesso di una buona padronanza della lingua e di una adeguata conoscenza delle consuetudini cancelleresche e dei testi giuridici. È certa la parentela di Anselmo con il Casato dei Canossa, non meno che con altre famiglie nobili longobarde residenti allora sia in Parma che a Lucca, circostanza, questa, interessante per far emergere il suo travaglio formativo e, forse, non solo: infatti pur potendo trasferirsi a Parma, più vicina a Pavia, alla Scuola di Drogone, ben più celebre che il reggiano Sichelmo, egli tuttavia elesse per la propria specializzazione proprio Reggio. Scelta non indolore quanto a prestigio, visto che in seguito dovrà ‘raccomandarsi’ a Drogone per ottenerne un adeguato patrocinio in campo europeo; «d’altronde qui era certamente un centro di insegnamento di non comune risonanza se Anselmo da Besate, venne a Reggio alla Scuola di Sichelmo, preferendo questo all’insegnamento pavese, che pur doveva essergli più comodo». Osservava in merito il Tondelli: apparentato con l’Arcivescovo Arnolfo di Milano e suo fratello Landolfo Vescovo di Brescia, e, per lato di padre, con l’Arcivescovo Giovanni di Ravenna e coi Vescovi Sigifredo di Piacenza, Kuniberto di Torino e Giovanni di Lucca, non si comprenderebbe perchè il giovane come centro dei propri studi avesse scelto Reggio, abbandonando Parma dove prima aveva studiato se non ci fossero stati una personalità ed uno Studium già noti ormai. Ciò non rende tuttavia sufficiente ragione di troppi elementi –soprattutto ‘logici’– riguardanti la biografia del futuro Cappellano imperiale così come emergono nei suoi scritti. In effetti, quanto normalmente dedotto dalla lettera premessa alla “Rhetorimachia” non si concilia –dal punto di vista logico– con quanto posto al termine dello stesso scritto; in tale composizione infatti Anselmo dà informazioni preziose circa la sua vita e la sua carriera. Passato «a liberalibus [...] disciplinis [...] ad capellam [...] Imperatoris» nel suo peregrinare per ragioni di Ufficio, confessa di avere portato con sé l’opera –che si vorrebbe– composta sotto la guida di Drogone («opus quod apud vos edidi») e le relative lettere di approvazione rilasciate dal Maestro, di averle mostrate ovunque suscitando invidia per la “draconicam sectam” e per la “italicam disciplinam”. Di fatto, però, l’edizione critica del Manitius (1958) evidenzia a riguardo del probabile luogo di redazione della Rhetorimachia la variante “nos” della fonte “C” al posto di “vos” della fonte “P”; in tal modo il peso argomentativo si regge sulla scelta tra: «opus, quod apud vos edidi» e «opus, quod apud nos edidi»: nel secondo caso Anselmo avrebbe scritto (editum) la Rhetorimachia (opus) per proprio conto (apud nos), sottoponendola in seguito alle correzioni del famoso Maestro parmense. Solo ciò sarebbe perfettamente coerente con quanto appare nella prima lettera a Drogone in cui gli presenta lo scritto in questione per averne il patrocinio; tale prospettiva sarebbe, inoltre, corretta anche a livello contenutistico: poiché Anselmo ha scritto ‘per proprio conto’ la Rhetorimachia, la presenta al Caposcuola (il Maestro del suo Maestro) perché la riveda e corregga: si quid aberratum est, corrige; oscure dictum elugubra; inscitia vel neglegentia pretermissum adiunge; diligenter positum tua confirma asseveracione. Sull’ambientazione dello scritto in quel di Parma, indicata dagli autori in ragione dei riferimenti ‘locali’ in esso contenuti, non paiono esserci grossi problemi in quanto si è propensi a ritenere che l’opuscolo sia stato composto non nel periodo degli studi emiliani, ma in occasione di un passaggio da Parma per motivi d’Ufficio (1047-1048, appunto), ‘mantenendo’ così Anselmo come –puro– studente reggiano di Diritto. Un’ambientazione, per di più, non testimonia altro che la –semplice– conoscenza del luogo e la volontà di rifarsi ad esso; tanto più che sotto questo profilo va considerato come l’attività di Anselmo sia in realtà un’operazione ‘di Scuola’: egli cerca, cioè, di inserirsi all’interno di un movimento culturale già affermato, la “droconica secta” famosa in tutta Europa …e gli evidenti riferimenti alla città di Parma potevano certo favorirlo in questo. Un esame dei testi toglierà molti dubbi. Tuttavia questa ipotesi non pare in reale conflitto con l’altra, poiché quando Anselmo scrive a Drogone lo fa dalla Francia(!) e, vista di là, Reggio è certamente apud Parma; in tal modo l’“apud vos” direbbe solo che l’opera fu redatta “lì da voi …costì”, non necessariamente a Parma, né presso lo stesso Drogone che, diversamente, l’avrebbe conosciuta fin dal suo nascere e non ci sarebbe stata alcuna necessità di sottometterla ad una sua ‘revisione’ potenzialmente tanto profonda come quella effettivamente richiestagli (v. supra). 1.2.2 La formazione di Anselmo Un aiuto prezioso all’indagine su Sichelmo viene dall’esame critico dei testi anselmiani sin qui soltanto evocati …ed indicati in modo solo generico (pedissequo ed acritico) dalla maggioranza degli autori. a) Il primo testo solitamente utilizzato dagli autori per derivarne sino ad oggi la frequentazione della Scuola parmense e del suo Maestro Drogone è la ‘dedica’ dell’operetta retorica all’Imperatore. Va preliminarmente notato come in esso i referenti della formazione di Anselmo siano indicati in terza persona, attenuando così in parte la portata delle presunte relazioni intrattenute con loro. EPISTULA ANSELMI PERYPATHETICI AD IMPERATOREM HEINRICUM […] Talium enim Doctorum mihi fuit doctrina, quia mihi nulla videtur temeritas in illorum disciplina: tum quidem Droco phylosophum, flos et Italie decus, tum Aldeprandus ipse facundissimus, tum Sichelmus liberalium Artium peritissimus. Quem [Dümmler: Qui] ut pre omnibus in suis rethoricis noster habet [Dümmler: habetur] Tullius, sic Iustinianus pre omnibus in imperialibus suis Edictis et legalibus judiciis. Et nec in iudicandis causis potuit esse exiguus, qui in perorandis satis sonat eximius. Inestimabilis autem Droconis enutritus docmate docet gentes iste, factus ut aiunt ipse. Idem vero ipse et iam non alter ipse. Si osserva innanzi tutto come la prima proposizione abbia per soggetto la “doctrina” (mihi fuit doctrina), che ritorna più oltre come ‘dogma’ di Drogo; non è dato intendere in alcun modo dal testo che Anselmo sia stato discepolo diretto del Maestro Drogo –in Parma– (o di Aldeprando), ma solo lo si riconosce come fonte della dottrina appresa attraverso Sichelmo. Drogo, Aldeprando, Sichelmo sono i Maestri di quella dottrina che già in Europa riscuote interesse ed ammirazione. Il discorso, inoltre, è con evidenza puntato su Sichelmo: è lui il ‘nostro’ Tullio (Cicerone) e Giustiniano; per gli altri (Drogo in primis) si tratta di un semplice riferimento alla ‘dottrina/disciplina’ di cui sono blasonati esponenti. Non di meno Drogo è caratterizzato semplicemente come “phylosophum” (non “Magister” o altro) ed introdotto con un semplice “quidem”, mentre per Sichelmo si usa il possessivo “noster”, enfatizzando il legame esistente con lui e non –invece– con Drogone. Sichelmo poi, “liberalium Artium peritissimus”, è considerato identico al suo stesso Maestro: “Idem vero ipse” al punto –forse– da non patirne alcuna concorrenza… risultando, quindi, del tutto indipendente dal Maestro parmense nella propria attività e fama. b) Il secondo testo è forse il più interessante, poiché è quello che parla direttamente di Reggio come sede della docenza di Sichelmo e degli studi giuridici da lui proposti. Si tratta della lettera scritta da Anselmo a Drogo stesso per ottenerne il patrocinio in ambito culturale europeo; il valore del testo è fondamentale per comprendere la qualità e portata della relazione con Drogo e la Scuola parmense. INCIPIT EPISTULA ANSELMI PERYPATHETICI AD DROGONEM PHYLOSOPHUM Venerabili suo Droconi Magistro Anselmus Perypateticus salutem in Christo. […] Huius itaque simplicis intencionis oportunitate animi item fuit consilium audacter quidem sed non inutiliter istius aggredi operis tramitem. […] Itaque tunc temporis apud Regium civitatem Magistrum meum domnum Sichelmum, vestrum discipulum liberalibus disciplinis a vobis studiosissime eruditum adii. Quem vero, quia in hac arte sicut et in ceteris carissime prepollebat, rogavi, quatenus eam michi traderet. […] Quod opus, optime Doctor, licet arduum non tamen debet ascribi temeritati, cum creverim in famiglia tua, nec ullus temeritati patet locus in Drogonica disciplina. Quamvis enim emancipacionis iure a te quondam fuerit solutus, iam tamen per domnum Sichelmum adoptionis vinculo tuo iuri videor colligatus, et qui antea fueram nemancipi, nunc per Sichelmum tibi factus sum mancipi. Tali itaque patrono confisus invidorum detractiones pertimescere nolui, neque eorum putavi patere spiculis. Dal testo emerge con chiarezza come l’inizio della lettera in cui Drogo è chiamato “venerabili suo Magistro” sia di evidente pura formalità; il ‘genere’ è quello del ‘saluto’ ad un personaggio di alto livello. Che non ci siano relazioni dirette e personali tra i due appare con immediatezza qualche riga dopo quando Anselmo, per ‘presentarsi’, deve spiegare di essere stato discepolo del discepolo di Drogo… e questo a Reggio. Se Anselmo avesse studiato a Parma –sotto Drogo– questa sarebbe stata l’occasione migliore per ricordarlo al ‘proprio’ Maestro… invece Anselmo è quasi ‘costretto’ a chiamare “Magistrum et Dominum meum” Sichelmo. Proprio a Sichelmo, inoltre, il besatese dichiara di aver richiesto di essere messo a parte della sua ‘arte’ (Sichelmum adii). Anche il successivo riferimento all’“optime Doctor” è interessante: perché non chiamare Drogo “Magistrum et Dominum meum” se così fosse davvero stato in quel di Parma, prima di venire a Reggio da Sichelmo? Tanto più che proprio di Sichelmo dice essere stato “vestrum discipulum” e “a vobis studiosissime eruditum”. Altro elemento di grande significato è, prima, il riferimento alla ‘crescita nella tua famiglia’ e poi quello alla “drogonica disciplina”; è chiaro in queste formule che l’intenzione di Anselmo è quella di legittimarsi nel suo legame (solo) dottrinale a Drogo, e nella sua pretesa di essere da lui riconosciuto quale ‘discepolo’ o comunque ‘adepto’, nonostante l’estrinsecità delle circostanze di fatto. Il contesto è evidente: si tratta di un discorso di ‘scuola’; Anselmo vuole potersi presentare come appartenente a pieno titolo alla “droconica secta” dei discepoli parmensi, seppure di ‘seconda generazione’ in quanto discepolo di un discepolo. Ed è proprio qui che s’inserisce, finalmente, l’immagine più chiara –e logicamente definitiva– in merito al rapporto col Maestro parmense, al di là di ogni enfasi letteraria. Il nobile lombardo si è fatto mancipium di Drogo attraverso Sichelmo: “nunc per Sichelmum tibi factus sum mancipi”… “per domnum Sichelmum adoptionis vinculo tuo iuri videor colligatus”. Non possono esistere dubbi: il legame con Drogo si realizza “per Sichelmum”, e solo così: non di filiatio si tratta, ma di adoptio/mancipatio! Anselmo non conosce personalmente Drogo e viceversa, ritenendosi tuttavia portatore del suo insegnamento (dirà altrove: “italica disiplina”) –attraverso Sichelmo– si presenta al ‘caposcuola’ di cotanto pensiero chiedendone l’autorevole patronato contro eventuali detrattori …del pensiero della Scuola più che della propria persona, sufficientemente protetta dal ruolo istituzionale. c) Il terzo testo, posto a seguito della “Rethorimachia”, porta dati biografici generici e continua a non dare nessun indizio significativo per affermare che Anselmo abbia studiato a Parma sotto Drogone. Si tratta di una lettera scritta qualche tempo dopo dalla Francia per informare il ‘caposcuola’ ed i ‘condiscepoli’ del successo della sua operetta e, più ancora, dell’apprezzamento della dottrina coltivata ed insegnata alla Scuola parmense/emiliana. EPISTOLA ANSALMI AD DROCONEM MAGISTRVM ET CONDISCIPVLOS DE LOGICA DISPVTATIONE IN GALLIA HABITA. Droconi Magistrissimo et eius discipulissimis Ansalmus Gratia dei et vestra imperatorius capellanus. Magnificat anima mea dominum, quia exultavit spiritus eius in deo salutari suo. Magnificate et vos illum, quia exultavit vester Ansalmus in ipsum. A liberalibus enim vestris disiplinis cum ad capellam me contuli imperatoris et ex vestre philosophiæ otio cum seculari me dedi negotio, opus, quod apud vos [fonte “C”: nos] edidi, mecum ut precepistis detuli et universis in civitatibus quas in eundo perambulavimus vestris litteris aprobatum representavimus. Probanda cuius studia universa consonat Gallia, Burgundia, Saxonia, barbara quidem Frantia. Ex quis Maguntia tandem laudavit ingrata, Droconicam quidem sectam et penitus Italicam invidens disiplinam, tum in tanto opere iuventutem nostram retractans et adolescentiam. Va notato anzitutto, e preso nella dovuta considerazione, lo stile ampolloso ed enfatico utilizzato in questa auto-celebrazione da parte di un altissimo dignitario imperiale (Cappellano) che si presenta ad un entourage di persone che non lo conoscono personalmente… e forse mai ne avevano sentito parlare prima. Il gusto discutibile della parafrasi dell’inizio del Magnificat è significativo del tenore e del ‘genere letterario’ del testo e deve guidarne l’interpretazione dando il giusto peso alle diverse affermazioni e ‘qualificazioni’. La prima conseguenza di un tale stile riguarda l’uso enfatico dei pronomi personali con grande ambiguità tra “voi” e “noi”, al punto che non si capisce a chi si riferiscano; lo stesso dicasi degli aggettivi e pronomi possessivi. Non di meno, sotto il profilo biografico non si trova nulla di più di un semplice “a liberalibus vestris disiplinis” che nulla dice né della ‘loro’ sede, né del loro Maestro. La “droconicam quidem sectam”, poi, non va necessariamente circoscritta alla sede parmense quanto, piuttosto, ampliata a comprendere legittimamente –così Anselmo ritiene– anche coloro che ad essa sono “colligati” attraverso i Maestri usciti da Parma. Il riferimento infatti è alla ‘setta’ e non alla Scuola come tale o al suo Maestro. Il rimando, tuttavia, al ‘comando’ di Drogone (ut precepistis) pare effettivamente diretto al Maestro parmense che, dopo aver corretto ed emendato l’opera –secondo la richiesta della lettera a lui indirizzata–, ne avrebbe ‘sponsorizzato’ (vestris litteris) la presentazione nelle principali sedi culturali europee; questo non comporta però nulla di specifico dal punto di vista ‘geografico’ circa la sede di redazione dello scritto, né tanto meno dello studio effettuato ed è pienamente compatibile con la ricostruzione logica già prospettata. d) Al di là degli esigui dati biografici che emergono nei testi citati, è però necessario effettuare una segnalazione che costituisce una probabile –e non banale– novità in ambito giuridico, non segnalata ad oggi da alcuno (Gualazzini compreso): la ‘dedica’ della “Rethorimachia” all’Imperatore germanico si esprime con le stesse parole e categorie (Legibus et armis) della Costituzione “Imperatoriam Maiestatem” con cui Giustiniano aveva promulgato il testo delle “Institutiones” per le Scuole giuridiche di Costantinopoli, Roma e Beiruth nel 533; testo che non risulta trovarsi nelle diverse raccolte di “Novellæ (Constitutiones)” ma solo in apertura delle “Institutiones” stesse. Anche se, con evidenza, la sola citazione della Costituzione costituisce un dato troppo debole per affermare –per via solo deduttiva– la sicura conoscenza dell’intero testo giustinianeo… pur tuttavia ogni ulteriore elemento che rimandi a tale testo legale non potrà che dar forza alla deduzione stessa, confermandola, mentre ogni posizione contraria dovrebbe comunque farsi carico di un’adeguata spiegazione del fatto.CONSTITUTIO “IMPERATORIAM”, Costantinopoli, 21 novembre 533 | Anselmo da Besate: dedica della “Rethorimachia” all’Imperatore Enrico III |
Imperatoriam maiestatem non solum armis decoratam, sed etiam Legibus oportet esse armatam, ut utrumque tempus et bellorum et pacis recte possit gubernari et princeps Romanus victor existat non solum in hostilibus prœliis, sed etiam per legitimos tramites calumniantium iniquitates expellens, et fiat tam Iuris religiosissimus quam victis hostibus triumphator. | Imperatoriam magestatem armis decorari et Legibus, ut legimus, oportet armari, ut cum armis decorata tum et Legibus procedat armata. Tu vero, Cesar inclyte, seminum fructus suscipe, quos in me sibi placuit seminare, ut sicut armis decoratus, sic et Legibus procedas armatus. |