La recezione conciliare nella codificazione del 1983



1. L’ORIZZONTE GENERALE

«Studium Codicis, schola Concilii!»: è con queste parole di Giovanni Paolo II in corrispondenza della promulgazione del nuovo Codice di Diritto canonico del 1983 che si può e si deve comprendere il nesso tra quelle che, ad ogni effetto, sono state due fasi di un unico evento ecclesiale. Lo stesso Pontefice lo evidenziò espressamente affermando: «È il Codice del Concilio e, in questo senso, è l’“ultimo documento conciliare”».

D’altra parte non si può negare al Concilio l’identità di evento giuridico di sommo grado nella vita ecclesiale: evento giuridico comunque sovraordinato rispetto ad altre possibili Fonti. Né potrebbe valere, per eludere tale prospettiva, un generico riferimento alla “pastoralità” del Vaticano II, disinnescandone le esigenze più autentiche dal punto di vista dogmatico. Tale pastoralità, infatti, potrebbe essere invocata contro approcci eccessivamente teoretici ai testi conciliari, ma non in opposizione alla naturale concretezza del Diritto, la cui portata operativa è una delle componenti più solide della Pastorale.

È quanto lo stesso Pontefice aveva scritto nella “Sacræ Disciplinæ Leges” promulgando il Codice:

«Lo strumento, che è il Codice, corrisponde in pieno alla natura della Chiesa, specialmente come vien proposta dal Magistero del Concilio Vaticano II in genere, e in particolar modo dalla sua dottrina ecclesiologica. Anzi, in un certo senso, questo nuovo Codice potrebbe intendersi come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico questa stessa dottrina, cioè l’Ecclesiologia conciliare. Se poi è impossibile tradurre perfettamente in linguaggio “canonistico” l’immagine della Chiesa, tuttavia a questa immagine il Codice deve sempre riferirsi, come a esempio primario, i cui lineamenti esso deve esprimere in se stesso, per quanto è possibile, per sua natura.

Da qui derivano alcuni criteri fondamentali, che reggono tutto il nuovo Codice, nell’ambito della sua specifica materia, come pure nel linguaggio collegato con essa.

Si potrebbe anzi affermare che da qui proviene anche quel carattere di complementarità che il Codice presenta in relazione all’insegnamento del Concilio Vaticano II, con particolare riguardo alle due Costituzioni, dogmatica Lumen Gentium e pastorale Gaudium et Spes.

Ne risulta che ciò che costituisce la “novità” fondamentale del Concilio Vaticano II, in linea di continuità con la tradizione legislativa della Chiesa, per quanto riguarda specialmente l’Ecclesiologia, costituisce altresì la “novità” del nuovo Codice».

Come evidenziò efficacemente Eugenio Corecco: a, differenza del Codice del 1917, il nuovo Codice non si regge più sulla forza intrinseca dell’imperatività della norma storica scientificamente codificata, ma su di una verità teologica fondata nel Vaticano II come una sorta di “super-ego” del Codice stesso. D’altra parte si tratta della prima volta nella storia della Chiesa che un Concilio ecumenico è direttamente alla base di una riforma organica e globale di tutta la disciplina precedente. Questo, infatti, non era successo al Concilio Tridentino, i cui Canoni furono semplicemente giustapposti al Corpus Iuris Canonici, così come tutti i successivi Decreti di riforma. Fu lo stesso Giovanni Paolo II a far opportunamente notare come questa novità abbia condizionato sostanzialmente pure il modo di “fare” Diritto nella Chiesa: non più Diritto “pontificio” ma Diritto “collegiale”.

Tra gli elementi di maggior importanza per la struttura ecclesiale transitati dal Concilio al Codice va riconosciuto anzitutto il modo di delineare il ruolo e ministero dei Vescovi, presentato secondo i c.d. tria munera (cristologicamente ispirati). Tali attribuzioni cristologiche, già proprie di ciascun Christifidelis a motivo del Battesimo, sono però e prima di tutto munera Ecclesiæ, che “Lumen Gentium” dispone secondo una precisa gerarchia, sia operativa che assiologica: 1°) evangelizzazione (munus docendi), al n. 25; 2°) santificazione (munus sanctificandi), al n. 26; 3°) vita ecclesiale e sua organizzazione (munus regendi), al n. 27. Per LG è chiaro che il primo munus affidato alla Chiesa, e dal quale la Chiesa stessa nasce, è il munus docendi: l’annuncio della Parola che salva. È dall’accoglienza di questo annuncio, infatti, che nasce la Comunità cristiana, edificata in Corpo mistico di Cristo attraverso l’azione santificatrice dello Spirito attuata per mezzo dei Sacramenti (munus sanctificandi). Questa Chiesa così fondata ed edificata è affidata al ministero pastorale degli Apostoli e dei loro successori (munus regendi) con il compito di “rendere i fratelli idonei a compiere il ministero” (cfr. Ef 4,12) della vita cristiana.

Se questo è l’orizzonte generale, nondimeno singoli scorci possono offrire vedute ed esperienze diverse; come chi va in montagna e si trova su di un pianoro o chi va al mare e s’imbatte in una scogliera. Senza che il ‘particolare’ possa contraddire il ‘generale’, va infatti preso atto che quand’anche l’esperienza concreta – sempre parziale – si discosti pure significativamente dal contesto di cui è parte ad esso va comunque ricondotta per averne una fondata percezione.

2. STRUTTURE E CONTENUTI

Come, appunto, su un pianoro (in montagna) o dinanzi ad una scogliera (al mare) ciò che si presenta a chi approcci strutturalmente il “Codice del Concilio” appare ben differente dall’orizzonte indicato. Una differenza evidente quando si oltrepassi la semplice fonetica per addentrarsi nella reale ‘struttura’ codiciale.

Quanto il Codice in sé, al di là delle singole norme e dei singoli termini, risulta effettivamente ‘conciliare’? Il solo raffronto tra gli indici del 1917 e del 1983 offre un verdetto inequivocabile a sfavore della rilevanza conciliare: mera scomposizione in tre parti del precedente Libro III (De rebus) ed anticipazione del precedente Libro V (De delictis et pœnis), almeno per quanto riguarda le materie sostanziali di trattazione ed il loro ordine.

In realtà, però, nonostante la staticità della forma, la sostanza si mostra significativamente differente. Il Codice, d’altra parte, avrebbe dovuto soltanto declinare per la Chiesa latina le diverse “materie” oggetto di normazione giuridica universale, mentre la ‘struttura’ dell’Ordinamento canonico come tale avrebbe dovuto essere fornita dalla “Lex Ecclesiæ fundamentalis” in elaborazione contemporanea al CIC, quale sua ‘premessa’ normativa strutturale. Proprio la Lex Ecclesiæ fundamentalis avrebbe dovuto offrire una visione globale del Diritto canonico pienamente coerente col Vaticano II, a partire dalla struttura stessa di Lumen Gentium; circostanza che mantenne ‘liberi’ i lavori di revisione codiciale da incombenze espressamente strutturali e pretese più teologiche che funzionali. In tal modo, nel Codice latino i tria munera Ecclesiæ, anziché strutturare un nuovo impianto istituzionale e normativo (come predisposto per la LEF), furono utilizzati per denominare in modo nuovo specifiche “materie” già presenti nel primo Codice senza, però, assumere anche la corretta ‘gerarchia’ tra i munera Ecclesiæ, mantenendo l’anticipo del munus regendi (nel Libro II) sugli altri due (nei Libri III e IV), di natura e portata più costitutiva che non funzionale.

A parte, tuttavia, la struttura del Codice, le scelte terminologiche effettuate non furono affatto secondarie né solo ‘estetiche’ ma espressero e sollecitarono un approccio alla vita ecclesiale fortemente condizionato dalle quattro Costituzioni conciliari ed in sensibile discontinuità sistematica coi secoli post-tridentini ed il mondo neoscolastico.

Il precedente De personis, custode dell’ordine gerarchico ecclesiale (chierici, religiosi, laici), è stato in gran parte riassorbito nel De Christifidelibus, anteponendo però i laici ai chierici. Il De clericis (preponderante nel precedente Libro II) ha visto la netta separazione tra le persone dei chierici e la loro funzione ecclesiale, nella linea – inespressa – del munus regendi. Il precedente De Magisterio ecclesiastico – terza tra le “res” del CIC del 1917 – è stato anticipato diventando De Ecclesiæ munere docendi, con notevole ampliamento delle prospettive in riferimento alla Parola di Dio e al suo annuncio, ben prima che al suo “insegnamento” istituzionale. I De Sacramentis e De Cultu divino non costituiscono più le prime res delle quali il Codice si occupa ma sono diventati, insieme, il De Ecclesiæ munere sanctificandi, non senza un evidente salto di qualità teologica nel radicale cambio di soggetti ed oggetti di trattazione, come visibile dalla prospettazione di un’attività di santificazione (diretta ai fedeli), rispetto alla precedente mera regolamentazione dei Sacramenti e degli atti di Culto (diretti a Dio). Il De beneficiis è stato assorbito nel De bonis Ecclesiæ temporalibus, cambiando di fatto la titolarità di tali beni, non più ‘a beneficio’ dei chierici ma delle Comunità ecclesiali.

Seppure solo come in filigrana, occorre constatare nel “Codice del Concilio” un vero ‘salto’ di prospettiva. Un cambiamento di portata strutturante, sebbene non visivamente strutturale, che riguarda il suo stesso “oggetto” principale di regolamentazione, non più individuato nelle “cose sacre nel mondo” (affidate alla ‘gestione’ da parte dei chierici a vantaggio dei laici, in chiave di sostanziale “utenza”) ma nella “vita dei discepoli di Cristo all’interno della Chiesa”: non più uno “Ius de (rebus) divinis in mundo” ma uno “Ius de Christifidelibus in Ecclesia catholica”, che ha portato con sé e declinato giuridicamente vari elementi, soprattutto concettuali, re-impostando in modo innovativo intere materie giuridiche.

3. NUOVE CATEGORIE

Il forte cambio di prospettiva impresso al nuovo Codice da parte delle consapevolezze conciliari può individuarsi con maggior evidenza nei concetti/princìpi di Popolo di Dio, corresponsabilità (ecclesiale ed episcopale) e persona, oltre al consolidamento della sensibilità ecumenica.

- La prospettiva dell’unico Popolo di Dio diventa il nuovo cardine del Diritto canonico a partire dal Battesimo e dal sacerdozio comune che ne deriva. Viene così superato uno dei maggiori postulati del precedente Ius publicum ecclesiasticum: l’essere della Chiesa una “societas inæqualium”. Nella vera categoria teologica di Popolo di Dio si dissolvono le concezioni che per secoli avevano prospettato la Chiesa come gerarchicamente ordinata persino riguardo alla santità (religiosi, chierici, laici), oltre che alla sua essenza (chierici, religiosi, laici). Viene capovolta la piramide dei rapporti ontologici, al posto della quale emerge la Chiesa come Comunità di “Christifideles”, anziché di semplici “fedeli”. Diventa altresì costitutivo il discepolato, nella sua immancabile dimensione attiva che coinvolge i Christifideles come protagonisti nella realizzazione della missione affidata da Cristo alla Chiesa, lasciando al passato i laici come meri fruitori passivi dei servizi sacerdotali necessari alla salus propriæ animæ e destinatari dell’insegnamento ecclesiastico necessario a mantenersi fedeli alla doctrina catholica. Il c.d. laicato non è più il ‘destinatario’ della missio Ecclesiæ svolta dalla Gerarchia sacerdotale, quanto piuttosto il nucleo preponderante del Popolo di Dio, unico soggetto pastorale e liturgico della vita ecclesiale.

- Nella nuova prospettiva, pur confermando la natura personale dell’autorità episcopale e la natura gerarchica della Comunità ecclesiale, s’intuiscono ed attivano nuove dinamiche e relazioni sia tra i Pastori che tra i fedeli tutti dando corpo a nuove operatività e strutture. Si supera la soglia del mero “ausilio” (laicale) ai Pastori creando specifici Organismi attraverso i quali esprimere e realizzare il vero senso dell’ecclesialità (Ekklesia = assemblea  radunata). Nascono, su piani diversi, Istituzioni innovative che trovano nel Concilio la propria sorgente sostanziale: il Sinodo dei Vescovi per la Chiesa universale, i Consigli pastorali e per gli affari economici, il Consiglio presbiterale, il Collegio dei Consultori, per le Chiese particolari.

Anche il ministero episcopale non viene più letto in termini di semplice sussidiarietà o mera decentralizzazione operativa attraverso trasferimento di Iurisdictio da parte del Papa. Si tratta, invece, di una vera corresponsabilità, evidenziata dall’unitarietà ministeriale del Corpus episcopale al quale, in solidum, incombe il mandatum di Cristo agli Apostoli. La potestas pastoralis del Vescovo diocesano, pur ottenuta attraverso la missio canonica affidata dal romano Pontefice, è infatti propria, sebbene vada esercitata in comunione con l’intero Collegium.

- Il riferimento al Christifidelis e alla vita cristiana come discepolato hanno pure favorito una maggior attenzione alla dimensione storica rispetto a quella semplicisticamente spirituale, reindirizzando l’attenzione dalle anime alle persone: dalla cura (singolarum) animarum alla cura pastoralis. È il c.d. personalismo conciliare che ha fortemente condizionato le norme codiciali, sia in modo immediato, com’è per il Matrimonio (espresso nel Codice come matrimoniale fœdus, consortium totius vitæ, bonum coniugum, mutuum sese accipere et tradere, che travolgono categorie secolari di ben altra prospettiva), sia in modi indiretti, ma effettivi, come, p.es., il diritto irrinunciabile “alla difesa” nei Procedimenti giudiziali di ogni tipo, ed il valore di Prova, anche se non sempre piena, della “dichiarazione delle parti” all’interno del Processo di nullità matrimoniale.

- Dalla costitutività del Battesimo, in chiave ecclesiologica (anziché soteriologica individualistica), deriva anche una diversa concezione dei Christifideles non appartenenti alla Chiesa cattolica, per i quali si abbandona l’uso dei termini “eretico”, “scismatico” e “separato”, per un più preciso “acattolico”, così come si parla di “Chiese e Comunità non in piena comunione” e non più di “sette”. Non si tratta, tuttavia, di mera formalità linguistica, poiché anche le Leggi puramente ecclesiastiche non sono più indirizzate a tutti i battezzati ma soltanto ai «battezzati nella Chiesa cattolica o in essa accolti» (Can. 11).

La dimensione ecumenica coinvolge direttamente anche i Sacramenti: si esplicitano, infatti, le condizioni per la lecita communicatio in Sacris tra i cattolici e i battezzati delle Chiese che hanno gli stessi validi Sacramenti; la “vera utilità spirituale” quale condizione per accedere a tale communicatio mostra la nuova concezione ecclesiologica, personalistica e sacramentaria emersa dal Concilio. La stessa sensibilità verso il bonum Christifidelium emerge nel Matrimonio tra battezzati dei quali uno solo sia cattolico: non solo è caduto l’Impedimento c.d. di mista religione ma è pure possibile la dispensa dalla Forma canonica.

4. UNA RECEZIONE ANCORA INCOMPIUTA

Non tutto, però, è stato immediato nella recezione canonistica del Concilio, innanzitutto per una certa resistenza anche teoretica posta a vari livelli, già a partire da chi ha voluto proporre il Codice come ‘miglioramento’ del Concilio, fino a chi ne ha sostenuto una formale indipendenza, rifiutando il Concilio quale elemento strutturale di interpretazione del Codice stesso, sostenendo la ‘illegalità’ di tale prospettiva.

Non mancano neppure incompletezze espressamente normative, insieme a reticenze e qualche cortocircuito, segni evidenti della difficoltà a dare immediato e pieno corso anche a vere decisioni conciliari (come quelle dei Decreti).

Non potendo qui entrare in profondità, basti guardare alla dimensione di “corresponsabilità” della struttura e vita ecclesiale. Solo i Consigli per gli affari economici sono obbligatori nella loro istituzione, mentre la loro composizione rimane per cooptazione e la funzione di quello parrocchiale è meramente formale, dovendo esso soltanto “aiutare” il Parroco (cfr. Can. 537). Rilievo molto minore è toccato ai Consigli pastorali: puramente ‘opzionali’ a livello di Diritto universale, poiché tocca al singolo Vescovo decidere “se” costituire quello diocesano (cfr. Can. 511), mentre per la sua istituzione a livello parrocchiale occorre anche la consultazione del Consiglio presbiterale (cfr. Can. 536). La loro reale incidenza, poi, sulla “Pastorale” diocesana e parrocchiale si trova completamente priva di specifico rilievo normativo.

In totale ‘rilascio’ deve riconoscersi, sempre a livello partecipativo e di corresponsabilità, anche il Sinodo diocesano, antico cavallo di battaglia del più radicale tridentinismo, sebbene in chiave espressamente clericale.

Nota dolente è stata pure la ‘riserva’ dell’esercizio della “potestà di governo” ai soli chierici, con espressa esclusione dei laici, possibilitati soltanto a “cooperare” (cfr. Can. 129), in un nuovo impianto teoretico che vede la coincidenza – storicamente nuova – tra chierici ed ordinati, cosicché l’esercizio di potestà nella Chiesa esiga – oggi – il Sacramento dell’Ordine quale presupposto ontologico. La fragilità dell’assunto si è ripresentata con la riforma del Diritto processuale matrimoniale del 2015 che ha previsto la nomina ordinaria di Giudici laici (cfr. Can. 1673 §3) non più in modo eccezionale (cfr. Can. 1421 §1).

Sarebbe tuttavia troppo semplice, e finanche ingiusto, addossare soltanto ad una inadeguata recezione normativa la scarsa presa ecclesiale delle maggiori ‘novità’ conciliari in materia: il Diritto, d’altra parte, non può che provare a creare “strumenti”, se poi nessuno li usa o li si usa male, è altrove che occorre guardare.




in: S. NOCETI - R. REPOLE (curr.), Il Vaticano II e i suoi documenti, vol. 9, Bologna, 2022, 277-284.