Profili giuridici e teologici della rinuncia al papato



Per inquadrare il presente contributo, partirei da un’affermazione e da una conseguente domanda, tanto perentorie, quanto ermeneutiche: la rinuncia al papato di Benedetto XVI è stata soprattutto un “atto teologico” (l’atto di un grande teologo rimasto ‘libero’ sia dalla logica delle Istituzioni, sia dalle costruzioni socio-culturali); un atto che pone l’interrogativo sostanziale: Papa si “è” o Papa si “fa”?

In tal modo, senza lasciarmi andare alla corrente turbolenta delle decine di volumi e migliaia di articoli pubblicati in materia in questi anni, cercherò di affrontare il tema in modo ‘adatto’ all’approccio accademico con specifica attenzione ai non tecnici del settore.

Per sviluppare la proposta così abbozzata è necessario anzitutto sgombrare il campo da una serie di presupposti che, ancora all’inizio dell’anno 2021, continuano a falsare la maggior parte degli approcci al tema sostanziale indirizzando la maggior parte dell’attenzione più verso le persone coinvolte che non verso il tema sostanziale.

A tal fine è necessario premettere alcune precisazioni di metodo, tipiche di un approccio scientifico (tecnico-giuridico in particolare), perché è proprio il ‘metodo’ che fa la differenza tra ciò che è Scienza e ciò che non lo è, né potrebbe esserlo. Ciò tanto più per il fatto che chi normalmente interviene su questo tema si muove in modo ‘deterministico’, selezionando (ed imponendo, senza dichiararli) alcuni assiomi dai quali dedurre poi interi sistemi pseudo-concettuali solo formalmente corretti (come i corvi neri di Hempel), dimenticando che la storia la fanno gli uomini e non le Teorie logiche e, più ancora, che le proprio Teorie logiche sono soltanto esigui strumenti per cercare di ‘risolvere’ specifici problemi (direbbe Popper) e non per creare ‘universi paralleli’, come dimostrò Russell a Frege in materia di “classi totali” con l’antinomia divenuta poi celebre come “paradosso del barbiere”. Tanto più che, secondo i Teoremi di incompletezza di Gödel e Tarski nessun ‘sistema’ è davvero in grado di escludere con certezza tutto quanto non possa derivare dai suoi stessi assiomi di partenza, oppure – se lo si vuol dire in modo più classico – nessun sistema è mai talmente chiuso e rigido da non ospitare, almeno di fatto, elementi non deducibili dal sistema stesso: ciò che accade spesso al Diritto nei confronti della Politica.

1. Elementi metodologici previi

Tre sembrano le precisazioni che in questa prospettiva devono essere pre-messe agli elementi più tecnici coi quali si darà corpo alla riflessione.

a) La prima precisazione riguarda la – del tutto presuntissima – contrapposizione tra munus (= essere Papa) e ministerium (= fare il Papa), ignorando completamente che, in realtà, l’orizzonte al quale occorre riferirsi non è binario ma ternario poiché in Diritto canonico tale dinamica non può funzionare in assenza di un terzo elemento – quello ad ogni effetto fondamentale – da doversi individuare nell’Officium: è all’Officium, infatti, che è connesso il munus, mentre il ministerium, in realtà, oltre a derivare generalmente dal munus, si muove spesso anche secondo dinamiche di altro tipo, vista la genericità del concetto. Ma è proprio dell’Officium che s’interessa espressamente il Diritto canonico ed è all’Officium che Benedetto XVI ha rinunciato.

        Un esempio in merito per capire le cose dal corretto punto di vista: un Presbitero può (e deve) esercitare il ministerium, e di fatto lo esercita tutte le volte che opera ‘da prete’ in favore di qualche fedele, p.es., celebrando l’Eucaristia o assolvendo dai peccati o predicando o facendo catechesi, ecc. Ciò, anche senza essere titolare di uno specifico Officium (p.es.: Parroco) né esercitare un munus (= tutto ciò che compete al Parroco) indirizzati a tali destinatari. Similmente, un professore ordinario esercita un Officium che comporta quel munus che è la docenza, anche al di fuori dello specifico incarico nell’Università che lo ha promosso a tale Ufficio. Un professore ordinario, infatti, non è un semplice ‘docente’, come un Parroco non è un semplice ‘prete’: i munera dei primi sono diversi dai ministeria dei secondi. Una differenza che ‘sta’ tutta nell’Officium.

b) La seconda precisazione riguarda il presunto – necessario – formalismo degli Atti pontifici, dai quali – ancora – si pretendono dedurre premesse e conseguenze eclatanti. In merito va senza dubbio riconosciuto che si tratta ormai di pura virtualità: la c.d. Diplomatica, infatti, è oggi ridotta a mera Disciplina ‘storica’, utile solo ai ricercatori d’archivio. Già da Giovanni Paolo II in avanti, infatti, occorre riconoscere che ‘quel’ “sistema” è completamente saltato, rendendo spesso inaffidabili sotto il profilo – non solo formale – interi testi ecclesiastici, pure pontifici. Il Latino ecclesiastico del XXI secolo, inoltre, non ha quasi nulla in comune con quello giunto fino alla metà del secolo precedente. Una rapida verifica delle attuali reali e concrete competenze di latinità nelle strutture (e persone) della Curia Romana lo dimostrerebbe ampiamente. È come se si volessero ‘intendere’ i discorsi dei politici inglesi, o dei Presidenti degli USA, secondo le finezze del “Queen’s English”.

        D’altronde: se ancora Paolo VI era in grado di ‘pensare’ in Latino – giuridico! – (soprattutto per la lunga permanenza in Segreteria di Stato, oltre alla formazione giuridica ricevuta nelle prime decadi del Novecento), già Giovanni Paolo II, cresciuto e maturato in tutt’altro ambito disciplinare (= la Filosofia), non era certo in grado di fare altrettanto. Che Wojtyla non fosse uno ‘scolastico’, non pare dubitabile, così come il suo pensare “in” Polacco anziché in Latino (come ben dimostrano le sue Encicliche).

        Queste considerazioni rilevano per il fatto che molto si vuole presumere sul Latino di Benedetto XVI (anche a partire da sue affermazioni in merito), ma varrebbe la pena verificare quanto una tale famigliarità con la lingua possa realmente darsi per chi, in effetti, ha studiato tutta la Teologia in Tedesco, in Germania, a differenza di quanto accadeva in Italia fino al Vaticano II… e nelle Università pontificie romane, in particolare. Non si trascuri neppure, stando sempre a livello strettamente metodologico, l’importanza costitutiva dei generi letterari e dei linguaggi disciplinari. Il Latino di sant’Agostino, quello della Summa di san Tommaso o dei Trattati scolastici frequentati da teologi e qualche filosofo non è certo il Latino dei giuristi, né il Latino del Magister Graziano era quello del Card. Gasparri a Parigi o del CIC del 1917.

c) Una terza precisazione, sempre contestuale, riguarda la diffusa concezione che si ha del Papa e, conseguentemente, del papato in questi ultimi decenni: una concezione più ultramontana degli ultramontanisti presenti al Concilio Vaticano I. Neppure lo stesso Pio IX si sarebbe sognato di pensare e dire del Papa quello che oggi se ne dice e pensa… e ‘presume’, anche – e, forse, soprattutto – al di fuori e dal di fuori della Chiesa stessa. Ciò soprattutto in riferimento alla ‘persona’, rispetto alla sua ‘funzione’; al suo Officium, si diceva. Ed è questo, in realtà, il ‘peccato originale’ o, se si vuole, l’errore strumentale che pregiudica l’intero discorso. Per tutti: il Papa “è” il Papa… Papi si “è”! Non è pensabile oggi che si “faccia” il Papa. Nessuno però tiene conto che, dal punto di vista teologico (e subordinatamente canonistico), invece, si tratta del “Vescovo di Roma” che, proprio in quanto tale, esercita l’Officium di “romano Pontefice” per la Chiesa universale.

2. Il papato tra status e funzione

Proprio quest’ultima osservazione indirizza verso il centro del problema, che non è affatto ‘ontologico’ ma ‘funzionale’, sebbene in tal modo non venga percepito né tematizzato dai più… e da qui deriva lo ‘scandalo’ di molti per le dimissioni di Papa Benedetto.

Proprio, tuttavia, nell’ottica della ontologizzazione del papato si può capire la reale natura di quanto effettivamente operato da Benedetto XVI. Per il teologo Joseph Ratzinger era estremamente chiaro quello che non lo è per molti: quello di romano Pontefice non è uno status personale, come l’essere prete o Vescovo; qualcosa di ontologico che interviene per via sacramentale ‘nella’ persona stessa e la cambia, per sempre ed in modo irreversibile. Quello di romano Pontefice è ‘soltanto’ (sebbene il parziale ed il limitativo vadano gestiti con attenzione ed intelligenza) un Ufficio ecclesiastico che, come ogni altro Ufficio ecclesiastico, si inizia ad esercitare e si può anche smettere si esercitare, sebbene ciò debba avvenire a norma di Diritto per non cadere nell’arbitrarietà che lederebbe il bene della Comunità ecclesiale.

Dal punto di vista teologico la questione è molto chiara poiché la componente ontologica/sacramentale opera soltanto a livello di presupposto dell’Ufficio e non di sua ‘causa’ in senso proprio. Né è, infatti, possibile ipotizzare una ricaduta dell’Ufficio sulla componente ontologica/sacramentale tanto da mutarla, per una sorta di attrazione. L’esempio canonistico è lampante: i c.d. Prelati territoriali, così come gli Ordinari personali, ma anche gli Amministratori diocesani, operano con le stesse facoltà di governo dei Vescovi diocesani pur senza essere ‘ontologicamente’ Vescovi, né diventano Vescovi in ragione dell’esercizio di un Ufficio che in nulla si distingue da quello di Vescovo diocesano.

D’altra parte l’Ufficio ecclesiastico è un “incarico” (= munus, in latino), non uno status; è un insieme di attività, non una dignità; è qualcosa che si “fa”, non qualcosa che si “è”! Questa, tuttavia, è Teologia quasi-pura, che non giunge alla maggior parte delle persone… ed è quello che un teologo ‘sano’ sa… e di cui non può dubitare.

E proprio su questa base Joseph Ratzinger ha impostato e portato all’epilogo il proprio ragionamento: se non riesco/posso offrire alla Chiesa ciò di cui ha bisogno, meglio fare un passo indietro “perché Dio non guarda in faccia ad alcuno”, non fa questione di persone, come scrisse già l’Apostolo Paolo ai Galati riferendosi a coloro che nella Chiesa di Gerusalemme erano allora considerate le “persone più autorevoli” (cfr. Gal 2,6).

Proprio questa ontologizzazione, nondimeno, ha sempre costituito nella Chiesa materia delicata innanzi al rischio di non mantenere le giuste distinzioni ed alterità tra i ‘ministri’ ecclesiali ed il Cristo stesso. Ciò che accade, di fatto, per il concetto di “Vicarius Christi” tradizionalmente utilizzato per il romano Pontefice, seppure dal solo punto di vista teologico e non giuridico (sic!), come pure per ogni Presbitero che, celebrando l’Eucaristia, agisce “in persona Christi” ma non “è” il Cristo. Di fatto la Chiesa lungo i secoli ha sempre utilizzato e ricalibrato in base alla cultura coeva una sorta di ‘diaframma’ proprio per impedire sovrapposizioni ed ontologizzazioni che trasferissero alla persona come tale attribuzioni che, in realtà, sono e devono rimanere esclusivamente funzionali ed operative (= l’Ufficio). Si legga in questa prospettiva il problema, ad oggi ancora irrisolto, del rapporto tra le c.d. potestas Ordinis e potestas iurisdictionis: ontologica la prima, funzionale la seconda; problema probabilmente irrisolvibile di principio proprio per evitare l’ontologizzazione delle attribuzioni ministeriali (in senso ampio).

3. La rinuncia come atto giuridico

Dal punto di vista strettamente tecnico ci si trova innanzi ad un “atto giuridico” di alta complessità – sebbene privo di specifiche problematicità – che chiede di saper distinguere differenti ‘livelli’: quello sostanziale, quello materiale, quello formale. Al livello sostanziale si pone la volontà della persona: volontà che, quando non viziata, nel Diritto canonico ha sempre portata costitutiva. Al livello materiale si pone la (condotta della) cessazione dell’esercizio dell’Ufficio, annunciata e realizzata. Al livello formale si colloca il documento scritto che spiega che cosa sia accaduto o, meglio ancora, dice quale sia il nome giuridico (= la fattispecie) di ciò che sta accadendo. Non per nulla si è trattato di una “Declaratio” e non di un atto costitutivo, come sarebbe un “Decretum” o, maggiormente, una “Constitutio”.

La cosa, d’altra parte, corrisponde in modo assoluto a ciò che accade per l’assunzione dello stesso Ufficio: un’assunzione che, semplicemente, “avviene” (si realizza: fit) attraverso un atto di volontà e conseguente condotta e non necessita di alcun documento espressamente costitutivo, poiché giuridicamente si tratta soltanto di un “Verbale” redatto dal Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie nella sua specifica funzione di Notaio del Conclave. È noto, infatti, che l’assunzione dell’Ufficio di Vescovo di Roma – poiché questa è la res de qua agitur – avviene in modo orale senza alcuna formalità scritta da parte dell’eletto, risultando, pertanto, una “condotta” rappresentativa della volontà, più e prima che un “atto” come normalmente inteso. Una condotta della quale è sufficiente dare prova certa (a mezzo di Verbale, ordinariamente). Una condotta, nondimeno, che si consolida attraverso una serie di attività corrispondenti all’avvenuta assunzione dell’Ufficio stesso.

Nella stessa linea dev’essere colta e letta la condotta di Benedetto XVI nel momento e dal momento della manifestazione della sua volontà. Ciò, infatti, a cui si è assistito è stata la condotta di una persona che ha accompagnato gli eventi stessi della propria cessazione nell’Ufficio in modo cosciente e libero, mettendosi a latere e senza interferire con quanto si faceva in sua ‘assenza’. Innanzi al Papa che smette di “fare” il Papa, il documento scritto che ne manifesta la volontà serve soltanto ad attestare che non si tratta di quella circostanza che, tecnicamente, si chiama “sede impedita”, ma si deve ragionare in termini – sebbene inusuali – di “sede vacante”. E così è stato.

Il vero atto giuridico è stata la volontaria cessazione dell’esercizio, non il testo scritto. Come se un Direttore generale, smettendo di andare a lavorare, inviasse una raccomandata all’Amministratore dell’Azienda dicendo che si licenzia: l’atto giuridico propriamente detto è la raccomandata o la cessazione dell’attività lavorativa? In merito i giuristi non dimentichino la sostanzialità del fatto che si tratta di una condotta ‘negativa’ la quale, come tale, costituisce evento giuridicamente rilevante, risultando pienamente sufficiente a se stessa. Ben diverso sarebbe il contrario: una persona che tutte le mattine si presenta negli uffici di un’Azienda a dare ordini e disposizioni (come se fosse il Direttore generale), senza che nessuno l’abbia mai assunta… in questo caso – proprio perché si tratta di condotta positiva – il documento scritto avrebbe valore giuridico costitutivo del suo legittimo esercitare quell’attività e l’assenza di tale documento renderebbe perseguibile chi assume tale condotta, poiché illecita.

Sotto questo profilo sono del tutto fuori posto, poiché non-pertinenti, le immaginazioni che, invece, vorrebbero vedere una “Abdicazione” sul modello della narrativa (regia) romantica tardo-ottocentesca oppure, pseudo-storicamente, come quelle avvenute lungo i secoli quando, in presenza di ‘più Papi’, si è proceduto all’abdicazione di tutti i coinvolti per resettare il ‘sistema’.

4. La norma giuridica vigente

Mantenendoci sul versante strettamente giuridico non esistono dubbi possibili sull’interpretazione del Can. 332 §2 del CIC, spesso citato in modo del tutto non-pertinente… anche perché Benedetto XVI ha fatto esattamente quello che in quella norma è stabilito! Per di più senza che da nessuna parte sia disposto che debba scriversi alcunché, né realizzarsi qualche specifica formalità, né documentale (= l’atto di abdicazione) né rituale (= un modo anziché altri). Infatti: come l’unico elemento costitutivo dell’assunzione dell’Ufficio di Vescovo di Roma è la sola accettazione dell’avvenuta Elezione da parte del Conclave (di cui al Verbale sopraddetto), altrettanto per una sua cessazione (diversa dalla morte) è necessario soltanto che essa “venga debitamente manifestata”: proprio ciò che costituisce il senso e la natura della Declaratio! Una Declaratio, tanto più, formalizzata all’interno di uno degli eventi di maggior solennità e formalità della vita pontificia: un Concistoro.

Anche circa la necessaria formalità dell’atto – il “rite” utilizzato dal Can. 332 – non esistono plausibili dubbi, visto che in sede di codificazione post-conciliare si era affermato «renuntiatio palam, id est publice, manifestetur», proprio in chiave sostanzialista e senza voler imporre inutili formalismi, forse non sempre esperibili.

Sono le stesse circostanze, per di più, a debellare qualsiasi ragionevole dubbio in merito alla ‘ritualità’ della rinuncia, giovandosi pure dell’intervallo di tempo trascorso tra l’annuncio e la cessazione vera e propria: un intervallo di piena attività e lucida intenzionalità e finalizzazione dell’attività pontificia. Diversa sarebbe stata, con tutta evidenza, la diffusione di un “documento di rinuncia” proveniente da un Papa completamente infermo, non raggiungibile da alcuno, nella sostanziale impossibilità di verificare quanto affermato da terzi in relazione all’atto stesso. Altrettanto diversa e dubitabile sarebbe stata la diffusione di un “documento di rinuncia” o anche la sua espressa dichiarazione a decorso immediato da parte di un Papa che contestualmente fosse sparito senza possibilità alcuna di rintracciarlo o contattarlo. Situazioni, entrambe, più da sede impedita che vacante…

Quanto operato da Benedetto XVI, per di più, non è affatto una ‘stranezza’ nella consapevolezza del Diritto canonico: già il Can. 221 del CIC del 1917, infatti, prevedeva «Si contingat ut romanus Pontifex renuntiet, ad eiusdem renuntiationis validitatem non est necessaria Cardinalium aliorumve acceptatio». Una previsione puramente fattuale, conseguente ad una consapevolezza maturata lungo i secoli e mai messa in discussione nella propria ‘possibilità’: “Si contingat ut”; una vera e propria “contingenza”. Il resto, le modalità, non hanno peso. Ciò a maggior ragione se si considera che il CIC del Card. Gasparri, per la sua componente pontificia, non era certo estraneo alle ‘acquisizioni’ primaziali del Vaticano I, né Pio X avrebbe facilmente rinunciato ad affermare prerogative anti-moderniste in tema di papato. Ma una tale evenienza non destava alcuna preoccupazione, né richiedeva l’introduzione di alcun formalismo… soprattutto tenendo conto che già il Conclave in sé costituisce una delle formalità più tecniche ed elaborate che il Diritto canonico conosca, cosicché sul Conclave stesso ricadano di fatto le problematiche connesse alla verifica della effettività della sede vacante, unica condizione di sua possibilità.

5. Il fondamento della norma

L’origine della norma oggi fissata al Can. 332 §2, per altro, è assolutamente recisiva di qualunque possibile illazione in materia. Fu infatti Bonifacio VIII – di peculiarissima memoria tra gli storici e non solo – a “fissare” (perché questo è il termine corretto per tale atto) la possibilità della rinuncia al c.d. papato. Già all’epoca, infatti, si “perdeva tempo” – e lo si faceva perdere – discettando intorno all’ammissibilità o meno della rinuncia all’Ufficio di Vescovo di Roma. In quei frangenti Bonifacio VIII fissò con pretesa normativa ciò che, ad ogni effetto, era soltanto il Verbale della consultazione che Celestino V aveva rivolto al Collegio cardinalizio per sapere se avrebbe potuto oppure no dimettersi; consultazione alla quale lo stesso Card. Caetani aveva preso parte (come egli stesso scrive nel testo).

Due sono gli elementi che al canonista non possono sfuggire a tal proposito: a) la causa (= il motivo) e lo scopo del pronunciamento papale, assunta in futuro come norma pur non essendola nella sua sostanza, b) il contesto teologico e canonistico in cui fu effettuata tale presa di posizione.

- Allora, come oggi, “curiosi e perditempo” discutevano sulla effettiva possibilità della rinuncia al pontificato da parte di Celestino V, al quale era succeduto lo stesso Bonifacio VIII. Ovvio che al subentrante non risultassero gradite le questioni circa la rinuncia: ne andava della propria legittimità come Papa. Da qui la “costituzionalizzazione” della possibilità per il Vescovo di Roma di rinunciare all’Ufficio «soprattutto quando si riconosca insufficiente a reggere la Chiesa universale e far fronte agli oneri del sommo pontificato» (VI I,7,1). Ciò che merita interesse dal punto di vista teorico, al di là degli aspetti ‘politici’ della circostanza, è però il rimando alla “dottrina dell’Apostolo” che Bonifacio VIII oppone ai dubitanti: la posizione dei disquisenti e dubitanti, infatti, è dichiarata “contra doctrinam Apostoli”. Non si tratta, quindi, di una posizione giuridica ma ‘teologica’!

- Elemento di portata addirittura maggiore, proprio in chiave ‘teologica’, è il più ampio contesto entro cui tale affermazione venne effettuata. Ad affermare e sancire nei secoli la possibilità per il Vescovo di Roma di rinunciare al proprio Ufficio è infatti l’autore della “Unam sanctam”… colui che aggiunse alla mitra papale la seconda corona per indicare anche visibilmente la duplice “potestas” (spirituale e temporale) che doveva essere riconosciuta al Papa romano. Il tutto all’interno della crescente euforia verso la “plenitudo potestatis” pontificia, che portava ad affermazioni quali: “Papa est Deus in terra; Papa omnia potest”, “Papa potest mutare quadrata rotundis, facere de albo nigrum”, ecc. Tutto ciò, tuttavia, senza alcuna ontologizzazione dell’Ufficio nei riguardi della persona… Tanto più che tutto ciò era riferito unicamente ed esplicitamente alla “potestas” – esercitata e da esercitarsi – e non alla persona che la esercitava: una potestas tutta e comunque connessa al (solo) Ufficio, in chiave esclusivamente funzionale.

6. Ufficio papale vs. status papale

Proprio la differenza – e distanza concettuale e sostanziale – tra Officium Papæ e status Papæ risulta oggi l’elemento e fattore di maggior rilievo ed importanza. D’altra parte l’elemento discriminante ed irriducibile colto e valorizzato dal teologo Joseph Ratzinger si colloca proprio in questo preciso snodo della tematica: Papa si “fa” e non Papa si “è”!

È, infatti, l’elemento ontologico quello che, in fin dei conti, fa la vera differenza: un elemento ontologico che Joseph Ratzinger ha colto e ‘manovrato’ con una lucidità d’altri tempi, è il caso di dirlo, rispetto a quelli della iper-mediaticizzazione ed immanenza della figura del romano Pontefice delineatesi dal pontificato di Giovanni Paolo II. Proprio ciò che a Benedetto XVI risultò più difficile da gestire, nella sua palese incapacità di “calcare il palco” e “tenere la piazza”, che per l’attore divenuto Papa alla fine degli anni ’70 costituivano, invece, un’attitudine ormai connaturata che i mass media, in crescente affermazione, hanno saputo ben cavalcare e sfruttare a proprio favore.

In merito è necessario accordare specifica considerazione – sebbene difficilmente espressa – proprio alla percezione mediatica e correlata immanenza (mediatica) della persona, anziché delle figura (istituzionale), del Papa negli ultimi quarant’anni. Una persona – e non una figura – universalmente presente, spesso e per molti anche in modo quotidiano, in ogni luogo e circostanza esistenziale (si pensi a Papa Francesco durante il lockdown della primavera 2020), ed agente in quanto persona concreta e non in quanto figura/ruolo istituzionale nella vita di parecchi milioni di donne e uomini anche di ogni fede religiosa e/o politica. Un fenomeno mediatico e sociologico, tuttavia, ma non teologico… un fenomeno che sposta la percezione e la concezione dal livello funzionale (= fare il Papa) a quello ontologico (= essere il Papa).

Al tempo stesso è necessario, dal punto di vista scientifico, tener conto che ci si trova innanzi – o, forse, dentro – ad un fenomeno ormai millenario di progressiva concentrazione “sul Papa” (accento sulla funzione) ed oggi “nel Papa” (accento nella persona) di dinamiche, inizialmente politiche ed oggi sociologiche, le quali, indipendentemente dalla natura espressamente teologica dell’Ufficio di romano Pontefice, ne hanno via via influenzato non soltanto l’attività ma, molto più profondamente, la concezione. Da Gregorio VII che si rende ‘alternativo’ all’Imperatore per liberare i Vescovi europei dalla devianza feudale ottoniana, ai Papi ottocenteschi che si oppongono al giurisdizionalismo massonico e borghese degli Stati post-rivoluzionari, a Pio IX che resiste strenuamente al Cancelliere Bismarck nel Kulturkampf per rimanere poi prigioniero (di se stesso) nel palazzo Vaticano… ai successori, valutati – e concepiti – sempre più in chiave politica che non religiosa o teologica: si pensi a Benedetto XV nel primo dopoguerra o Pio XII in rapporto al nazi-fascismo. Si è scritto recentemente in materia:

«La figura del papato, così come oggi la conosciamo, si sviluppa, non a caso, soprattutto dopo la Rivoluzione francese, che viene a sconvolgere il millenario assetto dell’ordine sociale in Europa».

«Effettivamente fu paradossale, ma è vero che nella lunga stagione della Restaurazione il prestigio e il potere papale crebbero enormemente, risultando il papato, non i Vescovi, l’unica Istituzione capace di resistere a quel lascito della Rivoluzione, ereditato dal Gallicanesimo e dal vecchio Regalismo (classico supporto anche del Conciliarismo), che fu lungo l’Ottocento il Giurisdizionalismo, ampiamente praticato nella Politica ottocentesca. In quei frangenti la questione non era solo di natura politica, ma vi si giocava la stessa natura cattolica della Chiesa, la quale correva il rischio di frantumarsi in tante Chiese nazionali, dipendenti dai loro rispettivi Governi».

«Appariva necessario, inoltre, avanzare in maniera assolutamente imperativa la dottrina dell’autorità suprema del Papa sui Vescovi, piuttosto che elaborare una dottrina dell’Episcopato, poiché i Vescovi, che si ritrovavano a essere, in quanto cittadini, sudditi delle Autorità statali, non potevano costituire un argine, in difesa della libertà e della cattolicità della Chiesa, di fronte allo strapotere degli Stati».

7. Qualche nota sull’Officium

Nota a parte merita, sotto il profilo espressamente giuridico, il tema già introdotto preliminarmente della peculiare natura dell’Ufficio ecclesiastico: proprio quell’Ufficio al quale Benedetto XVI ha rinunciato, sollecitandone il nuovo conferimento.

Si è detto più sopra che la materia dev’essere approcciata su base ternaria (Officium, munus, ministerium) anziché binaria (munus, ministerium) poiché è l’Ufficio come tale che ‘contiene’ il munus il quale, a sua volta, si esplica attraverso il ministerium. La questione non è affatto di vocabolario, né di ‘latinità’, ma espressamente concettuale e specificamente rilevante in ambito canonico.

Chiave di volta della tematica è la sostanziale identità tra Officium e munus: un’identità stabile da secoli, tanto che i Cann. 145 dei due Codici latini (1917 e 1983) in questo sono pressoché identici nell’affermare che l’Officium è un particolare tipo di munus: quello stabilmente costituito dal punto di vista istituzionale. Senza lasciarsi qui avvinghiare dai lacci della traduzione dei singoli termini dal Latino all’Italiano, è invece necessario esplicitare la profonda questione presupposta, almeno dal Codice vigente, tendenzialmente ignota ai più. Si è trattato, infatti, di stabilire (una volta per tutte?) la reale natura giuridica dell’Officium dopo che per decenni, nonostante la codificazione pio-benedettina, si era continuato ad affermare quanto derivante da dottrine del passato: la consistenza giuridica, cioè, dell’Officium come “persona morale”, come ben dimostra un significativo saggio ancora negli anni Cinquanta. Del tutto normale era stato pure negli ultimi secoli indicare l’Officium proprio come “ens”, al fine di poterlo trattare come vero subiectum iuris, adeguatamente distinto e distinguibile dal suo titolare. Esattamente da queste derive oggettiviste e sovramodulate dal punto di vista concettuale ha voluto prendere le distanze il Legislatore canonico post-conciliare: l’Ufficio ecclesiastico non è affatto un “ente” e neppure una “persona morale” ma un semplice “incarico” (= munus). Un insieme, cioè, di doveri, compiti, obblighi, incombenze di natura e finalizzazione ‘pubblica’ di cui una persona (= il titolare dell’Ufficio) è investita proprio in ragione dell’Ufficio stesso, ormai in modo indipendente dal proprio sostentamento, visto che il Decreto conciliare “Presbyterorum Ordinis” al n. 20 aveva operato in modo ‘costituzionale’ la separazione di ministero e sostentamento.

Non meno decisiva per comprendere la materia, e le questioni che ne possono derivare, è la consapevolezza dell’assoluta a-specificità e genericità del termine “ministerium” in quanto – semplice – attività esercitata in favore di altri e senza alcun vantaggio o ritorno personale, a differenza di un’attività lavorativa o di una vera e propria “funzione” (com’è, invece, per i Funzionari delle pubbliche Amministrazioni in campo statale).

Ne deriva, ed è questo l’attuale quadro sistematico in ambito espressamente canonistico, che il ministerium è l’attività corrispondente ad un munus in quanto incarico espressamente formalizzato dal Diritto come Officium, in una prospettiva radicalmente diversa dalla mera operatività in cui consiste l’espletamento di un incarico affidato a qualcuno nella sostanziale forma del Mandato o della Delega o della Procura.

8. Per concludere

Sotto il profilo espressamente teologico rimane ben poco da aggiungere o specificare, quando si sia appreso un quadro come quello sin qui delineato, soprattutto nella consapevolezza della distanza ed irriducibilità tra l’elemento propriamente “teologico” (ragionando, cioè, in rapporto alla Rivelazione e dottrina cristiana) e quello, invece, pretesamente “ontologico” (ragionando, invece, sul solo preteso ‘essere’ delle cose), tanto più quando si sia in grado di superare (anche) la dimensione sociale e mediatica, strutturalmente contrassegnata dalla contingenza ed inter-relazionalità con un’ampia moltitudine di fattori, elementi e circostanze spesso meramente socio-politici.

In tale prospettiva, infatti: se, dal punto di vista teologico, il Papa è, essenzialmente, il Vescovo di Roma, ciò che lo connota e contraddistingue è la sua peculiare funzione di Capo del Collegio dei Vescovi, custode e garante dell’unità della Chiesa e della trasmissione della Tradizione ecclesiale, senza che singole espressioni o realizzazioni di tale ‘proprium’ possano considerarsi irreformabili, come scriveva Giovanni Paolo II nel 1995 al termine di “Ut Unum sint” chiedendo «di trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Che un Vescovo – per quanto “di Roma” – senta coscienziosamente di non essere più in grado di esercitare il proprio ministerium in modo utile alla Chiesa, non può certo porre questioni dal punto di vista teologico… tanto più che la Chiesa, proprio in riferimento al ministero episcopale in sé e per sé, ha fissato – per Legge – che al compimento dei 75 anni i Vescovi diocesani diano le dimissioni dal proprio Ufficio (cfr. Can. 401), pur rimanendo qualche volta in carica ancora per qualche anno. Restano Vescovi “emeriti” dell’ultima Sede di esercizio… mantenendo un “Titolo” (= Vescovo emerito di …) ma senza alcun Ufficio né conseguente annessa potestà e funzioni. Nondimeno essi continuano ad esercitare varie forme di ministerium, a partire dalla celebrazione dell’Eucaristia, a quella della Confermazione, Ordinazioni varie, ecc. legate allo status episcopale (soggettivo) ma non all’Ufficio (oggettivo/istituzionale), lasciando che altri si facciano carico di incombenze così importanti e delicate.

Si permetta di chiudere queste note suggerendo che proprio il gesto di Benedetto XVI possa costituire ad ogni effetto ‘una’ delle possibili “forme di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apre ad una situazione nuova”, come sollecitato da Giovanni Paolo II.




iin: B. SERRA (cur.), La rinuncia all’ufficio petrino, Napoli, 2023, 57-74.