Tutela istituzionale canonica: un dovere di governo
Premessa
Trattando di
persone, diritto e giustizia l’accento va, quasi istintivamente, sulla tutela
che il diritto dovrebbe assicurare alle persone, ed è questo l’approccio
maggioritario negli ordinamenti giuridici c.d. occidentali. Se questo,
tuttavia, può ragionevolmente costituire l’orizzonte primario d’interesse
generale, poiché rivolto alla quasi totalità dei soggetti, non è possibile in
ambito canonico (anche se non in esso soltanto) non dare attenzione pure al
verso opposto della relazione: la necessità, cioè, di garantire anche alla
Chiesa come autentico soggetto una vera tutela giuridica nei confronti di
chi assuma condotte ed atteggiamenti inadeguati. D’altra parte, è facile
constatare come sin dalle origini la Chiesa abbia posto maggiore attenzione a
questo aspetto della tematica più che all’altro, come testimoniano gli scritti
neo-testamentari (cfr. 1 Cor 5 ;
2 Ts 3 ;
1 Tm 1). Occorre poi osservare come la maggioranza dei « sacri
canoni » non espressamente dottrinali adottati dai Concili ecumenici e dai
diversi Sinodi della Chiesa antica e medievale fosse indirizzata proprio
all’ambito della c.d. disciplina quale munus specifico dei Vescovi nelle
loro Chiese: una disciplina che nella Chiesa è sempre stata primaria, a
differenza che negli Stati. Una disciplina sempre volta a tutelare la vita
ecclesiale nei confronti dei battezzati che con la loro condotta portassero
detrimento alla Chiesa stessa. Non si trascuri in ciò il grande sviluppo che
ebbero durante il Medio Evo le c.d. inquisizioni diocesane alle quali si
affiancò più tardi l’intero sistema della c.d. inquisizione in tema di delitti
contro la dottrina e la fede, eresia in primis. Prospettive nelle quali
la comunità, ben prima che l’individuo, esigeva la propria tutela.
Governo
ecclesiale come tutela della comunità
La tutela della
comunità ecclesiale e del suo corretto modo di vivere costituisce ancor oggi
una delle attività più caratteristiche del governo della Chiesa propriamente
inteso: un’attività la cui evidente carenza è divenuta negli ultimi anni anche
fonte di specifici interventi da parte della suprema autorità della Chiesa
proprio verso Vescovi (e altri Superiori ecclesiali) che abbiano vistosamente
mancato proprio nei confronti di questo loro dovere primario, fino ad essere da
ultimo integrata nello stesso diritto comune con la riformulazione del Libro VI
del CIC. Alla mancata tutela della comunità ecclesiale da parte dei
Vescovi, nondimeno, hanno dato peso e valore – nei termini specifici della
vigilanza – anche un certo numero di ordinamenti giuridici statali
considerando i Vescovi «responsabili» (seppure a titoli ed in gradi diversi) di
comportamenti delittuosi da parte di chierici, chiedendo loro conto di
responsabilità in vigilando derivanti dalla « omissione » di
veri e propri « doveri d’ufficio ».
Ciò premesso,
occorre altresì ricordare che dal punto di vista ecclesiale la questione rileva
principalmente – almeno in prospettiva storica – non per quanto
« movimenta » la cronaca contemporanea ma essenzialmente in
riferimento agli elementi di maggior pertinenza sia del munus docendi
che del munus sanctificandi in relazione ai c.d. abusi nella disciplina
ecclesiastica (cfr. cann. 305 § 1; 392; 436 § 1; 528 § 2). A
questi ambiti privilegiati e propri della vita ecclesiale deve poi aggiungersi
la necessaria osservanza delle norme che regolano lo status e l’attività
di chierici e consacrati in genere ex Libro II del Codice latino, così
come nell’attività di governo (cfr. cann. 626; 683; 1326 § 1, 2e ; 1378) e nell’amministrazione dei beni
temporali della Chiesa (cfr. can. 1276 ; 1284 ; 1286 ;
1287 ; 1376). In questa prospettiva già da tempo si è parlato della
necessità di dare adeguata concettualizzazione e forma concreta ad un
« diritto amministrativo sanzionatorio » in ambito canonico, proprio
per sollecitare una nuova particolare attenzione verso un insieme di possibili
– e necessarie – attività strutturalmente connesse al governo
ecclesiale.
È proprio in
questa prospettiva che risulta necessario evidenziare come, in realtà, gli
elenchi codiciali di doveri e diritti dei fedeli, sia in generale che in
specie, servano in gran parte espressamente per gestire questo genere di
tematiche. Mentre, infatti, i « diritti » indicano l’area generica di
libertà operativa di singoli e gruppi, i « doveri » costituiscono,
in realtà, il punto d’innesto della possibile attività disciplinare da
parte dell’autorità ecclesiale. La cosa è palese osservando, per es., i doveri
dei chierici dal punto di vista della loro effettiva qualità giuridica.
È palese che nella loro maggior parte si tratti semplicemente di predisporre
possibili « occasioni » di legittimo intervento dell’autorità nella
vita individuale: casus belli che permettano ai Superiori d’ingerirsi
nella vita oltre che nel ministero… soprattutto quando sia particolarmente
difficile (o comunque non sufficiente a livello sanzionatorio) interagire con
l’esercizio degli uffici ecclesiastici, di per sé maggiormente protetti
a livello giuridico che non i singoli soggetti.
Esattamente in
questa prospettiva va riconosciuto come una buona parte delle norme che
implementano un ordinamento giuridico nella sua dimensione
« pubblicistica » esprimano una sostanziale funzione sanzionatoria,
seppur distinguendo tra sanzioni amministrative e sanzioni penali
in base al tipo di violazione al quale occorre rispondere, come individuato,
generalmente, dal legislatore: l’unico – secondo le dottrine giuridiche
moderne – in grado di porre legittimamente norme di portata costitutiva
capaci di limitare in modo radicale sia la libertà che il patrimonio
individuali, oltre che di imporre prestazioni forzose, secondo il principio
della « riserva di legge » assunto da molte Costituzioni
contemporanee.
Da questo punto
di vista è ormai acquisita anche in diritto canonico la distinzione di due specifici
– più che precisi – ambiti sanzionatori: 1) quello espressamente
penale, connesso all’applicazione del Libro VI del CIC e delle altre leggi
penali riguardanti i delitti, e 2) quello più ampiamente
disciplinare, connesso al generale non rispetto delle norme canoniche come
tali, i c.d. abusi. Una distinzione, tuttavia, che non risulta sufficiente né a
delineare in modo esaustivo la materia né, soprattutto, a configurare
adeguatamente in quali modi definire e svolgere la necessaria procedura
sanzionatoria. Oltretutto, canonicamente, occorre tener presente come la poca
organicità dell’attuale sistema sanzionatorio, penale in primis, faccia
sì che l’attività di governo ecclesiale debba, in effetti, confrontarsi con più
oggetti: 1) pene propriamente dette, 2) sanzioni
amministrative, 3) dinamiche operative, più o meno formali,
ordinariamente individuate come « pastorali », senza per questo
essere meno giuridiche.
Tale sguardo
d’insieme mostra con chiarezza come il quadro canonico risulti più ampio e
complesso della sola scelta, ordinariamente delineata, tra l’intervento disciplinare
e quello penale. A dispetto, infatti, della scarsa formalizzazione
normativa occorre riconoscere la concreta esistenza nell’ordinamento canonico
di una sorta di livello previo che – indirettamente ma
realmente – costituisce la reale soglia di accesso all’intera
materia: il c.d. intervento pastorale. È con tale (concetto ed)
attività, infatti, che possono indicarsi e qualificarsi interventi di governo
ecclesiale volti principalmente ad offrire vero e proprio aiuto a
soggetti in evidente difficoltà, senza che ciò ne aggravi il sostanziale
« profilo » giuridico, non trattandosi di vere
« sanzioni », poiché in assenza di sostanziali
« violazioni » propriamente intese.
Una difficile
individuazione
La risultante
articolazione ternaria – anziché binaria – del sistema
sanzionatorio ecclesiale ne evidenzia una prima difficoltà strutturale. Prima,
non unica, poiché ad essa dev’essere affiancata pure la concreta inconsistenza
della summa divisio tra « amministrativo » e
« giudiziale » normalmente proposta, dove
« amministrativo » indica al tempo stesso sia la potestà operante
(= quella esecutiva) che la modalità operativa (= quella
extra-giudiziale), al di là dello specifico « oggetto » da sanzionarsi:
delitto (= ambito penale) o abuso (= ambito disciplinare).
Ne deriva un
evidente problema di portata teoretica generale nell’ordinamento canonico: non
solo il passaggio dall’ambito amministrativo a quello penale non
risulta sufficientemente chiaro sotto il profilo concettuale – visto che
oggi molto « penale » è affrontato in « via
amministrativa » – ma il modo stesso di affrontare le devianze
comportamentali risulta del tutto discrezionale quanto ad impostazione e
procedura. Non si trascuri neppure il fatto strutturale che, a rigor di CIC,
l’azione penale (cfr. cann. 1400 § 1, 2e ; 1717-1731) e la conseguente inflizione
della pena si pone più come garanzia della definitività di un
intervento disciplinare già inefficacemente attuato da parte
dell’autorità di governo, che non come specifico strumento di immediata
ed espressa tutela della comunità (cfr. can. 1341). Ciò a differenza di
quanto avviene invece, di solito, in ambito statuale, dove il
« penale » ha ben poco a che fare col « governo » in sé e
per sé e non è ordinariamente possibile travalicare dal disciplinare al penale,
come se si trattasse di una vera e propria scala di gravità delle
condotte.
Non può infatti
trascurarsi che la procedura penale canonica risulta pienamente subordinata
a quella disciplinare/amministrativa, come ben evidenzia il can. 1347
§ 1 che richiede – ad validitatem – almeno un previo
intervento di ammonizione/riprensione da parte del Superiore competente:
intervento che può – dover – esser reiterato prima di procedere in
materia penale. È questa una particolarità che configura l’ordinamento canonico
in modo radicalmente diverso dalla maggioranza degli ordinamenti giuridici
statuali, che non conoscono dinamiche disciplinari generalizzate, ma
solo collocate all’interno di specifici ambiti giuridici come, per es., il
diritto del lavoro. Dinamiche disciplinari, tuttavia, gestite per via (e in
ragione) di subordinazione spesso lavorativa e pertanto sostanzialmente
privatistica e non di potestà (pubblica).
L’antecedenza e
strumentalità dell’ambito disciplinare rispetto al penale, nel diritto
canonico, è confermata – se non presupposta – dal can. 1339 che
regolamenta quasi cumulativamente « ammonizione » e
« riprensione/correzione » senza ulteriori specifiche degne dell’importanza
che tali istituti giuridici comportano dal punto di vista operativo. Secondo il
canone, infatti, è la – sola – presenza del comportamento
(potenzialmente) delittuoso che distingue il penale (§ 1) dal disciplinare
(§ 2) ed è in base a questo che l’autorità è tenuta ad intervenire in modo
preciso nei confronti del soggetto in questione mettendolo a conoscenza
certa della (non) qualità della sua condotta. La distinzione può essere di
grande importanza in decernendo, soprattutto nell’utilizzo dei corretti
strumenti giuridici in base alle reali fattispecie delle quali si tratta;
trattare come penale, infatti, ciò che non corrisponda ad un delitto (probabile
o potenziale) non può non costituire una evidente violatio legis capace
di invalidare il prosieguo dell’intervento.
Al tempo stesso:
mentre da una parte si devono considerare tre veri e propri livelli
d’intervento sanzionatorio, dall’altra sono due le « vie » di
loro realizzazione, seppure ciò solo teoricamente, poiché, ad ogni effetto,
tutti i tre livelli possono essere attuati attraverso l’unica « via
amministrativa » (cfr. can. 1342) e ciò, addirittura, si realizza
ordinariamente ed in maggioranza schiacciante anche verso la maggior parte di
ciò che viene proposto come l’estremo del penale propriamente detto: i graviora
delicta dei chierici contra sextum riservati alla Congregazione per
la dottrina della fede. Una realtà fattuale che rende poco utile trattenersi
ancora nel falso dilemma tra giudiziale ed amministrativo, mentre risulta più
urgente dare spazio agli elementi sostanziali facenti capo alla tripartizione
su indicata.
Tre livelli, si
sono indicati, che configurano concretamente tre possibili indirizzi di
articolazione e sviluppo della tutela istituzionale in ambito ecclesiale: tre
indirizzi che costituiscono altrettante modalità d’intervento ed esiti
da conseguire. Tre livelli/indirizzi che, potenzialmente, definiscono anche
una vera scala di gravità dell’intervento da effettuare. Tre
livelli/indirizzi che condizionano strutturalmente il momento fondativo di ogni
intervento di tutela istituzionale in base alla finalità che s’intende
assegnare all’intervento stesso. Sarà infatti la finalità a guidare la
strutturazione del percorso per giungere all’esito prefissato, pur senza che la
decisione di procedere, una volta assunta, si configuri come strettamente
vincolante per l’autorità né circa i modi, né circa gli sviluppi
del suo intervento, trattandosi di una vera « scala » (più quantitativa
che non qualitativa).
Proprio la finalità
appare il criterio per qualificare i tre livelli/indirizzi d’intervento,
cosicché possa individuarsi come pastorale l’intervento
rivolto/finalizzato alla persona come tale ; come disciplinare
(cfr. can. 1339 § 2) l’intervento rivolto/finalizzato alla condotta
(anche sociale) del soggetto; come penale (cfr. can. 1339 § 1)
l’intervento rivolto/finalizzato sia alla persona (= emendamento), che
alla condotta (= riparazione danno), che al bene comune
(= ristabilimento della giustizia). Persona, condotta, bene
comune: tre finalità che come veri e propri « filtri » (tali sono
i « criteri ») indirizzano sia la ricerca degli « atti » in
questione che delle loro conseguenze, che dei rimedi ai quali dar corso, in una
prospettiva che chiede ormai una rivisitazione concettuale e miglior espressione
dei tre cardini teoretici classici del diritto penale canonico
(= emendamento del reo, riparazione dello scandalo, ristabilimento della
giustizia), soprattutto dopo che la riforma del 2021 si è mostrata più attenta
alla « giustizia » e al « danno », che non alla persona (sic !).
Tutela
Istituzionale e «via amministrativa»
Tenendo conto
della sostanziale natura amministrativistica del diritto canonico, è
facile cogliere come, in realtà, la c.d. via amministrativa costituisca la modalità
ordinaria di esercizio del governo ecclesiale. Di fatto: nel linguaggio
codiciale la « via amministrativa » indica il normale esercizio
di governo esecutivo, che interviene sulla vita dei fedeli senza
ricorrere all’esercizio – canonicamente sempre straordinario – della potestà
giudiziale.
Elemento
principe della « via amministrativa », d’altra parte, è l’iniziativa
dell’autorità nei confronti di qualcuno dei soggetti affidati alle sue
cure. Iniziativa che deve comunque realizzarsi evitando ogni autoritarismo nel
modo di porsi e mantenendo verso le persone coinvolte un atteggiamento che,
nonostante la conflittualità oggettiva delle circostanze, ne rispetti la dignità
e le posizioni legittime: elementi che all’interno di un processo giudiziale
sarebbero istituzionalmente garantiti dalla stessa natura e struttura del
diritto processuale, mentre in ambito extragiudiziale tale tutela strutturale
risulta ancora debole, sebbene il novellato can. 1342 abbia trasferito
anche alla procedura extra-giudiziale due elementi importanti di quella
giudiziale: il diritto di difesa del can. 1720 e la certezza morale del
can. 1608, per sospettati, denunciati, accusati, indagati
ed imputati, prim’ancora che rei.
Che si tratti
d’iniziativa dell’autorità di governo, d’altra parte, è necessario
poiché ad essa incombono quali specifici doveri d’ufficio la vigilanza e
la conseguente tutela istituzionale nei confronti della comunità, gerarchica
o meno, affidata alle sue cure. Tanto più che, a differenza di un intervento
giudiziale penale, un intervento per « via amministrativa » può
essere attuato da qualunque autorità di governo dotata, non importa per
quale motivo, di potestà esecutiva, anche non propria (= vicaria o
delegata) o non generale, oppure non corrispondente al munus Ecclesiæ
regendi o alla « sacra potestas », come avviene – per
es. – in tutte le Istituzioni su base statutaria (= IVC, SVA,
associazioni, fondazioni, ecc.) anziché gerarchica.
In quest’ottica
non può neppure trascurarsi come il concetto di « tutela
istituzionale » imponga uno specifico approccio alle diverse situazioni,
condotte e fatti, poiché non si tratta di meri interventi indirizzati a
qualche soggetto (com’è la maggior parte degli atti amministrativi singolari),
ma di vere esigenze di tutela del bene pubblico, nelle quali nessun
singolo può essere « sacrificato » alla comunità ma neppure le
comunità possono continuare a subire le conseguenze di vere inadeguatezze sia
soggettive che istituzionali. È questo il differente equilibrio sotteso
all’utilizzo dei concetti di sanzione (verso il soggetto) e tutela
(verso la comunità) e alle relative realizzazioni.
Non si tratta di
sollecitare l’ennesima, vana, « rivoluzione copernicana », che
continuerebbe a presupporre un unico punto di vista o fattore
d’interesse, ma di prendere ormai adeguata coscienza della strutturale
bipolarità di questo genere di situazioni e dell’intrinseca bivalenza
dei loro esiti. È questo, a ben vedere, il reale problema col quale
confrontarsi proprio nell’utilizzo della « via amministrativa »: un
problema che in massima parte non si delinea nella « via giudiziale »
dove parti e Giudice sono, anche fisicamente, distinte ed individualmente
presenti ed operanti, oltre che specificamente « condotti » nel
proprio operare ed interagire da rigide prescrizioni, frutto concreto di
consapevolezze ed equilibri strutturatisi ed affinatisi lungo i millenni.
Nondimeno: un
processo giudiziale penale potrebbe anche durare anni, mentre un provvedimento
disciplinare spesso deve rispondere ad esigenze di ineludibile immediatezza.
Dovendosi altresì ricordare come al penale non si arrivi che attraverso
– cioè dopo – il disciplinare/amministrativo, visto che il
can. 1347 § 1 prescrive che «non si può infliggere validamente una
censura, se il reo non fu prima ammonito almeno una volta di recedere dalla
contumacia, assegnandogli un congruo spazio di tempo per ravvedersi». Di qui la
strutturale difficoltà nel discernere la reale demarcazione tra l’intervento disciplinare
e quello penale, soprattutto a causa della sovrapposizione e polivalenza
strutturale sia degli ambiti, che dei principi generali, che, più
ancora, degli strumenti concreti di applicazione. Del tutto fallace risulta,
in merito, l’approccio che considera rilevanti nell’operare tale distinzione di
principio le differenze derivanti dagli sviluppi tecnici della vicenda,
limitati spesso alla distinzione tra rimozione e privazione, senza tener conto
che, in realtà, a tali effetti si giunge esattamente in dipendenza dalla
« via » sanzionatoria precedentemente intrapresa.
Nondimeno:
l’illustrato passaggio alla concezione e struttura ternaria degli
interventi di tutela istituzionale sollecita un’ulteriore approfondita riflessione,
ancor più necessaria dopo il sostanziale inasprimento del sistema sanzionatorio
canonico, seppure soltanto per vie de facto.
in: L. DANTO (cur.), Personne, droit et justice La contribution du droit canonique dans l'expérience juridique. Atti del XVII Congresso canonistico internazionale (Parigi, 13-16 settembre 2022), Paris, 2024, 533-541.