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“Parochus personam gerit Parœciæ…” Can. 532



Il compito di affrontare monograficamente il Can. 532 ex abrupto, senz’alcuna contestualizzazione, assumendo il testo normativo in se stesso soltanto, si presenta certamente arduo, come dimostrano le opere sistematiche di esposizione e commento al Codice che non riescono a dedicargli più di qualche riga: il Commento al CIC proposto dalla Redazione di QDE gli dedica venti righe ed il Commentario di Navarra quarantacinque.
Il contesto tuttavia del “XXXI Incontro di studio” del G.I.D.D.C. sul tema “La Parrocchia” aiuta ad indirizzare la presente esposizione non tanto sulla linea ‘tecnica’ (amministrativo-patrimoniale) cui il Canone sembrerebbe indirizzare secondo la maggior parte dei commentatori , quanto piuttosto verso un approccio di riflessione ed approfondimento dottrinale che, per quanto apparentemente non immediato, permette di far emergere tematiche anche di peculiare natura canonistica che possono richiamare qualche interesse all’interno di un approccio più generale alla Parrocchia.

Sotto il profilo strutturale la trattazione sarà articolata in tre ‘momenti’:
1° - approccio tecnico,
2° - approccio contenutistico,
3° - approccio dottrinale;
quest’articolazione del procedere pare più adatta per una ‘riflessione’ sul Canone che non voglia ridursi a sola ‘presentazione’ in semplice chiave dispositiva.
Il problema metodologico si pone come scelta esplicita tra due schemi possibili: da una parte i ‘contenuti’ (attraverso la ‘riflessione’: schema che seguiremo in quest’occasione), dall’altra le singole ‘materie’ (attraverso la ‘presentazione’ organica e sistematica delle stesse).

Premessa
E’ necessario innanzitutto precisare alcune specifiche ‘tecniche’ circa la nozione di ‘rappresentanza’ cui di fatto il Can. 532 rimanda; tali specifiche risultano infatti necessarie per affrontare con sufficiente cognizione di causa (ed accortezza) il prosieguo della trattazione.
“Possiamo affermare che l’istituto della rappresentanza, nelle sue varie e diverse forme, è presente e operante nell’Ordinamento giuridico canonico, pur se la dottrina non sembra aver ancora elaborato una ricostruzione sistematica di esso, ricostruzione che consenta di superare talune difficoltà interpretative, connesse alla non univocità della terminologia adottata nei testi normativi. La comune radice romanistica che lega la rappresentanza canonica e quella civilistica, però, consente di utilizzare taluni concetti di origine, appunto, civilistica, al fine di superare le suddette inadeguatezze terminologiche e di stabilire alcuni confini certi, entro i quali situare l’istituto in questione” .

Prim’ancora, però, di addentrarsi nell’ambito più strettamente giuridico (la ‘rappresentanza’ come istituto) occorre prendere atto che lo stesso concetto possiede anche accezioni di natura ‘socio-politica’ non meno pregnanti; la differenziazione dei due ‘ambiti’ è necessaria in quanto il Codice, ed il Diritto canonico più in generale, conosce ed utilizza entrambe le tipologie.
a) Nell’accezione socio-politica la ‘rappresentanza’ si riferisce a rapporti generici, più o meno istituzionalizzati, tra alcuni soggetti specifici ed interi ‘gruppi sociali’ (rapporto uno a molti) attraverso legami di debole intensità, senza particolari vincoli esecutivi e, soprattutto, senza specifici meccanismi di ‘trasferimento’ verso la ‘base sociale’ dei risultati conseguiti attraverso la propria attività di ‘rappresentanza’ (p. es.: la rappresentanza sindacale o politica); i concetti di ‘mandante’, ‘mandatario’ e ‘mandato’ non sono direttamente applicabili.
b) Sotto il profilo giuridico la ‘rappresentanza’ si riferisce a precisi rapporti intersoggettivi (relazione da uno a uno, oppure da pochi a uno) che intervengono a regolare la negozialità di determinati soggetti in modo da produrre specifici risultati giuridicamente efficaci in capo al c.d. ‘mandante’.
Giuridicamente si dà rappresentanza quando il Diritto attribuisca alla volontà esteriormente manifestata di un soggetto gli effetti normalmente prodotti dalla volontà di un altro;
“alla base dell’istituto de quo possono essere rintracciate una serie di diverse necessità concrete:
a) la necessità di tutelare mediante l’attività di un soggetto gli interessi di un altro soggetto carente di una propria volontà (persone fisiche naturalmente incapaci, persone giuridiche) o alla volontà del quale l’ordinamento non attribuisce effetti giuridici (persona fisica giuridicamente incapace);
b) l’opportunità che siano perseguiti, per mezzo di un altro soggetto, interessi di chi non possa o non voglia perseguirli personalmente, o preferisca farlo servendosi dell’attività altrui;
c) la necessità di tutelare il soggetto attivo di un rapporto giuridico, il cui soggetto passivo si trovi nelle condizioni di cui sopra, e perciò non possa o non voglia agire personalmente” .

La ‘rappresentanza giuridica’ a sua volta risulta articolata (e normata) secondo una pluralità di forme: rappresentanza volontaria (unica propriamente detta), rappresentanza legale , rappresentanza organica , cui si aggiungono —di fatto— sostituzione , ambasciata e procura .

Approccio tecnico: il testo
In omnibus negotiis iuridicis Parochus personam gerit Parœciæ, ad normam iuris;
curet ut bona Parœciæ administrentur ad normam cann. 1281-1288
”.

L’esame del testo, di grande semplicità strutturale, fa emergere alcune osservazioni:
a) il Canone parrebbe un’inutile ripetizione dispositiva (insieme al Can. 393 a riguardo del rapporto Vescovo-Diocesi e al Can. 238 per Rettore-Seminario) dei Cann. 118 e 1279 unici sostanziali e ‘generali’ in materia;
b) l’utilizzo della formula “gerere personam” nel senso di ‘impersonamento’;
c) le due norme contenute nel Canone;
d) la mancanza di ‘fonti’ di riferimento .

a) Il Codice latino del 1983, pur avendo ridotto il numero dei Canoni di quasi 700 unità (da 2414 a 1752) ha tuttavia introdotto anche norme ‘ridondanti’ e ripetitive, contravvenendo alle logiche portanti della tecnica giuridica codiciale: sistematicità, semplicità, brevità e perspicuità delle norme .
Nel caso specifico si tratta della triplice ripetizione (Cann. 238 §2; 393 e 532) del contenuto sostanziale —indubitabile— di due disposizioni generali di estrema chiarezza: a) la rappresentanza giuridica degli enti è stabilita dal Diritto (rappresentanza legale), b) l’amministrazione dei beni ecclesiastici spetta a chi regge immediatamente la persona giuridica proprietaria.
- Circa l’applicazione alla Parrocchia del Can. 118 che specifica come la rappresentanza degli enti (persone giuridiche) sia stabilita dal Diritto (universale, particolare o proprio) non si pongono dubbi di nessun tipo in quanto i Cann. 515 §1 e 519 a riguardo del rapporto Parrocchia-Parroco non lasciano esitazioni sull’identificazione della ‘persona fisica’ in oggetto: il Parroco come “suo proprio pastore”:
parece lógico que sea el Párroco quien represente a la Parroquia en los negocios jurídicos, por ser el titular propio de la misma” ;
“al Parroco spetta il diritto di rappresentare in tutti gli affari di ordine giuridico, a norma del can. 118, la Parrocchia, la quale, essendo legittimamente eretta, gode di personalità giuridica (can. 515 §3)” .

Lo stesso dicasi per il Vescovo diocesano verso la Diocesi e per il Rettore verso il Seminario. Il Codice pio-benedettino in ciò era stato più essenziale limitandosi a precisare la posizione del Vescovo diocesano come rappresentante in giudizio per la chiesa Cattedrale e la Mensa episcopalis (CIC 17, Can. 1653) .
- Anche per quanto concerne il Can. 1279, tanto nel caso della Parrocchia che della Diocesi non esistono dubbi nell’individuare la ‘persona-fisica’ che amministra i loro beni patrimoniali come ‘amministratore unico’: Parroco e Vescovo diocesano, con esclusione esplicita —anche se inespressa— di chiunque altro: “ei qui immediate regit”; l’avverbio ‘immediate’ non lascia sufficiente spazio per l’ipotesi di un esercizio ‘vicario’ di tale funzione; allo stesso tempo la ‘singolarità’ (personale) di chi esercita il governo delle persone giuridiche c.d. ‘gerarchiche’ nella Chiesa latina restringe ulteriormente le eventuali indecisioni interpretative circa tale soggetto che è sempre uno soltanto: colui che possiede ‘potestà’ ordinaria propria (per quanto questo non possa dirsi appropriatamente per il Parroco) .
Lo stesso si potrebbe affermare a riguardo del Moderatore di un “cœtus in solidum” , poiché le incombenze dei Cann. 528, 529 e 530 affidate al Moderatore, così come le ‘facoltà’ matrimoniali e di dispensa, hanno natura prettamente pastorale e non ‘gestionale’; in questo caso tuttavia la specifica può giovare alla chiarezza di delineazione delle mansioni proprie di questa figura del tutto nuova, e spesso, impropriamente delineata .
Gli osservatori più attenti potrebbero eccepire come il Can. 1279 parli della sola ‘amministrazione’ delle persone giuridiche e nulla dica a riguardo della loro ‘rappresentanza’; può ritenersi, tuttavia, che un’amministrazione non abilitata a compiere i negotia necessari o almeno utili alla vita dell’ente si riduca a mera gestione contabile, finendo per non esser più ‘amministrazione’ secondo il significato più proprio del termine .
- Quest’insistenza sul rappresentante per ciascun Ente (Vescovo, Parroco, Rettore) non pare sostanzialmente utile neppure in prospettiva extra-ordinamentale nei confronti, cioè, del Diritto civile poiché laddove il regime concordatario riconosca personalità giuridica agli enti canonici è possibile (e di fatto si attua) un adeguato rimando all’Ordinamento canonico dove il disposto congiunto dei Canoni sin qui citati (supposta la non esistenza del Can. 532 e simili) risulta più che sufficiente ad individuare la persona del rappresentante giuridico; nel caso, invece, della c.d. ‘doppia persona’ (canonica e civile) quanto stabilito nell’Ordinamento canonico non potrebbe comunque far testo poiché non si dà identità formale tra i due Enti nei rispettivi Ordinamenti giuridici. Le tipologie italiana e francese paiono abbastanza evidenti in merito: in Italia lo Stato riconosce gli Enti canonici come ‘persone giuridiche private’ rimandando esplicitamente alle disposizioni del CIC per la garanzia contrattuale verso i terzi e chiedendo il deposito dei dati del legale rappresentante presso la Cancelleria del Tribunale di competenza (oggi Prefettura); in Francia la dicotomia è totale e nell’Ordinamento statuale si utilizzano forme associative non riconducibili al concetto canonico di ‘parrocchialità’, rendendo del tutto inutile il Can. 532 .

b) Sotto il profilo testuale va osservato l’utilizzo quasi ‘tecnico’ della formula “gerere personam” con valore di ‘agire in nome e per conto di’; tale uso ricorre sette volte nel CIC, quattro delle quali ad indicare la stessa fattispecie di ‘rappresentanza’ di un ente gerarchico: il Seminario (Can. 238), la Diocesi (Can. 393), la Parrocchia (Cann. 532 e 543, 3°); di altro genere appare il Can. 363 che usa la formula per i Legati pontifici in relazione al romano Pontefice e per Delegati ed Osservatori pontifici in relazione alla Sede apostolica romana . La formula è utilizzata anche a riguardo del rapporto Presbitero-Cristo nel contesto eucaristico: “personam Christi gerentem” (Can. 899: il c.d. ‘agere in persona Christi’). Le altre 20 ricorrenze del verbo “gero-is” nel Codice latino del 1983 assumono significati differenti a seconda dei contesti: agire, amministrare, attuare, portare/comportare, comportarsi, esercitare, ecc. con ricorrenza di altre formulazioni ‘tecniche’ quali: “gerere vices” (Cann. 601; 647; 1121), “gerere curam” (Cann. 414; 527; 922) .
Il verbo ‘gerere’, invece, —e questo è interessante sotto il profilo esegetico— non ricorre mai all’interno del Libro V del CIC —Diritto patrimoniale canonico— e l’uso della formula ‘gerere personam’ appare quasi esclusivo del vocabolario del Cœtus De sacra Hierarchia . Da notare altresì come il verbo ‘gerere’ in ambito di Diritto amministrativo canonico parrebbe adeguato ad indicare l’amministrazione e la gestione in generale degli enti canonici, rappresentanza legale compresa, senza tuttavia ridursi a questa soltanto, pur tuttavia non viene mai utilizzato in quel contesto.
In ambito di analisi testuale occorre però osservare che il Can. 118 (formulato all’interno di un altro Cœtus) utilizza per la stessa ‘funzione’ sostanziale tutt’altro verbo, chiaro, univoco, preciso: “repræsentant”.
Tale verbo è utilizzato due volte anche dal Cœtus De sacra Hierarchia ad indicare —però— la relazione dei Presbiteri col Consiglio presbiterale (Cann. 495 §1; 499) ; allo stesso modo lo utilizza il Cœtus De Institutis Perfectionis al Can. 631 §1: la rappresentanza di tutto l’Istituto (intendendo tutti i membri dell’Istituto). Delle altre quattro ricorrenze della radice ‘repræsent_’ tre paiono conformi all’uso proposto dal Can. 118: la rappresentanza delle persone giuridiche in giudizio (Cann. 1419 §2; 1480 §§1,2), mentre il Can. 212 §1 la utilizza per il legame tra Pastori e Cristo in materia d’insegnamento della fede (“Pastores utpote Christum repræsentantes”), con un significato ‘attenuato’ rispetto al “personam Christi gerentem” del Can. 899 in contesto eucaristico.
Da queste osservazioni si potrebbe rinvenire una sorta di coerenza nella scelta delle formule testuali da parte del Cœtus De sacra Hierarchia notando come la ‘rappresentanza’ di molte persone fisiche attraverso uno solo venga indicata col verbo ‘repræsentare’ (coerente in tutto il Libro II del CIC) mentre quando si tratta dell’‘agire in nome e per conto di un altro’ viene utilizzata la formula ‘gerere personam’ o ‘gerere vices’. Ciò non toglie l’incoerenza tecnica di un uso così discontinuo dei termini all’interno dello stesso testo normativo.
- Sulla base di queste considerazioni testuali parrebbe che la formula ‘gerere personam’ debba/possa esser interpretata in chiave di ‘rappresentanza organica’, costituendo di fatto il soggetto fisico de quo come ‘organo’ dell’ente in nome e per conto del quale agisce giuridicamente; è quanto illustrava già L. Bender affermando che:
si agatur de persona morali non collegiali, tam decernere quæ facienda sunt quam executioni madare ea quæ decisa sunt spectat ad aliquod organum (rectorem, administratorem)” .

In quest’ottica, tuttavia, diventerebbero problematici la maggior parte dei discorsi normalmente proposti in tema di ‘rappresentanza’ tra Parroco e Parrocchia poiché i fondamenti giuridici della ‘rappresentanza organica’ non sono assimilabili se non ex effectis a quelli della ‘rappresentanza’ propriamente detta, infatti:
“si parla di rappresentanza organica con riferimento all’attività degli organi delle persone giuridiche ma va sottolineato che, in tale ipotesi, si assiste ad un fenomeno diverso dalla rappresentanza in senso proprio. Infatti, il rapporto tra organo e persona giuridica consiste in una compenetrazione, identificazione o immedesimazione dei due termini, che esclude la duplicità dei soggetti, ovvero dei centri di interessi, riscontrabile invece nella rappresentanza. In altri termini, nella cosiddetta rappresentanza organica, è impossibile identificare un soggetto che, distinguendosi dal dominus dell’affare, assuma la veste di rappresentante” ;

di fatto il Parroco (come anche il Vescovo) è l’amministratore unico della persona giuridica a lui affidata; ‘organo’ unico e pressoché ‘assoluto’ della persona giuridica stessa.
- Presumendo una coerenza sistematica nell’adozione della formula ‘gerere personam’ anche i per Legati, Delegati ed Osservatori pontifici (Can. 363), ci si potrebbe trovare dinnanzi ad una concettualizzazione simile alla ‘rappresentanza organica’ sotto il profilo dell’assenza di duplice soggettività: il legame tra romano Pontefice e Legati/Delegati/Osservatori non sarebbe in tal senso di ‘rappresentanza volontaria’, in cui due differenti soggetti sono legati da un ‘mandato’; si tratterebbe, invece, di una situazione in cui un soggetto ‘sta’ al posto dell’altro, quasi ‘impersonandolo’.
Alla stessa logica di ‘impersonamento’ pare obbedire anche l’utilizzo della formula nel contesto eucaristico del Can. 899: il sacerdote che agisce ‘in persona Christi’ è sì un soggetto diverso da Cristo, ma compie col Cristo un’unica azione che non è sua ma di Cristo stesso; non si tratta —evidentemente— di nessuna delle concettualizzazioni ordinarie della ‘rappresentanza’.
- La dottrina parla generalmente, e correttamente, del Can. 532 in termini di ‘rappresentanza legale’ in quanto è proprio il Can. 532 che stabilisce —per legge— chi sia ordinariamente legittimato ad agire giuridicamente in nome e per conto della Parrocchia; ciò non toglie che oltre al ‘legale rappresentante’ (quello stabilito ex lege) ci possano essere altre persone fisiche in grado di esercitare validamente le stesse funzioni ‘negoziali’ in modo giuridicamente valido: i c.d. ‘procuratori’ cui possono essere affidati incarichi tanto ad actum che in modo generale, tanto per un’intero negotium che per una sua sola parte .
E’ tuttavia evidente che anche una procura generale non potrà mai essere utilizzata dal Parroco (Vescovo) per non curarsi degli aspetti ‘materiali’ o ‘burocratici’ della vita e delle necessità della ‘comunità di Fedeli’ loro affidata, quasi non si trattasse di elementi costitutivi del ministero pastorale. Il ‘procuratore’, d’altra parte, è mandatario del Parroco non della Parrocchia: è il Parroco che ‘gerit personam parœciæ’ , il procuratore ‘repræsentat’ il Parroco nei negozi giuridici per i quali ha ricevuto legittimazione.
- Dalla ‘rappresentanza giuridica’ occorre poi distinguere la ‘potestà canonica’: se un ‘vicario’ possiede —non ‘in proprio’— tutte le facoltà annesse alla potestà ‘propria’ cui collabora , lo stesso non può affermarsi per la ‘rappresentanza giuridica’ —‘esterna’ alla potestas (esecutiva), per quanto il tema meriterebbe opportuni approfondimenti— che può esercitarsi solo attraverso ‘procura’ (rappresentanza volontaria) la quale non può essere assunta come ‘ordinaria’ (cioè ex lege, ‘legale’).
- Altra forma tecnica di ‘rappresentanza giuridica’ dell’Ente canonico conosciuta dal Codice è la ‘sostituzione’ dell’amministratore negligente da parte dell’Ordinario (Can. 1279 §1); la fattispecie è del tutto particolare ed ha una propria specificità all’interno dell’Ordinamento canonico in riferimento all’amministrazione dei beni ecclesiastici che, poiché appartengono alla Chiesa e sono finalizzati ai suoi fini specifici, non possono subire detrimento dall’incuria degli amministratori . L’istituto della substitutio ob negligentiam assume una specificità propria in riferimento al Parroco quale ‘legale rappresentante’ della Parrocchia: si tratta del disposto del Can. 1741, 5° che indica la “mala rerum temporalium administratio quale causa possibile di rimozione del Parroco dal suo ufficio quando non sia stato possibile opporre rimedio in altro modo. Se tuttavia il contesto specifico di appartenenza del Can. 1741 non rende possibile al Legislatore indicare in tale sede la natura e forma dei possibili rimedi, non risulta difficile al canonista richiamare proprio la possibilità offerta dal Can. 1279: la sostituzione del Parroco nella sua funzione di ‘rappresentante giuridico’ della Parrocchia stessa.
Il rimando codiciale all’istituto giuridico della sostituzione non significa né comporta tuttavia la definizione e la chiarezza della procedura amministrativa che l’Ordinario dovrà attuare, né l’indicazione delle circostanze in cui esercitare tale dovere. Trattandosi inoltre di tutela del patrimonio ecclesiastico sarà senza dubbio necessario agire in modo valido anche secondo le norme vigenti nel Diritto civile di riferimento (Cfr. Can. 1248 §2, 2°).
Per quanto concerne la sola procedura si può provare a proporre una traccia indicativa di natura prettamente amministrativistica, ritenendo che, salvo gravissimi abusi, non sia necessario né opportuno trascendere verso l’ambito penale canonico:
a) primo invito scritto dell’Ordinario al Parroco perché provveda ad evitare il deperimento, degrado, ecc. del bene in oggetto a norma del Can. 1284 (i doveri degli amministratori);
b) secondo invito scritto contenente esplicito ‘precetto’ volto allo stesso fine, a norma del Can. 1276 §1 (vigilanza dell’Ordinario sull’amministrazione dei beni ecclesiastici);
c) dichiarazione scritta di negligenza da parte del Parroco (ex Can. 1279 §1c) e sua conseguente temporanea ‘sospensione’ dalla qualità di legale rappresentante della Parrocchia anche solo ai fini civilistici ;
d) comunicazione alla Prefettura di competenza del mutamento del legale rappresentante della Parrocchia;
e) perfezionamento del ‘negozio giuridico’ necessario alla tutela del bene in questione;
f) eventuale reintegro del Parroco nella sua funzione di legale rappresentante della Parrocchia pleno iure.
Della dichiarazione scritta di negligenza è bene —cautelativamente— che l’Ordinario invii copia alla Congregazione per il Clero (3° Ufficio) per tutelarsi nei confronti di eventuali ‘ricorsi’ da parte del Parroco ‘accusato’ di negligenza. Se la questione avesse già interessato la Pubblica Amministrazione o il Tribunale civile gli stessi dovranno essere mantenuti informati dell’avvio della procedura di ‘sostituzione’ concordando, eventualmente, le modalità per procedere in merito con piena efficacia giuridica civile (Can. 1284 §2, 2°).

c) Il Canone 532 racchiude in realtà due norme: una sulla ‘rappresentanza’ ed una sull’amministrazione dei beni.
Circa l’amministrazione dei beni della Parrocchia la norma si configura come semplice rimando tecnico alle disposizioni riguardanti in generale gli ‘amministratori’ di beni ecclesiastici, espresse nei Canoni 1281-1288; il resto del Diritto patrimoniale canonico è presente per competenza di materia. Non è tuttavia questa la disposizione prioritaria del Canone.
Il ‘cuore’ del Canone, la sua substantia, va individuato, invece, nella prima parte (primo periodo: prima norma) laddove al Parroco si riconosce la ‘rappresentanza’ della Parrocchia “in omnibus negotiis iuridicis”: affermazione chiara in sé, ma non altrettanto semplice nella sua applicazione concreta. Se, infatti, si eccettuano i c.d. ‘atti di amministrazione’ dei beni parrocchiali (oggetto della seconda norma) che cosa resta da sottoporre al Canone quanto a ‘rappresentanza’ della Parrocchia? La domanda non pare oziosa ed apre, anzi, interessanti spazi di riflessione su di un terreno ancora pressoché inesplorato dai canonisti.
Gli ambiti di ‘rappresentanza’ cui si riferisce il Canone possono essere individuati in tre, gerarchizzati secondo la ricorrenza e variamente distribuiti tra i due Ordinamenti giuridici di appartenenza (canonico e statuale): 1°) ecclesiasticistico, 2°) contrattuale-patrimoniale (seconda norma), 3°) ecclesiale-pastorale.
1°- L’ambito ecclesiasticistico, di pertinenza canonica e statuale allo stesso tempo, riguarda i rapporti con la Pubblica Amministrazione dello Stato di appartenenza: è senza dubbio quello maggiormente percepito e ‘frequentato’ dalla maggioranza dei Parroci in quanto ‘rappresentanti’. E’ in quest’ambito che si concretizza la maggior parte degli atti di amministrazione straordinaria dell’Ente Parrocchia (quando, come in Italia, le è riconosciuta personalità giuridica privata); è a quest’ambito che fanno riferimento anche tutte le questioni di Diritto privato tra persone fisiche e giuridiche: diritti reali, regime tributario, assicurazioni, rapporti con le banche, contratti di lavoro, attività differenti da quelle di culto e religione, ecc. A quest’ambito appartengono anche, in ragione del Diritto concordatario, facoltà ed adempimenti legati alle materie c.d. ‘miste’ quali quella matrimoniale (pubblicazioni, notifiche, registrazioni, ecc.).
- Oggi, tuttavia, col progredire e lo svilupparsi di forme di collaborazione e sinergia spesso a livello socio-assistenziale o educativo-pedagogico tra Parrocchie, Amministrazioni locali, Associazioni di Volontariato, O.N.L.U.S. ed altre strutture della Società civile in generale si aprono anche ulteriori spazi di ‘rappresentanza’ della Parrocchia in vista di accordi di collaborazione, convenzioni, patrocini, partecipazione a progetti comuni, assunzione di impegni di diverso genere, la cui portata esula spesso dall’ambito strettamente ‘contrattuale’ e ‘privatistico’.
- Altro fenomeno in crescita è l’avvicinarsi delle Parrocchie al mondo della cooperazione, soprattutto sociale, quale strumento adatto alla gestione di particolari attività educative e caritative (cooperative tra Parrocchie o tra Parrocchie e persone fisiche) . In tali circostanze, che spesso non hanno risvolti finanziari e/o patrimoniali tali da configurare atti di straordinaria amministrazione o da compromettere la condizione patrimoniale dell’Ente —poiché una Cooperativa ha una propria specifica identità e ‘perfettezza’ giuridico-patrimoniale— la partecipazione della Parrocchia non può avvenire che attraverso una legittima ‘rappresentanza’, comunque valida ai fini civilistici.
2° - Nulla si dirà in questa sede a riguardo del secondo ambito la cui portata tecnica è di fatto a-specifica rispetto al tema della Parrocchia.
3°- Di portata certamente minoritaria, purtroppo prima di tutto a livello teoretico, è la ‘rappresentanza’ della Parrocchia all’interno dell’ambito ecclesiale-pastorale, di pertinenza esclusivamente canonica; ciò non toglie l’importanza di questo aspetto e la sua fondamentalità crescente; ed è questa che vorrei risultasse la parte più importante del presente apporto.
Si tratta, per certi versi, di una ‘novità’ che sta prendendo piede parallelamente, e conseguentemente, al modificarsi degli equilibri ed assetti pastorali nell’ottica dell’interparrocchialità o sovraparrocchialità (Unità pastorali, Decanati, Vicariati foranei, Zone pastorali, ecc.) oppure nella sperimentazione di nuovi modelli pastorali (territoriali o tematici).
In quest’ambito il tema della ‘rappresentanza’ della Parrocchia non può certo essere sottovalutato, soprattutto a causa delle sue conseguenze nella vita futura della stessa ‘comunità di Fedeli’.
Difficilmente Vescovi, Vicari e pastoralisti saranno disposti (o capaci) a riconoscere la natura anche giuridica di questo genere di attività, ciò non toglie tuttavia la reale portata del problema che è anche vero ‘negotium iuridicum’, poiché induce mutamenti nello status o nel ‘patrimonio’ giuridico del soggetto.
Alcuni esempi potranno meglio illustrare una fattispecie che, rimanendo invece puramente teoretica, non potrebbe venir percepita come sufficientemente attendibile e stringente.
I) La Diocesi che decidesse (a causa della scarsità di Clero e della riduzione demografica dei piccoli centri rurali) di unificare le diverse attività pastorali presso la Parrocchia del capoluogo di municipalità, facendo risiedere nella stessa Parrocchia un Cœtus di Presbiteri o una piccola comunità di catechisti/operatori pastorali guidati da un Presbitero, si troverebbe nella contingenza di far eseguire interventi architettonici per adattare la casa canonica alle nuove esigenze abitative ‘comunitarie’, dotare la Parrocchia di nuove strutture ‘centralizzate’ per l’esercizio pastorale, dotare la Parrocchia di mezzi di trasporto per i bambini e ragazzi e Fedeli non autonomi dei piccoli centri esterni, ecc. La mancanza di un ‘adeguato’ provvedimento di governo a supporto di tali innovazioni (Decreto) negherebbe forse la natura di negotium juridicum all’insieme dell’operazione?
L’adesione a tale progetto di riforma da parte delle diverse Parrocchie interessate (d’ufficio) attraverso quale forma di ‘rappresentanza’ delle stesse potrebbe/dovrebbe esprimersi? In altre parole: chi ‘accetta’, ed in quale modo, questo mutamento dello status iuridicus (diritti, doveri, proprietà, oneri, ecc.)ormai plurisecolare della Parrocchia?
II) La stessa ‘rappresentanza’ della Parrocchia all’interno di questioni ‘puramente’ pastorali come la scelta di aderire o meno a particolari tipologie di strutturazione e svolgimento della pastorale, in che misura può essere serenamente riconosciuta al solo Parroco? Quante volte negli ultimi anni si è assistito ad una rivisitazione degli organismi sovraparrocchiali (es. i Vicariati foranei o le Zone pastorali) e sono stati gli stessi (soli) Parroci a decidere ‘con chi’ stare … salvo ammettere —alla morte del prete interessato— la non esistenza di motivi pastoralmente validi o significativi per il permanere di quella specifica strutturazione pastorale?
III) Altro ambito in crescita appare quello delle ‘convenzioni’ tra Parrocchie ed Ordini religiosi femminili che, abbandonando le Scuole materne all’interno delle quali avevano assestato la propria presenza, cercano oggi una diversa collocazione all’interno del tessuto pastorale locale ‘delineando’ e ‘fissando’ gli elementi costitutivi e funzionali della loro presenza attraverso ‘convenzioni’ ed accordi vari. Non si tratta qui della ‘convenzione’ di cui al Can. 520 tra Vescovo e Superiore maggiore di un IVC/SVA clericale di Diritto pontificio per l’affidamento di una Parrocchia (negotium certamente giuridico per quanto —in sé— solo canonico); la fattispecie nel caso delle Religiose riguarda infatti l’Ordine religioso e la Parrocchia, e costituisce comunque un negotium la cui portata risulta certamente non trascurabile da parte della Parrocchia stessa; tanto più quando il personale religioso sia di nazionalità non italiana ed utilizzi per la propria permanenza un particolare ‘permesso di soggiorno’ per motivi ‘religiosi’ che non permette nessuna forma di regolarizzazione di eventuali attività ‘lavorative’ e quindi ‘remunerative’ (pagamento dei c.d. ‘contributi’ previdenziali). Si tratta certamente di un negozio giuridico, con valore ai soli fini canonici, ma, allo stesso tempo, la Parrocchia si trova implicata anche in una serie di ‘conseguenze’ patrimoniali e finanziarie che, per quanto correttamente gestite sotto il profilo civilistico-ecclesiasticistico, condizioneranno negli anni la vita stessa della ‘comunità di Fedeli’ che non aveva mai pensato che le suore dovessero ‘essere pagate’ e, soprattutto, non si era mai accorta che potessero ‘costare tanto’ .
La fattispecie pone inoltre il problema —che potrebbe rivelarsi latore di serie conseguenze ecclesiali— dell’individuazione (ammissione) dei nuovi Ordini religiosi coi quali entrare in rapporto: quanto c’entrano la Diocesi ed il Vescovo? Altri problemi riguardano i ‘criteri’ per l’instaurazione di tali rapporti da parte di diverse Parrocchie sullo stesso territorio, così come le ‘regole comuni’ sulle quali costruire gli strumenti convenzionali, ecc. E’ tutto nelle mani del solo Parroco che può impegnare la Parrocchia a proprio esclusivo giudizio?
IV) Altra fattispecie per certi versi assimilabile che, pur dovendosi inquadrare anche a livello ecclesiasticistico mantiene comunque una decisa valenza ecclesiale-pastorale, è l’assunzione di dipendenti come formatori-educatori all’interno delle opere/attività parrocchiali: chi decide? Il Parroco che procede al contratto di assunzione?
Cosa sarà di quel dipendente quando cambierà il Parroco o la Parrocchia si ‘scoprirà’ non d’accordo su quel tipo di scelta … ed il conseguente impegno economico?
Qual è il ruolo effettivo e la responsabilità della ‘comunità di Fedeli’ in decisioni di questa portata?
V) Si aggiunga anche la possibilità —tutt’altro che remota— di un conflitto di potestà/rappresentanza tra Vescovo diocesano e Parroco a riguardo dell’utilizzo di strutture parrocchiali quale potrebbe emergere nel caso in cui l’Ordinario destinasse o la chiesa o altre strutture di proprietà di una Parrocchia all’accoglienza liturgica o pastorale di Fedeli di altro Rito (Orientali cattolici) o di gruppi e movimenti quanto a ‘sedi operative’ o luoghi d’incontro. La fattispecie potrebbe delinearsi anche in caso di ‘localizzazione’ delle strutture di servizio religioso a vantaggio di circoscrizioni ecclesiastiche non territoriali (Parrocchie o Cappellanie personali).
Poiché si tratta di accedere a fabbricati, strutture ed attrezzature di espressa ‘titolarità’ della Parrocchia amministrata e rappresentata dal Parroco sul quale, per di più, gravano incombenze e responsabilità di natura patrimoniale, gestionale, assicurativa, tributaria, di ordine pubblico, ecc., con quale autorità o legittimità il Vescovo potrebbe procedere tanto nell’assegnazione di tale indirizzo ai fruitori che nella sua imposizione alla Parrocchia/Parroco?
In effetti, come si rende spesso necessario chiarire e sottolineare nei rapporti con la P.A. dello Stato, la struttura patrimoniale ecclesiastica non mostra una chiara strutturazione ‘gerarchica’ in cui l’Ente superiore possa ingerirsi nella gestione di quello inferiore , in quanto il vero rapporto gerarchico è solo quello —personale— pastorale tra Vescovo e Parroco, e la Parrocchia una volta legittimamente eretta gode di ‘perfettezza’ patrimoniale . Nel caso specifico, poi, trattandosi per il Vescovo di prendere posizione contro l’atteggiamento ‘tutorio’ da parte del Parroco verso i beni della Parrocchia affidatagli, e da lui rappresentata, non pare esperibile la già menzionata ‘sostituzione’ del rappresentante giuridico, mancandone completamente i presupposti .

Esiste, dunque, un ‘agire in nome e per conto’ della Parrocchia anche a fini specificamente ecclesiali-pastorali la cui portata ed importanza non può essere ignorata.

d) L’assenza dell’indicazione delle ‘fonti’ di riferimento per i due Canoni, pare indicare la carenza di una specifica mens legislatoris per le due disposizioni. L’analisi dell’iter redazionale del Can. 532 completerà il quadro.


Approccio contenutistico: l’iter di codificazione

La già indicata assenza delle ‘fonti’ del Can. 532 ne evidenzia la ‘novità’; una novità tuttavia particolare poiché mancano non solo le fonti codiciali antecedenti (qualche Canone del CIC pio-benedettino) ma anche qualsiasi altra ‘fonte’ di possibile riferimento testuale, contenutistico, giurisprudenziale, amministrativo, come rintracciate a posteriori per vari canoni.
L’osservazione prende corpo nel confronto con ‘altri’ Canoni del nuovo CIC che contengono disposizioni ‘nuove’, p. es. il Can. 522 sulla nomina dei Parroci a tempo determinato ; in quel caso tuttavia, la nuova disposizione risulta ancorata ad una norma precedente (CIC 17, Can. 454), ad un documento conciliare (CD 31), ad una disposizione pontificia di riforma (“Ecclesiæ Sanctæ”, I, 20 §§1-2), ad Atti amministrativi della Curia romana (S. C. Conc. Decr. Concilium Plenarium, 24 iun. 1931; S. C. Conc. Rescr., 2 maii 1967), tali da offrire un contesto ‘genetico’ utile tanto all’individuazione della ratio legis che della mens legislatoris; i verbali delle discussioni di Consultori e Revisori, da parte loro, mostrano con chiarezza quali furono i presupposti e le motivazioni sottostanti la formulazione della norma.

Esaminando i verbali della Pontificia Commissio CIC Recognoscendo pubblicati sulla Rivista Communicationes si rileva invece con chiarezza l’esiguità dell’iter redazionale del Canone 532.
a) La prima ‘apparizione’ del Canone —tale è proprio la qualità dell’evento— risale ai lavori della XVII Sessio del Cœtus De sacra Hierarchia (22-26 marzo 1976) dedicata alle: “Deliberationes […] ab ultima recognitione Canonum schemati” .
In quella Sessio, come in parecchie altre, i lavori iniziarono con la proposta da parte del Relatore (Mons. Onclin, nel caso) del testo dei Canoni su cui i Consultori avrebbero dovuto confrontarsi; in questa fase il Relatore propose d’integrare gli Schemi già redatti con sette Canoni nuovi tra cui il
“Can. 20 (nunc Can. 19) (novus)
Hic est textus schematis:
In ominibus negotiis iuridicis Parochus, aut curæ pastoralis moderator, personam gerit Parœciæ”” .

Gli interventi dei Consultori, senza mettere in questione l’esistenza della norma né il suo disposto sostanziale, si concentrarono su particolari di carattere ‘sistematico’ in vista dell’armonizzazione della nuova norma col resto del Diritto.
Exc.mus sextus Consultor, quærit ut in fine textus addatur clausula “salvo præscripto can. 1526 CIC”, ne Parochus se immisceat etiam in negotiis civilibus absque licenzia proprii Episcopi diœcesani.
Alii Consultores censent additionem propositam non esse necessariam, quia per expressionem “In ominibus negotiis iuridicis” subintelligitur “in omnibus negotiis canonicis”.
Fit parva discussio de hac quæstione, cuius in fine placet ut addatur verba “ad normam iuris” (ad normam nempe præscriptorum totius Codicis)
” .

Ciò che, vistosamente, non appare è il ‘motivo’ —la ratio— dell’introduzione della nuova disposizione, attuata d’ufficio al di fuori dei lavori degli stessi Consultori. Si osservi anche come il ‘contesto’ della norma appaia tipicamente —esclusivamente— canonico: subintelligitur in omnibus negotiis canonicis, mentre si è già illustrato come quest’ambito di ‘rappresentanza’ della Parrocchia sia pressoché inesistente di fatto, a quasi trent’anni di distanza.

b) Il testo della norma fu ripreso successivamente due volte nei lavori di Revisione degli Schemi del CIC dopo la consultazione del 1977.
Nella Sessio VIII (8-16 maggio 1980) dell’Opera Consultorum in Recognoscendis schematibus canonum, schema de Populo Dei (esame delle osservazioni fatte allo schema) fu proposta una nuova versione del canone, accresciuto (ancora d’ufficio) della seconda parte:
Can 366 (novus)
In omnibus negotiis iuridicis Parochus personam gerit Parœciæ, ad normam iuris; curet ut bona Parœciæ administrentur ad normam cann. (De iure Ecclesiæ patrimoniali, Cann. 25-33)”;

tutti concordarono che il Canone rimanesse com’era. Non si ammise infatti la proposta di un Organo consultivo secondo cui il Diritto particolare potrebbe togliere al Parroco la rappresentanza giuridica della Parrocchia .

c) Della Sessio del 20 ottobre 1980 della Pontificia Commissio C.I.C. Recognoscendo in cui si esaminarono le animadversiones raccolte nella stessa Consultazione i Verbali pubblicati riportano:
Can 471
Addantur verba: “...et ad normam iuris particularis”, ut præ oculis habeantur varia adiuncta singolarum nationum (duo Patres).
R. Additio proposita necessaria non videtur, quia dicitur “ad normam iuris”, quod ius potest etiam esse paticulare. Præterea, in cann. 1232-1239 sæpe fit remissio ad ius particulare
.

Come ben visibile, gli elementi ‘tecnici’ già rilevati circa la ‘consistenza’ dispositiva del Canone non paiono trovare nella sua genesi alcun conforto, né indicazioni utili ad una sua reale ‘comprensione’; la sola effettività ed applicabilità della norma pare bastare a se stessa.

Anche in questo caso si deve osservare come, nonostante tutto, l’iter di Revisione codiciale sia stato —spesso— al di sotto del livello tecnico-giuridico necessario. Allo stesso modo risalta come l’assegnazione di fatto conclusiva delle diverse ‘materie’ a gruppi di studio reciprocamente ‘disomogenei’ per competenze tecniche, la rigida separazione delle materie, il mancato —reale— intervento di armonizzazione testuale e contenutistica, la non percezione della necessaria componente ‘amministrativistica’ sottesa all’intero Codice , abbiano contribuito alla redazione di uno strumento normativo di una certa disomogeneità, almeno sotto il profilo tecnico.


Approccio dottrinale.

Dopo quanto illustrato circa il contenuto più strettamente ‘tecnico’ del Canone 532, passiamo ora, in ossequio al tema e tenore di questa ‘Settimana di studio’, a sviluppare alcuni elementi del Canone che si presentano come particolarmente interessanti sotto il profilo dottrinale:
a) personalità giuridica della Parrocchia,
b) rapporto Parrocchia-Beneficio,
c) Parroco pastore e Parroco ‘officiale’: la ‘cura’,
d) Parroco e ‘Consigli’ parrocchiali,
e) ‘rappresentanza’ e ‘volontà’,
f) prospettive e sviluppi della norma.

a) Personalità giuridica della Parrocchia.
E’ questa la prima ‘nota’ che vale la pena affrontare all’interno di un approccio dottrinale al testo del Can. 532: si tratta del ‘gerere personam Parœciæ’ già menzionato. Nel breve excursus sull’utilizzo nel CIC della formula ‘gerere personam + genitivo’ è già emerso come si tratti sostanzialmente di una circumlocuzione genericamente accolta (meglio: tradotta) col concetto di ‘rappresentanza legale’, trascurando, però, la peculiarità dell’espressione testuale che si riferisce, indirettamente, alla ‘persona Parœciæ’: la ‘persona’ della Parrocchia.
Veniamo così a trovarci di fonte ad una delle maggiori acquisizioni del CIC 83 in materia: la ‘personalità giuridica’ della P arrocchia (Can. 515 §§ 1. 3 ), che esiste, a norma di Diritto canonico, solo dal 1983.
La questione —ormai ‘stagionata’— appare di tutto rilievo non solo in rapporto al Can. 515 che proclama espressamente tale realtà, ma anche per il Can. 532 che riferisce esplicitamente al Parroco la titolarità di tale persona giuridica: la persona giuridica della Parrocchia —comunità di Fedeli stabilmente costituita— ha nel Parroco il proprio amministratore unico e legale rappresentante, secondo la struttura di base degli enti gerarchici costituiti dal Diritto stesso in modo non collegiale ma ‘monocratico’.
L’innovazione è evidente e, forse, proprio a questa innovazione occorre ricondurre la ratio della norma del Can. 532 circa la ‘rappresentanza’ della Parrocchia.
La nuova creazione di una realtà della portata della Parrocchia poteva ragionevolmente esigere, al di là delle norme di carattere patrimoniale, l’indicazione del suo referente ultimo; l’esigenza era tanto più sentita quanto maggiore era stata nei decenni precedenti la disputa proprio su tale personalità giuridica; l’atteggiamento ‘remissivo’ dei Consultori della Revisione testimonia bene questa ‘opportunità’ di miglior specificazione.
La questione circa la personalità giuridica della Parrocchia era sorta già dagli anni ’20 e costituì per lungo tempo uno ‘scoglio’ costante per i canonisti in quanto il CIC 17 testualmente non ‘conosceva’ infatti la Parrocchia come ‘persona giuridica’ (‘morale’ si sarebbe detto allora).
Per sessant’anni circa gli autori furono così divisi a) tra coloro che riconoscevano personalità giuridica solo al Beneficio parrocchiale annesso all’Ufficio sacro (la cura d’anime), alla chiesa parrocchiale (in quanto edificio), e, se presente, alla fabrica ecclesiæ (la ‘fabriceria’ per la manutenzione della chiesa stessa), non ammettendo tale personalità (a norma di Diritto) per la Parrocchia, e b) coloro che, ‘pastoralmente’, insistevano nel ‘creare’ una figura giuridica di sintesi: la Parrocchia, appunto .
“La Parrocchia è una persona giuridica; alla sua formazione concorrono tre elementi: la chiesa, a cui si riferiscono i diritti spirituali e temporali della Parrocchia; il Beneficio, costituito dai redditi di proprietà della chiesa, o da determinate oblazioni che spettano al Parroco come retribuzione del suo lavoro; la fabriceria, che viene istituita per la manutenzione e conservazione della chiesa. In generale questi tre elementi costituiscono un’unica persona morale, ma nel corso della storia non sempre si ebbe tale unione; alcune volte si ebbero tre enti distinti. il CIC —17— suppone questi tre elementi in un'unica persona giuridica” .

Decisamente contrario a tale concezione si mostrò F. Coccopalmerio autore di svariati studi ‘comparatistici’ sulla questione:
in Codice 1917 disciplina erat aliquomodo confusa. In ambitu enim parœciæ existebat certo certius personalitas iuridica beneficii parœcialis (cf. Can. 1409) et existebat personalitas iuridica sic dictæ ecclesiæ parœcialis (Cfr. pro omnibus, ex. gr., Can. 99). Quoad autem personalitatem iuridicam ipsius parœciæ valde et acriter disceptabant auctores… Parœcia non est persona moralis. Hæc opinio fuit quidem nonnullorum canonistarum, magni etiam nominis et ponderis; non fuit tamen prævalens opinio. … Codicis locutiones sese referri non ad “Parœciam”, verum ad alia subiecta existentia in ambitu Parœciæ, sicut sunt “beneficium” vel “ecclesia” (vel sic dicta “fabrica ecclesiæ”)” .

La confusione poteva essere ulteriormente accresciuta per la presenza di posizioni ancor più estreme:
“c’era infatti chi riteneva che nella Parrocchia esistessero tre soggetti: la Parrocchia, la chiesa parrocchiale e il Beneficio parrocchiale; chi riteneva ne esistessero due: chiesa e Beneficio; chi invece che ne esistesse uno solo: il Beneficio” .

In quest’ottica, parlare oggi espressamente di ‘persona Parœciæ’ risulta senza dubbio interessante ben oltre il profilo testuale: non solo si riconosce alla Parrocchia come tale una rilevanza giuridica (Can. 515 § 3) ma la si chiama addirittura ‘persona’. La sostanzialità della questione —in un approccio non nominalistico— non permette di supporre che si tratti di pura formalità linguistica (nomen) quanto, piuttosto, di un vero substantivum .
A questo proposito sarebbe interessante investigare la significatività concreta del nuovo status riconosciuto alla Parrocchia in quanto ‘comunità di Fedeli’, ciò esula tuttavia dal presente compito.
La dottrina canonistica sulle persone giuridiche (morali) era solita distinguerle in ‘collegiali’ e ‘non-collegiali’ in base al modo di formazione della ‘volontà’ della persona giuridica stessa; la distinzione formale utilizzata tuttavia, pur fondata al livello ‘funzionale’, non pare sufficientemente significativa in quanto la qualifica di persona ‘non-collegiale’ non è ancora in grado di distinguere tra la ‘fondazione’ (universitas rerum) e la persona giuridica ‘gerarchica’ (Diocesi e Parrocchia, che nel CIC 17 non esistevano come tali) nella quale l’elemento ‘personale’ risulta del tutto ‘costitutivo’ .
Sotto questo profilo concettuale, tuttavia, va osservata ancora la profonda differenza sostanziale tra queste due specifiche persone giuridiche gerarchiche: mentre infatti la Diocesi è —teologicamente— Chiesa (particolare) a tutti gli effetti (Can. 368), lo stesso non può certo affermarsi della Parrocchia. Di fatto il Codice usa ‘definizioni’ ben differenti per la Diocesi, definita “portio Populi Dei” (Can. 369), e la Parrocchia individuata come “communitas Christifidelium” (Can. 515). La non-collegialità della Diocesi viene presentata come di Diritto divino nel suo legame con l’Episcopato c.d. ‘monarchico’ (anche se la sinodalità di governo delle Chiese cattoliche orientali potrebbe aprire varie ‘falle’ a questo ‘sistema’ di riferimento); cosa affermare però della Parrocchia in quanto ‘persona giuridica gerarchica’ (comunionale) certamente non di ‘Diritto divino’?
Probabilmente non vale la pena, in questo contesto, di spingersi oltre.

b) Rapporto Parrocchia-Beneficio
Alla base di quanto riportato circa la personalità giuridica della Parrocchia e le problematiche storiche e sostanziali ad essa connesse, non si può ignorare come la realtà giuridica di riferimento fino al 1983 fosse senza dubbio il Beneficium parœciale; ad esso era legata la figura del Parroco nella sua qualità di ‘amministratore’ e legale rappresentante (quasi dominus). L’eliminazione del c.d. ‘sistema beneficiale’ operata dal Codice (su espresso mandato del Concilio) toglieva di fatto al Parroco una delle prerogative che ne avevano caratterizzato l’attività (e la stessa concezione) per oltre un millennio .
Se, infatti, in passato la titolarità del Beneficio come insieme di beni materiali (soprattutto immobili) non era discutibile, la titolarità di una ‘comunità di Fedeli’ pone ora qualche incertezza; di qui —forse— la necessità intravista dal legislatore di provvedere alla specifica definizione della questione attraverso il Can. 532.
Giova però a questo proposito ricordare alcuni degli elementi costitutivi della situazione che dominò incontrastata la vita ecclesiastica per oltre dodici secoli, creando e plasmando istituti giuridici e relative norme e modi di pensare/agire proprio in vista del funzionamento del sistema beneficiale; è da questa prassi ultramillenaria, infatti, che è sgorgata la ‘logica’ profonda che ha modellato i rapporti tra Parroco e Parrocchia giunti fino —almeno— al Vaticano II.

La realtà fondamentale di cui tener conto è la natura intrinsecamente ‘privatistica’ del Beneficio che finì ben presto per riflettersi su un’equivalente concezione dello stesso ‘Ufficio’ ad esso connesso.
Ciò avvenne all’interno della mentalità germanica che —a partire dal VI-VII sec.— si sostituì progressivamente a quella romana dopo la caduta dell’Impero d’Occidente: la disciplina ecclesiastica generale subì
“una materializzazione e una privatizzazione in quanto tutte le funzioni spirituali e religiose appaiono intimamente legate e connesse, attraverso l’istituto della chiesa propria, con il sustrato materiale di essa che determina tutto il resto. Mentre nella vita ecclesiastica sotto l’influsso del Diritto romano e della stessa indole ecclesiale pubblica e gerarchica ogni funzione spirituale e ogni atto dell’ecclesiastico nell’espletamento del suo Ufficio era una cosa ufficiale e pubblica, ora che la cosa ecclesiastica viene immersa e quasi assorbita nel Diritto patrimoniale privato e la persona dello stesso ministro sacro è considerata una persona privata al servizio di un signore, spesso laico, nella stessa maniera come tutti gli altri suoi dipendenti, anche la celebrazione del Divin Sacrificio, l’assistenza, l’amministrazione e il ricevimento di tutti i Sacramenti diventa un affare puramente privato tra il ministro, servitore privato, e il Fedele, singola persona, non più concepita quale membro del popolo di Dio e ben distinto in queste funzioni, dalla sua condizione civile e privata” .

In tale contesto tutta la struttura sociale del Medio Evo europeo risentì di questa particolare articolazione della catena dei rapporti gerarchici (di natura pubblica e funzione amministrativa), costituiti ormai esclusivamente su base patrimoniale e quindi privatistica, arrivando ben presto ad identificare il Beneficio con l’Ufficio e perfino gli Uffici prima esistenti furono assorbiti dalle terre ; la stessa investitura nell’Ufficio di governo pubblico, anche ecclesiastico, con tutte le sue prerogative avveniva pertanto attraverso l’investitura delle terre (infeudamento della Chiesa).
In quella mentalità l’essenza del Beneficio (feudale) consisteva nel diritto di godimento , che il commendatario aveva di alcuni beni ricevuti assumendosi con ciò alcuni obblighi verso il concedente ; questo diritto aveva carattere privatistico ed economico, in quanto stabiliva un rapporto di Diritto privato fra il commendatario e quella precisa massa di beni ricevuti in godimento ;
“sia sul piano teorico, sia specialmente su quello pratico, l’aspetto privatistico ed economico del Beneficio ebbe una netta prevalenza, come la stessa denominazione di “Beneficio ecclesiastico”, (quasi una specie del genere) insinuava, e come specialmente si dettero cura di elaborare, strutturare ed applicare la legislazione e la giurisprudenza canonica” .

In tal modo l’Officium venne inglobato nel Beneficium come parte costitutiva formale e sua causa finale; con le Decretali s’iniziò a parlare più espressamente di beneficium curatum .
“La confusione tra Ufficio e Beneficio e la stessa entificazione dell’Ufficio sono dovute alla ricerca affannosa di un soggetto, cui attribuire i beni del Beneficio […] sia per l’influsso del Diritto romano, per cui, secondo la dottrina prevalente, non vi può essere patrimonio senza soggetto, sia per il prevalente Diritto privato. […]
La confusione concettuale e perfino terminologica tra Ufficio e Beneficio, talvolta adoperati indifferentemente con la massima disinvoltura, deriva dalla loro intima connessione, in quanto che la massa dei beni non può configurarsi come Beneficio se non sia annessa ad un Ufficio principalmente per il sostentamento, che ne costituisce lo scopo, dell’ufficiale ecclesiastico. […]
La deprecata confusione non è venuta meno neppure con l’entificazione, legislativamente stabilita dal can. 1409 —CIC 17—, del Beneficio, per il tentativo sempre di agganciare l’Ufficio, specialmente se non soggettivato, ad un ente, come si ricava dalla stessa definizione del Codex I. C., che considera l’Ufficio quasi un elemento del Beneficio” .
.
Va notato anche come all’interno del Beneficium curatum, proprio per l’esercizio del ministero sacro (la ‘cura’), fosse presente un’ulteriore fonte di ‘rendita’: le offerte dei Fedeli in occasione della celebrazione delle sacre ‘funzioni’ o della recezione di Sacramenti e sacramentali: erano i c.d. ‘diritti di stola’ , di spettanza personale del Parroco .
La Canonistica successiva al Codice del 1917 offre la ‘sintesi’ più matura di questo ampio ed articolato istituto giuridico poiché la normativa del Libro III, Parte V (“De Beneficiis”), pur in forma sintetica (circa 80 Canoni: 1409-1494), riuscì a raccogliere tutta la legislazione e la giurisprudenza canonica in materia .
Così il padre Wernz, ad inizio secolo scorso, ripreso dal Vidal poco dopo la promulgazione del primo Codex:
“cum beneficium sit ens iuridicum constans Officio sacro et dote ipsi adnexa in finem ad quem Officium destinatur, iura et obligationes beneficiarii cohærent cum ipso Beneficio obiective considerato” .

La struttura del Beneficio appare così costitutivamente doppia: il Beneficio (o Ufficio beneficiale) è definito nel CIC 17 come persona morale , alla quale sono necessari allo stesso modo due elementi, impropriamente detti spirituale e materiale, Officium sacrum e ius percipiendi reditus ex dote Officio adnexos. Il Chierico preposto al Beneficio, diviene contemporaneamente titolare dell’Ufficio e del diritto di percepire i redditi provenienti dalla dote .
L’Ufficio sacro o spirituale che costituisce la vera ‘anima’ ideale dell’istituto beneficiale viene pertanto indicato dalla dottrina, sotto il profilo oggettivo, come una somma o complesso di funzioni sacre erette in entità giuridica, mentre, soggettivamente, era il diritto e l’obbligo di esercitare queste funzioni da parte del Chierico in virtù di una stabile e legittima deputazione: l’investitura beneficiale, canonicamente detta ‘presa di possesso’.
Questa logica agli inizi di natura totalmente estranea alle dinamiche ecclesiali fu tuttavia assimilata, sotto il profilo culturale, come interpretazione (ed ‘evoluzione’) dell’istituto —ecclesiale o canonistico— del ‘titulus ordinationis’ nella sua deriva verso il ‘titulus substentationis’ .

La trasposizione di questi concetti e dottrine alla nozione —innovativa— di Parrocchia quale ‘comunità di Fedeli’ così come formulata nel nuovo CIC non poteva certo apparire plausibile agli addetti alla Revisione codiciale che, probabilmente, non si erano neppure posti il problema, ma dovettero prenderne atto al comparire del Can. 30 ‘novus’ nello Schema del 1976.
Il nuovo concetto di Parrocchia come comunità di Fedeli, d’altra parte, riproponeva senza esitazione alcuna l’originale natura ‘pubblicistica’ del ministerium, contraddicendo apertamente l’impostazione ‘privatistica’ (sinallagmatica ) acquisita dall’Officium beneficiale e che continua a delineare in buona parte le ‘mansioni’ del Parroco .

c) Parroco pastore e Parroco ‘officiale’: la ‘cura’.
Nella stessa linea pare svilupparsi un altro elemento innovativo del rapporto Parroco-Parrocchia introdotto dal CIC 83: la decisa sottolineatura pastorale del ministero del Parroco rispetto alla precedente impostazione maggiormente tesa all’offerta —per quanto zelante e frutto di spirituale abnegazione— di ‘servizi’ di carattere religioso-sacramentale e la ‘vigilanza’ sulla correttezza della fede e dei costumi . Era questa d’altra parte la ‘radice’, almeno semantica, del termine ‘parochus’: pubblico ufficiale addetto al ‘presidio’ di una specifica struttura territoriale .
Lo stesso legislatore, in fondo, si è trovato di fronte ad un nuovo significato del concetto ormai ‘tecnico’ di cura animarum; concetto evolutosi lungo la storia ed a causa della storia, tanto che qualcuno ha notato come il Beneficio curato sia stato il normale veicolo per la realizzazione della cura delle anime che si esercitava nel Beneficio e per il Beneficio semplicemente perché fu una legge imposta dalla storia .

La prima riflessione esplicita sulla cura animarum apparve in epoca pre-tridentina ad opera del francescano spagnolo Alvaro Pelayo nel suo “De planctu Ecclesiæ”. Secondo l’autore tale cura
“potest magistraliter sic describi: cura est vigil et onerosa ac sollicita custodia animarum commissa alicui ut curet ne pereant, sed salventur, quæ competit ex lege, vel commissione canonica, vel consuetudine seu præscriptione per Sedem Apostolicam non improbata” .

Il Concilio Tridentino offrì un ottimo riferimento alla successiva riflessione canonistica sul tema individuandone il contenuto nell’offerta del santo Sacrificio, nella predicazione della Parola di Dio e nell’amministrazione dei Sacramenti , ben presto ridotte, giuridicamente, alla sola potestà di amministrare i Sacramenti ;
“il Tridentino, —infatti— mettendo tra parentesi il concetto di Chiesa, si limita a sviluppare un’Ecclesiologia della ‘cura animarum’ […] Il nucleo centrale della pastorale tridentina è dunque la cura delle anime, sinteticamente espressa nella norma “salus animarum suprema lex esto”, ed analiticamente chiarita nei doveri della residenza, della predicazione, della gratuità dell’amministrazione dei Sacramenti, dell’esemplarità della condotta” .

La Parrocchia, di conseguenza, in quanto Beneficium curatum risultava definibile proprio in ragione dell’esercizio di questa potestas di amministrazione/somministrazione dei Sacramenti cui faceva da supporto concreto, e necessario, la possibilità di sostentare colui che esercitava tale potestà. Trattandosi essenzialmente di potestas conferita con atto canonico (l’investitura) a persona abile (un Chierico) non era necessario approfondire ulteriormente la tematica sotto prospettive di carattere ‘pastorale’ , poiché il cuore della dottrina tridentina sulla giustificazione si trovava proprio negli stessi Sacramenti, validamente (e lecitamente) amministrati e ricevuti .
In tal modo, ancora contemporaneamente con l’indizione del Concilio Vaticano II, si continuava ad insegnare che
“fine della cura d’anime è dunque questo: di preparare e suscitare, di difendere ed accrescere in tutti ed in ciascuno la vita della grazia per mezzo dell’azione santificatrice dei Sacramenti della Chiesa, con la cooperazione soggettiva dei singoli Fedeli […]. Il Pastore d’anime ha, dunque, in forza del suo Ufficio, questo dovere e questo diritto” .

In questa concezione di ‘cura delle anime’ non emergeva nessuna incompatibilità tra l’impostazione ‘beneficiale’ e quella ‘pastorale’ poiché l’Officium del Parroco consisteva proprio nel prendersi cura delle anime; non importa se per munus publicum o privatum. Tanto più che l’impostazione sacramentalista tridentina non pareva voler andare al di là della valida e lecita amministrazione dei singoli Sacramenti, senza una reale portata ecclesiologica (e spirituale) .
Solo la nuova sensibilità, davvero pastorale, e la ‘libertà’ di riflessione e confronto introdotte in quest’ambito dal Vaticano II hanno finalmente permesso un approccio critico a questa ‘figura’ ministeriale tanto che la stessa “Commissione Teologica Internazionale” ha denunciato chiaramente la tendenziale riduzione ‘tridentina’ del sacerdozio, e del ministero ad esso legato, alla celebrazione dei Sacramenti, in particolare dell’Eucaristia, in qualche modo canonizzata dallo stesso Concilio di Trento . Tale riduzione
“presuppone —forse a un livello più di prassi che di teoresi— la dissociazione del sacerdozio dalla ‘cura animarum’, e più radicalmente l’affermarsi della divisione tra potere d’ordine e potere di giurisdizione fatta funzionare nel senso di sottrarre la ‘cura animarum’ al potere d’ordine, per relegarla nel potere di giurisdizione, dove però, nella contrapposizione, finisce per risultare, se non degradata, certo meno caratterizzante” .

I vari passaggi tra questa cura animarum, giunta in tal modo fin quasi a noi, e la cura pastoralis di cui parla oggi il Codice non sono stati lungo i secoli scorsi né chiari, né chiariti, ed il loro studio appartiene alla Teologia pastorale ed alle scienze connesse più che alla Canonistica.

Per quanto riguarda la presente riflessione occorre notare come secondo il Can. 515 §1 al Parroco non viene —più— affidato il Beneficium curatum come presupposto della cura (singolarum) animarum ma la stessa ‘cura pastorale’ della Parrocchia in quanto ‘comunità di Fedeli’; ciò pone nuovamente l’interrogativo, assolutamente appropriato dal punto di vista giuridico, circa la legittima espressione della ‘volontà’ della Parrocchia stessa in quanto ‘comunità di Fedeli’: chi è abilitato ad esprimere questa voluntas in nome e per conto della ‘comunità’ stessa? Ancora più radicalmente: chi ‘crea’ questa voluntas?
Il Can. 532 offre la risposta: il solo Parroco, in omnibus negotiis iuridicis.
La chiarezza ‘operativa’ della norma, tuttavia, può non risultare necessitante a livello di ‘premesse’: quando infatti il Parroco, unico titolare del Beneficium curatum, lo gestiva con pieno jus in re (ovviamente con le limitazioni volte alla salvaguardia del Beneficium stesso) non esistevano alternative giuridicamente fondate alla sua ‘rappresentanza’ e decisionalità; ora invece che al Parroco viene affidato non il Beneficium la cura pastorale della ‘comunità di Fedeli’, che cosa giustifica la permanenza nelle sue mani della ‘rappresentanza’ (e decisionalità) della Parrocchia stessa?
Pare evidente la considerazione, già avanzata, a riguardo della non-collegialità delle persone giuridiche gerarchiche della Chiesa (Diocesi e Parrocchie in primis): per quanto la Parrocchia risulti ora, e si percepisca, come ‘comunità di Fedeli’ ciò non ne contraddice la natura ‘gerarchica’ che assegna ad ogni Fedele, a seconda del suo status ecclesiale/canonico una propria specifica ‘collocazione’ ed un proprio ambito di diritti-doveri da esercitare ed ottemperare.

Queste considerazioni vanno tuttavia svolte anche alla luce del fatto che il Parroco (e lo stesso Vescovo), in quanto pastore della comunità, non possa esentarsi dal prendersi cura anche degli aspetti più materiali della vita della comunità stessa affidatagli: come un buon padre di famiglia che non può accontentarsi di portare a casa un lauto stipendio senza preoccuparsi personalmente delle necessità della famiglia stessa e dei suoi membri .
L’idea è ben illustrata nella “Istruzione in materia amministrativa” emanata dalla C.E.I. nel 1992:
“il Parroco, quindi, come “pastore proprio” (Cfr. Cann. 515 § l; 519) di una determinata comunità di Fedeli, ne è responsabile non solo sotto il profilo sacramentale, liturgico, catechetico, caritativo, ecc., ma anche sotto i profili civile, amministrativo e penale. […]
La responsabilità amministrativa del Parroco è sempre sotto l’autorità del Vescovo diocesano, costituendo il legame con il Vescovo la garanzia dell’inserimento della comunità parrocchiale nella Chiesa diocesana, e non lo isola dalla comunità dei Fedeli dal momento che si tratta di una responsabilità che esige di essere esercitata “con la collaborazione di altri Presbiteri o Diaconi e con l’apporto dei Fedeli laici” (Can. 519). E’, però, una responsabilità personale, alla quale il Parroco non può rinunciare (Cfr. Can. 1289) e che non può demandare ad altri limitandosi, ad esempio, a ratificare le decisioni prese dal consiglio parrocchiale per gli affari economici. […] Si tratta poi di una responsabilità globale, che abbraccia tutte le attività di cui la Parrocchia è titolare, anche se organizzate in modo autonomo (per es. l’oratorio, la scuola materna)” .

- A qualcuno potrà apparire eccessivo il ruolo attribuito in queste riflessioni al Beneficio; si potrà infatti obiettare che il sistema beneficiale non ha riguardato tutta la Chiesa, né è stata una realtà costante nel tempo. Al riguardo si possono avanzare alcune considerazioni che confermino la congruità della scelta operata: a) il CIC 83 dipende in larghissima parte dalla strutturazione assegnata alle diverse materie canoniche da parte del CIC 17 e dalla dottrina conseguente ; b) il CIC 17, a sua volta, ha costituito la ‘consolidatio’ dello jus commune canonicum precedente , condensando e sistematizzando il vissuto giuridico sostanzialmente europeo, poiché la quasi totalità degli altri territori non apparteneva al regime dello jus commune ma allo jus missionarium (in dipendenza dalla Congregazione di Propaganda Fide) e non aveva la Parrocchia. c) Jus commune canonicum e sistema beneficiale sono stati di fatto coestensivi nel tempo e nello spazio per oltre un millennio, forgiando istituzioni ecclesiali e mentalità ecclesiastica ben oltre la ‘ragionevole’ percezione soggettiva; l’opera storiografica e dottrinale del Card. A.M. Stickler ne rimane testimonianza incontestabile.

d) Parroco e ‘Consigli’ parrocchiali.
Il tema dei Consigli parrocchiali e della corresponsabilità si pongono come evidente sviluppo del forte cambiamento d’impostazione di cui la Parrocchia è stata oggetto nel CIC 83.
Quanto offerto dal Codice è con tutta evidenza il primo passo verso una struttura istituzionale della Parrocchia uscita dal Vaticano II ben diversa da quella ormai ‘storica’; il possibile/necessario affiancamento al Parroco di ‘Consigli parrocchiali’ è infatti un’esigenza della nuova concezione di Parrocchia come ‘comunità di Fedeli’ e non più semplicemente come ‘territorium curæ’; il primo livello di istituzionalizzazione di questa acquisizione, anche canonica, come attuato nel CIC 83 si mostra tuttavia sostanzialmente carente.
Osservava con sagacia F. Coccopalmerio già al tempo della promulgazione del Codice come:
“checché si pensi […] resta il fatto che i Canoni in questione, partiti con una definizione della Parrocchia come comunità di Fedeli, sembrano poi perdere per strada tale ottica squisitamente comunitaria, spostando l’asse del discorso sul Parroco e sulla sua funzione e parlando quindi solo di striscio della comunità parrocchiale come di soggetto unitario agente” .

In effetti va riconosciuto —in un profilo di Diritto amministrativo canonico— come la strutturazione interna delle Persone giuridiche gerarchiche nella Chiesa latina permanga piuttosto labile: il CIC 83 non riesce di fatto ad andare oltre l’assegnazione di compiti e responsabilità a chi le regge (Vescovi e Parroci) ma senza entrare negli elementi portanti della loro struttura e funzionalità: le acquisizioni in chiave ‘concettuale’ (‘comunità di Fedeli’, ‘Chiesa particolare’) non hanno trovato sufficiente traduzione istituzionale in congrue strutture di vita, governo e rappresentanza delle comunità stesse.
La necessità di un Consiglio Parrocchiale per gli Affari Economici (Can. 537) e la ‘possibilità’ di un Consiglio Pastorale Parrocchiale (Can. 537) di fatto non rispondono in modo adeguato alle ‘aspettative istituzionali’ stimolate dal Can. 515.
Di fatto la discrezionalità assoluta del Parroco nel nominare i membri del C.P.A.E. gli permette tranquillamente di conservare la mentalità e le logiche tipiche della precedente impostazione privatistico-beneficiale ; la sola consultività del Consiglio stesso continua a lasciarlo assolutamente libero nel disporre dell’amministrazione della Parrocchia secondo la propria sensibilità, accortezza e discrezionalità.
L’irrilevanza pratica —ancor maggiore in termini giuridici— del Consiglio pastorale permette al Parroco l’utilizzo di spazi di manovra ai limiti del puro arbitrio, senza dover rendere conto a nessuno di scelte pastorali —e non— che coinvolgono l’intera Parrocchia e, forse, la coinvolgeranno e condizioneranno per interi decenni a venire.
E’ all’interno di queste coordinate che pare rilevare sempre più l’ambito ecclesiale-pastorale dell’‘agire in nome e per conto’ della Parrocchia, assegnato ex lege alla persona del Parroco.
Oggi soprattutto che, almeno nella situazione post-beneficiale italiana, le Parrocchie non sono più fattori di concentrazione economico-patrimoniale come in passato, ma si trovano sostanzialmente ad amministrare solo qualche fabbricato strumentale all’esercizio del culto e del ministero pastorale il tema della ‘rappresentanza’ ecclesiale-pastorale della Parrocchia pare doversi porre in modo sempre più significativo e profondo poiché l’abbandono o comunque la crisi del modello sacramentario tridentino, sostanzialmente ‘adeguato’ ad una concezione ‘privatistica’ del Parroco e del suo ministero, richiedono un’attitudine ‘comunitaria’ del tutto differente ed una conseguente ridefinizione, se non proprio dei ruoli, almeno dei processi decisionali di rilevanza comune.
In quest’ottica la mens legislatoris inespressa della norma, così come la ratio non evidente, lascerebbero adito ad opportune —e necessarie— modifiche del Canone secondo una logica di maggiore partecipazione e corresponsabilità.

e) ‘Rappresentanza’ e ‘volontà’.
Sulla scia di quanto sin qui delineato diventa necessario mettere a fuoco un altro aspetto a prima vista indiretto della tematica indotta dal Can. 532; aspetto che, in realtà, costituisce il ‘presupposto’ teoretico che, almeno nell’ultimo secolo, pare esprimere la ratio stessa dell’istituto della ‘rappresentanza’ delle persone giuridiche: la loro ‘volontà’ .
La questione fa risaltare un profilo teoretico di grande portata non solo dottrinale: il presupposto secondo cui “personæ (morales) sunt uti minores” recepito e fissato dal CIC 17 al Can. 100 §3: “personæ morales sive collegiales sive non collegiales minoribus æquiparantur”.
Come spesso accaduto lungo la storia del Diritto canonico —e purtroppo amplificato nella prima ‘codificazione’—, la perdita del riferimento alla ratio propria ed alla mens legislatoris in riferimento alla norma ha finito ben presto per stravolgerne non solo l’applicazione ma, molto di più, gli stessi presupposti istituzionali e giuridici, finendo per ‘consegnare’ alla dottrina —ed ai legislatori successivi— elementi spuri; nel presente caso: la mancanza di voluntas da parte della persona giuridica. Che il dispostum del Can. 100 §3 del Codice pio-benedettino non intendesse nulla del genere è assolutamente chiaro dalle fonti indicate per il Canone (C.1, 3, X, de in integrum restitutione, I, 41) e dalla dottrina più autorevole in materia.
L’Ojetti nel suo Commentarium ricorda l’origine ‘tutoria’ del principio, già saldamente recepito fin dai tempi di Papa Alessandro III (al secolo R. Bandinelli, 1159-1181) il quale, nel contesto della restitutio in integrum (!), affermava che: “et Ecclesia iure minoris debeat semper illæsa servari” ; allo stesso modo i maggiori canonisti post-codiciali hanno sempre sottolineato come il presupposto ‘uti minores’ manifestasse un favor iuris verso le persone giuridiche ecclesiali in quanto a tutela dei loro beni e diritti: “illæsa servari” .
Senza dubbi, quindi, la situazione di minoritas cui la tradizione giuridica e la norma del CIC 17 sulle persone giuridiche (morali) si riferivano riguardava non tanto l’assenza di adeguata voluntas quanto piuttosto la necessità di proteggere dalle disattenzioni, negligenze e malvessazioni degli amministratori ciò che appartiene al bonum commune Ecclesiæ, addirittura contro la stessa volontà collegialmente formatasi ed espressa p. es. da Capitoli o altre tipologie di persone collegiali titolari, soprattutto, di beni patrimoniali ‘ecclesiastici’: a questo mirava il Can. 100 §3 del precedente Codice nel suo accomunare persone giuridiche ‘collegiali’ e ‘non collegiali’ quanto a tutele accordate.
Per quanto, infatti, concerne la voluntas delle universitates personarum (in genere collegia), l’Ordinamento canonico si presenta provvisto di sufficiente consapevolezza —almeno pratica—, regolamentando con cura e precisione il costituirsi ed il legittimarsi di tale espressione della persona giuridica: i Canoni sugli ‘atti collegiali’ contenuti nei diversi Codici sono emblematici in merito ; allo stesso modo vanno considerate le diverse e complesse norme sulle ‘elezioni’, espressione privilegiata della voluntas collegialis.

Ciononostante, già dagli anni ’30 cominciò ad insinuarsi nelle trattazioni dottrinali il tema della ‘inadeguata’ voluntas delle persone giuridiche (anche collegiali!) , giungendo fino ad irretire anche studiosi di notevole prestanza e competenza quali P. Ciprotti che nelle sue ‘Lezioni di Diritto canonico’ affermava:
“poiché la persona giuridica, a differenza della persona fisica, non ha per sua natura una volontà, tutta l’attività di essa si svolge per mezzo di persone fisiche (organi), la volontà delle quali, debitamente formata e manifestata, è dal Diritto considerata come se fosse la volontà della persona giuridica” .

Che non si trattasse di una semplice ‘svista’ ma di un vero errore teoretico risulta evidente dallo sviluppo dell’argomentazione che si attesta proprio sul tema della ‘capacità giuridica’, giungendo a ‘fondare’ la ratio essendi della norma proprio nella ‘incapacità’ di agire delle persone giuridiche, equiparate in questo ai minori:
“per la capacità di agire la disposizione generale più importante è quella che equipara in via generale le persone giuridiche ai minori (Can. 100 §3; e Cfr. Cann. 1526, 1649, 1653, 1655 §2, 1682, 1687 §2, 1759 §3)” .

Quest’approccio ‘limitativo’ anziché ‘tutorio’ rimarrà indelebilmente connesso all’interpretazione generalizzata del principio ‘personæ sunt uti minores’, ‘patrocinando’ la convinzione dell’assenza di volontà nelle persone giuridiche al punto d’impedire al legislatore (tecnico) di porsi questioni ed interrogativi sull’effettiva voluntas delle universitates personarum e sul suo rapporto con gli ‘organi’ di formalizzazione ad extra di tale voluntas (rappresentanza organica).
Proprio partendo da questo presupposto si rendeva plausibile la necessità per la Parrocchia di ricevere, meglio se ex lege, non tanto qualcuno che ‘agisse in nome e per conto di’ ma qualcuno che ‘volesse al posto di’: il Parroco, appunto!
L’assoluta mancanza di discussione in merito durante i lavori di Revisione codiciale lascia oscura la mens legislatoris, non potendo impedire un approccio fortemente critico alla tematica.

La questione sostanziale va allora posta proprio sul tema della voluntas della Parrocchia in quanto persona giuridica ‘comunitaria’ (universitas personarum). Da questo punto di vista, però, il vero problema non è l’assenza di una ‘volontà’ da parte della ‘persona giuridica’ (anche nel ‘minore’ in effetti la ‘volontà’ non è assente) ma la sua non-abilità ad esprimere tale ‘volontà’ secondo i parametri del Diritto, primo tra tutti la ‘certezza’: la carenza non è, pertanto, sostanziale: la ‘volontà’, ma formale: chi la esprime in modo definitivo e certo. In questo modo il ‘legale rappresentante’ è ‘organo’ della persona giuridica e non sostituto o ‘auctor’ della sua voluntas (com’è, invece, per tutori e curatori ).
La cosa, tra l’altro, non rileva in relazione al soggetto come tale (la persona giuridica) ma in rapporto ai c.d. ‘terzi’ che devono essere tutelati nel loro intrattenere ‘negozi’ col soggetto non-individuale; si tratta infatti della garanzia che i diversi negotia abbiano efficacia certa ed incontestabile anche da parte di eventuali altri ‘amministratori’ o ‘gestori’ della stessa persona giuridica, attuali e futuri. In tal modo il principio ‘uti minores’, pur non espressamente formulato nel CIC 83, può senza dubbio essere annoverato tra le precomprensioni degli Organismi di Revisione codiciale e consultazione quale presupposto tanto del Can. 532 che del Can. 1281 sulle responsabilità degli amministratori di beni ecclesiastici.
Queste considerazioni portano però a riproporre una volta in più la necessità di adeguare non solo le ‘forme’ ma la ‘sostanza’ del passaggio dal precedente schema oggettivistico-beneficiale a quello ‘personale’: se il Beneficium (curatum) era universitas rerum, e come tale non-capace di ‘volontà’ propria, oggi la Parrocchia —‘comunità di Fedeli’— è senza dubbio capace tanto di una ‘volontà’ che di una sua legittima espressione. Questo, tuttavia, non è quello che deriva, a tutt’oggi, dal Codice; in realtà è spesso (quasi sempre) il solo Parroco che decide (volontà) ed opera (rappresentanza) in nome e per conto (al posto) della Parrocchia.

Lo ‘scivolamento’ del tema della ‘rappresentanza’ in quello della ‘volontà’ non è certamente di poco conto soprattutto perché coinvolge direttamente —come già accennato— la concezione ‘monocratica’ del governo degli enti canonici gerarchici, che non hanno natura collegiale; ciò, tuttavia, non equivale necessariamente al prospettarne una sostanziale ‘democratizzazione’ sulla falsariga socio-politica quanto, piuttosto, una maggior effettività del principio —canonico e ‘codiciale’— di corresponsabilità all’interno del Popolo di Dio.
In quest’ottica sarebbe però superficiale non considerare anche l’altra ‘faccia della medaglia’ di un processo di rinnovamento che non incontrasse sufficiente maturità da parte degli ambienti parrocchiali:
1) un processo di formazione e determinazione della ‘volontà’ della Parrocchia troppo complesso ed articolato rischierebbe di generare immobilismi —anche pastorali— non minori degli attuali;
2) la ben nota lentezza delle comunità parrocchiali nell’assumere ed integrare le necessità di cambiamento porrebbe spesso il Parroco ‘lungimirante’ nella condizione di non poter neppure smuovere le situazioni pastorali, organizzative e strumentali a causa della ritrosità dei parrocchiani ;
3) è ben nota la deprecabile situazione in cui si trovano molti Parroci, soprattutto in ambito ecclesiale svizzero-germanico, ridotti di fatto al solo esercizio ‘cultuale’ e sacramentario a causa della loro concreta estromissione da tutte le questioni organizzative ed amministrative completamente ‘affidate’ ai diversi ‘Consigli’ od organismi parrocchiali.

f) Prospettive e sviluppi della norma.
Proprio al livello delle questioni riguardanti ‘rappresentanza’ e ‘volontà’ della Parrocchia si possono tuttavia ipotizzare alcuni sviluppi, per altro già possibili dal punto di vista concreto.
Si tratta d’interventi, anche legislativi, in ambito di Diritto particolare delle singole Diocesi; interventi coi quali il Vescovo diocesano (o l’Ordinario attraverso Decreto generale esecutivo) potrebbe esigere l’attuazione di percorsi decisionali di maggior portata —ed effettività— comunitaria finalizzati ad un’adeguata formazione della volontà ‘negoziale’ o ‘giuridica’ della Parrocchia , volontà che il Parroco, nella sua veste di ‘rappresentante’ ex lege della Parrocchia stessa dovrebbe esprimere ed attuare conformemente alla natura dei negotia iuridica in questione.
In chiave esemplificativa, e speriamo emulativa, si può citare la disposizione con cui alcuni Vescovi diocesani hanno imposto ai Parroci di ottenere il ‘consenso’ del C.P.A.E. per porre atti di amministrazione straordinaria; tale disposizione è attiva da anni all’interno del Vicariato di Roma.
La stessa Congregatio Pro Clericis da parte sua, in quanto referente dell’amministrazione dei beni ecclesiastici per la Chiesa cattolica tutta, caldeggia tale tipologia d’interventi normativi proprio in ragione della maggior tutela non solo del patrimonio stabile delle Parrocchie ma della portata, radicamento ed oculatezza delle scelte, anche pastorali, che coinvolgono l’intera comunità di Fedeli.
Ciò che rileva, infatti, in questa prospettiva non è tanto la ‘rappresentanza’ come espressione formale della voluntas negotialis della Parrocchia come tale, espressione che in sé ha valore ben ridotto, quanto piuttosto la ‘qualità’ di tale voluntas, il suo radicamento, la sua condivisione, il suo ‘accollo’ da parte della ‘comunità di Fedeli’ attraverso un impegno attivo e prolungato nel tempo per la realizzazione effettiva (ed efficace) dell’oggetto del negotium stesso, p. es.: la costruzione di un nuovo oratorio parrocchiale, il restauro di una chiesa, la costruzione e gestione di una scuola materna o casa per anziani, ecc.

Strumenti semplici ma efficaci per conseguire questo genere di finalità potrebbero già essere, solo esemplificativamente e senza stravolgere il Codice:
a) l’obbligo di verbalizzazione e tenuta dei Registri dei Verbali sia del C.P.A.E. che del C.P.P.;
b) la richiesta da parte dell’Ufficio Amministrativo (o equivalente) della Curia dei verbali di tali Consigli in cui sia avvenuta la discussione e la delibera circa progetti ed impegni di natura gestionale o patrimoniale per i quali necessiti l’autorizzazione dell’Ordinario.


Conclusione

Al termine di queste poche riflessioni sul Can. 532 ritengo si possano proporre con sufficiente cognizione di causa alcune affermazioni:
a) il Can. 532 non può essere interpretato solo nella sua chiave patrimoniale e civilistica cui la maggioranza degli interpreti pare riferirsi;
b) il Can. 532 risponde ad un’evidente necessità di ricomporre e ridelineare —in modo ‘intermedio’— i rapporti giuridici tra la ‘nuova’ Parrocchia e la precedente situazione modellata sul sistema beneficiale;
c) il Can. 532 pone l’interrogativo irrinunciabile del rapporto tra ‘rappresentanza’ della Parrocchia e sua ‘volontà’ offrendo ulteriori punti di vista allo sviluppo dei ‘Consigli parrocchiali’;
d) il Can. 532 apre le prospettive di una vera ‘soggettività’ della Parrocchia all’interno dell’Ordinamento canonico in chiave ecclesiale-pastorale nella partecipazione cosciente e corresponsabile al continuo ‘divenire’ della Chiesa e del suo strutturarsi ed agire anche nella pastorale.
Verrebbe quasi da dire: “non lasciate solo quel povero Parroco!”

Le considerazioni sin qui articolate hanno certamente aperto più questioni di quante ne abbiano risolte; un Canone ‘tecnico’ senza ‘storia’ né evidenti motivazioni dottrinali ha posto interrogativi sostanziali di grande portata, senza tuttavia offrire risposte.
Ritengo però che solo la formulazione di domande ‘vere’, sia sotto il profilo tecnico che sostanziale, possa preludere al reperimento di risposte adeguate, all’altezza del compito che la Canonistica di ogni tempo deve assolvere per un vero servizio alla vita della Chiesa.


in: GIDDC, La parrocchia, coll. Quaderni della Mendola, n. 13, Glossa, Milano, 2005, pp. 179-214.