Le figure parrocali del Libro II del Codex Juris
Canonici
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Premessa
metodologica alla Giornata Canonistica Interdisciplinare
Lo scopo da cui prende origine la “Giornata Canonistica
Interdisciplinare” è prima di tutto il tentativo di
‘estrarre’ la Canonistica dall’ortus
conclusus in cui ha
finito per rinserrarsi in seguito al radicale cambio d’identità
impostole –suo malgrado– dalla Codificazione del Diritto canonico
all’inizio del XX sec. e che neppure la sua stessa Revisione
post-conciliare, conclusasi ormai da oltre vent’anni, ha saputo
‘ricuperare’ né in fatto di organicità interna, né
in rapporto con le altre Scienze e Discipline comunemente dette
‘sacre’ o ‘teologiche’ che, invece, nell’ultimo secolo
hanno conosciuto un notevole sviluppo soprattutto in ambito
metodologico, operando un autentico ‘rinnovamento’ tanto ‘in
vista’ del Concilio Vaticano II che in sua ‘conseguenza’.
Alla
base di questa ‘evoluzione’ –lenta e contrastata ma altrettanto
efficace– si deve prendere atto del ruolo assolutamente primario
giocato –per la prima volta– dal Magistero, tanto pontificio che
conciliare, intervenuto già dalla metà del XIX sec.
prima in merito alla Filosofia (Leone XIII, Enciclica Æterni
Patris, 4 agosto
1879), poi alla Teologia (Pio X, Enciclica Pascendi
Dominici gregis, 8
settembre 1907; Pio XII, Enciclica Humani
generis, 12 agosto
1950), e più diffusamente alla S. Scrittura (Leone XIII,
Enciclica Providentissimus
Deus, 18 novembre
1893; Pio XII, Enciclica Divino
afflante Spiritu, 30
settembre 1943; Concilio Vaticano II, Costituzione Dei
Verbum, 18 novembre
1965) in un susseguirsi di prospettive, restrizioni ed acquisizioni i
cui risultati appaiono ormai ‘pacifici’ nella maggioranza delle
Discipline c.d. teologiche… tranne –concretamente– la
Canonistica che, ancora in alto mare nell’individuazione del
proprio statuto epistemologico, rimane ben lontana dall’attracco al
molo della scientificità del XX sec., più ostacolata
che favorita dagli eventi ‘autoritativi’ che ne hanno
definitivamente mutato le sorti nel secolo scorso (il Codex
pio-benedettino e le prime norme per il suo insegnamento: Decreto De
novo Codice).
1.
Conseguenze metodologiche della Codificazione canonica
E’
ormai consapevolezza diffusa ed acquisita che l’adozione dello
strumento codiciale non ha riguardato soltanto la ‘forma’
espositiva del Diritto canonico –non si trattò infatti di
una questione ‘estetica’, pure se così venne prontamente
identificato anche da insigni studiosi– ma espresse e soprattutto
comportò precise istanze organizzative e teoretiche del
Diritto canonico stesso, inducendo pesanti conseguenze sul versante
metodologico, tanto da costringere i canonisti ad un profondissimo
cambio di mentalità non solo ‘operativa’ ma, molto
maggiormente, epistemologica.
E’
senza dubbio chiara la posizione assunta da C.M. Redaelli nel
“Colloquio internazionale di Salamanca” di dieci anni fa proprio
sulle conseguenze della Codificazione:
«una
prima conseguenza è anzitutto la formale
rottura con la tradizione canonica,
nonostante il tentativo di evidenziare la continuità con le
fonti di essa e la continuità di sostanza che il Codice
presenta con il Diritto precedente. […]
Un
altro effetto implicato dall’adozione della Codificazione è
l’accentuazione
del principio che la Legge vale per se stessa e
non per la sua motivazione, che del resto non viene espressa. […]
E’
l’inevitabile sbocco
nel Positivismo,
parallelo a quanto avvenuto a seguito della promulgazione dei Codici
statuali: se il Codice è per definizione razionale (mentre la
consuetudine deve dimostrarlo: cf. can. 27, § 1), non ha bisogno
di ricorrere a una ratio
per giustificarsi: vale per se stesso. […]
L’accoglienza
del principio della Codificazione da parte della Chiesa non è
stata pertanto ideologicamente neutra, né senza conseguenze
rilevanti e particolarmente gravi: ha
accentuato la visione positivistica del Diritto canonico; ha basato
la razionalità e l’obbligatorietà della norma sul
principio di autorità; ha portato all’emarginazione di ciò
che era ed è specifico nella tradizione canonica; ha
enfatizzato il centralismo ecclesiale».
Che
ciò non fosse assolutamente preventivato da Papa Pio X, né
al momento di decidere per la Codificazione, né durante gli
stessi lavori, pare del tutto probabile soprattutto per l’approccio
che lo stesso Pontefice aveva al Diritto canonico: quello ‘pratico’
che aveva tratto dalla Prassi curiale la propria concezione ed
identità, in una prospettiva da ‘diporto procedurale’
ispirata all’immediata utilità strumentale, come plausibile
per chi aveva fatto il Cancelliere prim’ancora di conoscere il
Diritto.
Discorso
sicuramente diverso dev’essere fatto per il ‘Codificatore’
materiale, il Card. P. Gasparri, che per parte sua aveva scelto
consapevolmente da che parte stare quanto a posizione dottrinale: il
Codex
contro le Compilationes,
la vigenza contro la storia!
Che
una volta terminata l’opera redazionale tutto ciò dovesse
emergere ed imporsi non solo agli addetti di Curia ma alla Chiesa
intera ne dà autorevole prova l’atteggiamento assunto con
prontezza da Benedetto XV nella proposta ed iniziale applicazione del
primo Codice di Diritto canonico quando, ben al di là dei
plausibili intendimenti di Pio X, sentì di dover
‘accompagnare’ il nuovo strumento legislativo con un nuovo modo
di studiarlo ed applicarlo. La completezza e peculiarità della
sua formazione giuridica è al contempo tanto motivazione che
prova di questo atteggiamento.
A
sancire l’ormai acquisito mutamento non solo applicativo ma anche
epistemologico della Canonistica intervenne in poche settimane dalla
Promulgazione del CIC l’imposizione del Metodo
esegetico per lo
studio del nuovo Codice, relegando quod
non est in Codice ad
un’altra Disciplina –per fortuna– ormai svezzata: la Storia del
Diritto canonico.
In
tal modo le due anime teoretiche che si erano contese la Canonistica
di fine Ottocento ebbero ciascuna la propria parte anche
‘accademica’: ai Francesi l’Esegesi del Codice, ai Tedeschi la
Storia del Diritto canonico.
L’equilibrio
tuttavia fu solo teorico e temporaneo poiché, nonostante
l’esposizione di ogni Istituto giuridico canonico ad
normam Codicis
andasse preceduta dall’illustrazione della sua evoluzione storica,
la Canonistica non riuscì a non diventare pura ‘Codicistica’,
impiantando così la quæstio
crucialis della
Canonistica del XX secolo: il Metodo.
2.
Il problema metodologico della Canonistica codiciale
Proprio
attorno al Metodo occorre oggi lavorare seriamente per ridare alla
Canonistica un’identità non solo non-conflittuale, com’è
stata invece negli ultimi cinquant’anni, ma ‘convincente’ anche
per la consapevolezza e mentalità scientifica attuale, per i
canonisti e gli studiosi di oggi, e non ‘ecclesiastici’ soltanto.
Questo
non può tuttavia attuarsi ‘a posteriori’, confidando sulla
‘condivisibilità’ dei più diversi ‘elenchi’ di
tesi ed assunti canonistici elaborati dalla dottrina dello scorso
secolo, come insigni studiosi si sono invece –irenicamente ed
acriticamente(?)– sforzati di proporre;
dalle
‘tesi’ enunciative di C.M. Redaelli:
«1.
La Canonistica è una Disciplina ecclesiale.
2.
La Canonistica è una Disciplina teologica.
3.
La Canonistica è una Disciplina teologica con un proprio
metodo.
4.
La Canonistica è una Disciplina teologica che si avvale, con
propri criteri, anche di strumentazioni elaborate in altre
Discipline, soprattutto quelle giuridiche.
5.
La Canonistica è una Disciplina teologica articolata.
6.
L’articolazione della Canonistica non pregiudica la sua unitarietà
né la sua qualificazione teologica.
7.
L’unitarietà della Canonistica e la sua complessiva
qualificazione teologica è fondamentale per evitare una
lettura non ecclesiale della normativa positiva.
8.
La Canonistica resta in dialogo con le altre Discipline teologiche,
ma non può demandare a esse la comprensione fondamentale della
dimensione giuridica della Chiesa, né la propria fondazione»,
alla
proposta più generica, per quanto maggiormente equilibrata, di
A. Montan:
«a)
il Diritto esiste nella Chiesa e ciò è conforme alla
sua natura: si tratta di un dato storico inconfutabile;
b)
il Diritto ecclesiale va compreso a partire dal mistero della Chiesa
[…];
c)
il giuridico ecclesiale non è riducibile ad una imposizione
autoritativa sanzionante, fosse anche di origine trascendente, né
si fonda esclusivamente nell’ambito umano-naturale […];
d)
tra Diritto ecclesiale e Diritto umano vi è una correlazione
molto stretta da approfondire e precisare, evitando di assimilare
l’uno nell’altro […];
e)
nel Diritto ecclesiale un posto fondamentale occupa il cosiddetto
“Diritto divino”: comprende norme sovraordinate alle altre norme,
ispiratrici e regolatrici di tutta la normazione canonica».
Proposte
di questo genere infatti, quand’anche venissero accolte dai più
nella loro concreta formulazione testuale, comporterebbero in realtà
una tale quantità di riserve mentali, di distinguo
e di ‘premesse’ da rendere di fatto implausibili (ed
improponibili) tali piattaforme teoretiche, incapaci di guidare ad
una vera conoscenza dell’esperienza giuridica ecclesiale poiché
troppo impegnate a ‘giustificarne’ parziali aspetti teoretici
(e/o fondativi) dati ormai per acquisiti al punto da costituire veri
‘assiomi’ in base a cui sta o cade non solo la/una Canonistica,
ma lo stesso Diritto canonico come suo ‘oggetto’, come continua a
dimostrare efficacemente un passaggio ormai ‘storico’ di F.
Coccopalmerio:
«sembra
al riguardo ovvio che […] ci si senta immediatamente e previamente
interpellati da un altro quesito: qual
è il concetto di Diritto ecclesiale?
La domanda appare fondamentale, per l’ovvio fatto che, solo
stabilito l’oggetto se ne può fondare l’esistenza. In
particolare è necessario che ci chiediamo: si vuole aver a che
fare con un generico Diritto
nella
Chiesa o con lo specifico Diritto
della
Chiesa? Se infatti non si parte da una giusta nozione di Diritto
ecclesiale per poi fondarne teologicamente l’esistenza, si finisce
col cercare il fondamento dell’esistenza di una realtà
ignota oppure di una realtà diversa da quella che si deve
fondare».
La
Canonistica verso cui occorre indirizzarsi oggi deve invece saper
partire da un’adeguata consapevolezza
epistemologica prima
che applicativa,
evitando gli esiti estremi delle c.d. Scuole canonistiche di Navarra
e Monaco che, lasciandosi prendere la mano dall’utilizzo –più
o meno problematico– dello strumento codiciale, hanno finito per
creare non solo ‘Canonistiche’ assolutamente differenti tra loro,
ma anche nuove Discipline, più concorrenziali che
complementari alla Canonistica stessa.
Non
si tratta tuttavia di operare –pretenziosamente– un ‘colpo di
spugna’ che faccia per l’ennesima volta tabula
rasa del passato
quanto, piuttosto, di un serio ‘ritorno alle origini’,
anteponendo questa volta solide
basi gnoseologiche ed epistemologiche
che, se lasceranno a ciascuno la libertà di optare per
qualcuna delle possibili scelte legittime in campo tecnico e
dottrinale, non impediscano tuttavia d’individuare con buona
precisione cosa sia la Scienza canonistica …e lo stesso Diritto
canonico nel contesto attuale delle Discipline ecclesiastiche.
Si
tratta, concretamente, di fare un ‘passo indietro’ sotto il
profilo metodologico, accostando in modo critico le scelte ‘a
priori’ già operate in questo campo (esegesi, dogmatica
giuridica, fondazione teologica o altro), riconoscendo ad esse un
valore
del tutto strumentale
e non originario quanto a delineazione e definizione della Scienza
canonistica in prospettiva epistemologica.
Solo
infatti un più consapevole e competente approccio alla
componente epistemologica ed una sua corretta declinazione
permetteranno il conseguimento della finalità proposta e la
sua stabilità, la sua ragionevolezza e la sua concreta
condivisibilità …non solo di una parte dei risultati.
3.
Questioni preliminari sul Metodo
La
‘pericolosità’ dei discorsi sul Metodo è nota a
tutti soprattutto quando ci si lascia prendere la mano dalle
teorizzazioni prospettiche e si dimentica che il
cuore del Metodo, la sua verità, sta nella sua concreta,
efficace e proficua applicabilità… nei risultati reali a cui
la conoscenza umana può giungere per suo mezzo,
come già affermava V. Del Giudice: “la bontà di un
Metodo si vede soprattutto nelle sue applicazioni e nei risultati”.
E’
per questo che occorre decidersi per un’opzione
radicale che
permetta il massimo di concretezza possibile attraverso l’uscita
dai ‘vicoli chiusi’ intra-disciplinari ed un confronto aperto con
altri studiosi che affrontano istanze prossime o previe a quelle
canonistiche, utilizzando gli stessi termini e gli stessi paradigmi
concettuali in modo tale da ‘verificare’ già nelle
premesse la portata e le prospettive dell’attività
canonistica.
Alla
base di questa scelta sta la fiducia che si deve dare
all’insegnamento di K. Popper in ciò che riguarda il c.d.
essenzialismo
metodologico, la
necessità, cioè, che i termini ed i concetti utilizzati
nel lavoro scientifico esprimano davvero l’essere profondo delle
realtà di cui si tratta poiché, soprattutto nelle
Discipline e Scienze antropologiche e sociali –e il Diritto è
senza dubbi una di esse–, ciò che si studia (l’oggetto)
coincide in realtà con la sua ‘concettualizzazione’; se i
termini utilizzati per circoscriverlo, delinearlo e definirlo non
sono appropriati e, diciamo pure, ‘veri’ si cade nella pura
retorica rendendo inutile ogni ulteriore sforzo di approfondimento:
«si
è detto che il compito della Scienza sociale è
comprendere e spiegare quelle entità sociologiche come lo
Stato, l’azione economica, il gruppo sociale, ecc. E che ciò
può farsi soltanto col penetrare nelle loro essenze. Ogni
entità sociologica di qualche importanza presuppone termini
universali per la sua descrizione, e per questo suo compito sarebbe
futile introdurre liberamente […] nuovi termini. Il compito della
Scienza sociale è descrivere tali entità con chiarezza
e in modo appropriato, cioè distinguere l’essenziale
dall’accidentale; ma ciò richiede la penetrazione della loro
essenza».
E’
proprio la necessità di questa ‘verità’
dei termini e dei concetti utilizzati dalla Canonistica
ad esigere un leale confronto con le Discipline che hanno maggiori
referenzialità in ambito concettuale, la Filosofia in
primis –nella sua
funzione/capacità di focalizzare i concetti ‘estraendoli’
dalla semplice esperienza– e la Storia, l’unica in grado di
vagliare e ‘valorizzare’ equilibratamente la portata delle
concettualizzazioni (filosofiche) che hanno attraversato i secoli
raccogliendo i migliori frutti della consapevolezza e riflessione
umana attualmente a nostra disposizione.
Un
tal modo di lavorare assume pertanto –necessariamente– le
caratteristiche della c.d. interdisciplinarità, privilegiando
l’ascolto di ciò che Filosofia e Storia hanno da dire a
proposito dei concetti-base che formano l’armamentario canonistico,
prim’ancora di qualunque loro ‘realizzazione’ concreta che la
Scienza canonistica abbia saputo individuare e focalizzare nel
proprio oggetto di studio. D’altra parte è proprio la scelta
dei concetti (e dei termini che meglio li esprimano) il primo snodo
metodologico di qualunque attività che desideri oggi essere
‘scientifica’; gli stessi modelli euristici ed ermeneutici si
concretizzano infatti nel ‘livello concettuale’ ancor prima
d’essere concretamente fruiti dal ricercatore per esprimere la
comprensione del reale a cui sia faticosamente approdato.
Ciò
a cui mira, perciò, la proposta di questa “Giornata
Canonistica Interdisciplinare” è una sorta di grande
explicatio
terminorum o meglio
una grande illustratio
substantiæ,
per avere la consapevolezza di cosa ‘siano’ le realtà
(res)
di cui si va discorrendo, al di là delle loro semplici
denominazioni (nomina).
In
questo modo già lo stesso concetto –generico– di
‘interdisciplinarità’ così introdotto chiede
ulteriori specificazioni poiché:
«possiamo
parlare di una interdisciplinarità “debole”, intesa come
“multidisciplinarità”: essa consiste in un approccio
orizzontale di giustapposizione di Discipline tra loro. Tale
approccio consente una reciproca conoscenza e comprensione, in ordine
all’oggetto il cui studio completo sfugge alla presa di un singolo
metodo disciplinare. Ciò non comporta uno sforzo esplicito di
operare una sintesi tra più Discipline. […]
Parliamo
anche di una interdisciplinarità “forte”, che ricerca i
connettivi di metodo ed oggetto comuni a più Discipline, letti
alla luce di saperi più generali e fondanti. In questo senso
si parla comunemente di “metadisciplinarità” o di
“transdisciplinarità”».
In
quest’ottica però pare necessario –non certo per motivi
estetici– intraprendere un’altra via di sviluppo –forse
‘mediana’–: la “con-disciplinarità”
per lasciar libero ogni ambito/modo della conoscenza (Scienza o
Disciplina) di essere ciò che ritiene più efficace ed
offrire, nello steso tempo, un reale apporto alla conoscenza –unica–
cui ogni soggetto aspira con l’approfondimento della propria
ricerca.
Un
semplice ‘parallelismo’ infatti tra Canonistica, Filosofia e
Storia non offrirebbe prospettive maggiori di quelle già
arrivate fino a noi, ma soprattutto non metterebbe nel giusto e
necessario risalto la ‘pregiudizialità’ della
concettualizzazione
logica e storica;
allo stesso tempo la semplice ricerca di “connettivi di metodo ed
oggetto comuni” rischierebbe di spostare il campo d’interesse a
ciò che è semplicemente (banalmente?) ‘condiviso’ e
‘condivisibile’, senza evidenziare –ancora una volta– la
preventività del momento ‘concettualizzante’
storico-filosofico.
4.
Unicità e pluralità di Metodo
Gli
approcci multidisciplinari, metadisciplinari e transdisciplinari, tra
l’altro, pur evidenziando bene la complessità dei rapporti
tra differenti Scienze e Discipline, non risultano però
adeguati al criterio –radicale– dell’essenzialismo
metodologico, cui
non è possibile sottrarsi, poiché derivano la maggior
parte della propria pregnanza da un presupposto
tutt’altro che certo, verificato e condiviso: la
differenza dei Metodi.
Quando
infatti ci si riferisce ai Metodi delle varie Discipline si
presuppone che ogni Scienza/Disciplina abbia ‘propri’ Metodi,
qualificati eventualmente in modo tautologico, com’è
accaduto nella Canonistica anche recente: Metodo giuridico, Metodo
teologico… fino alla vera ‘arguzia’ del “Metodo
proprio” …senza
che nessuno, ovviamente, si prenda la minima cura d’illustrare la
struttura, le caratteristiche, le funzionalità di tali Metodi.
Ciò
che invece i canonisti post-conciliari hanno bisogno di recepire in
modo più definitivo possibile –visto che per i loro ‘padri’
non lo poté essere– è l’inconsistenza –ed
inefficacia– di questo modo di procedere: non
esiste una pluralità di Metodi tautologicamente specifici
(o ‘propri’) di
ciascuna Disciplina/Scienza,
ma più declinazioni e specializzazioni dell’unico
Metodo attraverso
cui l’uomo può giungere a conoscere ciò che lo
circonda: questo però colloca le questioni gnoseologiche
‘prima’ di quelle epistemologiche, costringendo di fatto ad una
prospettiva ben diversa da quella maggiormente praticata ancor oggi
da gran parte dei canonisti.
Il
problema è tanto più evidente nel confronto con la
miglior Scienza giuridica che a questa acquisizione è ormai
giunta da tempo:
«il
Metodo non è particolare a questa o quella Scienza ma è
la via generalmente seguita dall’intelletto umano per la
conoscenza, l’insieme dei procedimenti mentali che alla conoscenza
conducono».
«Non
v’è un Metodo per studiare il Diritto italiano e un altro
per studiare, poniamo, il Diritto spagnolo, o qualsivoglia altro; non
v’è una logica “particolare” da usare per l’uno o per
l’altro. In questo senso affermai che una questione del Metodo per
lo studio del Diritto canonico non esiste. Uno il modo, una la forma
logica, che deve a sua volta servire a determinare la logica
specifica alla quale obbediscono gli istituti nell’interno di
ciascun sistema».
«Ci
vuol poco a capire che esiste una materia
giuridica, ma un
Metodo giuridico no; il Metodo, naturalmente, deve adattarsi alla
materia ma la via della conoscenza, è una sola. E’ una via
accidentata e scoscesa, ad aprire la quale concorrono tutti insieme
filosofi, matematici, fisici, biologi, storici e anche giuristi».
«Come,
infatti, si può parlare di un Metodo particolare nello studio
del Diritto canonico quando si pensa che il Metodo, come non a torto
è stato osservato, “non è particolare a questa o
quella Scienza, ma è la via generale seguita dall’intelletto
umano per la conoscenza, l’insieme dei procedimenti mentali che
alla conoscenza conducono”? Ciò significa che non esiste un
Metodo qualificato dall’oggetto della conoscenza. Ritengo,
pertanto, che si possa andare anche al di là di quanto ha
affermato il Del Giudice, cioè che “una questione del Metodo
nello studio del Diritto canonico non esiste”, poiché penso
che non solo non esista un Metodo peculiare per lo studio del Diritto
canonico, cioè un Metodo canonistico, ma che non esista
neppure un Metodo proprio per lo studio del Diritto in generale, cioè
un Metodo giuridico, come non esiste un Metodo matematico, fisico,
chimico, etc. Il problema che si pone nello studio del Diritto
canonico non è un problema di Metodo, ma un problema di
tecnica: è la tecnica giuridica, non già il Metodo, che
varia secondo che si versi nello studio del Diritto civile o nello
studio del Diritto canonico, nel senso che varia, nello studio
dell’uno o dell’altro, il particolare impiego dei generali Metodi
logici -induttivo, razionale o intuitivo, etc.-, in relazione alla
diversa natura dell’Ordinamento canonico e dell’Ordinamento
civile».
Addirittura
secondo R. Sobanski –contro il suo stesso interesse dottrinale–
la Teologia stessa non avrebbe “un proprio Metodo originale”,
servendosi piuttosto
«dei
Metodi elaborati nelle Scienze, nella misura in cui risultano
utilizzabili –seppure spesso dopo adeguata modificazione– per
identificare e penetrare la Rivelazione. […] Sotto il profilo
metodologico ed epistemologico [la Teologia] non è una Scienza
omogenea; è uniforme sotto l’aspetto psicologico, sotto
quello del contenuto e dell’oggetto. L’unico fattore che ne
determini la specificità è la fede».
Ciò
che dunque occorre specificare prima di ogni ulteriore passo avanti è
un’adeguata distinzione tra Metodo
vero e proprio, ‘tecniche’
e ‘strumenti’,
senza lasciarsi ingannare dall’uso comune del termine ‘Metodo’
per indicare anche o una ‘tecnica’
particolarmente complessa
(es.: metodo esegetico) o un
raggruppamento di ‘tecniche’ affini
o un semplice ‘procedimento’
logico (es.: metodo
deduttivo) –che sarebbe più corretto chiamare “metodiche”–.
Solo questa inconsapevolezza
può generare e sostenere il presupposto della ‘specificità’
dei Metodi,
trasferendo a suo carico una quantità e qualità di
‘conseguenze’ –soprattutto epistemologiche– cui in seguito
non sarà più possibile sottrarsi.
Il
triste esito metodologico della Canonistica di fine secolo scorso è
cosa nota, con i maggiori ‘risultati’ proprio da parte di chi si
era piccato di “aggiornate” competenze in tale campo: fu proprio
E. Corecco che, non considerando soddisfacente la formula coniata da
K. Mörsdorf, “Canonistica come Disciplina teologica, con
Metodo giuridico” la reinterpretò: “Disciplina teologica,
con Metodo teologico” poiché il Metodo di una Scienza
–diceva– dev’essere definito dal suo oggetto; in questo caso
essendo oggetto d’esame scientifico una realtà –secondo
lui– teologica (il Diritto ecclesiale), il suo Metodo non poteva
essere quello giuridico ma necessariamente quello teologico.
Proprio
questo genere di approccio alla questione e le affermazioni
conseguenti, contestate a partire però dagli stessi
presupposti ‘contenutistici’ anziché sotto il profilo
epistemologico, testimoniano la scarsa percezione all’interno della
Canonistica del secolo scorso della reale natura e portata delle
questioni metodologiche che ciascun autore ha modellato ed applicato
a modo proprio senza una sufficiente percezione non solo degli
elementi realmente in gioco, ma della portata fondamentale della
questione. Il ricorso –nominalistico– al ‘Metodo’ si è
infatti prestato –suo malgrado– a coprire proprio le gravi
carenze di carattere metodologico della maggioranza dei canonisti,
impedendo di cogliere dietro all’uso ricorrente dello stesso
termine (nomen)
un’assoluta confusione concettuale (substantia):
una totale equivocità che non ha permesso il nascere di un
vero confronto epistemologico, l’unico in grado di dare stabilità
alla Scienza canonistica.
E’
per questo che si pone la necessità, ormai irrinunciabile, di
prospettare un po’ di chiarezza sul termine e, soprattutto, sulle
sue articolazioni, uscendo dalla retorica di molti titoli e luoghi
comuni.
5.
Metodo e metodi
Senza
voler ricostruire qui l’intero ambito del Metodo, né tanto
meno proporne una Teoria generale –di cui non siamo certo
all’altezza–, basti ricordare però come la radice greca
del termine (meta-odos),
la “strada verso il fine”, ne indichi con chiarezza la
consistenza concettuale: si tratta del ‘percorso’ (per-cursus)
attraverso cui si ‘procede’ (pro-cessum)
per conseguire la finalità stabilita.
Un
concetto, dunque, ‘funzionale’; un concetto che richiama alla
consapevolezza
del proprio agire in vista di una meta da conseguire;
un concetto che non indica per se stesso una specifica ‘via’ ma
evidenzia come per raggiungere un risultato occorra ‘tracciare’
una via. Una ‘via’
la cui importanza non risalta né per il punto di partenza, né
per la meta, né per le specifiche tappe, ma per il suo ‘essere
via’: possedere,
cioè, una chiara
intenzionalità
nei confronti del proprio operare, anche costruendo –di tappa in
tappa– il percorso concreto che molto spesso non
può darsi ‘a priori’
poiché il terreno di marcia è sovente sconosciuto e le
difficoltà di qualunque genere sono in costante agguato. Basti
questo per esorcizzare il demone de ‘il’ Metodo, come se si
trattasse di una formula misteriosa ed arcana in grado di offrire i
propri prodigiosi servigi ai pochi ‘iniziati’ che se ne siano
impossessati e la sappiano utilizzare correttamente, casomai per sola
‘evocazione’.
Il
termine (meta-odos)
indica, ancora più specificamente, l’attraversamento (meta
= attraverso) che occorre effettuare per raggiungere la meta,
stimolando a porre l’attenzione non tanto sul ‘futuro’ (la meta
stessa) quanto sul presente: il passo attuale, la scelta presente, il
punto preciso a cui si è giunti ed il successivo a cui ci si
volge; non tanto, quindi, una ‘rotta’ tracciata a tavolino
attraverso l’oceano con squadra e compasso sulla carta, ma un vero
‘percorso’: l’insieme,
cioè, dei
passi compiuti per
giungere ‘a questo punto’ in cui si concentrano –e devono per
forza farlo– tutte le acquisizioni precedenti, i singoli ‘passi’
già effettuati… ed a cui occorre dar seguito per non dover
riconoscere di essersi smarriti.
E’
solo partendo da questa non scontata consapevolezza che si acquista
la capacità di distinguere,
come già anticipato, tra
Metodo e ‘metodi’
o meglio: ‘metodiche’
operative; è
solo non ipostatizzando ‘il’ Metodo facendone un idolo muto,
sordo e cieco, buono –quanto inutile– per ogni evenienza, che si
sarà in grado di prendere coscienza di come
si sono conseguite certe mete e di come
sia possibile conseguirne di nuove attraverso l’utilizzo di
appropriati strumenti, l’adozione di determinate procedure,
l’applicazione di specifici criteri, la valorizzazione di
conoscenze acquisite… ecc. Oltre, al contempo, la possibilità
di evidenziare a posteriori eventuali errori di percorso,
fraintendimenti, abbagli, cortocircuiti, giri a vuoto, ecc. che
sempre funestano gli itinerari en
plain air.
Si
pone in questo modo la necessità di distinguere
anche terminologicamente
ciò che a livello concettuale è radicalmente diverso,
per quanto non estraneo; si dovrà pertanto parlare di Metodo
‘trascendentale’ e di metodi ‘categoriali’ proprio per
indicare, nel primo caso, il nucleo fondamentale e portante di ogni
processo d’indagine e conoscenza, nel secondo, gli strumenti
intellettuali anche complessi ed articolati specifici (‘propri’)
di ciascuna forma di conoscenza. Questa chiarificazione si rivela
utile anche per distinguere le componenti metodologiche
‘intradisciplinari’ da quelle ‘extradisciplinari’: i
discorsi, cioè, necessariamente articolati e sviluppati
all’interno di ciascuna Scienza/Disciplina allo scopo di mettere a
punto in modo sempre ulteriore la propria capacità
investigativa ed operativa (metodi specifici/propri; categoriali),
ciò che fa riferimento alla riflessione metodologica propria
di ogni Scienza/Disciplina, rispetto allo studio vero e proprio di
queste metodiche in sé e per sé in vista di una loro
verifica, legittimazione e fondazione di principio capace di guidarne
gli sviluppi e consolidarne le acquisizioni al livello più
profondo delle strutture di base della conoscenza umana (Metodo
trascendentale), ciò su cui si regge e struttura la
Metodologia (Scienza metodologica) vera e propria.
A
distinguere i due ‘livelli logici’ della riflessione interviene
l’oggetto
materiale (obiectum
formale quod)
d’indagine:
a)
i più diversi fenomeni e le loro relazioni, per il livello
categoriale al quale si muovono le diverse Scienze/Discipline;
b)
le stesse metodiche (i metodi categoriali) in quanto tali per il
livello trascendentale.
In
questo modo la Metodologia (quale studio dei metodi categoriali alla
ricerca della loro veridicità ed affidabilità) s’impone
quale Disciplina autonoma all’interno del rapporto tra Gnoseologia
ed Epistemologia, intervenendo –essa pure– nella stessa
individuazione delle diverse Scienze/Discipline evitando, così,
buona parte dei fraintendimenti e delle equivocità che hanno
caratterizzato la conoscenza umana per lunghi millenni …evitando
soprattutto l’errore fatale d’individuare e definire le Scienze a
partire dal loro presunto ‘Metodo’ e considerare questo approccio
come esaustivo di quello epistemico, identificando Metodologia ed
Epistemologia.
6.
Il Metodo trascendentale
Proprio
il “Metodo
trascendentale”
costituì il centro degli studi del Gesuita canadese B.
Lonergan (1904-1984) che, intendendo mettere a fuoco –un volta per
tutte(?)– la struttura remota, ma costante (“isomorfa”),
attraverso cui l’uomo acquisisce ed elabora sempre nuove conoscenze
partendo dagli unici due ‘elementi’ che entrano comunque in
gioco: l’esperienza del reale e l’apporto specifico del soggetto
conoscente, elaborò una delle maggiori teorizzazioni
metodologiche del secolo scorso per l’ambito delle c.d. Scienze
umane.
La
sua volontà di non perdere in ambito ‘umanistico’ le
grandi acquisizioni ed i successi cui erano approdate attraverso la
Modernità sia le c.d. Scienze naturali (fisico-matematiche)
che le Filosofie soprattutto d’inizio secolo (Ermeneutica,
Esistenzialismo, Personalismo), lo portò a cercare oltre ogni
specificità applicativa (le metodiche) ciò che risulta
più radicalmente ‘umano’ nelle modalità
conoscitive, fino a proporre, al livello trascendentale, il “Metodo
empirico generalizzato”.
«E’
un Metodo trascendentale, perché i risultati di cui si tratta
non sono categorialmente limitati a un campo o a un soggetto
particolare, bensì riguardano qualsiasi risultato che potrebbe
essere inteso dalle nozioni trascendentali completamente aperte.
Mentre altri metodi mirano a venire incontro alle esigenze e far uso
delle possibilità proprie di campi particolari, il Metodo
trascendentale si propone di venire incontro alle esigenze e di far
uso delle possibilità offerte dalla mente umana stessa. E’
una finalità fondante e che al tempo stesso ha significato e
portata universale».
Lonergan,
partendo dallo studio dell’intelligenza umana con uno specifico
interesse per lo svilupparsi della conoscenza e della coscienza,
propose una definizione di Metodo di grande fecondità, aperta
ad ogni campo del sapere e contemplando già al proprio interno
‘operazioni’ che hanno la stessa portata di ‘tecniche’ e
‘strumenti’; il Metodo dunque
«è
uno schema normativo di operazioni ricorrenti e connesse tra di loro
che danno risultati cumulativi e progressivi. C’è dunque
Metodo là dove ci sono operazioni distinte, dove ciascuna
operazione è in relazione con le altre, dove l’insieme delle
relazioni forma uno schema, dove lo schema è descritto come il
modo adatto per fare una determinata cosa, dove le operazioni che si
svolgono in conformità allo schema possono ripetersi
indefinitamente e dove i frutti di tale ripetizione sono non qualcosa
che semplicemente si ripete, bensì qualcosa di cumulativo e
progressivo. […]
L’indagine
trasforma la mera esperienza nell’esame della osservazione. Ciò
che è osservato, è fissato in una descrizione.
Descrizioni contrastanti danno origine a problemi e i problemi
vengono risolti mediante scoperte. Ciò che è scoperto,
è espresso in un’ipotesi. Dall’ipotesi vengono dedotte le
sue implicazioni e queste suggeriscono quali esperimenti si devono
fare. Per cui le molte operazioni sono in relazione tra di loro, le
relazioni formano uno schema e lo schema definisce il modo in cui va
eseguita l’indagine scientifica».
E’
in questa prospettiva che si saldano insieme le esigenze
dell’essenzialismo
metodologico
popperiano (verità dei concetti) e l’apporto delle
Discipline base della concettualizzazione
ad esso necessaria (Filosofia e Storia): quanto il canonista già
conosce a motivo dei propri studi (generali e specialistici)
necessita –per poter crescere ulteriormente e per essere più
stabilmente ‘fondato’– di un regolare, ciclico, ‘ritorno alle
origini’ per verificare se –e che– i suoi concetti attuali
corrispondano ancora alla realtà dei fatti, ad una loro
corretta comprensione, ad una loro comunicabilità generale, o
non si siano, piuttosto, ancora una volta ‘isolati’ in una nuova
‘nicchia’ fuori della storia… e della realtà.
L’eventualità
dell’isolamento autoreferenziale, d’altra parte, è
tutt’altro che remota ogniqualvolta si abbia a che fare non con il
‘rigore’ delle Scienze naturali che, attraverso la
sperimentazione, tendono ad essere auto-correttive, ma con la
‘plasticità’ di quelle antropologico-umanistiche, basate
quasi esclusivamente sul ragionamento, in particolare con la Teologia
o con Discipline ‘teologiche’ in genere –Corecco docet,
e non da solo–; lo stesso Giovanni Paolo II, infatti, nella sua
Enciclica Fides
et ratio non solo
non si è nascosto il problema, ma ne ha pure suggerito una
soluzione di amplissima portata:
«la
Teologia ha sempre avuto e continua ad avere bisogno dell’apporto
filosofico. Essendo opera della ragione critica alla luce della fede,
il lavoro teologico presuppone ed esige in tutto il suo indagare una
ragione concettualmente e argomentativamente educata e formata. La
Teologia, inoltre, ha bisogno della Filosofia come interlocutrice per
verificare l’intelligibilità e la verità universale
dei suoi asserti».
L’imprescindibilità
del riferimento filosofico a cui stiamo rimandando per la Canonistica
risalta ancora maggiormente, poi, nello ‘statuto autonomo’ che lo
stesso Giovanni Paolo II sollecitò per la Filosofia, perché
sia autentico il servizio che essa offre alle diverse forme di
conoscenza; ciò che vale in riferimento alla Teologia, vale
almeno allo stesso modo anche per le altre Scienze/Discipline:
«la
Filosofia, anche quando entra in rapporto con la Teologia, deve
procedere secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe
altrimenti garanzia che essa rimanga orientata verso la verità
e ad essa tenda con un processo razionalmente controllabile. Di
poco aiuto sarebbe una Filosofia che non procedesse alla luce della
ragione secondo propri principi e specifiche metodologie».
Ci
si sottrae così, pleno
corde, al
presupposto del tutto arbitrario che ogni Scienza/Disciplina
socio-umanistica abbia il diritto/dovere di cercare al proprio
interno –quando non addirittura di ‘creare’ autonomamente– le
proprie categorie ed i propri strumenti concettuali, ‘adatti’
all’utilizzo specifico cui saranno destinati, bypassando
ogni confronto e verifica della loro concreta portata gnoseologica
generale; l’irrisolta diatriba sulla ‘natura analoga’ del
Diritto canonico in riferimento a quello civile è solo un
piccolo esempio, per quanto non banale, della portata di questa
tematica.
In
questa prospettiva non va trascurata neppure la pretesa, attuata da
qualcuno, di utilizzare addirittura l’ambito metodologico quale
‘libero spazio’ in cui esprimere la propria creatività,
utilizzando i concetti, modelli e paradigmi tramandatici dalla Storia
come i colori di una tavolozza in mano al pittore. Il ‘caso’
della “ordinatio
fidei” propugnata
per anni da E. Corecco quale necessaria ‘conversione’
metodologico/epistemologica per la Canonistica post-conciliare, e
risoltosi poi nella classica ‘bolla di sapone’, dovrebbe essere
un monito sufficiente circa il ‘nome’ da dare alle cose.
7.
Prospettiva ‘ciclica’ del Metodo
Ciò
che ai fini della “Giornata Canonistica Interdisciplinare” –ma
anche della Canonistica tutta– rileva maggiormente nella proposta
di B. Lonergan non sono però tanto le diverse attribuzioni e
caratteristiche del Metodo trascendentale in sé, quanto la
logica di fondo del suo “Metodo Empirico Generalizzato” che,
fedele alla struttura e fisiologia della conoscenza umana, egli
presenta come ‘ciclico’ nel ricorrere di quattro momenti:
esperienza,
intelligenza, giudizio, scelta.
E’
solo al termine di questa ‘tornata’ che quanto percepito
inizialmente attraverso i soli sensi inizia ad assumere la
consistenza del ‘dato’ (non senza, quindi, l’apporto decisivo
di tutto il singolo soggetto conoscente) ed è nella costante
re-immissione di tale ‘dato intermedio’ all’interno di
successivi ‘cicli investigativi’ che lo si arricchisce, lo si
sfronda, lo si precisa, fino a farne una vera acquisizione: una
‘conoscenza’ che possa essere comunicata e condivisa, un ‘dato’
nel senso scientifico del termine.
Intelligenza,
giudizioe
scelta sono tre
‘attività’ tipicamente umane ma soprattutto assolutamente
‘personali’, che coinvolgono cioè tutta la persona
chiamata –nella fase
intellettiva (intus
legere)– ad
‘immaginare’ (momento euristico) ed ipotizzare (momento
ipotetico) una possibile ‘spiegazione’ (momento ermeneutico) di
quanto sperimentato.
La
fase
valutativa
–giudizio– porta la persona ad un serio confronto di quanto così
ipotizzato
con quanto già acquisito
(tanto dal singolo che dall’attuale stato
dell’arte della
Disciplina di riferimento) per valutarne la ‘compatibilità’
ed attuare la sperimentazione (o supplemento d’indagine) necessaria
a ‘decidere’ della sua (im)possibile integrazione all’interno
delle conoscenze già possedute; sono queste due ‘fasi’ il
cuore pulsante (e spesso affaticato) dell’intero processo
gnoseologico.
La
fase
decisionale –la
scelta responsabile– è quella che accoglie il nuovo ‘dato’
all’interno del ‘conosciuto’, oppure lo respinge come
decisamente non-pertinente, oppure ancora lo rinvia ad eventuali
‘cicli’ supplementari d’indagine per meglio documentarlo,
articolarlo, riprenderlo in esame –ricorsivamente e
cumulativamente– da altri punti di vista.
E’
all’interno di questa prospettiva che prende corpo e vigore la
proposta di strutturale apertura della Canonistica all’apporto
delle altre Discipline che si dimostreranno via via necessarie –o
anche solo utili– per sostanziare le due fasi centrali del ciclo
conoscitivo: intellezione
e valutazione.
E’ in questi due momenti, infatti, che il ricercatore ha la
necessità di potersi rifare all’intero patrimonio
conoscitivo a sua disposizione –immediata e non– per trovare gli
elementi che gli permettano –non senza una buona dose d’intuizione
e di ‘creatività’– di concettualizzare o formalizzare
ciò che l’esperienza (il concreto vissuto ecclesiale) gli ha
suggerito o che una precedente ricerca gli ha reso problematico.
Filosofia
e Storia si prospettano in questi termini come le due principali
istanze per ‘leggere-dentro’ il vissuto (l’esperienza)
rintracciandone o elaborandone significati, concettualizzazioni,
paradigmi, relazioni, problematicità (apporto della Filosofia)
e per averne una prospettiva critica che permetta, a livello di
valutazione/giudizio, di confrontarsi con ciò che ‘già
è stato’ (e che forse non è già più)
permettendo alfine di valicare i diktat
e gli apriorismi ideologici che in modo così efficace riescono
troppo spesso ad intralciare il giusto svilupparsi e crescere della
conoscenza umana ad ogni livello (apporto della Storia).
Da
questa prospettiva è tutt’altro che esclusa la Teologia,
soprattutto nella sua qualità di ‘fonte’ più o meno
diretta per una buona parte del vissuto giuridico ecclesiale; ciò
tuttavia principalmente nella sua componente ‘positiva’ (auditus
fidei): laddove
Tradizione e Magistero hanno ‘fissato’ e continuano a chiarire i
‘dati’ irrinunciabili per la vita ecclesiale.
8.
Un primo passo concreto
Da
queste –ed altre– riflessioni, per quanto sommarie, s’impone
con sempre maggior forza la necessità per i canonisti
d’intraprendere un serio itinerario metodologico che li collochi
finalmente ‘alla pari’ dei loro colleghi cultori delle altre
Discipline/Scienze ecclesiastiche in
primis Filosofia e
Teologia, ricuperando con risolutezza il grave impasse
che ancora li vede auto-confinarsi all’interno di spazi talmente
angusti da non poter più essere né imposti né
accettati.
Primo
passo di questa ‘rimonta’ è senza dubbio la rinnovata
coscienza delle caratteristiche e ‘strutture’ tipiche della
scientificità contemporanea ormai comunque irrinunciabili, ma
troppo spesso ancora invisibili alla maggior parte dei canonisti.
Senza
poter né voler qui affrontare in modo completo ed ultimativo
la tematica, basterà esplicitare quanto necessario a motivare
e sostenere lo sforzo con-disciplinare intrapreso con la Giornata
Canonistica Interdisciplinare, anche solo enunciando alcune
‘caratteristiche’ di natura metodologica che lo contrassegnano ed
individuano nella sua specificità, in vista di un’autentica
e consapevole opzione
metodologica sempre
più improcrastinabile per la Canonistica.
8.1
Essenzialismo metodologico
Si
tratta in primissimo luogo di accogliere quanto già ben
evidenziato da K. Popper circa la necessità che il linguaggio
in uso presso le Scienze/Discipline umanistico/antropologiche abbia
una reale consistenza concettuale: che, cioè, i termini
–lemmi– utilizzati siano veri ‘sostantivi’ e non semplici
‘nomi’, in modo tale da esprimere elementi di ‘verità’
proprio nella corrispondenza tra la res
de qua (agitur) e la
sua concettualizzazione intellettiva (realismo gnoseologico).
Due
paiono gli strumenti privilegiati –per quanto non ancora abbastanza
specifici– per assicurare questo primo e basilare risultato:
l’adozione di un linguaggio
formale e la
definizione precisa del dominio
d’interesse e ricerca.
-
Per quanto concerne la formalizzazione
del linguaggio
occorre senza dubbio considerare che in ambito canonistico non può
trattarsi che di un livello piuttosto elementare se paragonato alle
formalizzazioni in uso nelle Scienze/Discipline fisico-matematiche;
ciò nulla toglie tuttavia alla evidente utilità di cui
la Canonistica potrebbe giovarsi qualora imparasse e muoversi per
concetti
e non per formule
più o meno artificiose divenute ormai pseudo-tecniche a causa
di un uso semplicemente protratto nel tempo ma mai verificato nella
propria effettiva fondatezza; l’esempio più tipico potrebbe
essere fornito dalla formula “salus
animarum” che ha
pervaso nei secoli interi settori della Canonistica senza che sia mai
stato possibile individuarne con chiarezza –e definitività–
i reali contenuti pastorali e teologici, oppure lo “Ius
divinum” che né
teologi né canonisti sembrano ancora in grado –dopo secoli!–
di ‘manovrare’ con sufficiente consapevolezza e proprietà.
La
problematica inerente un linguaggio
‘proprio’ –ed appropriato– è tanto più
pressante
quanto maggiore si
trovi ad essere –nella Canonistica– l’adozione di termini e
formule provenienti dall’esterno in ragione, spesso, di semplici
assonanze fonetiche (come p. es. ‘Parroco’ e ‘Parrocchia’ in
italiano, ma che in latino non hanno elementi semantici comuni:
Parochus,
Parœcia, come ben
recepisce anche il francese: curé
e paroisse),
oppure –molto peggio– di termini e formule testuali provenienti
da ambiti disciplinari del tutto differenti come quelli teologici o
morali: legge,
giudizio, comando/comandamento, comunione,
sono solo alcuni termini tra i più ambigui sotto questo
profilo. L’apporto specifico di E. Betti a questa tematica è
del tutto irrinunciabile soprattutto a riguardo della c.d.
interprætatio
duplex o addirittura
multiplex
e della conversione interpretativa; allo stesso modo non risultano
trascurabili le istanze c.d. ermeneutiche di cui il Novecento ci ha
resi ormai più o meno consapevoli.
La
tecnicità, poi, tutta specifica del linguaggio
giuridico non può
che accentuare il divario col c.d. linguaggio
comune rendendone
ancor più necessaria la ‘protezione’. S’inscrive senza
dubbio in questa prospettiva anche la necessità di
‘rinunciare’
quanto più possibile tanto all’utilizzo
‘analogico’ del
linguaggio che all’uso del linguaggio
analogico,
soprattutto quando l’uso improprio dei termini giuridici ‘tecnici’
contribuisca a creare/mantenere, sia nel linguaggio comune che
–peggio– in quello ereditato da altre Discipline, concezioni e
presupposti vistosamente erronei, come spesso accade tra Etica,
Diritto e Morale.
A
rendere ancor più indispensabile quantomeno la purificazione
concettuale della terminologia
contribuisce anche l’affinità esteriore tra il linguaggio
canonistico e quello più genericamente giuridico, con
innumerevoli variazioni a seconda che ci si rapporti col linguaggio
giuridico romanistico, quello dello Ius
commune medioevale,
quello codicista-civile dell’Ottocento europeo, quello
internazionale o il ‘semplice’ comparato; ambiti, tutti, di
linguaggio giuridico ma di assoluta specificità. Lo stesso
dicasi –a maggior ragione– per il rapporto con gli altri
linguaggi ‘normativi’.
-
Corrispettiva della formalizzazione del linguaggio e della sua reale
consistenza è senza dubbio l’individuazione e fissazione del
dominio
proprio
della Scienza canonistica quale ‘spazio’ circoscritto di fenomeni
e significati cui riferire e ricondurre le affermazioni che la
Canonistica stessa pone in essere nel proprio esercizio scientifico.
Si
tratta, seppure con terminologia nuova, dell’inveterata questione
dell’oggetto
materiale (obiectum
formale quod) della
Scienza canonistica intorno a cui il secolo scorso ha scatenato
un’infinità di questioni e scontri non ancora sopiti; la
questione, tuttavia, non pare così complessa, né
improbabile la sua soluzione.
Dominio(oggetto
materiale) della
Canonistica è
senza dubbio il vissuto sociale-normativo della Comunità
cristiana lungo i secoli: ciò
che in ogni tempo e luogo la Comunità dei discepoli di Cristo
ha ritenuto di ‘dover’ fare sotto il profilo istituzionale per
continuare efficacemente a tutelate e trasmettere il depositum
fidei
affidatole attraverso la predicazione apostolica.
Non si tratta dell’intero vissuto cristiano (dottrinale, liturgico,
morale) ma unicamente di quella ‘parte’ contraddistinta dalla
opinio iuris
ac necessitatis che
lungo i secoli ha permesso a determinati comportamenti di assurgere a
criterio di legittimità comportamentale nei rapporti
istituzionali tra Fedeli e Gerarchia o all’interno della struttura
della stessa Gerarchia ecclesiastica, legittimità accolta
ed osservata
fino al punto di essere anche ‘richiesta’
e ‘sanzionata’
da un’apposita ‘funzione autoritativa’ (potestas):
Diritto vero e proprio .
Questa
delineazione del dominio
proprio della Canonistica,
se da un lato si apre alla inevitabile evoluzione (non
necessariamente migliorativa) del concetto di giuridicità (dal
Nuovo Testamento, alle ‘Tradizioni apostoliche’, al Corpus
Iuris canonici, agli
attuali Codici), dall’altro contribuisce anche a fissarne in modo
inequivocabile i limiti concettuali invalicabili, imponendo
l’imprescindibile differenziazione e separazione rispetto ai domini
dell’Etica, della Morale e delle altre forme di normatività
(interna ed esterna, personale e sociale) che comunque caratterizzano
qualsiasi forma di umana convivenza… tanto più se
‘volontaria’ ed ‘ideologica’. A maggior ragione tale
differenziazione si pone nei confronti del c.d dogmatico dottrinale
(Tradizione, Magistero, Teologia, ecc.).
E’
precisamente su questo ‘binario’ (linguaggio e dominio) che
s’inserisce l’apporto tutto specifico della Filosofia alla
Canonistica fornendo strumenti adeguati di concettualizzazione e
formalizzazione, ma anche guidando in modo ‘retto’ la ragione
perché non scivoli nelle secche del formalismo,
dell’idealismo, del volontarismo… mantenendo, invece, un sano
livello di vigile criticità per non ‘avvitarsi’
inutilmente su se stessa in uno sforzo tanto estenuante quanto
inutile ed inefficace.
8.2
Postulati minimi di scientificità
Formalizzazione
del linguaggio
e delineazione/rispetto del dominio
proprio,
per quanto sembrino nozioni chiare da un punto di vista teorico, sono
tuttavia due ‘risultati’ più che due punti di partenza,
due ‘tappe’ strumentali al di sotto delle quali non si dà
Scienza, ma che costituiscono esse pure conquiste da ottenere a caro
prezzo.
Alla
base, infatti, di questi due elementi essenziali per la delineazione
dello statuto epistemologico di una Scienza/Disciplina scientifica
stanno alcuni altri elementi ‘previ’ quali: l’idea di
procedimento
scientifico ed i
postulati
minimi di
scientificità
che il tormentato secolo XX pare averci consegnato in modo abbastanza
definitivo.
8.2.1
Il procedimento scientifico
L’idea
di procedimento
scientifico è
senza dubbio una delle maggiori acquisizioni della Scienza moderna in
ambito metodologico, per quanto l’esperienza abbia ben mostrato il
serio pericolo di lasciarsi irretire dal presupposto che la Scienza
vera sia solo quella di origine ‘naturalistica’ a prevalente
formalizzazione matematica; occorre pertanto aver ben chiaro che
«quando
parliamo di procedimento
scientifico non ci
riferiamo a ciò che distingue una Scienza dall’altra ma a
ciò per cui tutte sono Scienze, nonostante le diversità
degli oggetti considerati. Nello sviluppo di ogni Scienza particolare
c’è un procedimento che è essenzialmente identico a
tutte e che, perciò, si può chiamare procedimento
scientifico.
Lo
scienziato, in primo luogo, parte sempre dall’osservazione
empirica.
In
secondo luogo, la tensione della ricerca e dell’indagine culmina in
un atto d’intelligenza. Questo momento dell’intelligenza è
centrale in tutto il procedimento scientifico: ogni volta che si
chiede il “perché” di qualche cosa si cerca una ragione,
un motivo che spieghi un certo fenomeno. Cogliere tale ragione o
motivo è capire, avere un atto di intelligenza.
In
terzo luogo, una volta capito e perché ha capito, lo
scienziato elabora ciò che ha capito e lo formula in una
ipotesi.
In
quarto luogo, c’è la verifica. Principio fondamentale del
procedimento scientifico è di non accettare alcuna teoria o
ipotesi che non sia verificata con opportuni esperimenti.
In
quinto luogo, c’è la legge scientifica. Se l’ipotesi è
verificata in un numero sufficiente di esperimenti, se tale teoria
non è solo coerente con i dati del problema o gli aspetti del
fenomeno, ma anche aiuta alla soluzione di altri problemi o apre la
strada ad applicazioni tecniche, allora la teoria diventa legge
scientifica.
Tali
sono, dunque, le parti o i momenti del procedimento scientifico:
l’osservazione, l’indagine che porta all’intelligenza, la
formulazioni in ipotesi di ciò che si è capito, la
verifica dell’ipotesi, e, se la verifica è positiva, la
conversione dell’ipotesi in legge scientifica».
Appartiene
intrinsecamente a questa struttura del procedimento
scientifico la
possibilità/necessità di procedere –anche se non
comunque ed in modo assoluto– per ‘modelli’ (come sono in sommo
grado le Leggi e le Teorie scientifiche) in modo tale che la Scienza
canonistica non si riduca alla sola conoscenza di ‘particolari’
(i singoli Canoni o loro aggregati o le c.d. materie) ma sappia
prospettare all’interno di un unico sistema –l’Ordinamento,
appunto– la radice, la logica ed il fine che permettano
–sinteticamente– di cogliere il ‘tutto’ di questo grande
organismo istituzionale, conferendo significato e valore alle singole
norme esistenti ed offrendo a chi ha il compito del governo le linee
prospettiche per far fronte anche a quanto non espressamente
previsto.
8.2.2
Postulati minimi di scientificità
Tra
i fattori che contribuiscono efficacemente alla formalizzazione
del linguaggio ed
alla configurazione e rispetto del dominio
proprio di ciascuna
Scienza/Disciplina scientifica è necessario porre in evidenza
i c.d. postulati
minimi di scientificità
il cui compito è quello di garantire a priori, in modo quasi
strutturale, la possibilità –prim’ancora che la
correttezza– dell’elaborazione scientifica e dei suoi risultati.
La
questione, che si pose in modo tutto particolare all’interno della
Teologia (protestante) dagli anni ’30 del Novecento, merita
certamente attenzione anche all’interno della Canonistica odierna a
causa di una certa attitudine emulativa che per lunghi decenni nel
secolo scorso l’ha fatta accostare alla Teologia in modo non sempre
sufficientemente avveduto, generando una grande mole di pubblicazioni
e riflessioni dottrinali e teoretiche che ancora oggi ‘tengono la
piazza’ nonostante la loro attendibilità logica non appaia
sempre nella sua perspicuità. Fulcro indimostrato ma
altrettanto indiscusso di buona parte della Canonistica del secolo
scorso fu infatti la convinzione che la Scienza che studia il
giuridico ecclesiale debba essere Scienza
teologica, con tutte
le inevitabili conseguenze metodologiche del caso.
Ciò
che portò i teologi –soprattutto di area germanica– ad
interessarsi di questo genere di tematiche, di per sé estranee
alla Teologia (tradizionale e cattolica), fu la necessità per
le menti più rigorose sotto il profilo scientifico di reagire
alle derive irrazionaliste che andavano progressivamente affermandosi
all’interno dell’impostazione c.d. dialettica della Teologia di
cui H. Diem e K. Barth furono due tra i maggiori esponenti:
«Diem
si pronuncia [perciò] contro il “presupposto che la Teologia
abbia in comune con le altre Scienze lo stesso concetto della
veritas,
sì che risulti possibile […] stabilire un rapporto con la
Scienza dell’uomo naturale”. […]
La
Teologia non sarebbe fedele alla sua realtà, ove “impiegasse
un concetto di Scienza comune anche alla Filosofia”. Ciò non
ostante, Diem dà valore al fatto che la Teologia è una
Scienza. Deve essere, però, una Scienza “ecclesiastica”,
come dice il titolo della sua opera. In perfetta consonanza con Karl
Barth, Diem afferma che la Teologia è una funzione della
Chiesa. La Teologia potrebbe situarsi in un “universo delle
Scienze” solo “se tutta la Scienza venisse trattata a partire
dalla fede nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo”. Ma
siccome non è così, la Teologia è costretta a
considerarsi una “Scienza speciale”».
Fu
proprio all’interno di quel contesto che H. Scholz giunse ad
esprimere le “tre richieste minimali indiscusse”: postulato
di proposizione, postulato di coerenza, postulato di controllabilità,
quali criteri irrinunciabili di scientificità cui neppure la
Teologia poteva sottrarsi se ambiva a non restare esclusa dal dominio
della scientificità ‘moderna’ come, invece, K. Barth stava
attuando (con successo!). La questione fu rilanciata –non invano–
da W. Pannenberg all’inizio degli anni ’70 nel suo “Epistemologia
e Teologia” da cui vale la pena attingere, vista la ‘prossimità’
del contesto in oggetto.
-
Il postulato
di proposizione
riguarda la possibilità/necessità di esigere che le
proposizioni (teologiche, nel suo caso ma anche canonistiche, nel
nostro) abbiano
«un
carattere cognitivo,
quindi il carattere
di asserzioni, il cui tratto specifico consiste nell’affermare
qualcosa su un fatto e nel proclamare a un tempo la verità,
cioè l’adeguazione al fatto che costituisce l’oggetto
dell’asserzione».
E’
quanto si deve pretendere anche dalla Canonistica affinché le
sue affermazioni abbiano un reale
contenuto gnoseologico,
affermino cioè ‘qualche caratteristica’ sostanziale di
‘qualcosa’ che effettivamente esista, senza disperdersi in vuote
ed inutili verbosità, purtroppo non aliene a certi ambienti
ecclesiastici.
La
prima conseguenza del postulato di proposizione è, allora, che
tutte
le affermazioni poste devono contenere un significato ‘vero’,
devono cioè porre affermazioni il cui contenuto sostanziale
sia conosciuto (conoscibile) nella sua verità.
L’estrema urgenza d’applicazione di questo criterio minimale
emerge irrinunciabile per la Canonistica soprattutto in due direzioni
specifiche: i contenuti teologici e quelli socio-storico-giuridici:
affermazioni canonistiche contrarie alla retta dottrina teologica o
ai fatti storici e/o sociali e giuridici conosciuti non sono
ammissibili in quanto non conformi alla necessaria cognitività
richiesta dal postulato.
Principio
attuativo del postulato
di proposizione è
la necessità di ricondurre ogni proposizione
sintattica (ciò
che si dice attraverso il linguaggio comune e dottrinale) a
proposizione
predicativa
attraverso la quale si predichi
qualcosa di un soggetto/entità: si tratta, concretamente, di
ridurre il ‘discorso’ a semplici proposizioni ‘copulative’
(soggetto, copula, predicato verbale) tali che il ‘predicato’ o
‘attributo’ sia logicamente connesso al soggetto attraverso
un’affermazione
di portata veritativa:
“è”.
Ciò
non significa, evidentemente, un’indebita riduzione/menomazione
della ‘linguistica’ come tale, quanto piuttosto la necessaria
verifica critica dei contenuti gnoseologici veicolati attraverso di
essa, affinché il linguaggio non scada in semplice verbalismo.
-
Il postulato
di coerenza impone
la finalità sostanziale di mantenere le asserzioni –già
dotate di proprio valore cognitivo– all’interno di un campo
unitario di ‘oggetti’: il rispetto, cioè, del dominio
proprio, definito
dall’insieme degli ‘oggetti’ reali e loro referenti linguistici
che legittimamente appartengono o fanno capo a tale ‘estensione’.
La
conseguenza più evidente imposta da questo postulato non è
tanto l’impossibilità per il canonista di utilizzare o anche
trattare ‘tematiche’ pre-giuridiche o meta-giuridiche
(filosofiche, sociologiche, teologiche, storiche, filologiche,
morali, ecc.), quanto la necessità di segnalare
sempre con chiarezza l’uscita dal campo proprio
di ‘estensione’ del contesto giuridico-ecclesiale per addentrarsi
in altri ambiti disciplinari e scientifici che imporranno
–necessariamente– un adeguamento metodologico alle
caratteristiche specifiche delle Scienze/Discipline così
adite, oltre –ovviamente– alla puntuale e continua verifica della
verità
delle proprie affermazioni rispetto al nuovo dominio
disciplinare di riferimento, il cui ‘controllo’ non è di
competenza del canonista ma del –nuovo– dominio stesso.
La
‘teologizzazione’ del Diritto canonico operata da molti ed
insigni canonisti del secolo scorso è un chiaro esempio delle
conseguenze cui si giunge non rispettando il postulato di coerenza;
non tocca infatti al canonista ‘fare Teologia’, né tanto
meno farla a proprio uso e consumo: l’accesso ai ‘dati’ esterni
al proprio legittimo dominio
disciplinare deve
avvenire con estrema cautela e secondo lo ‘stato dell’arte’
–contenutistico ed epistemologico– della Scienza/Disciplina in
questione.
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Il postulato
di controllabilità
non è altro che la riproposizione del fondamento stesso della
c.d. Scienza moderna quale attività prettamente
‘empirico/sperimentale’ in quanto basata sulla possibilità
di ‘ripetere’ –più o meno– indefinitamente ed in
condizioni ‘controllate’ l’esame dell’oggetto specifico
d’indagine; possibilità assolutamente ordinaria anche in
ambito umanistico/antropologico dove si sappia basare la ricerca
sull’esame
di fonti documentali
di varia origine: letterarie, artistiche, storiografiche,
linguistiche, antropologiche, sociologiche, culturali, ecc.
Ne
deve derivare una metodica
di ricerca canonistica
primariamente ‘induttiva’,
deliberatamente incapace di procedere utilizzando prevalentemente
deduzioni formali, senza tenere in adeguato conto i ‘fatti’ della
storia e le ‘norme’ concretamente stabilite e/o vigenti nelle
diverse circostanze. Auctoritates
e convinzioni personali –quando non anche ideologia– devono
lasciare il posto al confronto esplicito e serrato coi ‘dati’ che
rimangono –per quanto in modo critico– la base irrinunciabile di
confronto prim’ancora che di argomentazione: leggere il ‘dato’
è la prima attitudine del ricercatore moderno.
Appartiene
a questa fase del lavoro scientifico anche la –successiva–
‘proiezione’ al livello teoretico generale di quanto emerso
dall’analisi
delle fonti: è
il superamento della semplice Tassonomia descrittiva antica verso una
modellizzazione
della conoscenza che
permetta di estenderne i fondamenti ma soprattutto le implicazioni,
permettendo così –in linea di principio– di riaccedere ai
‘dati’ originari quali semplici ‘casi concreti’ (previsioni)
della regola più generale che dovrà manifestarsi
‘verificata’ anche a posteriori attraverso i ‘dati’ stessi da
cui era iniziato il percorso scientifico. Solo in questo modo la
conoscenza può effettivamente crescere senza accontentarsi
della semplice esplicitazione di elementi già contenuti nelle
premesse (più o meno note); in questo modo, inoltre, le
conoscenze acquisite produrranno nuove conseguenze e nuove
prospettive sulle quali la stessa conoscenza potrà continuare
il proprio sviluppo (ricorsività del Metodo).
Quanto
W. Pannenberg propone a questo proposito per la Teologia vale
tranquillamente anche per la Canonistica, almeno al suo livello più
profondo:
«anche
il metodo popperiano del “controllo critico” si fonda sull’esame
d’una teoria in base alle conseguenze che se ne possono trarre. La
stessa cosa vale anche per le asserzioni teologiche: le asserzioni
sulla realtà divina e sull’opera di Dio si possono
controllare sulla base delle loro implicazioni per la comprensione
della realtà finita, giacché l’oggetto delle
asserzioni è Dio come realtà
che determina ogni cosa. […]
Come
le altre proposizioni scientifiche, anche le asserzioni teologiche
sono situate nel quadro d’un contesto teorico e possono essere
controllate solo riguardo alla loro funzione nel contesto dei
progetti teoretici. Per la Teologia ne risulta l’esigenza
etico-scientifica dell’elaborazione esplicita e sistematica di
modelli teorici. Questi e le asserzioni che ad essi si riferiscono
presentano la forma di ipotesi. –Di fatto però– la forma
dell’ipotesi appartiene già alla struttura logica
dell’asserzione, in quanto questa si distingue dal fatto al quale
si riferisce, e ciò proprio per la sua pretesa di
corrispondere al fatto».
Solo,
quindi, rispettando
la conoscenza nelle
sue esigenze più basilari, la Canonistica potrà
presentarsi nell’attuale contesto scientifico non più come
una Retorica strumentale ad
usum delphini –il
potere della Gerarchia ecclesiastica– ma quale autentica Scienza
del vivere comunitario della Chiesa nella sincera ricerca della
maggior fedeltà possibile al mandato evangelico dal quale e
per il quale Cristo l’ha istituita.
in: APOLLINARIS, (2006), p. 11-48.