Le figure parrocali del Libro II del Codex Juris Canonici

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Premessa metodologica alla Giornata Canonistica Interdisciplinare


Lo scopo da cui prende origine la “Giornata Canonistica Interdisciplinare” è prima di tutto il tentativo di ‘estrarre’ la Canonistica dall’ortus conclusus in cui ha finito per rinserrarsi in seguito al radicale cambio d’identità impostole –suo malgrado– dalla Codificazione del Diritto canonico all’inizio del XX sec. e che neppure la sua stessa Revisione post-conciliare, conclusasi ormai da oltre vent’anni, ha saputo ‘ricuperare’ né in fatto di organicità interna, né in rapporto con le altre Scienze e Discipline comunemente dette ‘sacre’ o ‘teologiche’ che, invece, nell’ultimo secolo hanno conosciuto un notevole sviluppo soprattutto in ambito metodologico, operando un autentico ‘rinnovamento’ tanto ‘in vista’ del Concilio Vaticano II che in sua ‘conseguenza’.

Alla base di questa ‘evoluzione’ –lenta e contrastata ma altrettanto efficace– si deve prendere atto del ruolo assolutamente primario giocato –per la prima volta– dal Magistero, tanto pontificio che conciliare, intervenuto già dalla metà del XIX sec. prima in merito alla Filosofia (Leone XIII, Enciclica Æterni Patris, 4 agosto 1879), poi alla Teologia (Pio X, Enciclica Pascendi Dominici gregis, 8 settembre 1907; Pio XII, Enciclica Humani generis, 12 agosto 1950), e più diffusamente alla S. Scrittura (Leone XIII, Enciclica Providentissimus Deus, 18 novembre 1893; Pio XII, Enciclica Divino afflante Spiritu, 30 settembre 1943; Concilio Vaticano II, Costituzione Dei Verbum, 18 novembre 1965) in un susseguirsi di prospettive, restrizioni ed acquisizioni i cui risultati appaiono ormai ‘pacifici’ nella maggioranza delle Discipline c.d. teologiche… tranne –concretamente– la Canonistica che, ancora in alto mare nell’individuazione del proprio statuto epistemologico, rimane ben lontana dall’attracco al molo della scientificità del XX sec., più ostacolata che favorita dagli eventi ‘autoritativi’ che ne hanno definitivamente mutato le sorti nel secolo scorso (il Codex pio-benedettino e le prime norme per il suo insegnamento: Decreto De novo Codice).


1. Conseguenze metodologiche della Codificazione canonica

E’ ormai consapevolezza diffusa ed acquisita che l’adozione dello strumento codiciale non ha riguardato soltanto la ‘forma’ espositiva del Diritto canonico –non si trattò infatti di una questione ‘estetica’, pure se così venne prontamente identificato anche da insigni studiosi– ma espresse e soprattutto comportò precise istanze organizzative e teoretiche del Diritto canonico stesso, inducendo pesanti conseguenze sul versante metodologico, tanto da costringere i canonisti ad un profondissimo cambio di mentalità non solo ‘operativa’ ma, molto maggiormente, epistemologica.

E’ senza dubbio chiara la posizione assunta da C.M. Redaelli nel “Colloquio internazionale di Salamanca” di dieci anni fa proprio sulle conseguenze della Codificazione:

«una prima conseguenza è anzitutto la formale rottura con la tradizione canonica, nonostante il tentativo di evidenziare la continuità con le fonti di essa e la continuità di sostanza che il Codice presenta con il Diritto precedente. […]

Un altro effetto implicato dall’adozione della Codificazione è l’accentuazione del principio che la Legge vale per se stessa e non per la sua motivazione, che del resto non viene espressa. […]

E’ l’inevitabile sbocco nel Positivismo, parallelo a quanto avvenuto a seguito della promulgazione dei Codici statuali: se il Codice è per definizione razionale (mentre la consuetudine deve dimostrarlo: cf. can. 27, § 1), non ha bisogno di ricorrere a una ratio per giustificarsi: vale per se stesso. […]

L’accoglienza del principio della Codificazione da parte della Chiesa non è stata pertanto ideologicamente neutra, né senza conseguenze rilevanti e particolarmente gravi: ha accentuato la visione positivistica del Diritto canonico; ha basato la razionalità e l’obbligatorietà della norma sul principio di autorità; ha portato all’emarginazione di ciò che era ed è specifico nella tradizione canonica; ha enfatizzato il centralismo ecclesiale».


Che ciò non fosse assolutamente preventivato da Papa Pio X, né al momento di decidere per la Codificazione, né durante gli stessi lavori, pare del tutto probabile soprattutto per l’approccio che lo stesso Pontefice aveva al Diritto canonico: quello ‘pratico’ che aveva tratto dalla Prassi curiale la propria concezione ed identità, in una prospettiva da ‘diporto procedurale’ ispirata all’immediata utilità strumentale, come plausibile per chi aveva fatto il Cancelliere prim’ancora di conoscere il Diritto.

Discorso sicuramente diverso dev’essere fatto per il ‘Codificatore’ materiale, il Card. P. Gasparri, che per parte sua aveva scelto consapevolmente da che parte stare quanto a posizione dottrinale: il Codex contro le Compilationes, la vigenza contro la storia!

Che una volta terminata l’opera redazionale tutto ciò dovesse emergere ed imporsi non solo agli addetti di Curia ma alla Chiesa intera ne dà autorevole prova l’atteggiamento assunto con prontezza da Benedetto XV nella proposta ed iniziale applicazione del primo Codice di Diritto canonico quando, ben al di là dei plausibili intendimenti di Pio X, sentì di dover ‘accompagnare’ il nuovo strumento legislativo con un nuovo modo di studiarlo ed applicarlo. La completezza e peculiarità della sua formazione giuridica è al contempo tanto motivazione che prova di questo atteggiamento.

A sancire l’ormai acquisito mutamento non solo applicativo ma anche epistemologico della Canonistica intervenne in poche settimane dalla Promulgazione del CIC l’imposizione del Metodo esegetico per lo studio del nuovo Codice, relegando quod non est in Codice ad un’altra Disciplina –per fortuna– ormai svezzata: la Storia del Diritto canonico.

In tal modo le due anime teoretiche che si erano contese la Canonistica di fine Ottocento ebbero ciascuna la propria parte anche ‘accademica’: ai Francesi l’Esegesi del Codice, ai Tedeschi la Storia del Diritto canonico.

L’equilibrio tuttavia fu solo teorico e temporaneo poiché, nonostante l’esposizione di ogni Istituto giuridico canonico ad normam Codicis andasse preceduta dall’illustrazione della sua evoluzione storica, la Canonistica non riuscì a non diventare pura ‘Codicistica’, impiantando così la quæstio crucialis della Canonistica del XX secolo: il Metodo.


2. Il problema metodologico della Canonistica codiciale

Proprio attorno al Metodo occorre oggi lavorare seriamente per ridare alla Canonistica un’identità non solo non-conflittuale, com’è stata invece negli ultimi cinquant’anni, ma ‘convincente’ anche per la consapevolezza e mentalità scientifica attuale, per i canonisti e gli studiosi di oggi, e non ‘ecclesiastici’ soltanto.

Questo non può tuttavia attuarsi ‘a posteriori’, confidando sulla ‘condivisibilità’ dei più diversi ‘elenchi’ di tesi ed assunti canonistici elaborati dalla dottrina dello scorso secolo, come insigni studiosi si sono invece –irenicamente ed acriticamente(?)– sforzati di proporre;

dalle ‘tesi’ enunciative di C.M. Redaelli:

«1. La Canonistica è una Disciplina ecclesiale.

2. La Canonistica è una Disciplina teologica.

3. La Canonistica è una Disciplina teologica con un proprio metodo.

4. La Canonistica è una Disciplina teologica che si avvale, con propri criteri, anche di strumentazioni elaborate in altre Discipline, soprattutto quelle giuridiche.

5. La Canonistica è una Disciplina teologica articolata.

6. L’articolazione della Canonistica non pregiudica la sua unitarietà né la sua qualificazione teologica.

7. L’unitarietà della Canonistica e la sua complessiva qualificazione teologica è fondamentale per evitare una lettura non ecclesiale della normativa positiva.

8. La Canonistica resta in dialogo con le altre Discipline teologiche, ma non può demandare a esse la comprensione fondamentale della dimensione giuridica della Chiesa, né la propria fondazione»,


alla proposta più generica, per quanto maggiormente equilibrata, di A. Montan:

«a) il Diritto esiste nella Chiesa e ciò è conforme alla sua natura: si tratta di un dato storico inconfutabile;

b) il Diritto ecclesiale va compreso a partire dal mistero della Chiesa […];

c) il giuridico ecclesiale non è riducibile ad una imposizione autoritativa sanzionante, fosse anche di origine trascendente, né si fonda esclusivamente nell’ambito umano-naturale […];

d) tra Diritto ecclesiale e Diritto umano vi è una correlazione molto stretta da approfondire e precisare, evitando di assimilare l’uno nell’altro […];

e) nel Diritto ecclesiale un posto fondamentale occupa il cosiddetto “Diritto divino”: comprende norme sovraordinate alle altre norme, ispiratrici e regolatrici di tutta la normazione canonica».


Proposte di questo genere infatti, quand’anche venissero accolte dai più nella loro concreta formulazione testuale, comporterebbero in realtà una tale quantità di riserve mentali, di distinguo e di ‘premesse’ da rendere di fatto implausibili (ed improponibili) tali piattaforme teoretiche, incapaci di guidare ad una vera conoscenza dell’esperienza giuridica ecclesiale poiché troppo impegnate a ‘giustificarne’ parziali aspetti teoretici (e/o fondativi) dati ormai per acquisiti al punto da costituire veri ‘assiomi’ in base a cui sta o cade non solo la/una Canonistica, ma lo stesso Diritto canonico come suo ‘oggetto’, come continua a dimostrare efficacemente un passaggio ormai ‘storico’ di F. Coccopalmerio:

«sembra al riguardo ovvio che […] ci si senta immediatamente e previamente interpellati da un altro quesito: qual è il concetto di Diritto ecclesiale? La domanda appare fondamentale, per l’ovvio fatto che, solo stabilito l’oggetto se ne può fondare l’esistenza. In particolare è necessario che ci chiediamo: si vuole aver a che fare con un generico Diritto nella Chiesa o con lo specifico Diritto della Chiesa? Se infatti non si parte da una giusta nozione di Diritto ecclesiale per poi fondarne teologicamente l’esistenza, si finisce col cercare il fondamento dell’esistenza di una realtà ignota oppure di una realtà diversa da quella che si deve fondare».


La Canonistica verso cui occorre indirizzarsi oggi deve invece saper partire da un’adeguata consapevolezza epistemologica prima che applicativa, evitando gli esiti estremi delle c.d. Scuole canonistiche di Navarra e Monaco che, lasciandosi prendere la mano dall’utilizzo –più o meno problematico– dello strumento codiciale, hanno finito per creare non solo ‘Canonistiche’ assolutamente differenti tra loro, ma anche nuove Discipline, più concorrenziali che complementari alla Canonistica stessa.

Non si tratta tuttavia di operare –pretenziosamente– un ‘colpo di spugna’ che faccia per l’ennesima volta tabula rasa del passato quanto, piuttosto, di un serio ‘ritorno alle origini’, anteponendo questa volta solide basi gnoseologiche ed epistemologiche che, se lasceranno a ciascuno la libertà di optare per qualcuna delle possibili scelte legittime in campo tecnico e dottrinale, non impediscano tuttavia d’individuare con buona precisione cosa sia la Scienza canonistica …e lo stesso Diritto canonico nel contesto attuale delle Discipline ecclesiastiche.

Si tratta, concretamente, di fare un ‘passo indietro’ sotto il profilo metodologico, accostando in modo critico le scelte ‘a priori’ già operate in questo campo (esegesi, dogmatica giuridica, fondazione teologica o altro), riconoscendo ad esse un valore del tutto strumentale e non originario quanto a delineazione e definizione della Scienza canonistica in prospettiva epistemologica.

Solo infatti un più consapevole e competente approccio alla componente epistemologica ed una sua corretta declinazione permetteranno il conseguimento della finalità proposta e la sua stabilità, la sua ragionevolezza e la sua concreta condivisibilità …non solo di una parte dei risultati.


3. Questioni preliminari sul Metodo

La ‘pericolosità’ dei discorsi sul Metodo è nota a tutti soprattutto quando ci si lascia prendere la mano dalle teorizzazioni prospettiche e si dimentica che il cuore del Metodo, la sua verità, sta nella sua concreta, efficace e proficua applicabilità… nei risultati reali a cui la conoscenza umana può giungere per suo mezzo, come già affermava V. Del Giudice: “la bontà di un Metodo si vede soprattutto nelle sue applicazioni e nei risultati”.


E’ per questo che occorre decidersi per un’opzione radicale che permetta il massimo di concretezza possibile attraverso l’uscita dai ‘vicoli chiusi’ intra-disciplinari ed un confronto aperto con altri studiosi che affrontano istanze prossime o previe a quelle canonistiche, utilizzando gli stessi termini e gli stessi paradigmi concettuali in modo tale da ‘verificare’ già nelle premesse la portata e le prospettive dell’attività canonistica.

Alla base di questa scelta sta la fiducia che si deve dare all’insegnamento di K. Popper in ciò che riguarda il c.d. essenzialismo metodologico, la necessità, cioè, che i termini ed i concetti utilizzati nel lavoro scientifico esprimano davvero l’essere profondo delle realtà di cui si tratta poiché, soprattutto nelle Discipline e Scienze antropologiche e sociali –e il Diritto è senza dubbi una di esse–, ciò che si studia (l’oggetto) coincide in realtà con la sua ‘concettualizzazione’; se i termini utilizzati per circoscriverlo, delinearlo e definirlo non sono appropriati e, diciamo pure, ‘veri’ si cade nella pura retorica rendendo inutile ogni ulteriore sforzo di approfondimento:

«si è detto che il compito della Scienza sociale è comprendere e spiegare quelle entità sociologiche come lo Stato, l’azione economica, il gruppo sociale, ecc. E che ciò può farsi soltanto col penetrare nelle loro essenze. Ogni entità sociologica di qualche importanza presuppone termini universali per la sua descrizione, e per questo suo compito sarebbe futile introdurre liberamente […] nuovi termini. Il compito della Scienza sociale è descrivere tali entità con chiarezza e in modo appropriato, cioè distinguere l’essenziale dall’accidentale; ma ciò richiede la penetrazione della loro essenza».


E’ proprio la necessità di questa ‘verità’ dei termini e dei concetti utilizzati dalla Canonistica ad esigere un leale confronto con le Discipline che hanno maggiori referenzialità in ambito concettuale, la Filosofia in primis –nella sua funzione/capacità di focalizzare i concetti ‘estraendoli’ dalla semplice esperienza– e la Storia, l’unica in grado di vagliare e ‘valorizzare’ equilibratamente la portata delle concettualizzazioni (filosofiche) che hanno attraversato i secoli raccogliendo i migliori frutti della consapevolezza e riflessione umana attualmente a nostra disposizione.

Un tal modo di lavorare assume pertanto –necessariamente– le caratteristiche della c.d. interdisciplinarità, privilegiando l’ascolto di ciò che Filosofia e Storia hanno da dire a proposito dei concetti-base che formano l’armamentario canonistico, prim’ancora di qualunque loro ‘realizzazione’ concreta che la Scienza canonistica abbia saputo individuare e focalizzare nel proprio oggetto di studio. D’altra parte è proprio la scelta dei concetti (e dei termini che meglio li esprimano) il primo snodo metodologico di qualunque attività che desideri oggi essere ‘scientifica’; gli stessi modelli euristici ed ermeneutici si concretizzano infatti nel ‘livello concettuale’ ancor prima d’essere concretamente fruiti dal ricercatore per esprimere la comprensione del reale a cui sia faticosamente approdato.

Ciò a cui mira, perciò, la proposta di questa “Giornata Canonistica Interdisciplinare” è una sorta di grande explicatio terminorum o meglio una grande illustratio substantiæ, per avere la consapevolezza di cosa ‘siano’ le realtà (res) di cui si va discorrendo, al di là delle loro semplici denominazioni (nomina).


In questo modo già lo stesso concetto –generico– di ‘interdisciplinarità’ così introdotto chiede ulteriori specificazioni poiché:

«possiamo parlare di una interdisciplinarità “debole”, intesa come “multidisciplinarità”: essa consiste in un approccio orizzontale di giustapposizione di Discipline tra loro. Tale approccio consente una reciproca conoscenza e comprensione, in ordine all’oggetto il cui studio completo sfugge alla presa di un singolo metodo disciplinare. Ciò non comporta uno sforzo esplicito di operare una sintesi tra più Discipline. […]

Parliamo anche di una interdisciplinarità “forte”, che ricerca i connettivi di metodo ed oggetto comuni a più Discipline, letti alla luce di saperi più generali e fondanti. In questo senso si parla comunemente di “metadisciplinarità” o di “transdisciplinarità”».


In quest’ottica però pare necessario –non certo per motivi estetici– intraprendere un’altra via di sviluppo –forse ‘mediana’–: la “con-disciplinarità” per lasciar libero ogni ambito/modo della conoscenza (Scienza o Disciplina) di essere ciò che ritiene più efficace ed offrire, nello steso tempo, un reale apporto alla conoscenza –unica– cui ogni soggetto aspira con l’approfondimento della propria ricerca.

Un semplice ‘parallelismo’ infatti tra Canonistica, Filosofia e Storia non offrirebbe prospettive maggiori di quelle già arrivate fino a noi, ma soprattutto non metterebbe nel giusto e necessario risalto la ‘pregiudizialità’ della concettualizzazione logica e storica; allo stesso tempo la semplice ricerca di “connettivi di metodo ed oggetto comuni” rischierebbe di spostare il campo d’interesse a ciò che è semplicemente (banalmente?) ‘condiviso’ e ‘condivisibile’, senza evidenziare –ancora una volta– la preventività del momento ‘concettualizzante’ storico-filosofico.


4. Unicità e pluralità di Metodo

Gli approcci multidisciplinari, metadisciplinari e transdisciplinari, tra l’altro, pur evidenziando bene la complessità dei rapporti tra differenti Scienze e Discipline, non risultano però adeguati al criterio –radicale– dell’essenzialismo metodologico, cui non è possibile sottrarsi, poiché derivano la maggior parte della propria pregnanza da un presupposto tutt’altro che certo, verificato e condiviso: la differenza dei Metodi.

Quando infatti ci si riferisce ai Metodi delle varie Discipline si presuppone che ogni Scienza/Disciplina abbia ‘propri’ Metodi, qualificati eventualmente in modo tautologico, com’è accaduto nella Canonistica anche recente: Metodo giuridico, Metodo teologico… fino alla vera ‘arguzia’ del “Metodo proprio” …senza che nessuno, ovviamente, si prenda la minima cura d’illustrare la struttura, le caratteristiche, le funzionalità di tali Metodi.

Ciò che invece i canonisti post-conciliari hanno bisogno di recepire in modo più definitivo possibile –visto che per i loro ‘padri’ non lo poté essere– è l’inconsistenza –ed inefficacia– di questo modo di procedere: non esiste una pluralità di Metodi tautologicamente specifici (o ‘propri’) di ciascuna Disciplina/Scienza, ma più declinazioni e specializzazioni dell’unico Metodo attraverso cui l’uomo può giungere a conoscere ciò che lo circonda: questo però colloca le questioni gnoseologiche ‘prima’ di quelle epistemologiche, costringendo di fatto ad una prospettiva ben diversa da quella maggiormente praticata ancor oggi da gran parte dei canonisti.

Il problema è tanto più evidente nel confronto con la miglior Scienza giuridica che a questa acquisizione è ormai giunta da tempo:

«il Metodo non è particolare a questa o quella Scienza ma è la via generalmente seguita dall’intelletto umano per la conoscenza, l’insieme dei procedimenti mentali che alla conoscenza conducono».

«Non v’è un Metodo per studiare il Diritto italiano e un altro per studiare, poniamo, il Diritto spagnolo, o qualsivoglia altro; non v’è una logica “particolare” da usare per l’uno o per l’altro. In questo senso affermai che una questione del Metodo per lo studio del Diritto canonico non esiste. Uno il modo, una la forma logica, che deve a sua volta servire a determinare la logica specifica alla quale obbediscono gli istituti nell’interno di ciascun sistema».

«Ci vuol poco a capire che esiste una materia giuridica, ma un Metodo giuridico no; il Metodo, naturalmente, deve adattarsi alla materia ma la via della conoscenza, è una sola. E’ una via accidentata e scoscesa, ad aprire la quale concorrono tutti insieme filosofi, matematici, fisici, biologi, storici e anche giuristi».

«Come, infatti, si può parlare di un Metodo particolare nello studio del Diritto canonico quando si pensa che il Metodo, come non a torto è stato osservato, “non è particolare a questa o quella Scienza, ma è la via generale seguita dall’intelletto umano per la conoscenza, l’insieme dei procedimenti mentali che alla conoscenza conducono”? Ciò significa che non esiste un Metodo qualificato dall’oggetto della conoscenza. Ritengo, pertanto, che si possa andare anche al di là di quanto ha affermato il Del Giudice, cioè che “una questione del Metodo nello studio del Diritto canonico non esiste”, poiché penso che non solo non esista un Metodo peculiare per lo studio del Diritto canonico, cioè un Metodo canonistico, ma che non esista neppure un Metodo proprio per lo studio del Diritto in generale, cioè un Metodo giuridico, come non esiste un Metodo matematico, fisico, chimico, etc. Il problema che si pone nello studio del Diritto canonico non è un problema di Metodo, ma un problema di tecnica: è la tecnica giuridica, non già il Metodo, che varia secondo che si versi nello studio del Diritto civile o nello studio del Diritto canonico, nel senso che varia, nello studio dell’uno o dell’altro, il particolare impiego dei generali Metodi logici -induttivo, razionale o intuitivo, etc.-, in relazione alla diversa natura dell’Ordinamento canonico e dell’Ordinamento civile».


Addirittura secondo R. Sobanski –contro il suo stesso interesse dottrinale– la Teologia stessa non avrebbe “un proprio Metodo originale”, servendosi piuttosto

«dei Metodi elaborati nelle Scienze, nella misura in cui risultano utilizzabili –seppure spesso dopo adeguata modificazione– per identificare e penetrare la Rivelazione. […] Sotto il profilo metodologico ed epistemologico [la Teologia] non è una Scienza omogenea; è uniforme sotto l’aspetto psicologico, sotto quello del contenuto e dell’oggetto. L’unico fattore che ne determini la specificità è la fede».


Ciò che dunque occorre specificare prima di ogni ulteriore passo avanti è un’adeguata distinzione tra Metodo vero e proprio, ‘tecniche’ e ‘strumenti’, senza lasciarsi ingannare dall’uso comune del termine ‘Metodo’ per indicare anche o una ‘tecnica’ particolarmente complessa (es.: metodo esegetico) o un raggruppamento di ‘tecniche’ affini o un semplice ‘procedimento’ logico (es.: metodo deduttivo) –che sarebbe più corretto chiamare “metodiche”–. Solo questa inconsapevolezza può generare e sostenere il presupposto della ‘specificità’ dei Metodi, trasferendo a suo carico una quantità e qualità di ‘conseguenze’ –soprattutto epistemologiche– cui in seguito non sarà più possibile sottrarsi.

Il triste esito metodologico della Canonistica di fine secolo scorso è cosa nota, con i maggiori ‘risultati’ proprio da parte di chi si era piccato di “aggiornate” competenze in tale campo: fu proprio E. Corecco che, non considerando soddisfacente la formula coniata da K. Mörsdorf, “Canonistica come Disciplina teologica, con Metodo giuridico” la reinterpretò: “Disciplina teologica, con Metodo teologico” poiché il Metodo di una Scienza –diceva– dev’essere definito dal suo oggetto; in questo caso essendo oggetto d’esame scientifico una realtà –secondo lui– teologica (il Diritto ecclesiale), il suo Metodo non poteva essere quello giuridico ma necessariamente quello teologico.

Proprio questo genere di approccio alla questione e le affermazioni conseguenti, contestate a partire però dagli stessi presupposti ‘contenutistici’ anziché sotto il profilo epistemologico, testimoniano la scarsa percezione all’interno della Canonistica del secolo scorso della reale natura e portata delle questioni metodologiche che ciascun autore ha modellato ed applicato a modo proprio senza una sufficiente percezione non solo degli elementi realmente in gioco, ma della portata fondamentale della questione. Il ricorso –nominalistico– al ‘Metodo’ si è infatti prestato –suo malgrado– a coprire proprio le gravi carenze di carattere metodologico della maggioranza dei canonisti, impedendo di cogliere dietro all’uso ricorrente dello stesso termine (nomen) un’assoluta confusione concettuale (substantia): una totale equivocità che non ha permesso il nascere di un vero confronto epistemologico, l’unico in grado di dare stabilità alla Scienza canonistica.

E’ per questo che si pone la necessità, ormai irrinunciabile, di prospettare un po’ di chiarezza sul termine e, soprattutto, sulle sue articolazioni, uscendo dalla retorica di molti titoli e luoghi comuni.


5. Metodo e metodi

Senza voler ricostruire qui l’intero ambito del Metodo, né tanto meno proporne una Teoria generale –di cui non siamo certo all’altezza–, basti ricordare però come la radice greca del termine (meta-odos), la “strada verso il fine”, ne indichi con chiarezza la consistenza concettuale: si tratta del ‘percorso’ (per-cursus) attraverso cui si ‘procede’ (pro-cessum) per conseguire la finalità stabilita.

Un concetto, dunque, ‘funzionale’; un concetto che richiama alla consapevolezza del proprio agire in vista di una meta da conseguire; un concetto che non indica per se stesso una specifica ‘via’ ma evidenzia come per raggiungere un risultato occorra ‘tracciare’ una via. Una ‘via’ la cui importanza non risalta né per il punto di partenza, né per la meta, né per le specifiche tappe, ma per il suo ‘essere via’: possedere, cioè, una chiara intenzionalità nei confronti del proprio operare, anche costruendo –di tappa in tappa– il percorso concreto che molto spesso non può darsi ‘a priori’ poiché il terreno di marcia è sovente sconosciuto e le difficoltà di qualunque genere sono in costante agguato. Basti questo per esorcizzare il demone de ‘il’ Metodo, come se si trattasse di una formula misteriosa ed arcana in grado di offrire i propri prodigiosi servigi ai pochi ‘iniziati’ che se ne siano impossessati e la sappiano utilizzare correttamente, casomai per sola ‘evocazione’.

Il termine (meta-odos) indica, ancora più specificamente, l’attraversamento (meta = attraverso) che occorre effettuare per raggiungere la meta, stimolando a porre l’attenzione non tanto sul ‘futuro’ (la meta stessa) quanto sul presente: il passo attuale, la scelta presente, il punto preciso a cui si è giunti ed il successivo a cui ci si volge; non tanto, quindi, una ‘rotta’ tracciata a tavolino attraverso l’oceano con squadra e compasso sulla carta, ma un vero ‘percorso’: l’insieme, cioè, dei passi compiuti per giungere ‘a questo punto’ in cui si concentrano –e devono per forza farlo– tutte le acquisizioni precedenti, i singoli ‘passi’ già effettuati… ed a cui occorre dar seguito per non dover riconoscere di essersi smarriti.


E’ solo partendo da questa non scontata consapevolezza che si acquista la capacità di distinguere, come già anticipato, tra Metodo e ‘metodi’ o meglio: ‘metodiche’ operative; è solo non ipostatizzando ‘il’ Metodo facendone un idolo muto, sordo e cieco, buono –quanto inutile– per ogni evenienza, che si sarà in grado di prendere coscienza di come si sono conseguite certe mete e di come sia possibile conseguirne di nuove attraverso l’utilizzo di appropriati strumenti, l’adozione di determinate procedure, l’applicazione di specifici criteri, la valorizzazione di conoscenze acquisite… ecc. Oltre, al contempo, la possibilità di evidenziare a posteriori eventuali errori di percorso, fraintendimenti, abbagli, cortocircuiti, giri a vuoto, ecc. che sempre funestano gli itinerari en plain air.

Si pone in questo modo la necessità di distinguere anche terminologicamente ciò che a livello concettuale è radicalmente diverso, per quanto non estraneo; si dovrà pertanto parlare di Metodo ‘trascendentale’ e di metodi ‘categoriali’ proprio per indicare, nel primo caso, il nucleo fondamentale e portante di ogni processo d’indagine e conoscenza, nel secondo, gli strumenti intellettuali anche complessi ed articolati specifici (‘propri’) di ciascuna forma di conoscenza. Questa chiarificazione si rivela utile anche per distinguere le componenti metodologiche ‘intradisciplinari’ da quelle ‘extradisciplinari’: i discorsi, cioè, necessariamente articolati e sviluppati all’interno di ciascuna Scienza/Disciplina allo scopo di mettere a punto in modo sempre ulteriore la propria capacità investigativa ed operativa (metodi specifici/propri; categoriali), ciò che fa riferimento alla riflessione metodologica propria di ogni Scienza/Disciplina, rispetto allo studio vero e proprio di queste metodiche in sé e per sé in vista di una loro verifica, legittimazione e fondazione di principio capace di guidarne gli sviluppi e consolidarne le acquisizioni al livello più profondo delle strutture di base della conoscenza umana (Metodo trascendentale), ciò su cui si regge e struttura la Metodologia (Scienza metodologica) vera e propria.

A distinguere i due ‘livelli logici’ della riflessione interviene l’oggetto materiale (obiectum formale quod) d’indagine:

a) i più diversi fenomeni e le loro relazioni, per il livello categoriale al quale si muovono le diverse Scienze/Discipline;

b) le stesse metodiche (i metodi categoriali) in quanto tali per il livello trascendentale.

In questo modo la Metodologia (quale studio dei metodi categoriali alla ricerca della loro veridicità ed affidabilità) s’impone quale Disciplina autonoma all’interno del rapporto tra Gnoseologia ed Epistemologia, intervenendo –essa pure– nella stessa individuazione delle diverse Scienze/Discipline evitando, così, buona parte dei fraintendimenti e delle equivocità che hanno caratterizzato la conoscenza umana per lunghi millenni …evitando soprattutto l’errore fatale d’individuare e definire le Scienze a partire dal loro presunto ‘Metodo’ e considerare questo approccio come esaustivo di quello epistemico, identificando Metodologia ed Epistemologia.


6. Il Metodo trascendentale

Proprio il “Metodo trascendentale” costituì il centro degli studi del Gesuita canadese B. Lonergan (1904-1984) che, intendendo mettere a fuoco –un volta per tutte(?)– la struttura remota, ma costante (“isomorfa”), attraverso cui l’uomo acquisisce ed elabora sempre nuove conoscenze partendo dagli unici due ‘elementi’ che entrano comunque in gioco: l’esperienza del reale e l’apporto specifico del soggetto conoscente, elaborò una delle maggiori teorizzazioni metodologiche del secolo scorso per l’ambito delle c.d. Scienze umane.

La sua volontà di non perdere in ambito ‘umanistico’ le grandi acquisizioni ed i successi cui erano approdate attraverso la Modernità sia le c.d. Scienze naturali (fisico-matematiche) che le Filosofie soprattutto d’inizio secolo (Ermeneutica, Esistenzialismo, Personalismo), lo portò a cercare oltre ogni specificità applicativa (le metodiche) ciò che risulta più radicalmente ‘umano’ nelle modalità conoscitive, fino a proporre, al livello trascendentale, il “Metodo empirico generalizzato”.

«E’ un Metodo trascendentale, perché i risultati di cui si tratta non sono categorialmente limitati a un campo o a un soggetto particolare, bensì riguardano qualsiasi risultato che potrebbe essere inteso dalle nozioni trascendentali completamente aperte. Mentre altri metodi mirano a venire incontro alle esigenze e far uso delle possibilità proprie di campi particolari, il Metodo trascendentale si propone di venire incontro alle esigenze e di far uso delle possibilità offerte dalla mente umana stessa. E’ una finalità fondante e che al tempo stesso ha significato e portata universale».


Lonergan, partendo dallo studio dell’intelligenza umana con uno specifico interesse per lo svilupparsi della conoscenza e della coscienza, propose una definizione di Metodo di grande fecondità, aperta ad ogni campo del sapere e contemplando già al proprio interno ‘operazioni’ che hanno la stessa portata di ‘tecniche’ e ‘strumenti’; il Metodo dunque

«è uno schema normativo di operazioni ricorrenti e connesse tra di loro che danno risultati cumulativi e progressivi. C’è dunque Metodo là dove ci sono operazioni distinte, dove ciascuna operazione è in relazione con le altre, dove l’insieme delle relazioni forma uno schema, dove lo schema è descritto come il modo adatto per fare una determinata cosa, dove le operazioni che si svolgono in conformità allo schema possono ripetersi indefinitamente e dove i frutti di tale ripetizione sono non qualcosa che semplicemente si ripete, bensì qualcosa di cumulativo e progressivo. […]

L’indagine trasforma la mera esperienza nell’esame della osservazione. Ciò che è osservato, è fissato in una descrizione. Descrizioni contrastanti danno origine a problemi e i problemi vengono risolti mediante scoperte. Ciò che è scoperto, è espresso in un’ipotesi. Dall’ipotesi vengono dedotte le sue implicazioni e queste suggeriscono quali esperimenti si devono fare. Per cui le molte operazioni sono in relazione tra di loro, le relazioni formano uno schema e lo schema definisce il modo in cui va eseguita l’indagine scientifica».


E’ in questa prospettiva che si saldano insieme le esigenze dell’essenzialismo metodologico popperiano (verità dei concetti) e l’apporto delle Discipline base della concettualizzazione ad esso necessaria (Filosofia e Storia): quanto il canonista già conosce a motivo dei propri studi (generali e specialistici) necessita –per poter crescere ulteriormente e per essere più stabilmente ‘fondato’– di un regolare, ciclico, ‘ritorno alle origini’ per verificare se –e che– i suoi concetti attuali corrispondano ancora alla realtà dei fatti, ad una loro corretta comprensione, ad una loro comunicabilità generale, o non si siano, piuttosto, ancora una volta ‘isolati’ in una nuova ‘nicchia’ fuori della storia… e della realtà.

L’eventualità dell’isolamento autoreferenziale, d’altra parte, è tutt’altro che remota ogniqualvolta si abbia a che fare non con il ‘rigore’ delle Scienze naturali che, attraverso la sperimentazione, tendono ad essere auto-correttive, ma con la ‘plasticità’ di quelle antropologico-umanistiche, basate quasi esclusivamente sul ragionamento, in particolare con la Teologia o con Discipline ‘teologiche’ in genere –Corecco docet, e non da solo–; lo stesso Giovanni Paolo II, infatti, nella sua Enciclica Fides et ratio non solo non si è nascosto il problema, ma ne ha pure suggerito una soluzione di amplissima portata:

«la Teologia ha sempre avuto e continua ad avere bisogno dell’apporto filosofico. Essendo opera della ragione critica alla luce della fede, il lavoro teologico presuppone ed esige in tutto il suo indagare una ragione concettualmente e argomentativamente educata e formata. La Teologia, inoltre, ha bisogno della Filosofia come interlocutrice per verificare l’intelligibilità e la verità universale dei suoi asserti».


L’imprescindibilità del riferimento filosofico a cui stiamo rimandando per la Canonistica risalta ancora maggiormente, poi, nello ‘statuto autonomo’ che lo stesso Giovanni Paolo II sollecitò per la Filosofia, perché sia autentico il servizio che essa offre alle diverse forme di conoscenza; ciò che vale in riferimento alla Teologia, vale almeno allo stesso modo anche per le altre Scienze/Discipline:

«la Filosofia, anche quando entra in rapporto con la Teologia, deve procedere secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe altrimenti garanzia che essa rimanga orientata verso la verità e ad essa tenda con un processo razionalmente controllabile. Di poco aiuto sarebbe una Filosofia che non procedesse alla luce della ragione secondo propri principi e specifiche metodologie».


Ci si sottrae così, pleno corde, al presupposto del tutto arbitrario che ogni Scienza/Disciplina socio-umanistica abbia il diritto/dovere di cercare al proprio interno –quando non addirittura di ‘creare’ autonomamente– le proprie categorie ed i propri strumenti concettuali, ‘adatti’ all’utilizzo specifico cui saranno destinati, bypassando ogni confronto e verifica della loro concreta portata gnoseologica generale; l’irrisolta diatriba sulla ‘natura analoga’ del Diritto canonico in riferimento a quello civile è solo un piccolo esempio, per quanto non banale, della portata di questa tematica.

In questa prospettiva non va trascurata neppure la pretesa, attuata da qualcuno, di utilizzare addirittura l’ambito metodologico quale ‘libero spazio’ in cui esprimere la propria creatività, utilizzando i concetti, modelli e paradigmi tramandatici dalla Storia come i colori di una tavolozza in mano al pittore. Il ‘caso’ della “ordinatio fidei” propugnata per anni da E. Corecco quale necessaria ‘conversione’ metodologico/epistemologica per la Canonistica post-conciliare, e risoltosi poi nella classica ‘bolla di sapone’, dovrebbe essere un monito sufficiente circa il ‘nome’ da dare alle cose.


7. Prospettiva ‘ciclica’ del Metodo

Ciò che ai fini della “Giornata Canonistica Interdisciplinare” –ma anche della Canonistica tutta– rileva maggiormente nella proposta di B. Lonergan non sono però tanto le diverse attribuzioni e caratteristiche del Metodo trascendentale in sé, quanto la logica di fondo del suo “Metodo Empirico Generalizzato” che, fedele alla struttura e fisiologia della conoscenza umana, egli presenta come ‘ciclico’ nel ricorrere di quattro momenti: esperienza, intelligenza, giudizio, scelta.

E’ solo al termine di questa ‘tornata’ che quanto percepito inizialmente attraverso i soli sensi inizia ad assumere la consistenza del ‘dato’ (non senza, quindi, l’apporto decisivo di tutto il singolo soggetto conoscente) ed è nella costante re-immissione di tale ‘dato intermedio’ all’interno di successivi ‘cicli investigativi’ che lo si arricchisce, lo si sfronda, lo si precisa, fino a farne una vera acquisizione: una ‘conoscenza’ che possa essere comunicata e condivisa, un ‘dato’ nel senso scientifico del termine.

Intelligenza, giudizioe scelta sono tre ‘attività’ tipicamente umane ma soprattutto assolutamente ‘personali’, che coinvolgono cioè tutta la persona chiamata –nella fase intellettiva (intus legere)– ad ‘immaginare’ (momento euristico) ed ipotizzare (momento ipotetico) una possibile ‘spiegazione’ (momento ermeneutico) di quanto sperimentato.

La fase valutativa –giudizio– porta la persona ad un serio confronto di quanto così ipotizzato con quanto già acquisito (tanto dal singolo che dall’attuale stato dell’arte della Disciplina di riferimento) per valutarne la ‘compatibilità’ ed attuare la sperimentazione (o supplemento d’indagine) necessaria a ‘decidere’ della sua (im)possibile integrazione all’interno delle conoscenze già possedute; sono queste due ‘fasi’ il cuore pulsante (e spesso affaticato) dell’intero processo gnoseologico.

La fase decisionale –la scelta responsabile– è quella che accoglie il nuovo ‘dato’ all’interno del ‘conosciuto’, oppure lo respinge come decisamente non-pertinente, oppure ancora lo rinvia ad eventuali ‘cicli’ supplementari d’indagine per meglio documentarlo, articolarlo, riprenderlo in esame –ricorsivamente e cumulativamente– da altri punti di vista.


E’ all’interno di questa prospettiva che prende corpo e vigore la proposta di strutturale apertura della Canonistica all’apporto delle altre Discipline che si dimostreranno via via necessarie –o anche solo utili– per sostanziare le due fasi centrali del ciclo conoscitivo: intellezione e valutazione. E’ in questi due momenti, infatti, che il ricercatore ha la necessità di potersi rifare all’intero patrimonio conoscitivo a sua disposizione –immediata e non– per trovare gli elementi che gli permettano –non senza una buona dose d’intuizione e di ‘creatività’– di concettualizzare o formalizzare ciò che l’esperienza (il concreto vissuto ecclesiale) gli ha suggerito o che una precedente ricerca gli ha reso problematico.

Filosofia e Storia si prospettano in questi termini come le due principali istanze per ‘leggere-dentro’ il vissuto (l’esperienza) rintracciandone o elaborandone significati, concettualizzazioni, paradigmi, relazioni, problematicità (apporto della Filosofia) e per averne una prospettiva critica che permetta, a livello di valutazione/giudizio, di confrontarsi con ciò che ‘già è stato’ (e che forse non è già più) permettendo alfine di valicare i diktat e gli apriorismi ideologici che in modo così efficace riescono troppo spesso ad intralciare il giusto svilupparsi e crescere della conoscenza umana ad ogni livello (apporto della Storia).

Da questa prospettiva è tutt’altro che esclusa la Teologia, soprattutto nella sua qualità di ‘fonte’ più o meno diretta per una buona parte del vissuto giuridico ecclesiale; ciò tuttavia principalmente nella sua componente ‘positiva’ (auditus fidei): laddove Tradizione e Magistero hanno ‘fissato’ e continuano a chiarire i ‘dati’ irrinunciabili per la vita ecclesiale.


8. Un primo passo concreto

Da queste –ed altre– riflessioni, per quanto sommarie, s’impone con sempre maggior forza la necessità per i canonisti d’intraprendere un serio itinerario metodologico che li collochi finalmente ‘alla pari’ dei loro colleghi cultori delle altre Discipline/Scienze ecclesiastiche in primis Filosofia e Teologia, ricuperando con risolutezza il grave impasse che ancora li vede auto-confinarsi all’interno di spazi talmente angusti da non poter più essere né imposti né accettati.

Primo passo di questa ‘rimonta’ è senza dubbio la rinnovata coscienza delle caratteristiche e ‘strutture’ tipiche della scientificità contemporanea ormai comunque irrinunciabili, ma troppo spesso ancora invisibili alla maggior parte dei canonisti.


Senza poter né voler qui affrontare in modo completo ed ultimativo la tematica, basterà esplicitare quanto necessario a motivare e sostenere lo sforzo con-disciplinare intrapreso con la Giornata Canonistica Interdisciplinare, anche solo enunciando alcune ‘caratteristiche’ di natura metodologica che lo contrassegnano ed individuano nella sua specificità, in vista di un’autentica e consapevole opzione metodologica sempre più improcrastinabile per la Canonistica.


8.1 Essenzialismo metodologico

Si tratta in primissimo luogo di accogliere quanto già ben evidenziato da K. Popper circa la necessità che il linguaggio in uso presso le Scienze/Discipline umanistico/antropologiche abbia una reale consistenza concettuale: che, cioè, i termini –lemmi– utilizzati siano veri ‘sostantivi’ e non semplici ‘nomi’, in modo tale da esprimere elementi di ‘verità’ proprio nella corrispondenza tra la res de qua (agitur) e la sua concettualizzazione intellettiva (realismo gnoseologico).

Due paiono gli strumenti privilegiati –per quanto non ancora abbastanza specifici– per assicurare questo primo e basilare risultato: l’adozione di un linguaggio formale e la definizione precisa del dominio d’interesse e ricerca.

- Per quanto concerne la formalizzazione del linguaggio occorre senza dubbio considerare che in ambito canonistico non può trattarsi che di un livello piuttosto elementare se paragonato alle formalizzazioni in uso nelle Scienze/Discipline fisico-matematiche; ciò nulla toglie tuttavia alla evidente utilità di cui la Canonistica potrebbe giovarsi qualora imparasse e muoversi per concetti e non per formule più o meno artificiose divenute ormai pseudo-tecniche a causa di un uso semplicemente protratto nel tempo ma mai verificato nella propria effettiva fondatezza; l’esempio più tipico potrebbe essere fornito dalla formula “salus animarum” che ha pervaso nei secoli interi settori della Canonistica senza che sia mai stato possibile individuarne con chiarezza –e definitività– i reali contenuti pastorali e teologici, oppure lo “Ius divinum” che né teologi né canonisti sembrano ancora in grado –dopo secoli!– di ‘manovrare’ con sufficiente consapevolezza e proprietà.

La problematica inerente un linguaggio ‘proprio’ –ed appropriato– è tanto più pressante quanto maggiore si trovi ad essere –nella Canonistica– l’adozione di termini e formule provenienti dall’esterno in ragione, spesso, di semplici assonanze fonetiche (come p. es. ‘Parroco’ e ‘Parrocchia’ in italiano, ma che in latino non hanno elementi semantici comuni: Parochus, Parœcia, come ben recepisce anche il francese: curé e paroisse), oppure –molto peggio– di termini e formule testuali provenienti da ambiti disciplinari del tutto differenti come quelli teologici o morali: legge, giudizio, comando/comandamento, comunione, sono solo alcuni termini tra i più ambigui sotto questo profilo. L’apporto specifico di E. Betti a questa tematica è del tutto irrinunciabile soprattutto a riguardo della c.d. interprætatio duplex o addirittura multiplex e della conversione interpretativa; allo stesso modo non risultano trascurabili le istanze c.d. ermeneutiche di cui il Novecento ci ha resi ormai più o meno consapevoli.

La tecnicità, poi, tutta specifica del linguaggio giuridico non può che accentuare il divario col c.d. linguaggio comune rendendone ancor più necessaria la ‘protezione’. S’inscrive senza dubbio in questa prospettiva anche la necessità di ‘rinunciare’ quanto più possibile tanto all’utilizzo ‘analogico’ del linguaggio che all’uso del linguaggio analogico, soprattutto quando l’uso improprio dei termini giuridici ‘tecnici’ contribuisca a creare/mantenere, sia nel linguaggio comune che –peggio– in quello ereditato da altre Discipline, concezioni e presupposti vistosamente erronei, come spesso accade tra Etica, Diritto e Morale.

A rendere ancor più indispensabile quantomeno la purificazione concettuale della terminologia contribuisce anche l’affinità esteriore tra il linguaggio canonistico e quello più genericamente giuridico, con innumerevoli variazioni a seconda che ci si rapporti col linguaggio giuridico romanistico, quello dello Ius commune medioevale, quello codicista-civile dell’Ottocento europeo, quello internazionale o il ‘semplice’ comparato; ambiti, tutti, di linguaggio giuridico ma di assoluta specificità. Lo stesso dicasi –a maggior ragione– per il rapporto con gli altri linguaggi ‘normativi’.


- Corrispettiva della formalizzazione del linguaggio e della sua reale consistenza è senza dubbio l’individuazione e fissazione del dominio proprio della Scienza canonistica quale ‘spazio’ circoscritto di fenomeni e significati cui riferire e ricondurre le affermazioni che la Canonistica stessa pone in essere nel proprio esercizio scientifico.

Si tratta, seppure con terminologia nuova, dell’inveterata questione dell’oggetto materiale (obiectum formale quod) della Scienza canonistica intorno a cui il secolo scorso ha scatenato un’infinità di questioni e scontri non ancora sopiti; la questione, tuttavia, non pare così complessa, né improbabile la sua soluzione.

Dominio(oggetto materiale) della Canonistica è senza dubbio il vissuto sociale-normativo della Comunità cristiana lungo i secoli: ciò che in ogni tempo e luogo la Comunità dei discepoli di Cristo ha ritenuto di ‘dover’ fare sotto il profilo istituzionale per continuare efficacemente a tutelate e trasmettere il depositum fidei affidatole attraverso la predicazione apostolica. Non si tratta dell’intero vissuto cristiano (dottrinale, liturgico, morale) ma unicamente di quella ‘parte’ contraddistinta dalla opinio iuris ac necessitatis che lungo i secoli ha permesso a determinati comportamenti di assurgere a criterio di legittimità comportamentale nei rapporti istituzionali tra Fedeli e Gerarchia o all’interno della struttura della stessa Gerarchia ecclesiastica, legittimità accolta ed osservata fino al punto di essere anche ‘richiesta’ e ‘sanzionata’ da un’apposita ‘funzione autoritativa’ (potestas): Diritto vero e proprio .

Questa delineazione del dominio proprio della Canonistica, se da un lato si apre alla inevitabile evoluzione (non necessariamente migliorativa) del concetto di giuridicità (dal Nuovo Testamento, alle ‘Tradizioni apostoliche’, al Corpus Iuris canonici, agli attuali Codici), dall’altro contribuisce anche a fissarne in modo inequivocabile i limiti concettuali invalicabili, imponendo l’imprescindibile differenziazione e separazione rispetto ai domini dell’Etica, della Morale e delle altre forme di normatività (interna ed esterna, personale e sociale) che comunque caratterizzano qualsiasi forma di umana convivenza… tanto più se ‘volontaria’ ed ‘ideologica’. A maggior ragione tale differenziazione si pone nei confronti del c.d dogmatico dottrinale (Tradizione, Magistero, Teologia, ecc.).


E’ precisamente su questo ‘binario’ (linguaggio e dominio) che s’inserisce l’apporto tutto specifico della Filosofia alla Canonistica fornendo strumenti adeguati di concettualizzazione e formalizzazione, ma anche guidando in modo ‘retto’ la ragione perché non scivoli nelle secche del formalismo, dell’idealismo, del volontarismo… mantenendo, invece, un sano livello di vigile criticità per non ‘avvitarsi’ inutilmente su se stessa in uno sforzo tanto estenuante quanto inutile ed inefficace.


8.2 Postulati minimi di scientificità

Formalizzazione del linguaggio e delineazione/rispetto del dominio proprio, per quanto sembrino nozioni chiare da un punto di vista teorico, sono tuttavia due ‘risultati’ più che due punti di partenza, due ‘tappe’ strumentali al di sotto delle quali non si dà Scienza, ma che costituiscono esse pure conquiste da ottenere a caro prezzo.

Alla base, infatti, di questi due elementi essenziali per la delineazione dello statuto epistemologico di una Scienza/Disciplina scientifica stanno alcuni altri elementi ‘previ’ quali: l’idea di procedimento scientifico ed i postulati minimi di scientificità che il tormentato secolo XX pare averci consegnato in modo abbastanza definitivo.


8.2.1 Il procedimento scientifico

L’idea di procedimento scientifico è senza dubbio una delle maggiori acquisizioni della Scienza moderna in ambito metodologico, per quanto l’esperienza abbia ben mostrato il serio pericolo di lasciarsi irretire dal presupposto che la Scienza vera sia solo quella di origine ‘naturalistica’ a prevalente formalizzazione matematica; occorre pertanto aver ben chiaro che

«quando parliamo di procedimento scientifico non ci riferiamo a ciò che distingue una Scienza dall’altra ma a ciò per cui tutte sono Scienze, nonostante le diversità degli oggetti considerati. Nello sviluppo di ogni Scienza particolare c’è un procedimento che è essenzialmente identico a tutte e che, perciò, si può chiamare procedimento scientifico.

Lo scienziato, in primo luogo, parte sempre dall’osservazione empirica.

In secondo luogo, la tensione della ricerca e dell’indagine culmina in un atto d’intelligenza. Questo momento dell’intelligenza è centrale in tutto il procedimento scientifico: ogni volta che si chiede il “perché” di qualche cosa si cerca una ragione, un motivo che spieghi un certo fenomeno. Cogliere tale ragione o motivo è capire, avere un atto di intelligenza.

In terzo luogo, una volta capito e perché ha capito, lo scienziato elabora ciò che ha capito e lo formula in una ipotesi.

In quarto luogo, c’è la verifica. Principio fondamentale del procedimento scientifico è di non accettare alcuna teoria o ipotesi che non sia verificata con opportuni esperimenti.

In quinto luogo, c’è la legge scientifica. Se l’ipotesi è verificata in un numero sufficiente di esperimenti, se tale teoria non è solo coerente con i dati del problema o gli aspetti del fenomeno, ma anche aiuta alla soluzione di altri problemi o apre la strada ad applicazioni tecniche, allora la teoria diventa legge scientifica.

Tali sono, dunque, le parti o i momenti del procedimento scientifico: l’osservazione, l’indagine che porta all’intelligenza, la formulazioni in ipotesi di ciò che si è capito, la verifica dell’ipotesi, e, se la verifica è positiva, la conversione dell’ipotesi in legge scientifica».


Appartiene intrinsecamente a questa struttura del procedimento scientifico la possibilità/necessità di procedere –anche se non comunque ed in modo assoluto– per ‘modelli’ (come sono in sommo grado le Leggi e le Teorie scientifiche) in modo tale che la Scienza canonistica non si riduca alla sola conoscenza di ‘particolari’ (i singoli Canoni o loro aggregati o le c.d. materie) ma sappia prospettare all’interno di un unico sistema –l’Ordinamento, appunto– la radice, la logica ed il fine che permettano –sinteticamente– di cogliere il ‘tutto’ di questo grande organismo istituzionale, conferendo significato e valore alle singole norme esistenti ed offrendo a chi ha il compito del governo le linee prospettiche per far fronte anche a quanto non espressamente previsto.


8.2.2 Postulati minimi di scientificità

Tra i fattori che contribuiscono efficacemente alla formalizzazione del linguaggio ed alla configurazione e rispetto del dominio proprio di ciascuna Scienza/Disciplina scientifica è necessario porre in evidenza i c.d. postulati minimi di scientificità il cui compito è quello di garantire a priori, in modo quasi strutturale, la possibilità –prim’ancora che la correttezza– dell’elaborazione scientifica e dei suoi risultati.

La questione, che si pose in modo tutto particolare all’interno della Teologia (protestante) dagli anni ’30 del Novecento, merita certamente attenzione anche all’interno della Canonistica odierna a causa di una certa attitudine emulativa che per lunghi decenni nel secolo scorso l’ha fatta accostare alla Teologia in modo non sempre sufficientemente avveduto, generando una grande mole di pubblicazioni e riflessioni dottrinali e teoretiche che ancora oggi ‘tengono la piazza’ nonostante la loro attendibilità logica non appaia sempre nella sua perspicuità. Fulcro indimostrato ma altrettanto indiscusso di buona parte della Canonistica del secolo scorso fu infatti la convinzione che la Scienza che studia il giuridico ecclesiale debba essere Scienza teologica, con tutte le inevitabili conseguenze metodologiche del caso.

Ciò che portò i teologi –soprattutto di area germanica– ad interessarsi di questo genere di tematiche, di per sé estranee alla Teologia (tradizionale e cattolica), fu la necessità per le menti più rigorose sotto il profilo scientifico di reagire alle derive irrazionaliste che andavano progressivamente affermandosi all’interno dell’impostazione c.d. dialettica della Teologia di cui H. Diem e K. Barth furono due tra i maggiori esponenti:

«Diem si pronuncia [perciò] contro il “presupposto che la Teologia abbia in comune con le altre Scienze lo stesso concetto della veritas, sì che risulti possibile […] stabilire un rapporto con la Scienza dell’uomo naturale”. […]

La Teologia non sarebbe fedele alla sua realtà, ove “impiegasse un concetto di Scienza comune anche alla Filosofia”. Ciò non ostante, Diem dà valore al fatto che la Teologia è una Scienza. Deve essere, però, una Scienza “ecclesiastica”, come dice il titolo della sua opera. In perfetta consonanza con Karl Barth, Diem afferma che la Teologia è una funzione della Chiesa. La Teologia potrebbe situarsi in un “universo delle Scienze” solo “se tutta la Scienza venisse trattata a partire dalla fede nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo”. Ma siccome non è così, la Teologia è costretta a considerarsi una “Scienza speciale”».


Fu proprio all’interno di quel contesto che H. Scholz giunse ad esprimere le “tre richieste minimali indiscusse”: postulato di proposizione, postulato di coerenza, postulato di controllabilità, quali criteri irrinunciabili di scientificità cui neppure la Teologia poteva sottrarsi se ambiva a non restare esclusa dal dominio della scientificità ‘moderna’ come, invece, K. Barth stava attuando (con successo!). La questione fu rilanciata –non invano– da W. Pannenberg all’inizio degli anni ’70 nel suo “Epistemologia e Teologia” da cui vale la pena attingere, vista la ‘prossimità’ del contesto in oggetto.


- Il postulato di proposizione riguarda la possibilità/necessità di esigere che le proposizioni (teologiche, nel suo caso ma anche canonistiche, nel nostro) abbiano

«un carattere cognitivo, quindi il carattere di asserzioni, il cui tratto specifico consiste nell’affermare qualcosa su un fatto e nel proclamare a un tempo la verità, cioè l’adeguazione al fatto che costituisce l’oggetto dell’asserzione».


E’ quanto si deve pretendere anche dalla Canonistica affinché le sue affermazioni abbiano un reale contenuto gnoseologico, affermino cioè ‘qualche caratteristica’ sostanziale di ‘qualcosa’ che effettivamente esista, senza disperdersi in vuote ed inutili verbosità, purtroppo non aliene a certi ambienti ecclesiastici.

La prima conseguenza del postulato di proposizione è, allora, che tutte le affermazioni poste devono contenere un significato ‘vero’, devono cioè porre affermazioni il cui contenuto sostanziale sia conosciuto (conoscibile) nella sua verità. L’estrema urgenza d’applicazione di questo criterio minimale emerge irrinunciabile per la Canonistica soprattutto in due direzioni specifiche: i contenuti teologici e quelli socio-storico-giuridici: affermazioni canonistiche contrarie alla retta dottrina teologica o ai fatti storici e/o sociali e giuridici conosciuti non sono ammissibili in quanto non conformi alla necessaria cognitività richiesta dal postulato.

Principio attuativo del postulato di proposizione è la necessità di ricondurre ogni proposizione sintattica (ciò che si dice attraverso il linguaggio comune e dottrinale) a proposizione predicativa attraverso la quale si predichi qualcosa di un soggetto/entità: si tratta, concretamente, di ridurre il ‘discorso’ a semplici proposizioni ‘copulative’ (soggetto, copula, predicato verbale) tali che il ‘predicato’ o ‘attributo’ sia logicamente connesso al soggetto attraverso un’affermazione di portata veritativa: “è”.

Ciò non significa, evidentemente, un’indebita riduzione/menomazione della ‘linguistica’ come tale, quanto piuttosto la necessaria verifica critica dei contenuti gnoseologici veicolati attraverso di essa, affinché il linguaggio non scada in semplice verbalismo.


- Il postulato di coerenza impone la finalità sostanziale di mantenere le asserzioni –già dotate di proprio valore cognitivo– all’interno di un campo unitario di ‘oggetti’: il rispetto, cioè, del dominio proprio, definito dall’insieme degli ‘oggetti’ reali e loro referenti linguistici che legittimamente appartengono o fanno capo a tale ‘estensione’.

La conseguenza più evidente imposta da questo postulato non è tanto l’impossibilità per il canonista di utilizzare o anche trattare ‘tematiche’ pre-giuridiche o meta-giuridiche (filosofiche, sociologiche, teologiche, storiche, filologiche, morali, ecc.), quanto la necessità di segnalare sempre con chiarezza l’uscita dal campo proprio di ‘estensione’ del contesto giuridico-ecclesiale per addentrarsi in altri ambiti disciplinari e scientifici che imporranno –necessariamente– un adeguamento metodologico alle caratteristiche specifiche delle Scienze/Discipline così adite, oltre –ovviamente– alla puntuale e continua verifica della verità delle proprie affermazioni rispetto al nuovo dominio disciplinare di riferimento, il cui ‘controllo’ non è di competenza del canonista ma del –nuovo– dominio stesso.

La ‘teologizzazione’ del Diritto canonico operata da molti ed insigni canonisti del secolo scorso è un chiaro esempio delle conseguenze cui si giunge non rispettando il postulato di coerenza; non tocca infatti al canonista ‘fare Teologia’, né tanto meno farla a proprio uso e consumo: l’accesso ai ‘dati’ esterni al proprio legittimo dominio disciplinare deve avvenire con estrema cautela e secondo lo ‘stato dell’arte’ –contenutistico ed epistemologico– della Scienza/Disciplina in questione.


- Il postulato di controllabilità non è altro che la riproposizione del fondamento stesso della c.d. Scienza moderna quale attività prettamente ‘empirico/sperimentale’ in quanto basata sulla possibilità di ‘ripetere’ –più o meno– indefinitamente ed in condizioni ‘controllate’ l’esame dell’oggetto specifico d’indagine; possibilità assolutamente ordinaria anche in ambito umanistico/antropologico dove si sappia basare la ricerca sull’esame di fonti documentali di varia origine: letterarie, artistiche, storiografiche, linguistiche, antropologiche, sociologiche, culturali, ecc.

Ne deve derivare una metodica di ricerca canonistica primariamente ‘induttiva’, deliberatamente incapace di procedere utilizzando prevalentemente deduzioni formali, senza tenere in adeguato conto i ‘fatti’ della storia e le ‘norme’ concretamente stabilite e/o vigenti nelle diverse circostanze. Auctoritates e convinzioni personali –quando non anche ideologia– devono lasciare il posto al confronto esplicito e serrato coi ‘dati’ che rimangono –per quanto in modo critico– la base irrinunciabile di confronto prim’ancora che di argomentazione: leggere il ‘dato’ è la prima attitudine del ricercatore moderno.

Appartiene a questa fase del lavoro scientifico anche la –successiva– ‘proiezione’ al livello teoretico generale di quanto emerso dall’analisi delle fonti: è il superamento della semplice Tassonomia descrittiva antica verso una modellizzazione della conoscenza che permetta di estenderne i fondamenti ma soprattutto le implicazioni, permettendo così –in linea di principio– di riaccedere ai ‘dati’ originari quali semplici ‘casi concreti’ (previsioni) della regola più generale che dovrà manifestarsi ‘verificata’ anche a posteriori attraverso i ‘dati’ stessi da cui era iniziato il percorso scientifico. Solo in questo modo la conoscenza può effettivamente crescere senza accontentarsi della semplice esplicitazione di elementi già contenuti nelle premesse (più o meno note); in questo modo, inoltre, le conoscenze acquisite produrranno nuove conseguenze e nuove prospettive sulle quali la stessa conoscenza potrà continuare il proprio sviluppo (ricorsività del Metodo).

Quanto W. Pannenberg propone a questo proposito per la Teologia vale tranquillamente anche per la Canonistica, almeno al suo livello più profondo:

«anche il metodo popperiano del “controllo critico” si fonda sull’esame d’una teoria in base alle conseguenze che se ne possono trarre. La stessa cosa vale anche per le asserzioni teologiche: le asserzioni sulla realtà divina e sull’opera di Dio si possono controllare sulla base delle loro implicazioni per la comprensione della realtà finita, giacché l’oggetto delle asserzioni è Dio come realtà che determina ogni cosa. […]

Come le altre proposizioni scientifiche, anche le asserzioni teologiche sono situate nel quadro d’un contesto teorico e possono essere controllate solo riguardo alla loro funzione nel contesto dei progetti teoretici. Per la Teologia ne risulta l’esigenza etico-scientifica dell’elaborazione esplicita e sistematica di modelli teorici. Questi e le asserzioni che ad essi si riferiscono presentano la forma di ipotesi. –Di fatto però– la forma dell’ipotesi appartiene già alla struttura logica dell’asserzione, in quanto questa si distingue dal fatto al quale si riferisce, e ciò proprio per la sua pretesa di corrispondere al fatto».


Solo, quindi, rispettando la conoscenza nelle sue esigenze più basilari, la Canonistica potrà presentarsi nell’attuale contesto scientifico non più come una Retorica strumentale ad usum delphini –il potere della Gerarchia ecclesiastica– ma quale autentica Scienza del vivere comunitario della Chiesa nella sincera ricerca della maggior fedeltà possibile al mandato evangelico dal quale e per il quale Cristo l’ha istituita.



in: APOLLINARIS, (2006), p. 11-48.