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Categorialità e trascendentalità del Diritto: le ragioni di un approfondimento


1. Presentazione

La tematica sulla quale intendiamo soffermarci coi lavori di questa “Giornata Canonistica Interdisciplinare” potrà apparire a qualcuno un po’ pretestuosa: qualcosa di totalmente teoretico che ben difficilmente potrà sperare qualche seguito tanto nell’attività di studio dei singoli ricercatori che, tanto più, nell’insegnamento: una concessione al vezzo del voler apparire… oppure, una butade che susciti l’autocompiaciuta consapevolezza di aver saputo fare anche questo… oppure ancora, una fiammata di orgoglio canonistico che tenti di mitigare le asprezze dell’esilio epistemologico che da parecchi decenni tiene la Canonistica ai margini del ‘sapere’ ecclesiastico ed ecclesiale in genere.

Le cose, tuttavia, non stanno affatto in questo modo poiché ormai da tempo lo studio del Diritto canonico ha smesso –o avrebbe dovuto farlo– di fissarsi sul solo testo normativo ed ha cercato di sviluppare, non senza grandi fatiche e difficoltà, un approccio al giuridico ecclesiale che sia prima di tutto capace di procedere per ‘concetti’ in modo da non rimanere prigioniero della semplice tecnica giuridica più o meno sistematizzata… aspirazione assolutamente legittima e lodevole in sé, ma altrettanto velleitaria quando non sostenuta da sufficiente capacità critica, soprattutto nell’individuazione dei paradigmi concettuali di base.

E’ questo il motivo di una ‘convocazione comune’ con colleghi, soprattutto filosofi, che ci aiutino proprio ad individuare caratteristiche e peculiarità di paradigmi concettuali cui tante volte facciamo riferimento nel nostro lavoro canonistico forse senza troppa attenzione alle necessarie ‘premesse’ e ‘conseguenze’ dell’uso di questo o quell’altro termine, concetto o immagine, dimenticando –non senza responsabilità intellettuale– come il senso delle parole e delle affermazioni dipenda molto spesso dal loro contesto o “circolo ermeneutico”, come lo hanno chiamato M. Heidegger ed il suo discepolo H.G. Gadamer.

Proprio a questo livello dei “paradigmi concettuali di base” si pone la questione di oggi: il Diritto –anche canonico– è un trascendentale o un categoriale? Trova –cioè– la propria corretta collocazione ‘a monte’ (a priori) o ‘a valle’ (a posteriori) del vivere umano?


La domanda –anche se purtroppo non sorge spontanea alla maggior parte dei cultori del Diritto– ha una propria pregnanza ‘assoluta’ poiché sono molte ancora oggi le circostanze e situazioni in cui l’approccio al Diritto non solo canonico, soprattutto da parte dei canonisti, sembra non saper uscire dal ‘guado’ in cui rimane paralizzato tra le due sponde sostanziali della categorialità e della trascendentalità… anche se difficilmente tali estremi vengono individuati ed espressi dai diversi autori con questa chiarezza concettuale; l’immagine del ‘guado’ indica appunto questa non certezza di guadagnare l’una o l’altra riva.

La situazione diventa però piuttosto chiara nei fatti, quando si tratti di esplicitare le caratteristiche ‘fondative’ del Diritto stesso cui non è possibile sottrarsi al momento di addentrarsi nei livelli più profondi degli studi giuridico-canonici. In queste circostanze, infatti, si percepisce con chiarezza chi faccia riferimento ad una concezione del Diritto sostanzialmente ‘contingente’ (o ‘relativa’) all’interno di un orizzonte conclusivamente intra-storico (categorialità) e chi, invece, tenda in vari modi a ‘scivolar fuori’ dalla dimensione storica attribuendo al Diritto caratteristiche più o meno sbilanciate verso l’assoluto, in una prospettiva che non riesce a sfuggire ad un presupposto più o meno velato di ‘precedenza’ e preminenza del giuridico rispetto alla storicità (trascendentalità).

La questione si complica ulteriormente se a questo livello assolutamente sostanziale del problema –che appunto intendiamo sondare con la nostra riflessione odierna– si affianchi anche quello terminologico, nel perdurare della difficoltà ormai ultrasecolare a separare adeguatamente –almeno in ambito ecclesiastico– la ‘normatività giuridica’ da altre forme di normatività –anche maggiormente cogenti e vincolanti– quali quella morale, quella etica o quella dogmatica o, anche, liturgica.


Si può, anzi, imputare proprio al livello terminologico il troppo facile ricorso –quasi ‘culturale’ per gli Occidentali– all’uso del concetto di ‘Diritto’ per indicare semplicemente la ‘doverosità’ e ‘vincolatività’ di un comportamento da tenere, come se ‘Diritto’ e ‘Legge’ fossero le uniche concettualizzazioni (e terminologie) capaci d’imporre all’uomo (ed esigere) un adeguamento comportamentale cogente; le riflessioni ormai storiche di J. Maritain e quelle più recenti di G. Tanzella Nitti in merito al significato/utilizzo del termine ‘Legge’ sono assolutamente chiare in questa direzione.

Secondo il grande filosofo e giurista francese infatti:

«per quanto riguarda la Legge naturale, notiamo che il termine stesso di “Legge” implica un pericolo di malinteso, poiché la più ovvia ed immediata nozione di Legge che noi abbiamo è quella della Legge scritta, cioè della Legge positiva; di conseguenza corriamo il rischio di concepire la Legge naturale ed ogni specie di Legge secondo il modello di Legge più conosciuto da noi, cioè la Legge scritta, e di dimenticare il carattere analogico della nozione di Legge. Questo carattere analogico mi sembra evidenziato dalla nozione stessa di Legge eterna. Dio non è un legislatore come gli altri, come un parlamentare o come un presidente della repubblica. La comunità che Egli guida è l’universo della creazione. La Legge eterna non è scritta sulla carta, ma è promulgata nell’intelligenza divina ed in se stessa è conosciuta unicamente da Dio e da coloro che vedono Dio nella sua essenza. […] questa Legge eterna è così infinitamente distinta dalla Legge scritta umana quanto l’essenza divina dall’essere creato. […]

Poiché la nostra idea più immediata di Legge è quella della Legge positiva (Legge scritta), si è estesa la nozione di Legge positiva alla natura; allo stesso modo si è estesa la nozione di Diritto positivo alle altre sfere del Diritto».

«[In questo modo] il primo analogato, sia in sé che per noi, della nozione di Diritto è il Diritto positivo. Il secondo analogato, in cui vi è già qualcosa di manchevole, di deficiente quanto alla pienezza di significato, è il Diritto comune dell’umanità civilizzata, cioè il Diritto delle genti. Il terzo analogato, ancor più manchevole, che è a stento Diritto e che comporta un significato giuridico virtuale, è il Diritto naturale».


Non di meno ci aiuta nella comprensione l’astronomo e teologo fondamentale:

«il concetto di Legge è in realtà un concetto fortemente analogico. Sorge in ambito giuridico-sociale e si estende successivamente alla razionalità scientifica, dapprima con le nozioni di regola armonica e proporzione numerica (Pitagora), poi, a partire dal metodo sperimentale, come espressione matematica dei fenomeni fisici (Galileo, Newton, Leibniz). Viene principalmente impiegato nelle Scienze naturali, a motivo del loro formalismo matematico, ma compare anche in alcune Scienze umane (Economia, Sociologia, ecc.) sebbene con un diverso apparato epistemologico. La nozione di Legge contiene l’idea di “ordine”, di un “dettato” (latino lex, dal greco léghein, udire), e non è lontana dall’idea di vincolo, legame (latino ligare). Così come il suo sinonimo “norma” (greco nómos), la Legge indica una prescrizione positiva che ha come fine “regolare”, cioè ordinare con una misura, il comportamento dei membri di una comunità. Ne risulta subito implicato il riferimento ad una autorità responsabile della Legge, cioè dell’ordine o del fine che con essa si intende instaurare o raggiungere. Proprio a motivo di tale rimando ad un’autorità, le religioni hanno posto il fondamento dell’idea di Legge, in modo naturale e quasi per istinto, nella nozione di Dio. Il diffuso e costante utilizzo della nozione di Legge nelle Scienze fa pensare debba esisterne una motivazione gnoseologica di fondo. La ragione è che la “regolarità” o la “stabilità” riscontrata in molti fenomeni della natura ha costituito fin dall’inizio il principio base dell’organizzazione e del progresso della conoscenza scientifica. Storicamente, ciò prese avvio sia dallo spontaneo e crescente utilizzo della Tassonomia, ovvero l’osservazione e la catalogazione di forme ricorrenti che avrà in Aristotele il suo primo studioso, sia, soprattutto, dalla istintiva e poi sistematica osservazione del cielo. Il regolare sorgere e tramontare del sole, della luna e delle stelle, o il moto periodico dei pianeti e delle comete rappresentavano un grandioso esempio di comportamento “legale”».


Il vero problema, dunque, con cui è necessario confrontarci è prima di tutto quello ‘terminologico’ (da non confondere semplicisticamente con quello linguistico-idiomatico) che, in una prospettiva di ‘essenzialismo metodologico’ è immediatamente un problema ‘concettuale’: che cosa è in effetti ciò di cui si parla?

In altri termini: che cosa concretamente comporta l’utilizzo di un termine/concetto al posto di un altro?

Se, cioè, e quando –nel nostro caso specifico– si utilizza il termine “Diritto”, a che cosa s’intende effettivamente far riferimento?

Una questione di questo tipo è prima di tutto –ed essenzialmente– ‘logica’, senza dover necessariamente ‘scomodare’ livelli più profondi ed impegnativi del sapere umano: non si tratta, cioè, di cercare e trovare chissà quale ‘principio primo’ –casomai di portata metafisica– cui legare l’esistenza stessa del Diritto, ma di una non-semplice explicatio terminorum che permetta di –o costringa a–esplicitare i reali contenuti concettuali delle espressioni utilizzate, in modo da evidenziare l’effettiva struttura e coerenza dell’argomentare.


E’ partendo da questa consapevolezza oggi assolutamente irrinunciabile per un autentico lavoro scientifico che occorre affrontare le questioni nell’ottica comunemente detta ‘metodologica’: preoccupandosi, cioè, prima di tutto della ‘struttura’ del ragionamento e, più radicalmente ancora, dei sui presupposti non esplicitati ma non per questo assenti: linguaggio (formale) e dominio di riferimento rimangono le coordinate essenziali per comprendere e valutare qualunque affermazione che aspiri –oggi– alla ‘scientificità’.

E’ in quest’ottica che si presenta assolutamente necessaria, e primaria, la ‘verifica’ a livello concettuale dell’essenza e portata dei concetti di riferimento per la dottrina canonistica; nel caso odierno il concetto di ‘trascendentale’ e quello di ‘categoriale’ che caratterizzano, più o meno esplicitamente, le diverse concezioni di Diritto cui gli autori possano riferirsi.


2. Il tema della presente indagine

2.1 Quadro generale

La domanda sulla trascendentalità o categorialità del Diritto non è altro che una formalizzazione più ‘elegante’, ma soprattutto appropriata in termini logico-concettuali, di una questione plurisecolare mai definitivamente risolta sino ad oggi in ambito canonistico: da dove viene il Diritto? Quale ne è la radice ontologica? Quale –in definitiva– la sua collocazione tra uomo e Dio?


Sotto un profilo generale –ed un po’ generico– sembra che il problema abbia ormai soltanto una specifica caratterizzazione poco più che canonistica poiché lo sviluppo delle Scienze e Discipline giuridiche c.d. civilistiche (ed internazionalistiche) pare non lasciar più dubbi in merito, trovando nella Sociologia, nella Storia, nella Teoria generale del Diritto, nell’Economia politica abbondanza di elementi per risolvere il problema teoretico in termini di assoluta intra-storicità: il Diritto (civile/statuale/internazionale) è puro prodotto umano.

La questione rimane invece aperta in alcuni ambiti/ambienti della Filosofia del Diritto e più generalmente nella Canonistica, laddove concetti quali ‘Diritto naturale’ e ‘Diritto divino’ continuano a tener aperta la domanda alla quale, tuttavia, si continua a faticare nel dare una risposta effettivamente in grado di convincere tutti salvando i contenuti sostanziali delle ‘formule tecniche’ ormai classiche, ma rispettando al contempo la verità dei concetti utilizzati per esprimerli.


Lungi dal pretendere di rispondere oggi in modo definitivo ad un interrogativo di questa radicalità e portata, riteniamo tuttavia utile e possibile raggiungere una nuova tappa di questo tormentato cammino… spostando un po’ più in avanti il ‘fronte’ del problema, col porre in evidenza un approccio che, se abbastanza tranquillo per i filosofi del Diritto, non lo pare affatto per la maggior parte dei canonisti, soprattutto ecclesiastici.

Il lavoro metodologicamente avveduto che ci apprestiamo a compiere oggi aspira concretamente a ‘fissare’ una sorta di ‘punto di non ritorno’ per la Canonistica affinché indirizzi le proprie energie di ricerca e studio verso direzioni più efficaci del ‘fondazionalismo’ che ne ha caratterizzato una gran parte nella seconda metà del secolo scorso.

Con alle spalle due codificazioni canoniche (tanto latine che orientali) ed un Concilio ecumenico ancora in gran parte da recepire nella sua operatività, appare certamente più necessario per l’attuale Canonistica concentrarsi sul proprio futuro per offrire al governo della Chiesa strumenti istituzionali di sufficiente efficacia pastorale, che non rituffarsi in ‘apnea’ verso fondali cui ormai non è più ancorato praticamente nulla della presente necessità pastorale “in un mondo che cambia” così rapidamente.


Per conseguire il delicato fine che ci siamo proposti è necessario fissare prima di tutto l’oggetto materiale della ricerca ed il suo specifico punto di osservazione: 1°) la consistenza e la portata concettuale del ‘giuridico’, 2°) dal punto di vista della concettualizzazione logica.

Prima d’intraprendere questo cammino verso il chiarimento che s’intende operare è però necessario esplicitare una doverosa ‘riserva terminologica’ previa verso il termine “Diritto”. Nelle successive articolazioni di questo intervento tutte le volte che sarà possibile si utilizzerà la formula testuale più univoca “il giuridico” invece de “il Diritto”, in modo che risalti con evidenza l’ambito assolutamente specifico e circostanziato cui il discorso intende riferirsi (resteranno invariate le dizioni inequivocabili quali “Diritto canonico/civile”); l’eventuale ambiguità terminologica riscontrabile nelle citazioni dei diversi autori cui sarà fatto riferimento non farà che confermare la gravità della situazione terminologico-concettuale sin qui delineata. Tale attenzione si presenta assolutamente necessaria per limitare il tentativo di sottrarsi alla portata radicale di queste riflessioni col disquisire, ancora una volta, sulla differenza tra Legge e Diritto, mentre il vero problema che deve impegnare la nostra riflessione riguarda la giuridicità come tale: è questa che dev’essere verificata nella sua reale consistenza ontologico-metafisica. La stessa ‘riserva terminologica’ dev’essere applicata –sub contraria specie– all’uso del termine ‘Diritto’ da parte degli altri Relatori, soprattutto se non-giuristi: per essi è infatti evidente la prevalenza della genericità del linguaggio rispetto alla sua stringenza tecnica.


2.2 Il tema vero e proprio

La questione sulla categorialità o trascendentalità del giuridico si pone con una pregiudizialità primaria e decisiva rispetto a qualunque successiva concettualizzazione del Diritto, soprattutto canonico: a differenza, infatti, di quanto delineatosi dalla metà del secolo scorso nella sostanziale contrapposizione teoretica tra Scuola di Monaco e Scuola di Navarra, non sarà né una prospettiva maggiormente ‘teologica’, né una maggiormente ‘razionale’ (o ‘tecnica’) a decidere –da sé soltanto– la configurazione di questo che si presenta allo stesso tempo come: a) il primo vero e proprio ‘assioma’ della giuridicità, b) la prima autentica opzione metodologica della Canonistica.

Se infatti non ci sono dubbi significativi circa la connotazione trascendentale delle prospettive ‘teologiche’ della fondazione del giuridico, non basta però la sua sola ‘fondazione razionale’ per volgere questo primo ‘assioma’ a favore della categorialità. Proprio la discriminante categoriale/trascendentale, anzi, si pone come spartiacque decisivo per ‘qualificare’ in modo più preciso le impostazioni giuridiche ‘razionali’: quelle volontariste e realiste quali espressioni di sostanziale categorialità (seppure di valore ben diverso), quelle naturalistiche (e più precisamente gius-naturalistiche) come fortemente orientate alla trascendentalità.

Un altro elemento viene spesso invocato e posto come decisivo per qualificare il Diritto (anche) canonico: quello ‘antropologico’; ad esso infatti rimandano molti autori degli ultimi anni per sottrarsi alla morsa di un approccio troppo ‘razionale’, senza cogliere che in realtà la loro è solo un’operazione ‘mimetica’ che, proprio al pari dell’approccio razionale, non decide nulla da sé sola, in quanto i modi di ‘riferirsi’ all’uomo rimangono i più svariati e, comunque, conseguenti alla decisione previa circa il primo ‘assioma’ della giuridicità. Se, infatti, ciò che è ‘antropologico’ viene ricondotto al dominio delle Scienze e Discipline c.d. antropologiche (Etnologia, Antropologia culturale, Sociologia, Antropologia filosofica, Etica, Filosofia morale, ecc.) ci si colloca quasi certamente in una prospettiva categoriale che muove i propri passi dalla concreta ‘esperienza giuridica’ vissuta dagli uomini nei diversi tempi e spazi; al contrario, se la qualificazione dell’humanum rimanda in realtà ad un’Antropologia teologica (non importa ‘quale’) finirà per prevalere non il ‘vissuto umano’ reale, ma una ‘idea teologica’ di uomo, ricadendo in pieno nell’approccio teologico, orientato alla lettura trascendentale del giuridico.

Le ricadute di questa opzione pregiudiziale in termini di metodo canonistico sono piuttosto evidenti nella –più o meno consequenziale– scelta della ‘qualificazione’ della Scienza canonistica in prospettiva ‘teologica’ o ‘giuridica’, secondo l’indirizzo introdotto da K. Mörsdorf e ripreso da vari canonisti del secolo scorso per quanto, come appena espresso, la stessa riconduzione della ‘fondazione razionale’ ad un metodo ‘giuridico’ non sia auto-evidente né verificata.


2.3 Un punto ‘critico’

L’esame della valenza categoriale o trascendentale sottesa alle diverse concezioni del giuridico trova un proprio ‘controllo’ decisivo nel concreto livello di giuridizzazione/giuridicità dei concetti di ‘Diritto naturale’ e ‘Diritto divino’ cui spesso gli autori cedono, senza una sufficiente percezione del salto epistemologico che tale modo di agire in realtà nasconde. Senza poter qui approfondire questa tematica specifica ed amplissima, basti ricordare come il ‘dover essere’ etico (Diritto naturale) e dogmatico (Diritto divino) derivino in realtà tutta la loro forza dal ‘livello’ ontologico e non da quello giuridico: l’agire (agere) dell’uomo e del cristiano deve corrispondere a ciò che essi ‘sono’… cosa non altrettanto scontata nel suo concreto operare quotidiano (facere).

Di fatto l’attribuzione di maggiore o minore effettività e consistenza giuridica a queste due ‘forme’ di normatività (etica la prima –Diritto naturale–, dogmatica la seconda –Diritto divino–) è un buon parametro di riferimento: laddove, infatti, si tratti di vera normatività giuridica, per quanto variamente modulata ed espressa, non ci sono dubbi che la concezione del giuridico sia di stampo trascendentale (= a priori); dove, al contrario, la loro portata normativa ed obbligante continui a risultare non-giuridica (senza addentrarci nelle secche del dover/saper distinguere tra ‘meta-giuridicità’, ‘pre-giuridicità’, ecc.) la concezione del giuridico sarebbe di chiaro stampo categoriale (= a posteriori), innescando immediatamente la sua necessaria ‘dipendenza’ tanto dall’elemento etico che da quello dogmatico… altro tema al momento non affrontabile, per quanto inequivocabile sia a livello teologico che magisteriale.


Solo per dar corpo –seppure in modo del tutto esemplificativo– a queste riflessioni molto generali, permettendo di verificare sul campo gli estremi e la portata della questione intorno a cui si snoda questa giornata di studio e riflessione, si propone di seguito una sommaria rassegna di alcuni tra i principali canonisti di diversa formazione ed impostazione del secolo scorso, utilizzando come strumento principale –anche se non esclusivo– di riferimento la preziosa opera di C.M. Readelli “Il concetto di Diritto della Chiesa nella riflessione canonistica tra Concilio e Codice”.

Sotto il profilo metodologico giova sottolineare che le evidentissime estrapolazioni testuali dagli scritti dei diversi canonisti, pur con tutte la cautele del caso, rispondono perfettamente al c.d. principio di proposizione: si tratta cioè –anche se ‘fuori contesto’– di affermazioni ‘complete’ sotto il profilo logico, espressamente poste dagli autori all’interno del loro argomentare; l’estrapolazione rispetto al contesto originario non ne snatura il valore enunciativo sostanziale… a meno che non s’intenda uscire dal contesto scientifico (proposizionale), negando la rilevanza concettuale di quanto effettivamente affermato.


3. Impostazioni trascendentali

Come già sommariamente premesso le impostazioni sostanzialmente trascendentali possono venir ricondotte a tre filoni sostanziali:

a) teologico, b) teo-antropologico, c) razional-naturalistico.


3.1 Filone teologico

Si tratta sostanzialmente delle posizioni, seppur diversificate a parole, assunte dagli autori che si riferiscono al pensiero di K. Mörsdorf, secondo il quale –senza nessuna esitazione– sono gli elementi soprannaturali della Chiesa ad esigere il Diritto canonico e a comprendere anche la giuridicità naturale; questo perché il Diritto canonico è una realtà teologica che è data inseparabilmente con l’essenza della Chiesa basata sulla sua fondazione divina; il fatto poi che il Diritto canonico prenda parte, secondo l’autore, alla natura generale del Diritto non ridimensiona affatto la posizione assunta poiché “ogni Diritto, il secolare come il canonico, si fonda ultimamente in Dio”, peggiorando così le cose, poiché a questo punto è chiaro che non è tanto questione del fondamento divino della Chiesa, ma proprio del Diritto come tale.

In modo più radicale, poi: il Diritto canonico

«è Diritto sacro, non solo nel senso che è stabilito a servizio della realizzazione del Regno di Dio sulla terra e di conseguenza della salvezza del mondo, ma più profondamente perché è legato alla vita sacramentale della Chiesa e partecipa dell’essenza sacramentale della Chiesa».

Non si sfugge in questa prospettiva alla percezione che la giuridicità almeno, se non proprio lo stesso Diritto canonico, ‘pre-esista’ di fatto alla Chiesa stessa, ne costituisca addirittura l’a-priori (dunque il trascendentale) che dà forza ed efficacia tanto alla Parola che al Sacramento i quali però non si ‘sommano’ al Diritto formando una sorta di ‘triade’ fondativa originaria, ma essi stessi godono dei vantaggi che il Diritto conferisce loro, risultandogli di fatto soggetti, poiché “hanno carattere giuridico”; Parola e Sacramento infatti pur non essendo formalmente ‘Diritto’ nel senso usuale del termine (di norma oggettiva ed esigenza soggettiva) hanno alcune caratteristiche tipiche del fenomeno giuridico al punto che Parola e Sacramento finiscono per essere elementi costruttivi della struttura giuridica della Chiesa. La visione trascendentale del giuridico non è dubitabile.

- Rouco Varela (insieme a Corecco) radicalizza –se possibile– la posizione del ‘maestro’, contribuendo ad esplicitarne con maggior chiarezza lo ‘spirito’ (in realtà il presupposto) affermando che “il Diritto canonico può essere accolto solo nella fede”; tanto che la crisi post-conciliare del Diritto canonico sarebbe, secondo entrambi, una vera “crisi di fede”.

A.M. Rouco Varela poi si spinge ben oltre, giungendo a parlare espressamente di ‘Diritto soprannaturale’, fino a vedere nel Diritto canonico la sua “unica versione storico-categoriale disponibile”; esprimendo in modo inequivocabile il proprio punto di vista sull’assioma fondamentale della giuridicità!

«Supposto che il ‘giuridico’ nella Chiesa è parte essenzialmente integrante di essa, come l’organismo escatologico di Salvezza soprannaturale nello spazio e nel tempo, il Diritto canonico, come tale, dev’essere ‘soprannaturale’ e non solo in quanto materialmente e giuridicamente i suoi principi costituzionali ed istituzionali sono di Diritto divino positivo, ma pure e soprattutto, in quanto la sua struttura formale (almeno quella elaborata storicamente e umanamente) è divina-positiva-soprannaturale».

«Il problema dell’esistenza del “Ius canonicum” è un problema essenzialmente teologico: appartiene al contenuto centrale della Teologia, perché appartiene al contenuto essenziale della fede. Non può essere risolto al di fuori di questa. Sarebbe di conseguenza scorretto affrontarlo partendo con presupposti metodologici di ispirazione filosofica, sia di tipo giusnaturalistico, come ha fatto la scuola del “Ius publicum ecclesiasticum” sia di tipo filosofico sociale. Il “locus theologicus” del Diritto canonico è il mistero dell’Incarnazione che si ripropone nella storia attraverso il mistero della Chiesa. […] Il Diritto è una realtà teologico-soprannaturale, ma come tale è anche una realtà che deve incarnarsi nella storia, assumendo forme giuridiche anche umane».


- Di portata non minore in fatto di trascendentalità del giuridico è la posizione di E. Corecco secondo cui

«il Diritto canonico non si occupa della giustizia degli uomini, ma della giustizia di Dio, della giustizia rivelata che si manifesta, […] nella Communio cum Deo et hominibus»;

trascendentalità confermata –sub signo contrario– dall’affermazione secondo cui il Mistero stesso dell’Incarnazione non sarebbe sufficiente a giustificare la giuridicità della Chiesa; l’Incarnazione avrebbe infatti a che fare con la sola ‘visibilità’ della Chiesa e non ne comporterebbe la giuridicità. D’altra parte

«una definizione [del Diritto canonico] deve far perno attorno ad una categoria capace di cogliere sinteticamente la dimensione trascendente ed immanente della intimazione giuridica propria alla socialità specifica della Chiesa».

La concezione trascendentale del giuridico giunge poi fino al punto di sostenere espressamente che:

«Cristo, fondando la Chiesa, ha assunto la stessa struttura del mistero della storia della salvezza, nel quale l’elemento giuridico è già ontologicamente antecedente; bisogna cioè dimostrare che la dimensione giuridica è già presente negli elementi strutturali sui quali Cristo, in obbedienza alle modalità specifiche con le quali il Padre si è manifestato nella storia, ha fondato la Chiesa».


3.2 Filone teo-antropologico

Si tratta, nonostante una certa dissimulazione formale ed un’apprezzabile critica –in certi punti anche sostanziale– nei confronti della ‘scuola teologica’, della posizione di G. Ghirlanda secondo cui “l’attività giuridica è inerente all’uomo in quanto uomo, per il fatto che è un essere sociale”; anzi,

«perché il Diritto positivo sia un vero Diritto si deve basare sulla volontà di Dio sull’uomo e la comunità umana, iscritta nella stessa coscienza dell’uomo e manifestata nella Rivelazione».

«Dio, stabilendo la dignità dell’uomo, determina anche le strutture della convivenza umana, che altrimenti risulta impossibile. Qui si trova la radice di tutti i diritti fondamentali della persona umana e di tutti gli obblighi corrispondenti e della giuridicità dei rapporti intersoggettivi che si hanno nel convivere sociale».

La piena giuridizzazione del Diritto naturale va nella stessa direzione, confermando quanto già espresso al riguardo:

«la Legge naturale e il Diritto naturale esprimono, come realtà ontologiche, la dignità della persona umana nel determinarne i diritti e i doveri naturali. Sulla base dell’autocomprensione che l’uomo ha, il Diritto naturale viene storicizzato nel Diritto positivo di una società, il quale esprime così la volontà di Dio che l’uomo realizzi la di lui immagine, e in questo modo sia sempre più persona, nella massima attuazione possibile della sua associabilità».

Si deve quindi ammettere il valore salvifico anche del giuridico ecclesiale positivo umano, che può essere definito come “Diritto sacro” (“Ius sacrum”).

- I presupposti più profondi di questa impostazione si palesano nel pensiero di M. Visioli (canonista e teologo), in cui risalta la recezione ‘prospettica’ del pensiero di G. Ghirlanda, ma soprattutto cade definitivamente la reticenza verso la dimensione di trascendentalità del Diritto, che non riesce più a non essere proclamata:

«l’uomo in quanto pensato alla luce della Rivelazione porta in sé elementi fondamentali dell’esistenza della giuridicità. Ovvero: [che] l’uomo creato e redento in Cristo presenta una dimensione teologale che lo costituisce a pieno titolo in un contesto giuridico. […] La natura dell’uomo e la natura del Diritto si avvicinano notevolmente, fino al punto da comprendere quest’ultima come un’espressione necessaria della prima, una sua propaggine naturale, quasi una sorta di “trascendentale” che perfeziona l’uomo e lo compie sotto l’aspetto della libertà».


3.3 Filone razional-naturalistico

Scartando di principio le concezioni ‘naturalistiche’ più elementari ed ‘ingenue’ già definitivamente superate dalla Filosofia del XX sec. (e concretamente non adottate da nessuno in ambito canonistico), rimangono però del tutto aperte le posizioni moderatamente ‘giusnaturaliste’ cui la cattolicità ed il Magistero ecclesiale non hanno mai rinunciato a motivo della loro ineludibile fondazione ontologico-metafisica; è in questo frangente tuttavia che si ripropone il problema già indicato: il ‘dover essere’ ontologico-metafisico (Giusnaturalismo moderato) genera una normatività di tipo solo etico/dogmatico oppure anche di tipo giuridico?

Nella prima ipotesi (normatività etico-dogmatica) il giuridico rimarrebbe indubbiamente categoriale poiché fermamente distinto –per quanto non separato– dall’etico-dogmatico; nella seconda, invece, divenendo giuridica tale normatività assumerebbe caratteri tipicamente ontologico-metafisici che renderebbero il giuridico inevitabilmente trascendentale.

Sotto il profilo storico, pare che il contesto fortemente apologetico e la necessaria opposizione teologico-magisteriale tanto al ‘Gius-positivismo’ che al ‘Contrattualismo’ espressi dalla Modernità razionalista, abbiano ‘trattenuto’ la Canonistica tardo-scolastica (e neo-scolastica) costringendola di fatto a giuridizzare la normatività ontologico-metafisica, come ben dimostra la già accennata confusione tra Diritto canonico e Morale alimentatasi con la promulgazione del CIC 17.

Tali posizioni risultano comunque molto meno nette nella loro trascendentalità rispetto a quelle ‘teologiche’ e, forse, non si può andare molto oltre il semplice ‘sospetto’, poiché questo livello del discorso si percepisce spesso soltanto oltre le ‘quinte’ di una ‘scena’ che appare ben diversa, mettendo prevalentemente in luce problematiche ‘tecniche’ di ben altra portata e lasciando sostanzialmente impregiudicati presupposti ritenuti ormai ‘classici’ e definitivi che ai giuristi in quanto giuristi –come pretendevano d’essere ed agire questi autori– non creavano nessun genere di problema. L’approccio critico che si adotta nei loro confronti è quindi maggiormente indirizzato a farne emergere i ‘presupposti’ che non a evidenziarne le esplicite prese di posizione.

Lo ‘snodo’ che attira la nostra attenzione odierna nei confronti di questi autori è il loro riferimento non solo al Diritto divino ma anche –seppure in modo meno evidente ed esplicito– al Diritto naturale nella “interpretazione più classica dello stesso concetto, condivisa dai canonisti da diversi secoli”, secondo cui “il Diritto naturale è pienamente valido all’interno dell’Ordinamento giuridico della Chiesa”, respingendone l’interpretazione “dal punto di vista della sola Etica sociale, attribuita alla scuola giusnaturalista di tipo razionalista”.

- La posizione di J. Hervada fatica ad essere analizzata secondo i parametri indicati, anche se è comunque possibile ottenere indicazioni interessanti in merito alla nostra tematica. Per l’autore di Pamplona “il Diritto non è soltanto una semplice ordinazione delle azioni. E’, pure, struttura delle società e delle comunità, e può essere elemento costitutivo delle stesse” ponendo al centro non tanto le norme ma le relazioni giuridiche tra i diversi soggetti; questo però avviene poiché “Diritto divino e Diritto umano formano un unico sistema giuridico”. In questa prospettiva unitaria il ‘passaggio’ tra i due livelli (forse le due ‘forme’?) dell’unico sistema avviene per accrescimento della coscienza ecclesiale che, positivizzando il Diritto divino, lo rende vigente nel Popolo di Dio, integrandolo con disposizioni normative ‘umane’ date di volta in volta nelle diverse situazioni storiche. Poiché però la ‘positivizzazione’ del Diritto divino non è né una recezione autoritativa, né una trasformazione in Diritto, ma semplicemente “il suo passaggio alla vigenza storica”, diventa inevitabile ricondurre questa posizione ad una sostanziale trascendentalità visto che il Diritto divino è già Diritto (previamente), per quanto ancora ‘velato’, e quello canonico si manifesta come sua progressiva ‘presa di coscienza’ intra-storica …in una sorta di ‘caccia al tesoro’ rispetto al volere giuridico (fondativo) di Dio, pre-esistente o con-esistente rispetto alla Chiesa.

Tale posizione, conosciuta come “canonizzazione del Diritto divino”, ha assunto una portata teoretica di prim’ordine, finendo per essere spesso adottata sic et simpliciter quale ‘paradigma’ vero e proprio da altri autori della stessa Scuola, per i quali è pacifico affermare che il Diritto divino naturale e positivo “è in parte non conosciuto dagli uomini”.

Nella stessa linea quasi ‘ontologica’ si colloca anche l’approccio al Diritto naturale presentato come “Diritto precedente e preesistente, un vero e proprio Diritto” che preesiste tanto al Diritto positivo che alla stessa Giustizia; affermazione possibile a partire dal principio –assiomatico– che

«il fondamento del Diritto –di qualunque Diritto– e, quindi, anche della Giustizia, poggia sul fatto che l’uomo è persona. […] Una persona è un essere che è così intensamente essere –è essere in modo tale– da dominare il proprio essere. Per questo la persona è sui Iuris, padrona del proprio essere».

- Il forte riferimento alla ‘Giustizia’ che caratterizza la dottrina di P.J. Viladrich spinge a ricondurre anche lui ad un sostanziale orientamento trascendentale della giuridicità; se infatti il Diritto può essere definito come “struttura ordinatrice della vita sociale degli uomini, fondata sulle esigenze di Giustizia inerenti alla natura della realtà societaria umana”, è chiaramente assegnato alla Giustizia un primato ontologico, pur variamente specificato per le diverse tipologie societarie di attuazione.

Il riferimento alla Giustizia è decisivo anche per il Diritto della Chiesa:

«l’incorporazione alla Chiesa, i vincoli di solidarietà e di corresponsabilità, il possesso di beni spirituali comuni, la posizione gerarchica, gli stessi carismi ricevuti, non si basano unicamente su rapporti di carità, né presuppongono solamente doveri e responsabilità morali verso Dio. In modo essenziale si dispiegano pure in rapporti di solidarietà e di servizio, in posizioni e legami di intersoggettività, che si fondano su esigenze della condizione di battezzato verso gli altri Fedeli, e sulla natura e funzioni ministeriali della gerarchia. Pertanto, costituiscono dei rapporti intersoggettivi dotati di un essenziale aspetto di Giustizia che, quando reclamano il loro riconoscimento, la loro tutela e la loro realizzazione nella vita ecclesiale, generano necessariamente un fenomeno giuridico».

Anche la posizione circa il Diritto divino si caratterizza secondo la stessa sensibilità, pur parendo ridimensionare in parte la posizione di Hervada: poiché non esiste Diritto se non riconducibile, nella fonte immediata e nella vigenza, ad un fattore storico, anche il Diritto divino nella misura in cui è giuridico costituisce un ordine essenzialmente storico, nonostante la sua ‘scoperta’ sia in costante evoluzione. Proprio però lo stacco tra ‘vigenza storica’ e ‘conoscenza’ del Diritto divino (che continua a funzionare secondo la logica della ‘scoperta’) ripropone l’istanza trascendentale senza risolvere di fatto il problema della storicità del Diritto divino, che, rimanendo comunque un quid iuridicum da ‘scoprire’, ‘conoscere’ e storicizzare, pare continuare a presupporre una ‘qualità’ non intra-storica (e pertanto, trascendentale).

- Ancora recentemente C. Errázuriz si pone con chiarezza la domanda circa “il fondamentale problema sull’esistenza o meno di un Diritto anteriore al sistema giuridico, che preceda le norme e procedure umane” –che in fondo coincide col nostro argomento odierno!– offrendole una risposta che, sotto una celata forma ipotetica, non lascia però dubbi: il Diritto naturale ‘precede’ e ‘fondamenta’ quello umano.

Lo stesso Diritto canonico non sfugge a questa pre-concezione quando, con autorevole citazione, viene espressamente riconosciuto come “un ordine ragionevole e soprannaturale, secondo giustizia”. La concezione non-categoriale del Diritto che regola la vita della Comunità cristiana emerge indirettamente, ma con singolare efficacia teoretica, quando recependo le ‘precisazioni’ di chi lo vorrebbe limitare alla sola “Chiesa pellegrina” o alla “Chiesa visibile” ribadisce però la necessità di non dimenticare

«una verità fondamentale: non vi è che una sola Chiesa fondata da Cristo, e tutti i suoi vari aspetti non sono comprensibili se vengono staccati dall’insieme a modo di compartimenti stagni. Proprio per capire ciò che è specificamente giuridico nella Chiesa, è assolutamente indispensabile collocarlo nell’insieme misterico della Chiesa».


- La posizione di P. Lombardia rimane la più difficilmente collocabile a causa del suo scarso interessamento alle questioni fondative; il riferimento all’ordine giusto ed alla ‘Giustizia’ quali fondamenti della realtà giuridica anche canonica porterebbero, infatti, a pensare ad una posizione di tipo giusnaturalistico classico (quindi filo-trascendentale); il ‘filtro’ tuttavia della giuridicità attribuita al Diritto divino pare indirizzare nella direzione opposta. Per l’autore infatti bisogna escludere un’interpretazione del Diritto divino in senso strettamente normativista, come se lo Ius divinum “fosse una specie di codice di precetti stereotipati che potesse compilarsi mediante una condensazione di testi della Scrittura e di testimonianze della Tradizione, alla luce del Magistero”; tale espressione

«non può significare altro che quegli aspetti della volontà fondazionale di Cristo, del disegno divino per la Chiesa, che hanno conseguenze rapportabili con quello che nel linguaggio proprio della cultura degli uomini chiamiamo Diritto».

Nel fondatore della Scuola canonistica di Navarra la separazione formale tra i due livelli è comunque certa: la giuridicità è un fattore completamente umano esigito dalla natura comunitaria e sociale della Chiesa all’interno della cui vita comunitaria è inevitabile che scaturiscano tensioni che “postulano un principio di ordine sociale-comunitario”.


4. Impostazioni categoriali

Da quanto sin qui illustrato, seppur sommariamente, appare con evidenza come le posizioni indicate quali referenti di un’opzione più o meno espressamente trascendentale della giuridicità esprimano la grande maggioranza dei canonisti e delle scuole di pensiero del secolo scorso; non dovrebbe stupire, pertanto, l’esiguità del numero di autori che si sono, invece, più o meno apertamente schierati a favore della sua categorialità.


- Il primato va riconosciuto senza dubbi a T. Jiménez Urresti –Docente a Salamanca e co-fondatore della Sezione di Diritto canonico della Rivista Concilium– che nella costante differenziazione tra Teologia e Canonistica ha avuto il grande merito di esplicitare le fisionomie delle rispettive normatività: genericità ed assolutezza dell’imperativo teologico, specificità e relatività di quello giuridico. Chiave di volta della sua lucidissima riflessione è la distinzione metodologica ed epistemica –appartenuta già alla migliore Scolastica– tra ‘logica formale’ e ‘logica deontica’; è proprio questa differenza che permette –ed al tempo stesso richiede– che la ‘premessa minore’ del c.d. sillogismo deontico sia la concreta realtà in cui la norma assiologica dev’essere attualmente applicata. La norma giuridica non si colloca pertanto in diretta continuità con quella assiologica come sua semplice deduzione (sillogismo formale-modale) finendo per conservarne la ‘qualità ontologica’ (anche trascendentale). Dietro ad ogni norma giuridica stanno pertanto due livelli qualitativi assolutamente diversi: quello della norma assiologica o teologica (assoluta, generale ed a-storica) contenuto nella premessa maggiore e quello del suo necessario adempimento nella storia, contenuto nella premessa minore:

«nel proprio sillogismo, la norma da adempiere, già data, costituisce la premessa maggiore; la premessa minore la costituiscono fattori di altro ambito, della storia, […] che si conclude con il giudizio e la decisione concreti di quale azione porre nel compimento della norma. Per preparare questo giudizio e questa decisione sull’atto concreto da porre, è necessario, se la norma è sociale, farla entrare nell’ambito dell’orizzonte storico o periodo storico in cui la si deve attuare, cosa che si compie attraverso la cosidetta determinazione (termine usato normalmente da S. Tommaso d’Aquino), concretizzazione, specificazione, e più frequentemente storicizzazione, in un ordinamento si dirà ordinamentazione, e in Diritto positivazione della norma originaria».

In questo modo la consapevole distinzione di ‘qualità’ dei diversi tipi di norme permette di non cortocircuitare ciò che è di portata trascendentale con ciò che rimane comunque solo categoriale: il giuridico. Quest’impostazione permette anche la non regressione della terminologia giuridica al livello trascendentale (Diritto divino, ecc.).

- Anche il Gesuita spagnolo O. Robleda, grande romanista (docente prima in Gregoriana e poi in Lateranense), pare riconoscere o presupporre una concezione ‘categoriale’ del Diritto canonico poiché esso fluisce dalla potestà visibile della Chiesa; tale Diritto allora “non è divino ma umano”:

«la Chiesa ha un proprio foro esterno, pubblico, per mezzo del quale allo stesso modo che la società civile, si occupa di relazionare i sudditi tra loro (relazione giuridica) in modo tale che essi di conseguenza possano convenientemente relazionarsi con Dio (relazione puramente etica) […] Il fine etico o salvezza delle anime non pone il Diritto della Chiesa per quanto concerne la teoria dei modelli giuridici in un terreno tecnicamente diverso da quello civile; poiché il fine etico è fine immediato della potestà di insegnare, santificare, sacrificare, mentre è fine solo mediato della potestà giurisdizionale (legislativa, giudiziale, punitiva)».

- Altro autore che si rifà ad una concezione categoriale della giuridicità (canonica), seppure in modo non compiutamente organico, pare essere lo storico del Diritto canonico –ora Cardinale– P. Erdö il quale, dentro ad una realistica concezione istituzionalista del Diritto canonico sostiene che la funzione sacramentale della Chiesa non può condurre in nessun modo alla divinizzazione ideologica né di se stessa, né della propria organizzazione, né del proprio Diritto, poiché la Chiesa partecipa al triplice compito di Cristo in modo umano. Ciò rende insufficiente “guardare alla realtà di grazia attiva nella Chiesa senza prendere in considerazione anche il peccato e le sue conseguenze nella Chiesa, che ne influenzano l’attività”; è questo aspetto di ‘concretezza’ e sano realismo che porta a vedere nelle sue Leggi positive

«soprattutto norme di comportamento esterno, in una forma sanzionata istituzionalmente. Le sanzioni sono necessarie, proprio perché neanche la Chiesa è esente dall’effetto del peccato umano, sia degli estranei ad essa, sia dei suoi membri. La Chiesa ha il dovere e l’obbligo di difendere e svolgere il proprio ministero sacramentale e configurare la propria identità in modo adeguato alla realtà della società ecclesiale. Tutto questo naturalmente comporta che nella costruzione e gestione del sistema di norme di comportamento sociale sanzionate istituzionalmente può essere legittimo -e diventare anzi necessario- anche all’interno della Chiesa, l’applicazione delle categorie della Teoria del Diritto e della Scienza giuridica secolari. Possiamo essere testimoni di tali fenomeni sin dai primissimi tempi cristiani. La differenza al massimo consisteva nell’ambiente culturale da cui la Chiesa aveva tratto le teorie del Diritto e le categorie per la definizione e la gestione del proprio ordinamento».


5. Status quæstionis

Il discorso sin qui articolato mostra con sufficiente chiarezza –nonostante la necessaria sommarietà dell’excursus presentato– la difficoltà, non tanto tecnico-giuridica ma ‘logico-teoretica’, a collocare il Diritto/giuridico (secolare, ma più ancora canonico) entro i confini dell’esperienza umana; a vederlo come un ‘prodotto pienamente umano’, a ricondurlo cioè a quanto gli uomini hanno messo in atto lungo i secoli e nelle diverse situazioni per regolare nel modo più efficace possibile i loro rapporti sociali sulla base delle comuni concezioni della relazionalità istituzionale proprie ad ogni cultura (e fede religiosa di riferimento). Relazionalità istituzionale che solo progressivamente ha iniziato il proprio cammino di equiparazione funzionale dei diversi individui all’interno della stessa società, riconoscendo ad ogni singolo pari dignità personale, seppure con attribuzioni funzionali differenti in ragione dei ruoli sociali occupati: quello che oggi chiamiamo –comunemente– Diritto.

La resistenza ad una concezione puramente ‘finita’ ed intra-storica, eminentemente funzionale, del Diritto è stata alimentata sul volgere del Novecento anche dalla necessità teologico-dogmatica di porre un argine al dilagare del Giuspositivismo volontarista propugnato dalle derive idealiste della Modernità; derive approdate ormai alla loro ultima meta con l’inevitabile fallimento degli ‘stati etici’ tanto di destra che di sinistra.


Si apre dunque oggi la necessità di rifocalizzare, ormai liberati dalle incombenze apologetiche del secolo scorso, sia filosofiche che teologiche, un’opzione epistemologica fondamentale per poter affrontare lo studio del Diritto canonico in una prospettiva davvero modellata sull’Ecclesiologia del Concilio Vaticano II non più arroccata dietro i propri bastioni, ma completamente dedita al proprio fine ‘missionario’.

Cogliere il Diritto (anche) canonico, nella sua ‘categorialità’ è infatti il compito che spetta oggi a chi, proprio perché ha già superato i contraccolpi tanto delle Codificazioni positivistiche secolari dell’Ottocento che della stessa formale Codificazione canonica, intenda servire la vita concreta dell’Istituzione ecclesiale promuovendone un’autentica fedeltà alla Missione che Cristo ha affidato alla sua Sposa, dalla storia, nella storia ed attraverso la storia.

Questo non significa tuttavia, come qualcuno giustamente teme, la riduzione del Diritto canonico a pura strumentalità tecnica distaccata dalla sostanza della vita ecclesiale –il c.d. Normativismo–, quanto piuttosto una più viva consapevolezza del grande senso di corresponsabilità credente con cui ogni canonista deve cooperare a far sì che l’Ordinamento giuridico ecclesiale non solo possa funzionare al meglio, ma possa garantire a tutti i Fedeli, ed a ciascuno di essi, che anche i mai abbastanza contestati formalismi (da cui lo stesso Diritto canonico non è esente) rispondano a reali motivazioni di valore, il cui vantaggio ridonda effettivamente sugli stessi Fedeli che ne percepiscono solo l’apparente onerosità.

Il radicamento del Diritto canonico nella costitutiva ‘storicità’ della Chiesa pellegrinante (secondo la logica dell’Incarnazione) prospettato da T. Jiménez Urresti appare una sufficiente garanzia in questo senso. Ad essa devono affiancarsi –in modo non estemporaneo ed occasionale– gli apporti concettuali e critici del confronto con le altre Discipline via via attinenti: Filosofia, Storia, Teologia… proprio come in quest’occasione cerchiamo di fare.



in: APOLLINARIS, (2006), p. 49-75.