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Categorialità
e trascendentalità del Diritto: le ragioni di un
approfondimento
1. Presentazione
La tematica
sulla quale intendiamo soffermarci coi lavori di questa “Giornata
Canonistica Interdisciplinare” potrà apparire a qualcuno un
po’ pretestuosa: qualcosa di totalmente teoretico che ben
difficilmente potrà sperare qualche seguito tanto
nell’attività di studio dei singoli ricercatori che, tanto
più, nell’insegnamento: una concessione al vezzo del voler
apparire… oppure, una butade che susciti l’autocompiaciuta
consapevolezza di aver saputo fare anche questo… oppure ancora, una
fiammata di orgoglio canonistico che tenti di mitigare le
asprezze dell’esilio epistemologico che da parecchi decenni tiene
la Canonistica ai margini del ‘sapere’ ecclesiastico ed
ecclesiale in genere.
Le cose,
tuttavia, non stanno affatto in questo modo poiché ormai da
tempo lo studio del Diritto canonico ha smesso –o avrebbe dovuto
farlo– di fissarsi sul solo testo normativo ed ha cercato di
sviluppare, non senza grandi fatiche e difficoltà, un
approccio al giuridico ecclesiale che sia prima di tutto capace di
procedere per ‘concetti’ in modo da non rimanere
prigioniero della semplice tecnica giuridica più o meno
sistematizzata… aspirazione assolutamente legittima e lodevole in
sé, ma altrettanto velleitaria quando non sostenuta da
sufficiente capacità critica, soprattutto nell’individuazione
dei paradigmi concettuali di base.
E’ questo
il motivo di una ‘convocazione comune’ con colleghi, soprattutto
filosofi, che ci aiutino proprio ad individuare caratteristiche e
peculiarità di paradigmi concettuali cui tante volte
facciamo riferimento nel nostro lavoro canonistico forse senza troppa
attenzione alle necessarie ‘premesse’ e ‘conseguenze’
dell’uso di questo o quell’altro termine, concetto o immagine,
dimenticando –non senza responsabilità intellettuale– come
il senso delle parole e delle affermazioni dipenda molto spesso dal
loro contesto o “circolo ermeneutico”, come lo hanno chiamato M.
Heidegger ed il suo discepolo H.G. Gadamer.
Proprio a
questo livello dei “paradigmi concettuali di base” si pone la
questione di oggi: il Diritto –anche canonico– è un
trascendentale o un categoriale? Trova –cioè– la propria
corretta collocazione ‘a monte’ (a priori) o ‘a valle’
(a posteriori) del vivere umano?
La domanda
–anche se purtroppo non sorge spontanea alla maggior parte dei
cultori del Diritto– ha una propria pregnanza ‘assoluta’ poiché
sono molte ancora oggi le circostanze e situazioni in cui l’approccio
al Diritto non solo canonico, soprattutto da parte dei canonisti,
sembra non saper uscire dal ‘guado’ in cui rimane paralizzato tra
le due sponde sostanziali della categorialità e della
trascendentalità… anche se difficilmente tali estremi
vengono individuati ed espressi dai diversi autori con questa
chiarezza concettuale; l’immagine del ‘guado’ indica appunto
questa non certezza di guadagnare l’una o l’altra riva.
La
situazione diventa però piuttosto chiara nei fatti, quando si
tratti di esplicitare le caratteristiche ‘fondative’ del Diritto
stesso cui non è possibile sottrarsi al momento di addentrarsi
nei livelli più profondi degli studi giuridico-canonici. In
queste circostanze, infatti, si percepisce con chiarezza chi faccia
riferimento ad una concezione del Diritto sostanzialmente
‘contingente’ (o ‘relativa’) all’interno di un orizzonte
conclusivamente intra-storico (categorialità) e chi,
invece, tenda in vari modi a ‘scivolar fuori’ dalla dimensione
storica attribuendo al Diritto caratteristiche più o meno
sbilanciate verso l’assoluto, in una prospettiva che non riesce a
sfuggire ad un presupposto più o meno velato di ‘precedenza’
e preminenza del giuridico rispetto alla storicità
(trascendentalità).
La
questione si complica ulteriormente se a questo livello assolutamente
sostanziale del problema –che appunto intendiamo sondare con la
nostra riflessione odierna– si affianchi anche quello
terminologico, nel perdurare della difficoltà ormai
ultrasecolare a separare adeguatamente –almeno in ambito
ecclesiastico– la ‘normatività giuridica’ da altre forme
di normatività –anche maggiormente cogenti e vincolanti–
quali quella morale, quella etica o quella dogmatica o, anche,
liturgica.
Si può, anzi, imputare
proprio al livello terminologico il troppo facile ricorso –quasi
‘culturale’ per gli Occidentali– all’uso del concetto di
‘Diritto’ per indicare semplicemente la ‘doverosità’ e
‘vincolatività’ di un comportamento da tenere, come se
‘Diritto’ e ‘Legge’ fossero le uniche concettualizzazioni (e
terminologie) capaci d’imporre all’uomo (ed esigere) un
adeguamento comportamentale cogente; le riflessioni ormai storiche di
J. Maritain e quelle più recenti di G. Tanzella Nitti in
merito al significato/utilizzo del termine ‘Legge’ sono
assolutamente chiare in questa direzione.
Secondo il grande filosofo e
giurista francese infatti:
«per
quanto riguarda la Legge naturale, notiamo che il termine stesso di
“Legge” implica un pericolo di malinteso, poiché la più
ovvia ed immediata nozione di Legge che noi abbiamo è quella
della Legge scritta, cioè della Legge positiva; di conseguenza
corriamo il rischio di concepire la Legge naturale ed ogni specie di
Legge secondo il modello di Legge più conosciuto da noi, cioè
la Legge scritta, e di dimenticare il carattere analogico della
nozione di Legge. Questo carattere analogico mi sembra
evidenziato dalla nozione stessa di Legge eterna. Dio non è un
legislatore come gli altri, come un parlamentare o come un presidente
della repubblica. La comunità che Egli guida è
l’universo della creazione. La Legge eterna non è scritta
sulla carta, ma è promulgata nell’intelligenza divina ed in
se stessa è conosciuta unicamente da Dio e da coloro che
vedono Dio nella sua essenza. […] questa Legge eterna è così
infinitamente distinta dalla Legge scritta umana quanto l’essenza
divina dall’essere creato. […]
Poiché la nostra idea più
immediata di Legge è quella della Legge positiva (Legge
scritta), si è estesa la nozione di Legge positiva alla
natura; allo stesso modo si è estesa la nozione di Diritto
positivo alle altre sfere del Diritto».
«[In questo modo] il primo
analogato, sia in sé che per noi, della nozione di Diritto è
il Diritto positivo. Il secondo analogato, in cui vi è già
qualcosa di manchevole, di deficiente quanto alla pienezza di
significato, è il Diritto comune dell’umanità
civilizzata, cioè il Diritto delle genti. Il terzo analogato,
ancor più manchevole, che è a stento Diritto e che
comporta un significato giuridico virtuale, è il Diritto
naturale».
Non di meno ci aiuta nella
comprensione l’astronomo e teologo fondamentale:
«il
concetto di Legge è in realtà un concetto fortemente
analogico. Sorge in ambito giuridico-sociale e si estende
successivamente alla razionalità scientifica, dapprima con le
nozioni di regola armonica e proporzione numerica (Pitagora), poi, a
partire dal metodo sperimentale, come espressione matematica dei
fenomeni fisici (Galileo, Newton, Leibniz). Viene principalmente
impiegato nelle Scienze naturali, a motivo del loro formalismo
matematico, ma compare anche in alcune Scienze umane (Economia,
Sociologia, ecc.) sebbene con un diverso apparato epistemologico. La
nozione di Legge contiene l’idea di “ordine”, di un “dettato”
(latino lex, dal greco léghein, udire), e non è
lontana dall’idea di vincolo, legame (latino ligare). Così
come il suo sinonimo “norma” (greco nómos), la
Legge indica una prescrizione positiva che ha come fine “regolare”,
cioè ordinare con una misura, il comportamento dei membri di
una comunità. Ne risulta subito implicato il riferimento ad
una autorità responsabile della Legge, cioè dell’ordine
o del fine che con essa si intende instaurare o raggiungere. Proprio
a motivo di tale rimando ad un’autorità, le religioni hanno
posto il fondamento dell’idea di Legge, in modo naturale e quasi
per istinto, nella nozione di Dio. Il diffuso e costante utilizzo
della nozione di Legge nelle Scienze fa pensare debba esisterne una
motivazione gnoseologica di fondo. La ragione è che la
“regolarità” o la “stabilità” riscontrata in
molti fenomeni della natura ha costituito fin dall’inizio il
principio base dell’organizzazione e del progresso della conoscenza
scientifica. Storicamente, ciò prese avvio sia dallo spontaneo
e crescente utilizzo della Tassonomia, ovvero l’osservazione e la
catalogazione di forme ricorrenti che avrà in Aristotele il
suo primo studioso, sia, soprattutto, dalla istintiva e poi
sistematica osservazione del cielo. Il regolare sorgere e tramontare
del sole, della luna e delle stelle, o il moto periodico dei pianeti
e delle comete rappresentavano un grandioso esempio di comportamento
“legale”».
Il vero
problema, dunque, con cui è necessario confrontarci è
prima di tutto quello ‘terminologico’ (da non confondere
semplicisticamente con quello linguistico-idiomatico) che, in
una prospettiva di ‘essenzialismo metodologico’ è
immediatamente un problema ‘concettuale’: che cosa è
in effetti ciò di cui si parla?
In altri termini: che cosa
concretamente comporta l’utilizzo di un termine/concetto al posto
di un altro?
Se, cioè, e quando –nel
nostro caso specifico– si utilizza il termine “Diritto”, a che
cosa s’intende effettivamente far riferimento?
Una
questione di questo tipo è prima di tutto –ed
essenzialmente– ‘logica’, senza dover necessariamente
‘scomodare’ livelli più profondi ed impegnativi del sapere
umano: non si tratta, cioè, di cercare e trovare chissà
quale ‘principio primo’ –casomai di portata metafisica– cui
legare l’esistenza stessa del Diritto, ma di una non-semplice
explicatio terminorum che permetta di –o costringa
a–esplicitare i reali contenuti concettuali delle
espressioni utilizzate, in modo da evidenziare l’effettiva
struttura e coerenza dell’argomentare.
E’
partendo da questa consapevolezza oggi assolutamente irrinunciabile
per un autentico lavoro scientifico che occorre affrontare le
questioni nell’ottica comunemente detta ‘metodologica’:
preoccupandosi, cioè, prima di tutto della ‘struttura’
del ragionamento e, più radicalmente ancora, dei sui
presupposti non esplicitati ma non per questo assenti:
linguaggio (formale) e dominio di riferimento rimangono
le coordinate essenziali per comprendere e valutare qualunque
affermazione che aspiri –oggi– alla ‘scientificità’.
E’ in
quest’ottica che si presenta assolutamente necessaria, e primaria,
la ‘verifica’ a livello concettuale dell’essenza e
portata dei concetti di riferimento per la dottrina canonistica; nel
caso odierno il concetto di ‘trascendentale’ e quello di
‘categoriale’ che caratterizzano, più o meno
esplicitamente, le diverse concezioni di Diritto cui gli autori
possano riferirsi.
2. Il tema della presente
indagine
2.1 Quadro generale
La domanda
sulla trascendentalità o categorialità del Diritto non
è altro che una formalizzazione più ‘elegante’, ma
soprattutto appropriata in termini logico-concettuali, di una
questione plurisecolare mai definitivamente risolta sino ad oggi in
ambito canonistico: da dove viene il Diritto? Quale ne è
la radice ontologica? Quale –in definitiva– la sua
collocazione tra uomo e Dio?
Sotto un profilo generale –ed
un po’ generico– sembra che il problema abbia ormai soltanto una
specifica caratterizzazione poco più che canonistica poiché
lo sviluppo delle Scienze e Discipline giuridiche c.d. civilistiche
(ed internazionalistiche) pare non lasciar più dubbi in
merito, trovando nella Sociologia, nella Storia, nella Teoria
generale del Diritto, nell’Economia politica abbondanza di elementi
per risolvere il problema teoretico in termini di assoluta
intra-storicità: il Diritto (civile/statuale/internazionale) è
puro prodotto umano.
La questione rimane invece aperta
in alcuni ambiti/ambienti della Filosofia del Diritto e più
generalmente nella Canonistica, laddove concetti quali ‘Diritto
naturale’ e ‘Diritto divino’ continuano a tener aperta la
domanda alla quale, tuttavia, si continua a faticare nel dare una
risposta effettivamente in grado di convincere tutti salvando i
contenuti sostanziali delle ‘formule tecniche’ ormai classiche,
ma rispettando al contempo la verità dei concetti utilizzati
per esprimerli.
Lungi dal
pretendere di rispondere oggi in modo definitivo ad un interrogativo
di questa radicalità e portata, riteniamo tuttavia utile
e possibile raggiungere una nuova tappa di questo tormentato
cammino… spostando un po’ più in avanti il ‘fronte’
del problema, col porre in evidenza un approccio che, se abbastanza
tranquillo per i filosofi del Diritto, non lo pare affatto per la
maggior parte dei canonisti, soprattutto ecclesiastici.
Il lavoro
metodologicamente avveduto che ci apprestiamo a compiere oggi aspira
concretamente a ‘fissare’ una sorta di ‘punto di non
ritorno’ per la Canonistica affinché indirizzi le
proprie energie di ricerca e studio verso direzioni più
efficaci del ‘fondazionalismo’ che ne ha caratterizzato una gran
parte nella seconda metà del secolo scorso.
Con alle spalle due codificazioni
canoniche (tanto latine che orientali) ed un Concilio ecumenico
ancora in gran parte da recepire nella sua operatività, appare
certamente più necessario per l’attuale Canonistica
concentrarsi sul proprio futuro per offrire al governo della Chiesa
strumenti istituzionali di sufficiente efficacia pastorale, che non
rituffarsi in ‘apnea’ verso fondali cui ormai non è più
ancorato praticamente nulla della presente necessità pastorale
“in un mondo che cambia” così rapidamente.
Per conseguire il delicato fine
che ci siamo proposti è necessario fissare prima di tutto
l’oggetto materiale della ricerca ed il suo specifico punto di
osservazione: 1°) la consistenza e la portata concettuale del
‘giuridico’, 2°) dal punto di vista della concettualizzazione
logica.
Prima
d’intraprendere questo cammino verso il chiarimento che s’intende
operare è però necessario esplicitare una doverosa
‘riserva terminologica’ previa verso il termine “Diritto”.
Nelle successive articolazioni di questo intervento tutte le volte
che sarà possibile si utilizzerà la formula testuale
più univoca “il giuridico” invece de “il Diritto”, in
modo che risalti con evidenza l’ambito assolutamente specifico e
circostanziato cui il discorso intende riferirsi (resteranno
invariate le dizioni inequivocabili quali “Diritto
canonico/civile”); l’eventuale ambiguità terminologica
riscontrabile nelle citazioni dei diversi autori cui sarà
fatto riferimento non farà che confermare la gravità
della situazione terminologico-concettuale sin qui delineata. Tale
attenzione si presenta assolutamente necessaria per limitare il
tentativo di sottrarsi alla portata radicale di queste riflessioni
col disquisire, ancora una volta, sulla differenza tra Legge e
Diritto, mentre il vero problema che deve impegnare la nostra
riflessione riguarda la giuridicità come tale: è
questa che dev’essere verificata nella sua reale consistenza
ontologico-metafisica. La stessa ‘riserva terminologica’
dev’essere applicata –sub contraria specie– all’uso
del termine ‘Diritto’ da parte degli altri Relatori, soprattutto
se non-giuristi: per essi è infatti evidente la prevalenza
della genericità del linguaggio rispetto alla sua stringenza
tecnica.
2.2 Il tema vero e proprio
La
questione sulla categorialità o trascendentalità del
giuridico si pone con una pregiudizialità primaria e
decisiva rispetto a qualunque successiva concettualizzazione del
Diritto, soprattutto canonico: a differenza, infatti, di quanto
delineatosi dalla metà del secolo scorso nella sostanziale
contrapposizione teoretica tra Scuola di Monaco e Scuola di Navarra,
non sarà né una prospettiva maggiormente ‘teologica’,
né una maggiormente ‘razionale’ (o ‘tecnica’) a
decidere –da sé soltanto– la configurazione di questo che
si presenta allo stesso tempo come: a) il primo vero e proprio
‘assioma’ della giuridicità, b) la prima autentica
opzione metodologica della Canonistica.
Se infatti
non ci sono dubbi significativi circa la connotazione trascendentale
delle prospettive ‘teologiche’ della fondazione del giuridico,
non basta però la sua sola ‘fondazione razionale’ per
volgere questo primo ‘assioma’ a favore della categorialità.
Proprio la discriminante categoriale/trascendentale, anzi, si pone
come spartiacque decisivo per ‘qualificare’ in modo più
preciso le impostazioni giuridiche ‘razionali’: quelle
volontariste e realiste quali espressioni di
sostanziale categorialità (seppure di valore ben diverso),
quelle naturalistiche (e più precisamente
gius-naturalistiche) come fortemente orientate alla trascendentalità.
Un altro
elemento viene spesso invocato e posto come decisivo per qualificare
il Diritto (anche) canonico: quello ‘antropologico’; ad esso
infatti rimandano molti autori degli ultimi anni per sottrarsi alla
morsa di un approccio troppo ‘razionale’, senza cogliere che in
realtà la loro è solo un’operazione ‘mimetica’
che, proprio al pari dell’approccio razionale, non decide nulla da
sé sola, in quanto i modi di ‘riferirsi’ all’uomo
rimangono i più svariati e, comunque, conseguenti alla
decisione previa circa il primo ‘assioma’ della giuridicità.
Se, infatti, ciò che è ‘antropologico’ viene
ricondotto al dominio delle Scienze e Discipline c.d. antropologiche
(Etnologia, Antropologia culturale, Sociologia, Antropologia
filosofica, Etica, Filosofia morale, ecc.) ci si colloca quasi
certamente in una prospettiva categoriale che muove i propri passi
dalla concreta ‘esperienza giuridica’ vissuta dagli uomini nei
diversi tempi e spazi; al contrario, se la qualificazione
dell’humanum rimanda in realtà ad un’Antropologia
teologica (non importa ‘quale’) finirà per prevalere
non il ‘vissuto umano’ reale, ma una ‘idea teologica’ di
uomo, ricadendo in pieno nell’approccio teologico, orientato alla
lettura trascendentale del giuridico.
Le ricadute
di questa opzione pregiudiziale in termini di metodo
canonistico sono piuttosto evidenti nella –più o meno
consequenziale– scelta della ‘qualificazione’ della Scienza
canonistica in prospettiva ‘teologica’ o ‘giuridica’, secondo
l’indirizzo introdotto da K. Mörsdorf e ripreso da vari
canonisti del secolo scorso per quanto, come appena espresso, la
stessa riconduzione della ‘fondazione razionale’ ad un metodo
‘giuridico’ non sia auto-evidente né verificata.
2.3 Un punto ‘critico’
L’esame
della valenza categoriale o trascendentale sottesa alle diverse
concezioni del giuridico trova un proprio ‘controllo’ decisivo
nel concreto livello di giuridizzazione/giuridicità dei
concetti di ‘Diritto naturale’ e ‘Diritto divino’ cui spesso
gli autori cedono, senza una sufficiente percezione del salto
epistemologico che tale modo di agire in realtà nasconde.
Senza poter qui approfondire questa tematica specifica ed amplissima,
basti ricordare come il ‘dover essere’ etico (Diritto naturale) e
dogmatico (Diritto divino) derivino in realtà tutta la loro
forza dal ‘livello’ ontologico e non da quello giuridico: l’agire
(agere) dell’uomo e del cristiano deve corrispondere a ciò
che essi ‘sono’… cosa non altrettanto scontata nel suo concreto
operare quotidiano (facere).
Di fatto
l’attribuzione di maggiore o minore effettività e
consistenza giuridica a queste due ‘forme’ di normatività
(etica la prima –Diritto naturale–, dogmatica la seconda –Diritto
divino–) è un buon parametro di riferimento: laddove,
infatti, si tratti di vera normatività giuridica, per quanto
variamente modulata ed espressa, non ci sono dubbi che la concezione
del giuridico sia di stampo trascendentale (= a priori); dove, al
contrario, la loro portata normativa ed obbligante continui a
risultare non-giuridica (senza addentrarci nelle secche del
dover/saper distinguere tra ‘meta-giuridicità’,
‘pre-giuridicità’, ecc.) la concezione del giuridico
sarebbe di chiaro stampo categoriale (= a posteriori), innescando
immediatamente la sua necessaria ‘dipendenza’ tanto dall’elemento
etico che da quello dogmatico… altro tema al momento non
affrontabile, per quanto inequivocabile sia a livello teologico che
magisteriale.
Solo per
dar corpo –seppure in modo del tutto esemplificativo– a queste
riflessioni molto generali, permettendo di verificare sul campo
gli estremi e la portata della questione intorno a cui si snoda
questa giornata di studio e riflessione, si propone di seguito una
sommaria rassegna di alcuni tra i principali canonisti di diversa
formazione ed impostazione del secolo scorso, utilizzando come
strumento principale –anche se non esclusivo– di riferimento la
preziosa opera di C.M. Readelli “Il concetto di Diritto della
Chiesa nella riflessione canonistica tra Concilio e Codice”.
Sotto il
profilo metodologico giova sottolineare che le evidentissime
estrapolazioni testuali dagli scritti dei diversi canonisti, pur con
tutte la cautele del caso, rispondono perfettamente al c.d. principio
di proposizione: si tratta cioè –anche se ‘fuori
contesto’– di affermazioni ‘complete’ sotto il profilo
logico, espressamente poste dagli autori all’interno del loro
argomentare; l’estrapolazione rispetto al contesto originario non
ne snatura il valore enunciativo sostanziale… a meno che non
s’intenda uscire dal contesto scientifico (proposizionale), negando
la rilevanza concettuale di quanto effettivamente affermato.
3. Impostazioni trascendentali
Come già sommariamente
premesso le impostazioni sostanzialmente trascendentali possono venir
ricondotte a tre filoni sostanziali:
a) teologico, b)
teo-antropologico, c) razional-naturalistico.
3.1 Filone teologico
Si tratta
sostanzialmente delle posizioni, seppur diversificate a parole,
assunte dagli autori che si riferiscono al pensiero di K. Mörsdorf,
secondo il quale –senza nessuna esitazione– sono gli elementi
soprannaturali della Chiesa ad esigere il Diritto canonico e a
comprendere anche la giuridicità naturale; questo perché
il Diritto canonico è una realtà teologica che è
data inseparabilmente con l’essenza della Chiesa basata
sulla sua fondazione divina; il fatto poi che il Diritto canonico
prenda parte, secondo l’autore, alla natura generale del Diritto
non ridimensiona affatto la posizione assunta poiché “ogni
Diritto, il secolare come il canonico, si fonda ultimamente in Dio”,
peggiorando così le cose, poiché a questo punto è
chiaro che non è tanto questione del fondamento divino della
Chiesa, ma proprio del Diritto come tale.
In modo più radicale, poi:
il Diritto canonico
«è
Diritto sacro, non solo nel senso che è stabilito a
servizio della realizzazione del Regno di Dio sulla terra e di
conseguenza della salvezza del mondo, ma più profondamente
perché è legato alla vita sacramentale della Chiesa e
partecipa dell’essenza sacramentale della Chiesa».
Non si
sfugge in questa prospettiva alla percezione che la giuridicità
almeno, se non proprio lo stesso Diritto canonico, ‘pre-esista’
di fatto alla Chiesa stessa, ne costituisca addirittura l’a-priori
(dunque il trascendentale) che dà forza ed efficacia
tanto alla Parola che al Sacramento i quali però non si
‘sommano’ al Diritto formando una sorta di ‘triade’ fondativa
originaria, ma essi stessi godono dei vantaggi che il Diritto
conferisce loro, risultandogli di fatto soggetti, poiché
“hanno carattere giuridico”; Parola e Sacramento infatti pur non
essendo formalmente ‘Diritto’ nel senso usuale del termine (di
norma oggettiva ed esigenza soggettiva) hanno alcune caratteristiche
tipiche del fenomeno giuridico al punto che Parola e Sacramento
finiscono per essere elementi costruttivi della struttura giuridica
della Chiesa. La visione trascendentale del giuridico non è
dubitabile.
- Rouco Varela (insieme a
Corecco) radicalizza –se possibile– la posizione del ‘maestro’,
contribuendo ad esplicitarne con maggior chiarezza lo ‘spirito’
(in realtà il presupposto) affermando che “il Diritto
canonico può essere accolto solo nella fede”; tanto che la
crisi post-conciliare del Diritto canonico sarebbe, secondo entrambi,
una vera “crisi di fede”.
A.M. Rouco Varela poi si spinge
ben oltre, giungendo a parlare espressamente di ‘Diritto
soprannaturale’, fino a vedere nel Diritto canonico la sua “unica
versione storico-categoriale disponibile”; esprimendo in modo
inequivocabile il proprio punto di vista sull’assioma fondamentale
della giuridicità!
«Supposto che il
‘giuridico’ nella Chiesa è parte essenzialmente integrante
di essa, come l’organismo escatologico di Salvezza soprannaturale
nello spazio e nel tempo, il Diritto canonico, come tale, dev’essere
‘soprannaturale’ e non solo in quanto materialmente e
giuridicamente i suoi principi costituzionali ed istituzionali sono
di Diritto divino positivo, ma pure e soprattutto, in quanto la sua
struttura formale (almeno quella elaborata storicamente e umanamente)
è divina-positiva-soprannaturale».
«Il
problema dell’esistenza del “Ius canonicum” è un
problema essenzialmente teologico: appartiene al contenuto centrale
della Teologia, perché appartiene al contenuto essenziale
della fede. Non può essere risolto al di fuori di questa.
Sarebbe di conseguenza scorretto affrontarlo partendo con presupposti
metodologici di ispirazione filosofica, sia di tipo
giusnaturalistico, come ha fatto la scuola del “Ius publicum
ecclesiasticum” sia di tipo filosofico sociale. Il “locus
theologicus” del Diritto canonico è il mistero
dell’Incarnazione che si ripropone nella storia attraverso il
mistero della Chiesa. […] Il Diritto è una realtà
teologico-soprannaturale, ma come tale è anche una realtà
che deve incarnarsi nella storia, assumendo forme giuridiche anche
umane».
- Di portata non minore in fatto
di trascendentalità del giuridico è la posizione di E.
Corecco secondo cui
«il
Diritto canonico non si occupa della giustizia degli uomini, ma della
giustizia di Dio, della giustizia rivelata che si manifesta, […]
nella Communio cum Deo et hominibus»;
trascendentalità
confermata –sub signo contrario– dall’affermazione
secondo cui il Mistero stesso dell’Incarnazione non sarebbe
sufficiente a giustificare la giuridicità della Chiesa;
l’Incarnazione avrebbe infatti a che fare con la sola ‘visibilità’
della Chiesa e non ne comporterebbe la giuridicità. D’altra
parte
«una definizione [del
Diritto canonico] deve far perno attorno ad una categoria capace di
cogliere sinteticamente la dimensione trascendente ed immanente della
intimazione giuridica propria alla socialità specifica della
Chiesa».
La concezione trascendentale del
giuridico giunge poi fino al punto di sostenere espressamente che:
«Cristo,
fondando la Chiesa, ha assunto la stessa struttura del mistero della
storia della salvezza, nel quale l’elemento giuridico è
già ontologicamente antecedente; bisogna cioè
dimostrare che la dimensione giuridica è già presente
negli elementi strutturali sui quali Cristo, in obbedienza alle
modalità specifiche con le quali il Padre si è
manifestato nella storia, ha fondato la Chiesa».
3.2 Filone teo-antropologico
Si tratta,
nonostante una certa dissimulazione formale ed un’apprezzabile
critica –in certi punti anche sostanziale– nei confronti della
‘scuola teologica’, della posizione di G. Ghirlanda secondo cui
“l’attività giuridica è inerente all’uomo in
quanto uomo, per il fatto che è un essere sociale”;
anzi,
«perché
il Diritto positivo sia un vero Diritto si deve basare sulla
volontà di Dio sull’uomo e la comunità umana,
iscritta nella stessa coscienza dell’uomo e manifestata nella
Rivelazione».
«Dio,
stabilendo la dignità dell’uomo, determina anche le
strutture della convivenza umana, che altrimenti risulta
impossibile. Qui si trova la radice di tutti i diritti fondamentali
della persona umana e di tutti gli obblighi corrispondenti e della
giuridicità dei rapporti intersoggettivi che si hanno
nel convivere sociale».
La piena giuridizzazione del
Diritto naturale va nella stessa direzione, confermando quanto già
espresso al riguardo:
«la
Legge naturale e il Diritto naturale esprimono, come realtà
ontologiche, la dignità della persona umana nel
determinarne i diritti e i doveri naturali. Sulla base
dell’autocomprensione che l’uomo ha, il Diritto naturale viene
storicizzato nel Diritto positivo di una società, il
quale esprime così la volontà di Dio che l’uomo
realizzi la di lui immagine, e in questo modo sia sempre più
persona, nella massima attuazione possibile della sua associabilità».
Si deve
quindi ammettere il valore salvifico anche del giuridico ecclesiale
positivo umano, che può essere definito come “Diritto sacro”
(“Ius sacrum”).
- I presupposti più
profondi di questa impostazione si palesano nel pensiero di M.
Visioli (canonista e teologo), in cui risalta la recezione
‘prospettica’ del pensiero di G. Ghirlanda, ma soprattutto cade
definitivamente la reticenza verso la dimensione di trascendentalità
del Diritto, che non riesce più a non essere proclamata:
«l’uomo
in quanto pensato alla luce della Rivelazione porta in sé
elementi fondamentali dell’esistenza della giuridicità.
Ovvero: [che] l’uomo creato e redento in Cristo presenta una
dimensione teologale che lo costituisce a pieno titolo in un contesto
giuridico. […] La natura dell’uomo e la natura del Diritto
si avvicinano notevolmente, fino al punto da comprendere quest’ultima
come un’espressione necessaria della prima, una sua propaggine
naturale, quasi una sorta di “trascendentale” che perfeziona
l’uomo e lo compie sotto l’aspetto della libertà».
3.3 Filone
razional-naturalistico
Scartando
di principio le concezioni ‘naturalistiche’ più elementari
ed ‘ingenue’ già definitivamente superate dalla Filosofia
del XX sec. (e concretamente non adottate da nessuno in ambito
canonistico), rimangono però del tutto aperte le posizioni
moderatamente ‘giusnaturaliste’ cui la cattolicità ed il
Magistero ecclesiale non hanno mai rinunciato a motivo della loro
ineludibile fondazione ontologico-metafisica; è in
questo frangente tuttavia che si ripropone il problema già
indicato: il ‘dover essere’ ontologico-metafisico
(Giusnaturalismo moderato) genera una normatività di tipo solo
etico/dogmatico oppure anche di tipo giuridico?
Nella prima ipotesi (normatività
etico-dogmatica) il giuridico rimarrebbe indubbiamente categoriale
poiché fermamente distinto –per quanto non separato–
dall’etico-dogmatico; nella seconda, invece, divenendo giuridica
tale normatività assumerebbe caratteri tipicamente
ontologico-metafisici che renderebbero il giuridico inevitabilmente
trascendentale.
Sotto il profilo storico, pare
che il contesto fortemente apologetico e la necessaria opposizione
teologico-magisteriale tanto al ‘Gius-positivismo’ che al
‘Contrattualismo’ espressi dalla Modernità razionalista,
abbiano ‘trattenuto’ la Canonistica tardo-scolastica (e
neo-scolastica) costringendola di fatto a giuridizzare la normatività
ontologico-metafisica, come ben dimostra la già accennata
confusione tra Diritto canonico e Morale alimentatasi con la
promulgazione del CIC 17.
Tali posizioni risultano comunque
molto meno nette nella loro trascendentalità rispetto a quelle
‘teologiche’ e, forse, non si può andare molto oltre il
semplice ‘sospetto’, poiché questo livello del discorso si
percepisce spesso soltanto oltre le ‘quinte’ di una ‘scena’
che appare ben diversa, mettendo prevalentemente in luce
problematiche ‘tecniche’ di ben altra portata e lasciando
sostanzialmente impregiudicati presupposti ritenuti ormai ‘classici’
e definitivi che ai giuristi in quanto giuristi –come pretendevano
d’essere ed agire questi autori– non creavano nessun genere di
problema. L’approccio critico che si adotta nei loro confronti è
quindi maggiormente indirizzato a farne emergere i ‘presupposti’
che non a evidenziarne le esplicite prese di posizione.
Lo ‘snodo’ che attira la
nostra attenzione odierna nei confronti di questi autori è il
loro riferimento non solo al Diritto divino ma anche –seppure in
modo meno evidente ed esplicito– al Diritto naturale nella
“interpretazione più classica dello stesso concetto,
condivisa dai canonisti da diversi secoli”, secondo cui “il
Diritto naturale è pienamente valido all’interno
dell’Ordinamento giuridico della Chiesa”, respingendone
l’interpretazione “dal punto di vista della sola Etica sociale,
attribuita alla scuola giusnaturalista di tipo razionalista”.
- La
posizione di J. Hervada fatica ad essere analizzata secondo i
parametri indicati, anche se è comunque possibile ottenere
indicazioni interessanti in merito alla nostra tematica. Per l’autore
di Pamplona “il Diritto non è soltanto una semplice
ordinazione delle azioni. E’, pure, struttura delle società
e delle comunità, e può essere elemento costitutivo
delle stesse” ponendo al centro non tanto le norme ma le relazioni
giuridiche tra i diversi soggetti; questo però avviene poiché
“Diritto divino e Diritto umano formano un unico sistema
giuridico”. In questa prospettiva unitaria il ‘passaggio’
tra i due livelli (forse le due ‘forme’?) dell’unico sistema
avviene per accrescimento della coscienza ecclesiale che,
positivizzando il Diritto divino, lo rende vigente nel Popolo di Dio,
integrandolo con disposizioni normative ‘umane’ date di volta in
volta nelle diverse situazioni storiche. Poiché però la
‘positivizzazione’ del Diritto divino non è né una
recezione autoritativa, né una trasformazione in Diritto, ma
semplicemente “il suo passaggio alla vigenza storica”, diventa
inevitabile ricondurre questa posizione ad una sostanziale
trascendentalità visto che il Diritto divino è già
Diritto (previamente), per quanto ancora ‘velato’, e quello
canonico si manifesta come sua progressiva ‘presa di coscienza’
intra-storica …in una sorta di ‘caccia al tesoro’
rispetto al volere giuridico (fondativo) di Dio, pre-esistente o
con-esistente rispetto alla Chiesa.
Tale
posizione, conosciuta come “canonizzazione del Diritto
divino”, ha assunto una portata teoretica di prim’ordine, finendo
per essere spesso adottata sic et simpliciter quale
‘paradigma’ vero e proprio da altri autori della stessa Scuola,
per i quali è pacifico affermare che il Diritto divino
naturale e positivo “è in parte non conosciuto dagli
uomini”.
Nella
stessa linea quasi ‘ontologica’ si colloca anche l’approccio al
Diritto naturale presentato come “Diritto precedente e
preesistente, un vero e proprio Diritto” che preesiste tanto
al Diritto positivo che alla stessa Giustizia; affermazione possibile
a partire dal principio –assiomatico– che
«il
fondamento del Diritto –di qualunque Diritto– e, quindi, anche
della Giustizia, poggia sul fatto che l’uomo è persona. […]
Una persona è un essere che è così intensamente
essere –è essere in modo tale– da dominare il proprio
essere. Per questo la persona è sui Iuris, padrona del
proprio essere».
- Il forte
riferimento alla ‘Giustizia’ che caratterizza la dottrina di P.J.
Viladrich spinge a ricondurre anche lui ad un sostanziale
orientamento trascendentale della giuridicità; se
infatti il Diritto può essere definito come “struttura
ordinatrice della vita sociale degli uomini, fondata sulle esigenze
di Giustizia inerenti alla natura della realtà societaria
umana”, è chiaramente assegnato alla Giustizia un primato
ontologico, pur variamente specificato per le diverse tipologie
societarie di attuazione.
Il riferimento alla Giustizia è
decisivo anche per il Diritto della Chiesa:
«l’incorporazione
alla Chiesa, i vincoli di solidarietà e di corresponsabilità,
il possesso di beni spirituali comuni, la posizione gerarchica, gli
stessi carismi ricevuti, non si basano unicamente su rapporti di
carità, né presuppongono solamente doveri e
responsabilità morali verso Dio. In modo essenziale si
dispiegano pure in rapporti di solidarietà e di servizio, in
posizioni e legami di intersoggettività, che si fondano su
esigenze della condizione di battezzato verso gli altri Fedeli, e
sulla natura e funzioni ministeriali della gerarchia. Pertanto,
costituiscono dei rapporti intersoggettivi dotati di un essenziale
aspetto di Giustizia che, quando reclamano il loro
riconoscimento, la loro tutela e la loro realizzazione nella vita
ecclesiale, generano necessariamente un fenomeno giuridico».
Anche la
posizione circa il Diritto divino si caratterizza secondo la stessa
sensibilità, pur parendo ridimensionare in parte la posizione
di Hervada: poiché non esiste Diritto se non riconducibile,
nella fonte immediata e nella vigenza, ad un fattore storico, anche
il Diritto divino nella misura in cui è giuridico costituisce
un ordine essenzialmente storico, nonostante la sua ‘scoperta’
sia in costante evoluzione. Proprio però lo stacco tra
‘vigenza storica’ e ‘conoscenza’ del Diritto divino (che
continua a funzionare secondo la logica della ‘scoperta’)
ripropone l’istanza trascendentale senza risolvere di fatto
il problema della storicità del Diritto divino, che, rimanendo
comunque un quid iuridicum da ‘scoprire’, ‘conoscere’
e storicizzare, pare continuare a presupporre una ‘qualità’
non intra-storica (e pertanto, trascendentale).
- Ancora recentemente C.
Errázuriz si pone con chiarezza la domanda circa “il
fondamentale problema sull’esistenza o meno di un Diritto anteriore
al sistema giuridico, che preceda le norme e procedure umane” –che
in fondo coincide col nostro argomento odierno!– offrendole una
risposta che, sotto una celata forma ipotetica, non lascia però
dubbi: il Diritto naturale ‘precede’ e ‘fondamenta’ quello
umano.
Lo stesso Diritto canonico non
sfugge a questa pre-concezione quando, con autorevole citazione,
viene espressamente riconosciuto come “un ordine ragionevole e
soprannaturale, secondo giustizia”. La concezione non-categoriale
del Diritto che regola la vita della Comunità cristiana emerge
indirettamente, ma con singolare efficacia teoretica, quando
recependo le ‘precisazioni’ di chi lo vorrebbe limitare alla sola
“Chiesa pellegrina” o alla “Chiesa visibile” ribadisce però
la necessità di non dimenticare
«una verità
fondamentale: non vi è che una sola Chiesa fondata da Cristo,
e tutti i suoi vari aspetti non sono comprensibili se vengono
staccati dall’insieme a modo di compartimenti stagni. Proprio per
capire ciò che è specificamente giuridico nella Chiesa,
è assolutamente indispensabile collocarlo nell’insieme
misterico della Chiesa».
- La
posizione di P. Lombardia rimane la più difficilmente
collocabile a causa del suo scarso interessamento alle questioni
fondative; il riferimento all’ordine giusto ed alla ‘Giustizia’
quali fondamenti della realtà giuridica anche canonica
porterebbero, infatti, a pensare ad una posizione di tipo
giusnaturalistico classico (quindi filo-trascendentale); il ‘filtro’
tuttavia della giuridicità attribuita al Diritto divino pare
indirizzare nella direzione opposta. Per l’autore infatti bisogna
escludere un’interpretazione del Diritto divino in senso
strettamente normativista, come se lo Ius divinum “fosse una
specie di codice di precetti stereotipati che potesse compilarsi
mediante una condensazione di testi della Scrittura e di
testimonianze della Tradizione, alla luce del Magistero”; tale
espressione
«non può significare
altro che quegli aspetti della volontà fondazionale di Cristo,
del disegno divino per la Chiesa, che hanno conseguenze rapportabili
con quello che nel linguaggio proprio della cultura degli uomini
chiamiamo Diritto».
Nel
fondatore della Scuola canonistica di Navarra la separazione formale
tra i due livelli è comunque certa: la giuridicità è
un fattore completamente umano esigito dalla natura comunitaria e
sociale della Chiesa all’interno della cui vita comunitaria è
inevitabile che scaturiscano tensioni che “postulano un principio
di ordine sociale-comunitario”.
4.
Impostazioni categoriali
Da quanto sin qui illustrato,
seppur sommariamente, appare con evidenza come le posizioni indicate
quali referenti di un’opzione più o meno espressamente
trascendentale della giuridicità esprimano la grande
maggioranza dei canonisti e delle scuole di pensiero del secolo
scorso; non dovrebbe stupire, pertanto, l’esiguità del
numero di autori che si sono, invece, più o meno apertamente
schierati a favore della sua categorialità.
- Il
primato va riconosciuto senza dubbi a T. Jiménez Urresti
–Docente a Salamanca e co-fondatore della Sezione di Diritto
canonico della Rivista Concilium– che nella costante
differenziazione tra Teologia e Canonistica ha avuto il grande merito
di esplicitare le fisionomie delle rispettive normatività:
genericità ed assolutezza dell’imperativo teologico,
specificità e relatività di quello giuridico.
Chiave di volta della sua lucidissima riflessione è la
distinzione metodologica ed epistemica –appartenuta già alla
migliore Scolastica– tra ‘logica formale’ e ‘logica
deontica’; è proprio questa differenza che permette –ed al
tempo stesso richiede– che la ‘premessa minore’ del c.d.
sillogismo deontico sia la concreta realtà in cui la norma
assiologica dev’essere attualmente applicata. La norma giuridica
non si colloca pertanto in diretta continuità con quella
assiologica come sua semplice deduzione (sillogismo formale-modale)
finendo per conservarne la ‘qualità ontologica’ (anche
trascendentale). Dietro ad ogni norma giuridica stanno pertanto due
livelli qualitativi assolutamente diversi: quello della norma
assiologica o teologica (assoluta, generale ed a-storica) contenuto
nella premessa maggiore e quello del suo necessario adempimento
nella storia, contenuto nella premessa minore:
«nel
proprio sillogismo, la norma da adempiere, già data,
costituisce la premessa maggiore; la premessa minore la costituiscono
fattori di altro ambito, della storia, […] che si conclude con il
giudizio e la decisione concreti di quale azione porre nel compimento
della norma. Per preparare questo giudizio e questa decisione
sull’atto concreto da porre, è necessario, se la norma è
sociale, farla entrare nell’ambito dell’orizzonte storico o
periodo storico in cui la si deve attuare, cosa che si compie
attraverso la cosidetta determinazione (termine usato
normalmente da S. Tommaso d’Aquino), concretizzazione,
specificazione, e più frequentemente storicizzazione,
in un ordinamento si dirà ordinamentazione, e in Diritto
positivazione della norma originaria».
In questo modo la consapevole
distinzione di ‘qualità’ dei diversi tipi di norme
permette di non cortocircuitare ciò che è di portata
trascendentale con ciò che rimane comunque solo categoriale:
il giuridico. Quest’impostazione permette anche la non regressione
della terminologia giuridica al livello trascendentale (Diritto
divino, ecc.).
- Anche il Gesuita spagnolo O.
Robleda, grande romanista (docente prima in Gregoriana e poi in
Lateranense), pare riconoscere o presupporre una concezione
‘categoriale’ del Diritto canonico poiché esso fluisce
dalla potestà visibile della Chiesa; tale Diritto allora “non
è divino ma umano”:
«la Chiesa ha un proprio
foro esterno, pubblico, per mezzo del quale allo stesso modo che la
società civile, si occupa di relazionare i sudditi tra loro
(relazione giuridica) in modo tale che essi di conseguenza possano
convenientemente relazionarsi con Dio (relazione puramente etica) […]
Il fine etico o salvezza delle anime non pone il Diritto della Chiesa
per quanto concerne la teoria dei modelli giuridici in un terreno
tecnicamente diverso da quello civile; poiché il fine etico è
fine immediato della potestà di insegnare, santificare,
sacrificare, mentre è fine solo mediato della potestà
giurisdizionale (legislativa, giudiziale, punitiva)».
- Altro
autore che si rifà ad una concezione categoriale della
giuridicità (canonica), seppure in modo non compiutamente
organico, pare essere lo storico del Diritto canonico –ora
Cardinale– P. Erdö il quale, dentro ad una realistica
concezione istituzionalista del Diritto canonico sostiene che la
funzione sacramentale della Chiesa non può condurre in nessun
modo alla divinizzazione ideologica né di se stessa, né
della propria organizzazione, né del proprio Diritto, poiché
la Chiesa partecipa al triplice compito di Cristo in modo umano.
Ciò rende insufficiente “guardare alla realtà di
grazia attiva nella Chiesa senza prendere in considerazione anche il
peccato e le sue conseguenze nella Chiesa, che ne influenzano
l’attività”; è questo aspetto di ‘concretezza’
e sano realismo che porta a vedere nelle sue Leggi positive
«soprattutto norme di
comportamento esterno, in una forma sanzionata istituzionalmente. Le
sanzioni sono necessarie, proprio perché neanche la Chiesa è
esente dall’effetto del peccato umano, sia degli estranei ad essa,
sia dei suoi membri. La Chiesa ha il dovere e l’obbligo di
difendere e svolgere il proprio ministero sacramentale e configurare
la propria identità in modo adeguato alla realtà della
società ecclesiale. Tutto questo naturalmente comporta che
nella costruzione e gestione del sistema di norme di comportamento
sociale sanzionate istituzionalmente può essere legittimo -e
diventare anzi necessario- anche all’interno della Chiesa,
l’applicazione delle categorie della Teoria del Diritto e della
Scienza giuridica secolari. Possiamo essere testimoni di tali
fenomeni sin dai primissimi tempi cristiani. La differenza al massimo
consisteva nell’ambiente culturale da cui la Chiesa aveva tratto le
teorie del Diritto e le categorie per la definizione e la gestione
del proprio ordinamento».
5.
Status quæstionis
Il discorso
sin qui articolato mostra con sufficiente chiarezza –nonostante la
necessaria sommarietà dell’excursus presentato– la
difficoltà, non tanto tecnico-giuridica ma ‘logico-teoretica’,
a collocare il Diritto/giuridico (secolare, ma più ancora
canonico) entro i confini dell’esperienza umana; a vederlo come un
‘prodotto pienamente umano’, a ricondurlo cioè a quanto
gli uomini hanno messo in atto lungo i secoli e nelle diverse
situazioni per regolare nel modo più efficace possibile i loro
rapporti sociali sulla base delle comuni concezioni della
relazionalità istituzionale proprie ad ogni cultura (e fede
religiosa di riferimento). Relazionalità istituzionale che
solo progressivamente ha iniziato il proprio cammino di equiparazione
funzionale dei diversi individui all’interno della stessa società,
riconoscendo ad ogni singolo pari dignità personale, seppure
con attribuzioni funzionali differenti in ragione dei ruoli sociali
occupati: quello che oggi chiamiamo –comunemente– Diritto.
La
resistenza ad una concezione puramente ‘finita’ ed intra-storica,
eminentemente funzionale, del Diritto è stata alimentata sul
volgere del Novecento anche dalla necessità
teologico-dogmatica di porre un argine al dilagare del
Giuspositivismo volontarista propugnato dalle derive idealiste
della Modernità; derive approdate ormai alla loro ultima meta
con l’inevitabile fallimento degli ‘stati etici’ tanto di
destra che di sinistra.
Si apre
dunque oggi la necessità di rifocalizzare, ormai
liberati dalle incombenze apologetiche del secolo scorso, sia
filosofiche che teologiche, un’opzione epistemologica
fondamentale per poter affrontare lo studio del Diritto canonico
in una prospettiva davvero modellata sull’Ecclesiologia del
Concilio Vaticano II non più arroccata dietro i propri
bastioni, ma completamente dedita al proprio fine ‘missionario’.
Cogliere il
Diritto (anche) canonico, nella sua ‘categorialità’ è
infatti il compito che spetta oggi a chi, proprio perché ha
già superato i contraccolpi tanto delle Codificazioni
positivistiche secolari dell’Ottocento che della stessa formale
Codificazione canonica, intenda servire la vita concreta
dell’Istituzione ecclesiale promuovendone un’autentica fedeltà
alla Missione che Cristo ha affidato alla sua Sposa, dalla storia,
nella storia ed attraverso la storia.
Questo non
significa tuttavia, come qualcuno giustamente teme, la riduzione del
Diritto canonico a pura strumentalità tecnica
distaccata dalla sostanza della vita ecclesiale –il c.d.
Normativismo–, quanto piuttosto una più viva consapevolezza
del grande senso di corresponsabilità credente con cui
ogni canonista deve cooperare a far sì che l’Ordinamento
giuridico ecclesiale non solo possa funzionare al meglio, ma possa
garantire a tutti i Fedeli, ed a ciascuno di essi, che anche i mai
abbastanza contestati formalismi (da cui lo stesso Diritto
canonico non è esente) rispondano a reali motivazioni di
valore, il cui vantaggio ridonda effettivamente sugli stessi Fedeli
che ne percepiscono solo l’apparente onerosità.
Il radicamento del Diritto
canonico nella costitutiva ‘storicità’ della Chiesa
pellegrinante (secondo la logica dell’Incarnazione) prospettato da
T. Jiménez Urresti appare una sufficiente garanzia in questo
senso. Ad essa devono affiancarsi –in modo non estemporaneo ed
occasionale– gli apporti concettuali e critici del confronto con le
altre Discipline via via attinenti: Filosofia, Storia, Teologia…
proprio come in quest’occasione cerchiamo di fare.
in: APOLLINARIS, (2006), p. 49-75.