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Relatività e storicità: la natura categoriale del Diritto canonico secondo T. Jiménez Urresti

1. Introduzione

La nostra “Giornata Canonistica Interdisciplinare” su categorialità e trascendentalità del Diritto si conclude doverosamente con un intervento –l’unico di carattere prettamente canonistico–che, di primo acchito, potrebbe apparire semplicemente giustapposto a quanto sin qui illustrato in chiave tendenzialmente filosofica (tanto in ambito concettuale generale che più specificamente giuridico), un intervento che, invece, intende porsi quale vera e propria ‘sintesi’ canonistica del percorso proposto.

Di fatto non è frequente incontrare nella dottrina canonistica trattazioni così specifiche e di livello così profondo: ben difficilmente i canonisti –e non loro soltanto– si sono posti ad alta voce la domanda che ci siamo posti noi in questa occasione: “il Diritto è un categoriale o un trascendentale?” …ed altrettanto difficilmente vi hanno dato una risposta esplicita.

Un tema di questa portata non è immediato neppure per i teologi: “a cosa serve interrogarsi su queste cose?” –mi è stato detto, non senza stupore, da un collega–, oppure ancora (questa volta da un ‘dogmatico’): “ma cosa intendi per trascendentale? Per Rahner, infatti, ‘trascendentale’ è la struttura antropologica fondamentale… cosa c’entra questo col Diritto?”

Eppure la domanda ha un rilievo decisivo per chi non identifichi la Canonistica soltanto con la trattazione parziale di qualche tematica codicistica o dottrinale specifica, ma desideri rintracciare ed offrire una visione generale ed organica dell’immenso ‘fenomeno canonico’ che ha compenetrato lungo i secoli praticamente ogni area del vissuto ecclesiale già a partire dall’età apostolica, come ben dimostrano alcune significative vicende riportate dall’Evangelista Luca: ‘istituzione’ di Mattia quale apostolo per l’integrità del Collegio (At. 1, 15-26), ‘istituzione’ del gruppo dei sette per un “servizio dell’amore del prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato” (At. 6, 1-6), soluzione sinodale della questione della circoncisione dei pagani (At. 15, 1-30), ecc.

Che ‘posto’ ha e deve essere attribuito o riconosciuto al Diritto (ovviamente canonico) nella struttura ontologica della Chiesa? Ne costituisce un elemento ‘fondante’ previo –un ‘a priori’–, in una dimensione di sostanziale trascendentalità, oppure più semplicemente deriva –‘a posteriori’– dalla stessa vita ecclesiale, configurandosi così nella linea della semplice categorialità?


Proprio perché una domanda di questo tipo si rivela capitale nella prospettiva di elaborazione di una Teoria generale ed organica del Diritto canonico cui la Scienza canonistica deve irrinunciabilmente tendere, ritengo interessante e pertinente proporre in questa sede alcune considerazioni relative al pensiero di T. Jiménez Urresti che si è distinto tra tutti i canonisti della seconda metà del secolo scorso per la chiarezza, l’organicità e la sistematicità del pensiero canonistico di base, non senza l’assunzione consapevole di posizioni di frattura con la dottrina emergente a cavallo degli anni ’70, né una certa quale ‘emarginazione’ dottrinale ed accademica, al limite della damnatio memoriæ.

Teologo e giurista insieme (studente e dottore in questo nostro Institutum Utriusque Iuris tanto in Diritto canonico che in Diritto romano, negli anni ’50 del secolo scorso) non ha saputo né potuto evitare un approccio ‘sintetico’ ai due ambiti disciplinari di sua specifica competenza, profondamente convinto della strutturale e necessaria reciproca influenza tra queste due fondamentali espressioni della vita ecclesiale: lo studio della verità cristiana (la Teologia) e la concreta vita della comunità cristiana che in essa radica la propria identità (il Diritto canonico).


Occorre innanzitutto premettere per onestà intellettuale che categorialità e trascendentalità non furono termini e concettualizzazioni espressamente utilizzati da T. Jiménez Urresti nel proprio argomentare, la loro presenza sullo sfondo è però costante e quest’intervento si propone espressamente di evidenziarla attraverso la presentazione di due delle tematiche portanti della sua dottrina: la storicità dell’agire umano e la relatività della norma giuridica (anche canonica).


Il presupposto da cui parte T. Jiménez Urresti in quanto giurista è quello che ci hanno ben illustrato, seppure per vie diverse, i Relatori che mi hanno preceduto: non esiste Diritto fuori del vissuto umano! O, più classicamente, “Ius sequitur vitam”.

Non si dà Diritto se non nel vissuto comune e mutante che gli uomini quotidianamente ‘scelgono’ di costruire con le proprie inevitabili –e contingenti– decisioni organizzative e, ancor di più, con la loro necessaria osservanza delle stesse, nella convinzione che queste possano migliorare gli esiti della crescente complessità del vivere insieme, soprattutto ‘quando’ le dimensioni e proporzioni della relazionalità intersoggettiva tendono a scivolar fuori dallo stretto ambito familiare, amicale o comunitario per inserirsi in una dimensione che ha tutte le caratteristiche della ‘socialità’ (o societarietà) vera e propria, com’è stato anche per la Chiesa quando il primo gruppo dei discepoli (qualche decina, poche centinaia dopo Pentecoste) ha iniziato a crescere con nuove conversioni e Battesimi che l’Evangelista Luca conta anche a migliaia (At. 2, 41 parla di “tremila persone”) in una volta sola.

In quest’ottica la circostanzialità storica dell’agire ecclesiale (storicità) diventa una delle espressioni più profonde e palesi della sua categorialità, ed è proprio in questa prospettiva che la riflessione teoretica di T. Jiménez Urresti si dimostra uno dei pochi veri ‘passi avanti’ nella dimensione più specificamente teoretica della Canonistica del secolo scorso.


2. Chiesa e storicità

Senza poter qui dedicare adeguato tempo e spazio alla concettualizzazione di ‘storicità’ o di ‘storia’, per altro nient’affatto semplici sotto il profilo teoretico, né pacifici –dopo la Modernità– dal punto di vista filosofico e teologico, possiamo probabilmente accontentarci del loro significato recepito a livello di senso comune di ciò che riguarda e dipende dal concreto vissuto degli uomini in ogni ‘qui’ ed ‘oggi’ che li ha visti insieme protagonisti di un ‘divenire comune’ che, pur originando dal vissuto di ciascun singolo soggetto, assume tuttavia un’inevitabile portata sociale, stabile e progressiva anche per coloro che verranno in seguito.

Potremmo dire in altri termini che la storia/storicità costituisce l’autentico “locus dell’umano”, la sua concreta e necessaria ‘collocazione’ nell’esistenza, escludendo di principio ogni sua comprensione che la possa in qualche modo ricondurre alla concezione idealista di ‘fondamento’ o ‘dinamismo di base’ della realtà stessa (in concorrenza/alternativa con l’essere). Questo modo di porsi, d’altra parte, risponde in modo certo alla concezione di T. Jiménez Urresti, come ben traspare dai suoi scritti, in piena coerenza con la formazione filosofico-teologica (neoscolastica ed antimodernista) ricevuta nella prima metà del Novecento.

Proprio questa concettualizzazione ‘ordinaria’ della storia/storicità come ‘divenire delle cose che sono’ costituisce tuttavia una delle maggiori fragilità della stessa categoria: la sua troppo facile riduzione a pura ‘circostanzialità’, ad un immediato ‘qui’ ed ‘ora’, che ne limita la portata ad una semplice ‘accidentalità’ rispetto ad altre ‘dimensioni’ del vivere umano che si presentano ben più solide ed affidabili, come, p. es., la fede, l’Etica, il dogma, i c.d. valori, ecc.

Sotto questo profilo la natura ‘accidentale’ dal punto di vista metafisico di ciò che è giuridico non dev’essere in nulla confusa con una pretesa ‘accidentalità’ della stessa ‘dimensione storica’ dell’esistenza/esistente, questione degna di ben altro approccio sia sotto il profilo filosofico che teologico. Proprio a questo punto di vista il nostro autore dedica attenzione per non accontentarsi solo di ciò che appare a prima vista e che sociologi ed istituzionalisti non si stancano di rilevare.

La riduzione della storicità a sola circostanzialità è, secondo T. Jiménez Urresti, l’atteggiamento di chi considera la storia come semplice medium in quo (de Ecclesia agitur o Ecclesia agit): una semplice ‘cornice’ che contorna un quadro d’autore e che permette di ‘appenderlo’ da qualche parte… una cornice però che potrebbe anche cambiare senza causare al dipinto alcuna conseguenza di rilievo. La storia, dunque, come un semplice ‘accidens’, ignorando che senza tempo e luogo ‘propri’ (accidentes aristotelici) la persona umana (ente sostanziale) non esisterebbe neppure… in atto.

E’, in fondo, l’ottica di riferimento di tutti coloro –o almeno della loro maggior parte– che tendono, più o meno consapevolmente, ad ipostatizzare, assolutizzare o, peggio, trascendentalizzare le realtà ritenute maggiormente rilevanti per il vivere umano, in una ‘logica’ idealista che non permette di assegnare al ‘qui’ ed ‘ora’ altra possibilità che la –purtroppo– sempre necessaria contingenza creaturale, in attesa del felice momento in cui finalmente ‘passerà la scena di questo mondo’ e potremo immergerci nella ‘realtà vera ed immutabile’ che ora ci è –di fatto– negata. In questa prospettiva di stampo idealista, tuttavia, la storia/storicità non è altro che il nuovo nomen della ben nota ‘caverna’ in cui gli uomini giacciono –loro malgrado– immobilizzati in uno stato di sostanziale deprivazione di ciò che più direttamente costituisce lo scopo ‘finale’ della loro esistenza; unica consolazione e motivo di ‘conforto’ rimane la certezza della ‘temporaneità’ di questo stato di cose… di questo vero e proprio ‘esilio’!

Scrive in proposito il nostro autore:

«la cosiddetta Filosofia (Teologia) ‘tradizionale’ ha considerato e continua a considerare ampiamente il fattore della storia quale ‘medium in quo’, quale circostanza, ma la omette quale medium quo, come cioè configurante l’atto. E’ questa la ragione per cui le si rimprovera il difetto di soffrire di idealismo e teologismo».


La forza paradigmatica assunta –indebitamente– da tale concezione all’interno del percorso storico, soprattutto spirituale, del Cattolicesimo (nella prospettiva filo-platonica che ha tendenzialmente contrassegnato le basi dell’esperienza spirituale di ogni secolo) non necessita in questa sede di ulteriori approfondimenti od illustrazioni; basti solo pensare alla sua portata in ambito c.d. pastorale: poiché oggi, in un mondo scristianizzato e secolarizzato, non si può fare diversamente, adattiamoci, facendo di necessità virtù …in attesa di ‘tempi migliori’; la storia/storicità in tal modo è semplicemente ‘tollerata’.

Storia e ‘realtà’, storicità e ‘verità’, vengono così a trovarsi di fatto contrapposte, in reciproca contraddizione, in una prospettiva incapace di riconoscere l’immensa portata anche ‘ontologica’ del mistero teologico dell’Incarnazione (via Incarnationis) in cui Dio stesso non solo “ha posto la sua dimora in mezzo a noi” –forse, suo malgrado– ma, molto più radicalmente, ha assunto in modo ‘definitivo’ la piena natura umana innalzandola fino a sé nella gloria, secondo il noto principio cristologico patristico: “quod non adsumitur non redimitur” (San Gregorio Nazianzeno, Sant’Atanasio, Sant’Ireneo).

Proprio la profonda comprensione prima di tutto teologica della portata non solo circostanziale della storia/storicità ha spinto T. Jiménez Urresti ad andare ben oltre questa prima ‘apparenza’ riconoscendo alla storia –quale ‘congiunto’ spazio-temporale del vivere umano– ‘altre’ funzioni assolutamente fondanti e caratterizzanti la realtà giuridica, che egli considera comunque sotto il solo aspetto ‘canonico’ pur non potendosi escludere una portata giuridica più generale del suo ragionamento.

Per il primo Direttore della Sezione di Diritto canonico della Rivista Concilium il carattere molteplice e diveniente delle cose che sono (la storia/storicità, appunto) costituisce infatti non solo –e non tanto– il “medium in quo” del fenomeno canonico ma ‘fondativamente’ il suo “medium a quo” ed il suo “medium quo”, nella probabile doppia valenza sintattica tanto ablativa che dativa.

Il molteplice divenire del vivere umano (storia), cioè, non è soltanto e semplicisticamente lo status “in” quo (complemento di stato in luogo) il ‘giuridico’ viene quotidianamente declinato, come se avesse da un’altra parte la sua origine, la sua consistenza e la sua finalità; il concreto vissuto umano è, invece, sia la fons “a” qua oritur Ius (complemento di origine/moto da luogo: “ex facto oritur Ius”), che l’instrumentum (ablativo - complemento di mezzo) che costantemente modella la stessa giuridicità, che –forse prima di tutto– il ‘destinatario’ (dativo - complemento di termine) stesso cui la giuridicità s’indirizza. Tanto più che, non dandosi Diritto/giuridicità fuori del vissuto umano, l’esito stesso del Diritto –il suo telos– dev’essere intra-storico:

«ogni attuazione di condotta –e pertanto di libertà– è propria di un essere intelligente e si muove per finalità, procede per via di causalità finale: una volta deciso il fine, egli crea ed ordina gli strumenti pertinenti attraverso la cui attuazione raggiunge il fine».

In questa prospettiva è lampante la concezione assolutamente ‘categoriale’ del Diritto/giuridicità cui l’autore fa costante riferimento: il Diritto è dalla storia, nella storia, attraverso la storia e per la storia, poiché ‘prodotto’ dall’uomo intelligente e libero che vive ed agisce in un preciso tempo e spazio.


3. La storicità come dimensione costitutiva della Chiesa

Nonostante il convinto e reiterato ricorso alla mutevolezza storica del giuridico-canonico, il forte riferimento alla storia/storicità che caratterizza e configura il pensiero di T. Jiménez Urresti si manifesta però lontano da ogni storicismo o sociologismo moderni, cercando direttamente all’interno della Teologia (positiva) la più profonda ed irrinunciabile radice costitutiva del giuridico ecclesiale –o Diritto canonico–:

«la giustificazione radicale del fenomeno canonico può essere soltanto teologica, più esattamente ecclesiologica. Ogni altra ragione, pur godendo di convenienza o utilità, è insufficiente per non fornire una ragione teologica. [Questa] dev’essere ragione positiva richiesta dalla natura-consistenza della Chiesa. Non una ragione propria dall’interno della Chiesa, che ne è dimensione intrinseca; ma nella dimensione della sua storicità, che si realizza nell’esteriore socio-storico della Chiesa e che è un’altra dimensione intrinseca della sua consistenza».


Una questione, dunque, di ‘consistenza’ posta alla radice stessa della Chiesa; una consistenza in cui la componente categoriale (il divenire nel tempo e nello spazio) si trova a giocare un ruolo assolutamente decisivo… come, p. es., la corporeità nella persona umana.

L’approccio che ne deriva è tutt’altro che immanentista, come se ciascun hic et nunc costituisse ‘la’ dimensione conclus(iv)a del giuridico ecclesiale colto soltanto ed esclusivamente come ‘fenomeno’ in atto; tale approccio però sfugge anche le derive retrospettiche tanto del fondazionismo che delle Scienze socio-antropologiche le quali si accontentano di cercare nella storia –in quanto cioè ‘già fatto’ o ‘unicamente avvenuto’– sufficienza di motivi causali (ontologici per il fondazionismo, fenomenologici per la Sociologia) per ‘giustificare’ la concreta attualità.

In tutt’altra prospettiva lo sguardo del nostro autore s’indirizza con forza, invece, verso il futuro: quel futuro che Cristo ha affidato alla sua Chiesa perché ne faccia la ‘soglia’ dell’eternità, annunciando ed instaurando “il Regno di Cristo e di Dio”, costituendo essa di questo Regno “il germe e l’inizio” (LG 5); quel futuro che la Chiesa ha imparato a chiamare ‘missione’ riconoscendo in essa la propria dimensione più autentica;

«ogni società ha la propria giustificazione, natura, funzioni, ragion d’essere, e principio normativo o norma originaria o fondamentale, nella propria finalità, secondo il primo principio della logica normativa: “il principio è il fine”. Ed il fine della società della Chiesa, quale fondata da Cristo, è la missione che Cristo le affidò: missione universale storico salvifica».


Una dimensione –la missione– che lo stesso Vaticano II, soprattutto nell’innovativa Costituzione pastorale Gaudium et Spes, ha caratterizzato come intra-mondana, al pari della fede che anima e sostiene questo cammino verso la patria eterna, fede che non smette di essere teologale tanto nella sua origine che nella destinazione anche se, giunta oltre la storia, smetterà di ‘essere’, lasciando il posto alla visione beatifica.

«La Chiesa […] fondata nel tempo dal Cristo redentore […] ha una finalità salvifica ed escatologica […]. Essa poi è già presente qui sulla terra, ed è composta da uomini, i quali appunto sono membri della città terrena, chiamati a formare già nella storia dell’umanità la famiglia dei figli di Dio, che deve crescere costantemente fino all’avvento del Signore. Unita in vista dei beni celesti, e da essi arricchita, tal famiglia fu da Cristo “costituita e ordinata come società in questo mondo”, e fornita di “convenienti mezzi di unione visibile e sociale”. Perciò la Chiesa, che è insieme “società visibile e comunità spirituale”, cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio» (GS 40).


Ciò che conta, allora, non è più ‘dove’ e ‘come’ nasca la Chiesa, ma cosa essa debba essere/fare: il mandato ricevuto, la consegna

Quel mandato che, pur in una disarmante genericità ed indefinitezza, non ammette però dubbi né esitazioni: «come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi […] a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 21. 23); «andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo» (Mc 16,15).

La Chiesa, dunque, trova la propria giustificazione teologica “nel” compiere e “per” compiere la missione costitutiva con la quale Cristo stesso l’ha fondata!

E’ all’interno di questo mandato da giocarsi completamente entro i confini della storia, che si colloca e si coniuga con piena legittimità l’esperienza giuridico-canonica della Chiesa quale espressione della necessaria contingenza/categorialità del vivere hic et nunc un comando tanto radicale e tanto generico.

«Non c’è necessità di giungere ad una ‘mistificazione’ del Diritto canonico. Il Diritto canonico non è sacramento, né quasi-sacramento, né riguarda, parlando in assoluto, l’essenza della Chiesa. Il Diritto canonico è di pertinenza della socialità, e pertanto della visibilità della Chiesa. E, per una maggior esattezza: la storicità è una nota di esigenza della stessa nozione di Chiesa pellegrina, ma la sua storicità reale non appartiene alla sua essenza, quanto solo alla sua esistenza: la Chiesa pellegrina esiste solo come Chiesa storica, come congregazione o associazione dei credenti in Cristo dotati della missione divina che Cristo le affidò».

«Ciò che è storico è sempre concreto per definizione, ed in questo settore si colloca la normatività che la Chiesa stessa deve stabilire».

«In altre parole: è necessario negare che il Diritto canonico debba essere già dato con la natura della Chiesa, poiché allora sarebbe ‘Diritto divino’ e non norme date dalla stessa Chiesa: si sarebbe fuori questione. E’ Sufficiente affermare ed è necessario affermare che nella natura della Chiesa, nella sua storicità, è data l’esigenza di un Diritto canonico».


Chiave di volta della concezione dell’autore –che lo guida con assoluta fermezza– è dunque la peculiare concezione ecclesiologica ribadita con forza dal Concilio Vaticano II in Lumen Gentium n. 17: la natura ‘missionaria’ della Chiesa!

«Come infatti il Figlio è stato mandato dal Padre, egli stesso ha mandato gli Apostoli […]. E questo solenne comando di Cristo di annunziare la verità della salvezza, la Chiesa l’ha ricevuto dagli Apostoli per adempierlo sino all’ultimo confine della terra (cf. Atti 1, 8). […] Perciò continua a mandare ininterrottamente missionari, fino a che le nuove Chiese siano pienamente costituite e anch’esse continuino l’opera di evangelizzazione. E’ spinta infatti dallo Spirito santo a cooperare perchè sia mandato ad effetto il piano di Dio, il quale ha costituito Cristo principio di salvezza per il mondo intero».


La Chiesa esiste in virtù di una missione, di un mandato, di un incarico, di una finalità etero-fondata, di una volontà ad essa esterna che l’ha costituita nella storia affidandole un compito da assolvere all’interno della storia (‘in’ e ‘per’ la storia). E’ in ragione di questa sorta di necessaria ‘contemporaneità’ tra Chiesa e storia che nasce e dev’essere ritenuto fondante il loro rapporto; la natura missionaria della Chiesa, infatti, non avrebbe alcun significato –ontologico–, nessuna ragion d’essere al di fuori della storia!

Un’impostazione di questo tipo porta ad evidenziare un presupposto di solito non colto da coloro che accusano l’autore di semplice sociologismo o rinnovato Giusnaturalismo: proprio la de-teologizzazione del Diritto, in fondo la sua ‘categorializzazione’, impedisce di ritenere sufficientemente ‘fondante’ il solo fatto dell’esistenza del Diritto stesso nella compagine ecclesiale (ubi societas ibi et Ius); per l’autore infatti

«Il Diritto canonico non è dato in o per la natura –l’essenza quale principio operativo– della Chiesa, poiché questa stessa natura, in quanto normativa lo è di contenuto astratto e generico che, come tale, si colloca al livello pre-storico e per essere compiuta storicamente necessita di forma storica. Così la natura stessa della Chiesa si porta dentro il principio di necessità di un Diritto canonico; tuttavia non contiene e non fornisce Diritto canonico alcuno, poiché infatti questo sarebbe Diritto divino e non norme date dalla Chiesa. La forma storica della Chiesa non è, né può esser data da questa natura (che sarebbe di ordine fisico e di causalità efficiente), anche se dev’essere consentanea con essa, ma è in e per la sua dimensione storica, in e per la quale si realizza il deontico concreto per la causalità finale. Questo, in altre parole, è quanto già detto sulla necessità di ordinamentazione di ogni norma originaria. Solo così possono esser giustificate ecclesialmente l’esistenza di un ordinamento canonico, il suo radicemento nella Chiesa, e l’obbligatorietà specifica di compimento attribuita allo stesso. Tutto ciò che la dimensione socio-storica della natura della Chiesa può offrire è [solo] l’esigenza di un Diritto canonico».


E’ questa lucidissima prospettiva/consapevolezza teologica e filosofica che permette a T. Jiménez Urresti di distinguere accuratamente tra la ‘norma fondante’ la Chiesa, cioè la missio affidatale da Cristo, e la ‘norma fondata’ dalla Chiesa, cioè il Diritto (canonico) di cui essa non ha potuto non dotarsi autonomamente per realizzarsi secondo la propria finalità costitutiva.

In tal modo, però, il Diritto canonico rimane completamente ‘interno’ alla Chiesa, trovando “da” essa e “per” essa origine e consistenza, nella continua necessità di ‘adeguarsi’ a ciò che la Chiesa stessa è o ritiene di essere/dover essere in ciascuna ‘propria’ fase di realizzazione storica della missione affidatale.

«La missione divina universale affidata da Cristo alla Chiesa è missione storico-salvifica. In quanto salvifica, nel suo essere attuata, fa sì che la Chiesa sia ‘il Sacramento della Salvezza’; in quanto storica o per il fatto di essere realizzata storicamente riveste la Chiesa della nota di storicità, cioè, della responsabilità di agire con attuazioni di densità e consistenza storica che si è soliti riassumere nell’attuazione delle ‘tre funzioni’ (tria munera), nelle quali rinchiude e trasmette, nell’attuarla, l’efficacia salvifica. Tuttavia per questa attuazione, che deve realizzarsi e solo può realizzarsi con attuazioni concrete, Cristo lasciò alla sua Chiesa la responsabilità e la necessità di determinare in concreto tali ‘forme concrete’ storiche di attuazione. Precisamente per questo i teologi sono soliti parlare di ‘istituzione generica’ dei sacramenti e della gerarchia, o di una ‘sostanza’ o ‘struttura fondamentale’, posta da Cristo e chiamata perciò ‘Diritto divino’. Tale fondazione ‘generica’ responsabilizza precisamente gli inviati a decidere le forme concrete, il funzionamento concreto e l’ordine concreto di compimento di tale missione o attuazione delle tre funzioni e di quanto esse implicano. Sorge così uno ‘Ius canonicum’, nel cui ambito sistematico entrano decisioni molto varie in ragione dell’oggetto –attuazione– a cui si riferiscono: ai sacramenti ed all’amministrazione dei beni ecclesiastici o al computo del tempo, per citare alcuni esempi. E determinare il tempo non è qualcosa di sacramentale, anche se i sacramenti si realizzano necessariamente in un tempo e in uno spazio concreti».


In questa prospettiva diventa inevitabile –ma pur necessario a questo punto– lo scontro col presupposto fondativo della c.d. Scuola di Monaco che, caratterizzando Parola e Sacramento come già intrinsecamente giuridici, presupponeva una pre-esistenza di fatto del Diritto alla Chiesa stessa, facendone un datum intorno a cui ‘coagulare’ la stessa Comunità credente (ordinatio fidei): un vero ‘trascendentale’ addirittura costitutivo della stessa Chiesa.

Per Mörsdorf e discepoli la storia è così solo un hic et nunc in quo la Chiesa, fondata e stabilita in modo giuridico in una diversa ‘dimensione’ dell’esistenza (o dell’essere?), deve rendersi presente ed attuarsi su questa terra: la dimensione contingente in cui l’eterno prende attualmente forma. Le affermazioni pseudo-filosofiche di A.M. Rouco Varela circa l’esistenza di un “Diritto divino soprannaturale” e la sua versione ‘categoriale’ –unica– intra-storica nel Diritto canonico sono inequivocabili in merito. Non migliori paiono le posizioni di E. Corecco, secondo cui “Il Diritto è una realtà teologico-soprannaturale, ma come tale è anche una realtà che deve incarnarsi nella storia, assumendo forme giuridiche anche umane”.

Per T. Jiménez Urresti, al contrario, il Diritto canonico consegue dalla essenziale storicità della Chiesa, presentandosi a tutti gli effetti creatura della Chiesa anziché suo creatore. Per la Chiesa la storicità non è un accidens (medium in quo) ma un elemento caratterizzante la sua esistenza (medium a quo e medium quo), come la pienezza della natura umana per Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo.

«D’altra parte, il principio secondo cui la Chiesa è ‘in Cristo il Sacramento universale della Salvezza’ si riferisce alla Chiesa considerata nella sua globalità, e non a tutti e ciascuno gli elementi o fattori o aspetti contenuti nel concetto, nella realtà o nelle attuazioni della Chiesa. E’ un po’ come nell’uomo, che è ‘essere umano’, ma non tutti i suoi elementi, operazioni, ecc. , ricevono la qualifica di ‘umani’, poiché alcuni sono semplicemente ‘dell’uomo’ (‘hominis’), per quanto tutti abbiano il proprio significato nella globalità dell’essere umano».


Lo spazio, pur fondamentale, che T. Jiménez Urresti dedica alla storicità come tale nella sua riflessione dottrinale non è però in realtà né ‘diretto’, né troppo ampio, in quanto tale dimensione dell’esistenza ecclesiale, pur decisiva sotto il profilo teologico-costitutivo, non ha lo specifico rilievo comportamentale che polarizza, invece, la prospettiva teoretica più generale dell’autore: la questione ecclesiologica non è infatti di specifico interesse per l’agire canonistico una volta che abbia trovato in essa il proprio fondamento!


4. La relatività della norma canonica

L’altro punto di vista privilegiato del nostro autore sul tema di questa Giornata di studio –del tutto complementare alla storicità e necessariamente da essa derivato– è costituito dalla ‘relatività’ delle norme giuridiche, relatività ontologica cui neppure le norme canoniche sono sottratte: la storicità del vivere secundum Ius rende infatti ontologicamente ‘relativa’ ognuna delle concretizzazioni puntuali di quel genere del tutto specifico di normatività che è il Diritto… ogni Diritto.

L’espressione più chiara di questo pensiero è forse quella affidata all’Editoriale di Concilium del 1965 in cui il nostro autore si associava P. Huizing (canonista olandese) e N. Edelby (vescovo, padre conciliare e canonista cattolico orientale) nella condivisione della prospettiva comune:

«preoccupato di mantenere la sostanza della costituzione divina della Chiesa, ed in uno spirito di servizio, questo numero di ‘Concilium’ vorrebbe aiutare i teologi a “degiuridizzare” la Teologia ed i canonisti a “deteologizzare” il Diritto canonico. In tal modo questi potrebbero in definitiva collaborare coi teologi della Pastorale e dell’Ecumenismo, così come coi legislatori, per presentare la Chiesa e le sue funzioni con un aspetto canonico che la renda progressivamente più attraente e munita di un apparato legislativo sempre più adeguato ai segni di ciascun tempo, come la voleva Giovanni XXIII».


Ciò che in quell’occasione risaltò maggiormente, non senza strepito né un certo sgomento da parte di molte orecchie ‘pie’, fu lo slogan programmatico di “de-teologizzare il Diritto canonico e de-giuridizzare la Teologia”; l’impatto frontale, tuttavia, di una formulazione così esplicita e prorompente –e rimasta tutt’ora oscura a molti– non permise di rendersi conto del presupposto sottostante, ancor più radicale e pervasivo: il “principio della relatività canonica”:

«la base teologica pre-giuridica è spesso ‘indifferente o generica’ in rapporto all’espressione strumentale concreta che è la norma canonica. O inversamente: occorre considerare la ‘natura’ essenzialmente ‘relativa’ di numerose disposizioni canoniche, resa possibile dal carattere generico delle loro basi teologiche. […]

La giusta valutazione della relatività canonica nel tempo e nello spazio contribuirà non poco a liberare la Teologia da questa accusa. L’analisi e l’apprezzamento della vita storica del Diritto canonico sono indispensabili per fissare in molti casi la dottrina teologica esatta, poiché, mancando di prospettiva storica e dei dati storici canonici, una tentazione minaccia il teologo: quella di identificare delle Leggi, degli usi e dei costumi anche molto stabili (e la forza di una tale tentazione è proporzionale a questa stabilità), con delle norme di Diritto divino di carattere immutabile, quando non si abbia in effetti che delle regole canoniche che rivelino il potere discrezionale della Chiesa, che può modificarle».


Alla base di questo modo di approcciare il Diritto canonico sta una delle convinzioni più stabili della dottrina teologica classica (sia tardo che neo-scolastica): la Canonistica appartiene alla c.d. Teologia pratica. Ne deriva immediatamente non solo la ‘vocazione’ specificamente pastorale del Diritto canonico ma, più ancora, la necessità della sua efficacia pastorale concreta:

«i teologi della Pastorale accusano il Diritto canonico di non avare una agilità sufficiente e di mancare d’efficacia strumentale. Essi non dimenticano che la finalità del Diritto canonico è la salvezza delle anime. Essi sanno che entro questi due poli –la costituzione sociale della Chiesa, e la salvezza delle anime– il Diritto canonico è uno strumento per la Pastorale, e che come tale è necessario continuamente revisionare la sua fedeltà teologica ed il suo adeguamento pastorale. La costituzione sociale della Chiesa, non essendo immutabile che nelle sue linee sostanziali, rende questa revisione possibile; e le necessità cangianti della Pastorale la rendono necessaria.

Si comprende che la “teologizzazione” del Diritto canonico assolutizza le Leggi canoniche, le immobilizza e le fissa col rigore assoluto dell’immutabilità della verità teologica, trasmettendo questa stessa immobilità alla Pastorale, mentre questa è per definizione dinamica ed agile, come la vita stessa. Di qui il pregiudizio pastorale che ne deriva.

E’ per questo che le necessità pastorali, incompatibili con l’immobilità canonica che le opprime dalla propria rigidità, spingono così sovente la Teologia ad approfondire ed a prendere una coscienza più chiara dei punti di dottrina teologica anteriori al Diritto, come un avvio previo e necessario per giungere ad una formulazione canonica adeguata che ne deriva. Non è questa precisamente una delle esperienze più marcanti del Vaticano II?»


Base teoretica irrinunciabile per un approccio di questa portata è l’insegnamento di S. Tommaso, cui T. Jiménez Urresti (teologicamente formato nella neo-Scolastica gesuitica) fa costantemente riferimento come a ‘certezza’ indubitabile.

«Ogni norma deontica, naturale o divina, ordinamentata o no, ha contenuto prescrittivo astratto, essendo data a molti soggetti e per molti atti in vista di un compimento de futuro. Non si tratta però di un astratto universale come ‘gli universali’ della Filosofia pura e ragione speculativa; né di vigenza universale per la necessità fisica delle Scienze naturali, come quella di gravità. La sua astrazione è della ragion pratica, di formulazione a volte universale, ma di contenuto generale in materia ed ambito del ‘dover essere’, di condotta, oggetto di Scienza deontica, indirizzato all’uomo libero, non predeterminato nella sua condotta. […]

Ne deriva che [citando alla lettera S. Tommaso]:

- “I principi della Legge naturale non possono applicarsi a tutti allo stesso modo (con la stessa concretezza) di compimento a causa della gran varietà delle cose umane e degli uomini dei diversi tempi, latitudini, razze, culture, e condizioni concrete differenti. Di qui proviene la diversità delle leggi positive nei diversi paesi” [«principia communia legis naturæ non possunt eodem modo applicari omnibus, propter multam varietatem rerum humanarum. Et exinde provenit diversitas legis positivæ apud diversos». Summa Theologiæ, I-II. 95, 2 ad 3].

- “Le cose umane, che sono indirizzate ad un fine, non sono predeterminate, ma si diversificano in molti modi secondo la diversità delle persone e degli argomenti” [«Ea quæ sunt ad finem in rebus humanis non sunt determinata, sed multipliciter diversificantur secundum diversitatem personarum et negotiorum». Summa Theologiæ, II-II, 47, 15c].

- Le leggi umane sono norme la cui prescrizione “imprime nelle menti degli uomini una regola che è principio per attuare” [«Et ideo rebus irrationalibus homo legem imponere non potest, quantumcumque ei subiiciantur. Rebus autem rationalibus sibi subiectis potest imponere legem, inquantum suo praecepto, vel denuntiatione quacumque, imprimit menti earum quandam regulam quæ est principium agendi». Summa Theologiæ, I-II, 93, 5c]».


Che in questo modo l’autore affronti espressamente, e risolva pure, la nostra domanda sulla categorialità o trascendentalità del Diritto è chiaro: quanto è universale nella norma deontica –e tale è il Diritto– non va confuso con ciò che la Filosofia intende quando ragiona intorno a ‘gli universali’: mentre questi, infatti, tendono a sfuggire alla stessa categorialità, imponendosi attraverso una necessità di carattere ontologico (anche se semplicemente in rebus, secondo l’aristotelismo), altrettanto non vale in nessun modo per i contenuti ‘generali’ delle norme deontiche, i quali sfuggono anche la stessa ‘necessità fisica’, poiché l’azione è posta sempre in atto da una persona ‘libera’ che agisce –comunque– per ‘determinazione’ singolare.

E’, in fondo, il portato della generalità deontica contro l’universalità speculativa: ciò che oggi viene ricondotto alle logiche intensionali in alternativa alle logiche estensionali, ma che già S. Tommaso aveva ben esplicitato:

«Quæ sunt naturaliter iusta non sicut principia communia, sed sicut quædam conclusiones ex his derivatæ; quæ ut in pluribus rectitudinem habent, et ut in paucioribus deficiunt» [Summa Theologiæ, I-II, 94, 4 ad 2].


La portata delle norme comportamentali è suapte natura generale e generica: “ut in pluribus” e tollera, ammette e perfino regolamenta una loro –giustificata– inosservanza “ut in paucioribus”, come accade in ambito canonico –addirittura– con un istituto giuridico espressamente previsto dal Diritto positivo qual è la ‘Dispensa’ (Can. 85).

In questa prospettiva, poi, l’autore accentua ulteriormente l’esplicitazione del principio di ‘relatività’ ricorrendo alla necessaria –e strutturale– distinzione tra la volontà del Legislatore ed il dettato concreto della sua norma:

«non c’è equazione tra ciò che il Legislatore, anche divino, esige e ciò che può racchiudere nella sua norma o Legge: ogni norma naturale o rivelata è espressione positivizzata della volontà del Legislatore ed è per sua natura […] una prescrizione astratta, generica e generale. Nella norma non entra la volontà intera del Legislatore; allo stesso modo Dio, indirizzando all’uomo la propria Rivelazione, deve attenersi al linguaggio umano (GS 58), e questa natura della norma è l’unico linguaggio umano per formularla. In tal modo, occorre distinguere tra Volontà divina e sua norma, tra intenzione dell’autore e intenzione oggettivata della sua norma o Legge».


I pochi elementi sin qui illustrati rischierebbero tuttavia di fermarsi al semplice rilievo di una ferma e motivata concezione del Diritto come categoriale piuttosto che come trascendentale; questo però sarebbe un grave torto a sì grande teologo e canonista: la sua riflessione, infatti, è andata ben oltre la deriva idealista e/o sacrale nella concezione del Diritto canonico per illustrarne e spiegarne, invece, le logiche profonde che lo rendono un vero ‘prodotto’ del vivere quotidiano anche della Comunità dei discepoli del Signore Gesù Cristo, attraverso due differenti cammini: uno filosofico ed uno teologico.


5. La ‘logica deontica’

Molto al di là delle semplici categorie di storicità e relatività che palesano la portata del tutto categoriale del Diritto canonico, T. Jiménez Urresti imposta la propria riflessione teoretica più matura e profonda non tanto nell’orizzonte della Fenomenologia sociologica o antropologica, che oggi potrebbero già trovare vasta accoglienza presso buona parte dei giuristi di più recente formazione, ma su di un piano prima di tutto ed essenzialmente ‘logico’ e, diremmo, ‘tradizionale’ (ecclesiasticamente parlando).

L’autore, sfuggendo storicismi e derive troppo banalmente relativistiche e fedele alla formazione teologica approfondita presso i Gesuiti dell’Università Gregoriana alla metà del secolo, colloca la questione all’interno di una solidissima prospettiva tanto filosofica che teologica: la c.d. logica deontica già ben nota a S. Tommaso, ma in seguito dispersasi tra i meandri della tarda Scolastica e, tosto, sopraffatta dal dominio pressoché assoluto della –sola– logica formale consegnataci dal Razionalismo rinascimentale mercè l’apporto di F. Suarez, e completamente assente nella revivescenza neo-scolastica.

Per T. Jiménez Urresti non è possibile nessuna confusione tra i paradigmi propri della Filosofia e Teologia e quelli della Canonistica: formali i primi, deontico il secondo; deduttivi i primi, pratico il secondo. Le Scienze normative (principalmente il ‘Diritto’, l’Etica e la Morale) occupandosi del dover agire anziché del dover essere, seguono una logica del tutto differente rispetto alle Scienze/Discipline ‘formali’, una ‘logica’ talmente diversa da rendere incomunicabili i due ambiti di studio/conoscenza e non equivalenti i rispettivi approcci logico/metodologici. Anche se, infatti, “agere sequitur esse”, agere non è certo qualitativamente uguale ad esse.

Sotto questo profilo l’autore è uno dei pochi canonisti del Novecento a sapersi riferire con piena cognizione di causa e competenza alle strutture più profonde del sapere teologico tradizionale secondo la prospettiva che oggi chiamiamo ‘epistemologica’:

«ci sono tuttavia due Teologie: una speculativa ed un’altra pratica, secondo la terminologia di S. Tommaso. O meglio, due parti di quella “unitas Scientiæ” che è la Teologia totale. Due parti che si differenziano non solo per il proprio oggetto materiale –de rebus, la speculativa; de actibus, la pratica–, ma anche per il loro metodo di studio, poiché il nostro intelletto agisce in una con la logica o leggi del pensare della ragione speculativa, e nell’altra con la logica della ragion pratica.

Le conclusioni nella Teologia speculativa sono conclusioni dottrinali, poiché vengono tratte dalle verità (rivelate) attraverso la via della logica enunciativa da parte della ragione speculativa, la cui finalità è conoscere la verità (rivelata) per conoscerla e contemplarla. […]

Le conclusioni nella Teologia pratica sono conclusioni pratiche, poiché vengono tratte dai principi di condotta rivelati, chiamati di “Diritto divino positivo” attraverso la via dello logica normativa e mediante la ragion pratica, la cui finalità è formulare il compimento concreto di quei principi di condotta rivelati. […]

Non basta tuttavia parlare di due parti di questa Teologia unitaria. È necessario riconoscere che queste due parti costituiscono due Scienze distinte, per le loro proprie logiche e metodi».


E’ questa riflessione, che l’autore sviluppa dall’inizio degli anni ’80, lo snodo principale del suo pensiero metodologico, che rimane tutt’ora una soglia inviolata dalla maggior parte della dottrina canonistica. Ciò che polarizza il suo sforzo intellettuale è la necessità –assoluta– di distinguere teoreticamente e far cogliere la differenza strutturale tra i due modi di ragionare: quello speculativo e quello pratico. Con uso competente e corretto del linguaggio scolastico e ricorrendo alle sue fonti più autorevoli, il nostro autore indica con chiarezza la specificità dell’ambito deontico rispetto a quello speculativo:

«nel sillogismo enunciativo, la proposizione minore constata l’esistenza di un caso o di un (modo d’) essere del soggetto della proposizione maggiore, per concludere applicando a questo (modo d’) essere o caso il predicato della proposizione maggiore. Nel sillogismo normativo giuridico la minore non può esprimere nulla di esistente, poiché il compimento concreto del principio di condotta formulato nella proposizione maggiore non esiste in realtà: […] e in un certo modo è solo pre-vedibile, pre-sumibile, pre-supposto, […] “ex præteritis oportet nos quasi argumentum sumere de futuris”, “ex his quæ ut in pluribus accidit” (Summa Theologiæ, II-II, 49, lc. e ad 3)».


Non solo questo, tuttavia: egli denuncia pure con estrema lucidità –e non senza ‘stupore’– il progressivo decadimento di questa consapevolezza lungo i secoli fino alla sua completa estinzione, nonostante già l’Aquinate avesse formulato le riflessioni essenziali sulla logica normativa, che avrebbero potuto essere sviluppate in seguito dalla Scolastica. Di fatto però questo non è accaduto, come ben dimostra la formazione insufficiente degli Ecclesiastici in metodologia deontica, che T. Jiménez Urresti stigmatizza apertamente: i futuri Chierici infatti, nella loro formazione filosofica e da varie generazioni

«studiano la Disciplina della Logica, ma solo quella enunciativa o formale; e nulla, e nessuna sua menzione, della logica normativa, pur considerando che tutte le Scienze pratiche di condotta o deontiche che tuttavia studiano –Etica, Morale, Diritto– ed anche le decisioni di ciascuno ogni giorno, procedano per logica normativa».


La logica deontica, appunto, è la chiave di volta della riflessione del nostro autore che le dedica decine di pagine in vari dei suoi scritti più speculativi; logica deontica segnata ab imis fundamentis proprio dalla irrinunciabile categorialità dell’agire umano.

Come alla base delle Scienze/Discipline formali sta il c.d. sillogismo formale-modale, così alla base delle Scienze/Discipline normative sta il c.d. sillogismo deontico quello, cioè, necessario affinché le statuizioni ‘generali’ (ut in pluribus, secondo la formulazione di S. Tommaso) tipiche della ‘norma comportamentale’ possano essere convenientemente tradotte in concrete scelte operative da parte di ciascun singolo soggetto agente:

«la logica normativa o delle Scienze normative, o logica deontica (da “deos” – “deontos”: dovere) o delle Scienze del dovere, formula le leggi della “recta ratio agendi” o “recta ratio agibilium”. Essa riguarda il modo concreto di formulare gli imperativi o norme di condotta futura, portandoli fino all’imperativo concreto del suo compimento.

Le leggi di condotta non si occupano di descrivere o enunciare qualcosa che è […]; tantomeno di descrivere o enunciare il futuro della condotta […].

Le Leggi non descrivono ma prescrivono una condotta de futuro. Per questo, il modo verbale con cui si esprimono è l’imperativo (o suo equivalente). La conclusione del suo sillogismo, come vedremo, è di semplice “probabilitas conjecturalis”, non di certezza».


Sotto il profilo strutturale e funzionale anche questo paradigma logico, come il ben più noto ‘sillogismo formale-modale’ si compone di tre elementi strutturali denominati premessa maggiore, premessa minore e conclusione, ciò che tuttavia questi elementi ‘sono’ e ‘significano’ in ambito deontico è –e rimane– assolutamente peculiare. Proprio in questa linea l’autore illustra le specifiche più proprie del sillogismo normativo o deontico in continua dialettica con la logica formale tipica della Teologia speculativa dalla quale mette ogni impegno per differenziarlo:

«per attuare rettamente si richiede una duplice conoscenza: quella del generale e quella del concreto previsto. Il difetto di una delle due è sufficiente perché risulti impedita la correttezza dell’attuazione. Non è tuttavia la conoscenza dell’universale o norma generale a ricoprire la funzione principale nell’attuazione, quanto piuttosto la conoscenza del concreto, poiché le attuazioni avvengono nel concreto».


E’ questo l’apporto tutto specifico della premessa minore del sillogismo normativo: essa, infatti,

«non è visibile o constatabile in anticipo, non solo perché la condotta futura appartiene all’ambito della libertà umana di contraddizione (adempiere o non adempiere il precetto), ma anche perché, essendo il principio generico, astratto e generale, implica dei margini di libertà di specificazione o di libera decisione sul suo contenuto, cioè, di libertà morale».


Proprio la premessa minore contiene di fatto il ‘concreto previsto’ in base a cui valutare dapprima le possibili attuazioni del principio generale ed in base a cui decidere, conclusivamente, quale concreta opzione seguire per l’azione –spesso unica– da porre in atto. Proprio il ‘concreto previsto’ tuttavia è assolutamente ‘relativo’ e ‘circostanziale’ ad ogni soggetto e ad ogni situazione concreta: gli esempi tipici addotti dalla Morale in tema di ‘legittima difesa’ o di ‘obiezione di coscienza’ non lasciano dubbi in merito. Inutile ricordare che tutto ciò appartiene concretamente alla ‘storicità’ del vivere umano.

«La conclusione di questo sillogismo, pertanto, non è di “certezza infallibile”, “come nelle Scienze dimostrative” o della logica enunciativa. Né tanto meno è di “certezza storica” o morale, come nelle Scienze storiche. Né di certezza fisica, come nelle Scienze positive o della natura. Così ci dà solo la “congettura”: “conjectura” o “probabilitas conjecturalis” secondo la previsione fatta, secondo ciò che “ut in pluribus accidere solet”. Questa congettura tuttavia è sufficiente per agire ragionevolmente, prudenzialmente, “poiché non è possibile altra forma di attuazione”».


Ne derivano per il Diritto (comunque considerato) conseguenze difficilmente considerate, non solo p. es. dai Teologi o altri studiosi, ma dagli stessi canonisti:

«in un processo continuato di sillogismi di logica deontica la conclusione del primo sillogismo, che è valida solo “ut in pluribus”, è assunta come proposizione maggiore per uno seguente o secondo sillogismo; la conclusione di questo secondo sillogismo trasporterà il valore di “ut in pluribus” anteriore ed inoltre vi cumulerà il valore proprio della sua nuova minore, formulata anch’essa per previsione e valida solo “ut in (suis) pluribus”: la conclusione del secondo sillogismo sarà, di conseguenza, meno “ut in pluribus” di quanto lo fu quella del primo sillogismo. […] Attuando così successivamente, si giunge ad un momento in cui la conclusione è indifferente: in cui non c’è più “ut in pluribus”».


E’ dunque questa dimensione strutturale del dover agire concreto e puntuale di ciascun soggetto umano che fa riferimento alla e dipende dalla storicità intesa nella sua accezione più ampia ed esistenziale e lontana da ogni possibile svista storicistica, cioè, necessitante o in qualunque modo deterministica; è questa la conditio sine qua non per ogni realizzazione comportamentale concreta, poiché non è data azione umana fuori della storia:

«visto che la prescrizione della norma –in questo caso sociale– è a-storica ed il suo adempimento è storico, è necessario far appello alla storia per poterla adempiere facendola entrare attraverso il suo compimento, che sarà parte della storia. Si tratta, cioè, di evidenziare l’apporto della storia alla stessa storicizzazione della norma a-storica per poterla adempiere».


6. Il problema dell’Incarnazione

Il profondo fondamento teologico e logico del pensiero dell’autore sin qui riportato, ed il suo radicamento non semplicisticamente fenomenologico, conducono inevitabilmente a spostarsi verso un altro livello della trattazione, addentrandosi in questioni –ecclesiologiche e cristologiche– che smettono di essere specificamente filosofiche per entrare in tutt’altro dominio di competenza: quello ‘teologico-dogmatico’, il cui rilievo non è per nulla secondario nella prospettiva con-disciplinare che abbiamo intrapreso: l’esperienza cristiana, la Teologia e la ‘Dottrina’ ricevono infatti dalla Rivelazione biblica e dal Depositum fidei specifici ‘contenuti’ e ‘fondamenti’ –ulteriori rispetto alla elaborazione filosofica– dai quali il buon canonista non può prescindere nell’elaborazione dei propri orizzonti di riferimento.


Proprio in questa prospettiva va osservato innanzitutto come il problema fondamentale circa il valore della storicità in rapporto all’essenza della Chiesa e della sua missio constitutiva si ponga –ben prima che in ambito giuridico o filosofico– in quello teologico, in riferimento al grande tema dell’Incarnazione la cui ‘luce’, dopo il Vaticano II, è irrinunciabile non solo in campo cristologico ma anche ecclesiologico, come ben ha espresso il n. 8 di Lumen Gentium.

Dal punto di vista della Teologia dogmatica, infatti, la prospettiva soltanto ‘circostanziale’ della storicità –medium in quo– porta con sé tutte le caratteristiche basilari delle concezioni c.d. monofisite che hanno segnato la Cristologia fin dai primissimi secoli di vita della Chiesa, con una sottolineatura dell’umanità del Redentore come semplice ‘apparenza’ (circostanzialità, accidentalità), cui faceva da sfondo una radicale distanza tra la divinità e l’umanità, l’eterno e lo storico, il trascendete ed il contingente che –solo– in occasione dell’Incarnazione del Verbo nel Cristo avrebbero trovato coespressione simultanea ma non ‘strutturale’; a questo il Concilio di Calcedonia dovette opporre la dottrina dogmatica dell’unione ipostatica delle due ‘nature’, distinte ed inconfuse ma anche inseparate, attraverso la ‘assunzione’ da parte del Verbo di Dio della piena natura umana… assunzione attuatasi ‘nella’ storia, ma divenuta ormai meta-storica per il mistero dell’Ascensione al cielo del Cristo risorto.

E’ sotto questo specifico profilo teologico che le dottrine canonistiche articolatesi intorno alla Scuola di Monaco si rivelano, invece, sostanzialmente monofisite in campo ecclesiologico: la storicità non sarebbe cioè un elemento assolutamente caratterizzante la esistenza della Chiesa pellegrina sulla terra ma ne sarebbe un semplice rivestimento, un involucro contingente e temporaneo, come la natura umana del Cristo per i neofisiti delle antiche dispute cristologiche. F. D’Agostino parla lucidamente in proposito di “tentazione docetista” –che lungo la storia si ripresenta continuamente all’interno della tradizione cristiana– di minimizzare quella realtà di incarnazione del kerygma, di cui il Diritto canonico si fa (a suo modo) custode.

In quest’ottica –ancora abbondantemente praticata– il modello interpretativo dell’Incarnazione già individuato nella sua radicale irrinunciabilità dalla Scuola cattolica di Tubinga a metà del XIX sec. (ripreso ed approfondito sul cambio di secolo dal Card. J.H. Neuman, rivitalizzato dalle proposte nella linea ‘conciliare’ dello Stickler e di J. Salaverri), per quanto riproposto con fermezza dal Vaticano II (LG8) quale paradigma della strutturale complessità ecclesiologica, non risulta né esaustivo, né accettabile per questi ambienti canonistici che lo ricusano ben presto come ‘insufficiente’:

«arginare la giustificazione epistemologica del giuridico ecclesiale entro i confini rigorosi dell’Ecclesiologia post-conciliare significa limitare ulteriormente la riflessione in atto, almeno nella misura in cui la riflessione sulla Chiesa non comprende in modo adeguato una comprensione dell’uomo e dell’“evento cristiano” alla luce della Rivelazione».


Si tende così ad aggirare il monofisismo ecclesiologico con la proposta di una nuova ottica: quella antropo-teologica che continua tuttavia ad evidenziare la stessa carenza di base, astraendo la persona umana dal contesto con-naturale della storicità, assumendone una concettualizzazione del tutto idealistica e tendenzialmente trascendentale: l’uomo creato e redento in Cristo –invece di quello concretamente esistente nell’hic et nunc storico che Cristo è venuto a salvare–; in tal modo “il problema del Diritto ecclesiale tocca immediatamente la fede, perché tocca la natura dell’uomo creato da Dio e redento in Cristo e la natura della Chiesa”; l’attività giuridica, infatti,

«è inerente all’uomo in quanto uomo, per il fatto che è un essere sociale; l’uomo redento in Cristo entra nella Chiesa, nuovo popolo di Dio, con tutte le esigenze intrinseche alla sua natura, che, anzi, per opera della grazia, vengono in essa pienamente realizzate. […]

Poiché l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1, 26), è persona, creatura razionale e libera, come Dio, capace di conoscerlo ed amarlo. Per il fatto stesso che è persona, l’uomo è capace di essere in relazione con l’altro e di realizzarsi mediante il dono di sé. Proprio per il suo essere relazionale e sociale, l’uomo non è chiamato da solo alla salvezza, ma insieme ad altri, e quindi per il Battesimo è aggregato ad una comunità, che è la congregazione e l’assemblea di tutti coloro che nella fede sono salvati in Gesù Cristo».


La riproposizione, seppure per vie traverse, del postulato originario è inevitabile: “il Diritto canonico [d’altra parte] nella sua essenzialità è contenuto in questa realtà dogmatica della Chiesa come popolo di Dio”: un trascendentale!


Per T. Jiménez Urresti la prospettiva era assolutamente differente poiché la Chiesa non è semplicemente collocata ‘nella storia’ ma esiste ‘per la storia’, trova cioè nella storia uno dei propri elementi costitutivi.

Cristo Signore, d’altra parte, l’ha costituita proprio perché continuasse dopo di Lui la sua missione evangelizzatrice “fino alla fine del mondo” (della storia, quindi [?]), perché attraverso il dipanarsi della storia dell’umanità rimanesse testimone ed annunciatrice del kerygma di salvezza che il Verbo fatto carne ha radicato nella storia stessa quale ‘prima tappa’ del cammino che porterà “quelli che mi hai dato […] con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo” (Gv 17, 24).

In quest’ottica la storia è davvero terminus a quo per l’esistenza stessa della Chiesa poiché è la storia stessa che ne motiva l’esistenza; allo stesso tempo la storia si presenta anche come vero terminus ad quem (‘quo’ è dativo) seppure non ‘terminale’ ed esaustivo della Chiesa stessa che mantiene, nella complessità del proprio Mistero, un’ineliminabile tensione escatologica: “vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14, 3).

Proprio questa ‘destinazione’ costitutiva della Chiesa alla storia ne regge e guida le stesse espressioni e strumentalità: essere mandati alla storia e non intercettarne i dinamismi e le logiche strutturali ed operative, non parlarne la lingua, non praticarne le espressioni, sarebbe un radicale tradimento del proprio mandato, della propria missione: della propria identità e ragion d’essere!

L’essere ‘nella’ storia per la Chiesa è come l’essere ‘nel’ corpo per la persona umana: conditio sine qua non della stessa esistenza. Proprio questa connaturale storicità, tuttavia, non solo caratterizza, ma anche plasma, il vivere e l’agire stesso della Chiesa che non può agire che ‘storicamente’, utilizzando mezzi e strumenti ‘della’ storia per conseguire obiettivi e risultati ‘nella’ storia, anche se non di natura e portata semplicemente intra-storica: tanto l’opera missionaria che l’attività sacramentale che caratterizzano ontologicamente l’agire ecclesiale sono chiarissime espressioni di ciò: “tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo” (Mt 18, 18).

Un annuncio evangelico a-storico, disincarnato, sarebbe pura gnosi, conoscenza iniziatica coltivata da qualche singolo o gruppo esoterico… eventualità combattuta già dagli stessi Evangelisti ancora durante la formazione del Canone neotestamentario, come ben testimoniano San Giovanni (1Gv 2, 18-19. 22; 4, 1-13; 2Gv 7. 11), San Paolo (Col 2, 8-9. 16-23; 1Tm 4, 1-11; Tt 1, 10-16; 2Tm. 2, 14-18) o gli stessi Atti degli Apostoli (At 8, 9-24): l’accoglienza del kerigma di salvezza deve portare invece ad aderire –sacramentalmente e concretamente– alla Comunità di fede ed alla sua vita di fraternità e condivisione (At 2, 41-48).


Poiché, dunque, il mandato missionario affidato da Cristo richiede efficacia storica, anche mezzi e strumenti che la Chiesa potrà o dovrà utilizzare dovranno essere della stessa ‘natura’ e portata; allo stesso modo l’accoglienza del Vangelo dovrà rendersi ‘concreta’ con la conversione, il cambiamento del proprio modo di stare nella storia, il proprio modo di rispondere alle circostanze e situazioni della quotidianità. La conseguenza anche a livello di comportamentalità comunitaria richiesta e dovuta (Diritto) non potrà che essere di tutta contingenza a seconda di luoghi, circostanze e persone: la relatività della norma canonica.

Nessun dubbio quindi che anche sotto il profilo teologico la realtà-Chiesa pre-esista al proprio Diritto e che questo nasca e si plasmi esattamente a partire dalla vita stessa della Chiesa (medium a quo) –assumendo in tal modo caratteristiche del tutto differenti rispetto alle premesse di qualunque altro ordinamento giuridico– e, al contempo, contribuisca a strutturarla (medium quo), divenendone parte integrante e caratterizzante attraverso il processo di Istituzionalizzazione che permette il perseguimento di uno scopo comune e stabile al di là del cambio fisico delle persone che ne erano state le prime espressioni.

In questa linea prospettica giocata completamente all’interno dell’orizzonte categoriale della storia –assunta tuttavia con valore specificamente teologico–, l’autore ha potuto fare solido affidamento sulla esplicita volontà fondazionale di Cristo nei confronti della Chiesa senza dovere allo stesso tempo ricorrere alla teoria della positivazione del Diritto divino positivo messa a punto da J. Hervada, di fatto inutile, poiché non c’è nulla fuori della storia che abbia rilevanza per l’azione ecclesiale intra-storica che Cristo stesso dopo la Pasqua ha affidato alla Chiesa fino alla fine dei tempi.


Proprio questa assoluta ‘categorialità’ tuttavia dell’adempimento di quella che può essere definita la “norma missionis” spalanca le porte ad una diversa concezione del Diritto canonico che, pertanto,

«sorge nella e per l’attuazione o compimento della missione divina, precisamente come esigenza della natura storica di questa missione divina storico-salvifica e universale ad extra e ad intra: Cristo, nell’affidarla responsabilizzò la sua Chiesa non solo a realizzare o esercitare storicamente questa missione di efficacia salvifica, ma anche e specificamente ad attuarla o esercitarla prendendosi cura della sua efficacia storica, rivestendone l’attuazione di efficacia storica […].

Il suo storicizzarsi e storicizzare non è solo per mera necessità-legge naturale di contattare i destinatari, ma perché Dio ha assunto questa necessità-legge per il proprio disegno divino di salvarci attraverso la via storica della missione. Tra questo principio e l’attuazione storica della missione sta la missione. Se alla Chiesa non fosse stata affidata tale missione, non avrebbe motivo per esigere una ragione teologica specifica per giustificare il fenomeno canonico: poiché il fine della storicizzazione di questa missione è incarnare l’efficacia salvifica della missione nell’attuazione storica di questa stessa missione: questa storia è il veicolo storico della salvezza. E il fine del fenomeno canonico è ottenere che si compia storicamente bene la sua missione».


La portata ed estensione di questo ‘mandato’ costitutivo sono perfettamente adeguate tanto alla ‘consegna’ ricevuta che alla sua possibile e necessaria attuazione:

«con parole della logica deontica, si dice che la Chiesa ha il titolo (facoltà) ed il dovere (responsabilità) di compiere non solo ciò che è stato espressamente –esplicitamente o implicitamente– comandato, ma anche di compiere quanto implichi di storicamente necessario il realizzare, così come realizzare bene la missione o mandato originario».


In questo modo T. Jiménez Urresti poté accogliere e ‘gestire’ con tutta serenità la nozione di Diritto così come conosciuto e vissuto dagli uomini, riconoscendone tutte la caratteristiche più ‘proprie’ e modulandolo attraverso il costante apporto della Storia della Chiesa (‘medium a quo’ e ‘medium quo’ del suo formarsi e divenire) ponendo al contempo grande attenzione a smascherare il presupposto sacrale sotteso alle dottrine giuridico-moralistiche pre-conciliari.

Se infatti la ‘legge’ dell’Incarnazione non è un pretesto per introdurre sistematizzazioni teoretiche e precomprensioni ideologiche (teologismi), ma si inscrive nella ‘stoffa stessa della creazione’, allora non deve essere possibile prescindere dal fatto che l’esperienza giuridica come tale appartiene all’essenza profonda del vissuto dell’umanità. Per di più le Scienze antropologiche hanno già dimostrato da tempo, con abbondanza e chiarezza di termini, il radicamento socio-antropologico del fenomeno giuridico, secondo solo a quello religioso (da cui in buona parte discende e deriva per successive ‘laicizzazioni’).


7. Conclusione

Questi pur brevi elementi forniti dallo studio del pensiero di T. Jiménez Urresti sono inequivocabili circa il valore assolutamente categoriale da attribuirsi al Diritto, anche canonico; la relatività canonica e la molteplicità e divenienza (storicità) entro la quale si colloca l’agire umano ne sono come le sentinelle.

Il modo un po’ retrò di fondare ed affrontare gli argomenti più filosofici, attraverso linguaggio, riferimenti, formulazioni e logica di stampo scolastico, se a prima vista sembra dispersivo ed inutilmente complicato ai nostri giorni, testimonia tuttavia la perdita per il passato –anche non remoto– di una grande possibilità concettuale e teoretica che avrebbe potuto senza dubbio guidare la Canonistica ed i canonisti in percorsi speculativi più equilibrati ed efficaci, soprattutto a partire dalla fase razionalista del pensiero europeo.

Se, infatti, non è corretto sostenere col senno di poi che una consolidata visione categoriale della giuridicità sarebbe stata il miglior antidoto alle sue degenerazioni positivistiche degli ultimi due secoli, rimane tuttavia non controvertibile che la sua concezione trascendentale ne ha sicuramente favorito l’assolutizzazione lungo la Modernità, fino al tragico epilogo dello Stato etico per il giuridico statuale ed alla, non meno problematica, sacralizzazione di quello canonico, reso autentico sacramento di salvezza in quanto

«manifestazione della reintegrazione dell’uomo e della vittoria sul peccato, perché […] promuove la comunione con Dio e fra gli uomini in ordine alla salvezza dei membri della comunità ecclesiale».


Una fuga meno irragionevolmente precipitosa dalle vere acquisizioni dell’autentica dottrina classica e dai suoi fondamenti più solidi, com’è invece avvenuta dall’epoca conciliare in avanti, avrebbe permesso a buona parte della dottrina del secolo scorso di evitarsi le inutili fatiche di un ‘fondazionismo’ a qualunque costo, offrendo anche alle ultime generazioni di canonisti (le nostre) la possibilità di affrontare serenamente le tematiche legate all’essenza della giuridicità, senza trovarsi paralizzati davanti alla questione odierna.

T. Jiménez Urresti lo ha mostrato con chiarezza e definitività, come –vogliamo augurarci– il lavoro di questa giornata.



A margine della chiusura della presente trattazione, meritano senza dubbio attenzione alcune obiezioni e considerazioni emerse nel dibattito successivo. In particolare quella che vede nel riferimento troppo forte alla ‘storicità’ del giuridico il rischio di storicismo e di conseguente positivismo, cui va associato il richiamo ad un’assunzione cauta dei paradigmi ‘storici’, almeno di quelli più propri della Modernità; tale assunzione, infatti, –si afferma– potrebbe acquistare valenze di grande problematicità soprattutto nel loro rapportarsi all’ambito più direttamente teologico. Ciò non toglie tuttavia –per quanto riguarda la riflessione teologica propriamente detta– che, al di là del termine concretamente utilizzato, il ‘tema’ del valore teologico della storia si ponga irrinunciabilmente, né possa essere trascurato senza porre in serio pericolo tutta la c.d. economia della salvezza.

«La Rivelazione biblica avviene nella storia; la salvezza di Dio appare nella storia; la predicazione della salvezza si riferisce a una storia, in cui Dio si rivela come salvatore.

Che il Dio della Bibbia si riveli “nella storia” è un fatto di grande importanza. Il mondo biblico si distingue, infatti, dalle civiltà circostanti e il suo comportamento religioso si distingue dagli altri appunto per il legame che unisce fede e storia, fondando la fede sulla storia».

Evitare storicismi e deviazioni pericolose del pensiero credente è senz’altro giusto, privarsi però completamente di categorie concettuali che –in determinati casi soltanto– possono diventare ambigue o ingannevoli, potrebbe risultare sproporzionato, soprattutto per chi a certi ‘concetti’ non può rinunciare senza lasciar cadere allo stesso tempo una connotazione qualificante del proprio ambito di ricerca/interesse; che se poi fosse sufficiente cambiare qualche termine per far cadere le obiezioni, occorrerebbe riconoscere che non si tratta di obiezioni sostanziali in grado d’infirmare l’impostazione della proposta dottrinale in questione!

Di questi apporti si è comunque già tenuto conto nella stesura del presente testo, cercando di adottare un linguaggio non generico e sufficientemente attento e preciso, usando il termine ‘storia’ solo quando difficilmente equivocabile oppure non facilmente sostituibile sotto il profilo sintattico.

Un’osservazione tuttavia sembra imporsi in merito, rendendo pacifica la posizione sin qui illustrata ed argomentata, e distinguendo tra ‘timori’ causati dello scricchiolare di palinsesti ormai ‘rinsecchiti’ e ‘fatti reali’: l’approccio alla tematica utilizzato da T. Jiménez Urresti non lascia il passo a nessun fenomenologismo o sociologismo; la sua posizione è fondata ed argomentata su solide basi prima di tutto teologiche (tradizionali e conciliari) e poi logiche (espressamente tomistiche) palesemente estranee alla sensibilità idealista hegeliana o moderna in genere, come d’altra parte è stato espressamente riconosciuto da chi ha affermato che il discorso dell’autore è principalmente un discorso ‘teologico’.



in: APOLLINARIS, (2006), p. 163-198.