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Relatività
e storicità: la natura categoriale del Diritto canonico
secondo T. Jiménez Urresti
1. Introduzione
La nostra
“Giornata Canonistica Interdisciplinare” su categorialità
e trascendentalità del Diritto si conclude
doverosamente con un intervento –l’unico di carattere prettamente
canonistico–che, di primo acchito, potrebbe apparire semplicemente
giustapposto a quanto sin qui illustrato in chiave tendenzialmente
filosofica (tanto in ambito concettuale generale che più
specificamente giuridico), un intervento che, invece, intende porsi
quale vera e propria ‘sintesi’ canonistica del percorso
proposto.
Di fatto
non è frequente incontrare nella dottrina canonistica
trattazioni così specifiche e di livello così profondo:
ben difficilmente i canonisti –e non loro soltanto– si sono posti
ad alta voce la domanda che ci siamo posti noi in questa occasione:
“il Diritto è un categoriale o un trascendentale?”
…ed altrettanto difficilmente vi hanno dato una risposta esplicita.
Un tema di questa portata non è
immediato neppure per i teologi: “a cosa serve interrogarsi su
queste cose?” –mi è stato detto, non senza stupore, da un
collega–, oppure ancora (questa volta da un ‘dogmatico’): “ma
cosa intendi per trascendentale? Per Rahner, infatti,
‘trascendentale’ è la struttura antropologica
fondamentale… cosa c’entra questo col Diritto?”
Eppure la
domanda ha un rilievo decisivo per chi non identifichi la Canonistica
soltanto con la trattazione parziale di qualche tematica codicistica
o dottrinale specifica, ma desideri rintracciare ed offrire una
visione generale ed organica dell’immenso ‘fenomeno canonico’
che ha compenetrato lungo i secoli praticamente ogni area del vissuto
ecclesiale già a partire dall’età apostolica, come
ben dimostrano alcune significative vicende riportate
dall’Evangelista Luca: ‘istituzione’ di Mattia quale apostolo
per l’integrità del Collegio (At. 1, 15-26), ‘istituzione’
del gruppo dei sette per un “servizio dell’amore del prossimo
esercitato comunitariamente e in modo ordinato” (At. 6, 1-6),
soluzione sinodale della questione della circoncisione dei pagani
(At. 15, 1-30), ecc.
Che ‘posto’
ha e deve essere attribuito o riconosciuto al Diritto (ovviamente
canonico) nella struttura ontologica della Chiesa? Ne costituisce un
elemento ‘fondante’ previo –un ‘a priori’–, in una
dimensione di sostanziale trascendentalità, oppure più
semplicemente deriva –‘a posteriori’– dalla stessa
vita ecclesiale, configurandosi così nella linea della
semplice categorialità?
Proprio
perché una domanda di questo tipo si rivela capitale nella
prospettiva di elaborazione di una Teoria generale ed organica del
Diritto canonico cui la Scienza canonistica deve
irrinunciabilmente tendere, ritengo interessante e pertinente
proporre in questa sede alcune considerazioni relative al pensiero di
T. Jiménez Urresti che si è distinto tra tutti i
canonisti della seconda metà del secolo scorso per la
chiarezza, l’organicità e la sistematicità del
pensiero canonistico di base, non senza l’assunzione consapevole di
posizioni di frattura con la dottrina emergente a cavallo degli anni
’70, né una certa quale ‘emarginazione’ dottrinale ed
accademica, al limite della damnatio memoriæ.
Teologo e
giurista insieme (studente e dottore in questo nostro Institutum
Utriusque Iuris tanto in Diritto canonico che in Diritto romano,
negli anni ’50 del secolo scorso) non ha saputo né potuto
evitare un approccio ‘sintetico’ ai due ambiti disciplinari di
sua specifica competenza, profondamente convinto della strutturale e
necessaria reciproca influenza tra queste due fondamentali
espressioni della vita ecclesiale: lo studio della verità
cristiana (la Teologia) e la concreta vita della comunità
cristiana che in essa radica la propria identità (il Diritto
canonico).
Occorre
innanzitutto premettere per onestà intellettuale che
categorialità e trascendentalità non
furono termini e concettualizzazioni espressamente utilizzati da T.
Jiménez Urresti nel proprio argomentare, la loro presenza
sullo sfondo è però costante e quest’intervento si
propone espressamente di evidenziarla attraverso la presentazione di
due delle tematiche portanti della sua dottrina: la storicità
dell’agire umano e la relatività della norma
giuridica (anche canonica).
Il
presupposto da cui parte T. Jiménez Urresti in quanto giurista
è quello che ci hanno ben illustrato, seppure per vie diverse,
i Relatori che mi hanno preceduto: non esiste Diritto fuori del
vissuto umano! O, più classicamente, “Ius sequitur
vitam”.
Non si dà
Diritto se non nel vissuto comune e mutante che gli uomini
quotidianamente ‘scelgono’ di costruire con le proprie
inevitabili –e contingenti– decisioni organizzative e, ancor di
più, con la loro necessaria osservanza delle stesse, nella
convinzione che queste possano migliorare gli esiti della crescente
complessità del vivere insieme, soprattutto ‘quando’ le
dimensioni e proporzioni della relazionalità intersoggettiva
tendono a scivolar fuori dallo stretto ambito familiare, amicale o
comunitario per inserirsi in una dimensione che ha tutte le
caratteristiche della ‘socialità’ (o societarietà)
vera e propria, com’è stato anche per la Chiesa quando il
primo gruppo dei discepoli (qualche decina, poche centinaia dopo
Pentecoste) ha iniziato a crescere con nuove conversioni e Battesimi
che l’Evangelista Luca conta anche a migliaia (At. 2, 41 parla di
“tremila persone”) in una volta sola.
In
quest’ottica la circostanzialità storica dell’agire
ecclesiale (storicità) diventa una delle espressioni
più profonde e palesi della sua categorialità,
ed è proprio in questa prospettiva che la riflessione
teoretica di T. Jiménez Urresti si dimostra uno dei pochi veri
‘passi avanti’ nella dimensione più specificamente
teoretica della Canonistica del secolo scorso.
2. Chiesa e storicità
Senza poter
qui dedicare adeguato tempo e spazio alla concettualizzazione di
‘storicità’ o di ‘storia’, per altro nient’affatto
semplici sotto il profilo teoretico, né pacifici –dopo la
Modernità– dal punto di vista filosofico e teologico,
possiamo probabilmente accontentarci del loro significato recepito a
livello di senso comune di ciò che riguarda e dipende dal
concreto vissuto degli uomini in ogni ‘qui’ ed ‘oggi’ che li
ha visti insieme protagonisti di un ‘divenire comune’ che, pur
originando dal vissuto di ciascun singolo soggetto, assume tuttavia
un’inevitabile portata sociale, stabile e progressiva anche per
coloro che verranno in seguito.
Potremmo
dire in altri termini che la storia/storicità
costituisce l’autentico “locus dell’umano”, la sua
concreta e necessaria ‘collocazione’ nell’esistenza, escludendo
di principio ogni sua comprensione che la possa in qualche modo
ricondurre alla concezione idealista di ‘fondamento’ o ‘dinamismo
di base’ della realtà stessa (in concorrenza/alternativa con
l’essere). Questo modo di porsi, d’altra parte, risponde in modo
certo alla concezione di T. Jiménez Urresti, come ben traspare
dai suoi scritti, in piena coerenza con la formazione
filosofico-teologica (neoscolastica ed antimodernista) ricevuta nella
prima metà del Novecento.
Proprio
questa concettualizzazione ‘ordinaria’ della storia/storicità
come ‘divenire delle cose che sono’ costituisce tuttavia una
delle maggiori fragilità della stessa categoria: la sua troppo
facile riduzione a pura ‘circostanzialità’, ad un
immediato ‘qui’ ed ‘ora’, che ne limita la portata ad una
semplice ‘accidentalità’ rispetto ad altre ‘dimensioni’
del vivere umano che si presentano ben più solide ed
affidabili, come, p. es., la fede, l’Etica, il dogma, i c.d.
valori, ecc.
Sotto questo profilo la natura
‘accidentale’ dal punto di vista metafisico di ciò che è
giuridico non dev’essere in nulla confusa con una pretesa
‘accidentalità’ della stessa ‘dimensione storica’
dell’esistenza/esistente, questione degna di ben altro approccio
sia sotto il profilo filosofico che teologico. Proprio a questo punto
di vista il nostro autore dedica attenzione per non accontentarsi
solo di ciò che appare a prima vista e che sociologi ed
istituzionalisti non si stancano di rilevare.
La
riduzione della storicità a sola circostanzialità
è, secondo T. Jiménez Urresti, l’atteggiamento di chi
considera la storia come semplice medium in quo (de
Ecclesia agitur o Ecclesia agit): una semplice ‘cornice’
che contorna un quadro d’autore e che permette di ‘appenderlo’
da qualche parte… una cornice però che potrebbe anche
cambiare senza causare al dipinto alcuna conseguenza di rilievo. La
storia, dunque, come un semplice ‘accidens’, ignorando che
senza tempo e luogo ‘propri’ (accidentes aristotelici) la
persona umana (ente sostanziale) non esisterebbe neppure… in atto.
E’, in
fondo, l’ottica di riferimento di tutti coloro –o almeno della
loro maggior parte– che tendono, più o meno consapevolmente,
ad ipostatizzare, assolutizzare o, peggio, trascendentalizzare le
realtà ritenute maggiormente rilevanti per il vivere umano, in
una ‘logica’ idealista che non permette di assegnare al ‘qui’
ed ‘ora’ altra possibilità che la –purtroppo– sempre
necessaria contingenza creaturale, in attesa del felice momento in
cui finalmente ‘passerà la scena di questo mondo’ e
potremo immergerci nella ‘realtà vera ed immutabile’ che
ora ci è –di fatto– negata. In questa prospettiva di
stampo idealista, tuttavia, la storia/storicità non è
altro che il nuovo nomen della ben nota ‘caverna’ in cui
gli uomini giacciono –loro malgrado– immobilizzati in uno stato
di sostanziale deprivazione di ciò che più direttamente
costituisce lo scopo ‘finale’ della loro esistenza; unica
consolazione e motivo di ‘conforto’ rimane la certezza della
‘temporaneità’ di questo stato di cose… di questo vero e
proprio ‘esilio’!
Scrive in proposito il nostro
autore:
«la
cosiddetta Filosofia (Teologia) ‘tradizionale’ ha considerato e
continua a considerare ampiamente il fattore della storia quale
‘medium in quo’, quale circostanza, ma la omette quale medium
quo, come cioè configurante l’atto. E’ questa la
ragione per cui le si rimprovera il difetto di soffrire di idealismo
e teologismo».
La forza paradigmatica assunta
–indebitamente– da tale concezione all’interno del percorso
storico, soprattutto spirituale, del Cattolicesimo (nella prospettiva
filo-platonica che ha tendenzialmente contrassegnato le basi
dell’esperienza spirituale di ogni secolo) non necessita in questa
sede di ulteriori approfondimenti od illustrazioni; basti solo
pensare alla sua portata in ambito c.d. pastorale: poiché
oggi, in un mondo scristianizzato e secolarizzato, non si può
fare diversamente, adattiamoci, facendo di necessità virtù
…in attesa di ‘tempi migliori’; la storia/storicità in
tal modo è semplicemente ‘tollerata’.
Storia
e ‘realtà’, storicità e ‘verità’,
vengono così a trovarsi di fatto contrapposte, in reciproca
contraddizione, in una prospettiva incapace di riconoscere l’immensa
portata anche ‘ontologica’ del mistero teologico
dell’Incarnazione (via Incarnationis) in cui Dio stesso non
solo “ha posto la sua dimora in mezzo a noi” –forse, suo
malgrado– ma, molto più radicalmente, ha assunto in modo
‘definitivo’ la piena natura umana innalzandola fino a sé
nella gloria, secondo il noto principio cristologico patristico:
“quod non adsumitur non redimitur” (San Gregorio
Nazianzeno, Sant’Atanasio, Sant’Ireneo).
Proprio la
profonda comprensione prima di tutto teologica della portata non
solo circostanziale della storia/storicità ha spinto T.
Jiménez Urresti ad andare ben oltre questa prima ‘apparenza’
riconoscendo alla storia –quale ‘congiunto’ spazio-temporale
del vivere umano– ‘altre’ funzioni assolutamente fondanti e
caratterizzanti la realtà giuridica, che egli considera
comunque sotto il solo aspetto ‘canonico’ pur non potendosi
escludere una portata giuridica più generale del suo
ragionamento.
Per il
primo Direttore della Sezione di Diritto canonico della Rivista
Concilium il carattere molteplice e diveniente delle cose che
sono (la storia/storicità, appunto) costituisce infatti non
solo –e non tanto– il “medium in quo” del fenomeno
canonico ma ‘fondativamente’ il suo “medium a quo” ed
il suo “medium quo”, nella probabile doppia valenza
sintattica tanto ablativa che dativa.
Il
molteplice divenire del vivere umano (storia), cioè, non è
soltanto e semplicisticamente lo status “in” quo
(complemento di stato in luogo) il ‘giuridico’ viene
quotidianamente declinato, come se avesse da un’altra parte la sua
origine, la sua consistenza e la sua finalità; il concreto
vissuto umano è, invece, sia la fons “a” qua oritur Ius
(complemento di origine/moto da luogo: “ex facto oritur
Ius”), che l’instrumentum (ablativo - complemento di
mezzo) che costantemente modella la stessa giuridicità,
che –forse prima di tutto– il ‘destinatario’ (dativo -
complemento di termine) stesso cui la giuridicità
s’indirizza. Tanto più che, non dandosi Diritto/giuridicità
fuori del vissuto umano, l’esito stesso del Diritto –il suo
telos– dev’essere intra-storico:
«ogni
attuazione di condotta –e pertanto di libertà– è
propria di un essere intelligente e si muove per finalità,
procede per via di causalità finale: una volta deciso
il fine, egli crea ed ordina gli strumenti pertinenti attraverso la
cui attuazione raggiunge il fine».
In questa
prospettiva è lampante la concezione assolutamente
‘categoriale’ del Diritto/giuridicità cui l’autore
fa costante riferimento: il Diritto è dalla storia, nella
storia, attraverso la storia e per la storia, poiché
‘prodotto’ dall’uomo intelligente e libero che vive ed agisce
in un preciso tempo e spazio.
3. La
storicità come dimensione costitutiva della Chiesa
Nonostante il convinto e
reiterato ricorso alla mutevolezza storica del giuridico-canonico, il
forte riferimento alla storia/storicità che caratterizza e
configura il pensiero di T. Jiménez Urresti si manifesta però
lontano da ogni storicismo o sociologismo moderni, cercando
direttamente all’interno della Teologia (positiva) la più
profonda ed irrinunciabile radice costitutiva del giuridico
ecclesiale –o Diritto canonico–:
«la
giustificazione radicale del fenomeno canonico può essere
soltanto teologica, più esattamente ecclesiologica.
Ogni altra ragione, pur godendo di convenienza o utilità, è
insufficiente per non fornire una ragione teologica. [Questa]
dev’essere ragione positiva richiesta dalla natura-consistenza
della Chiesa. Non una ragione propria dall’interno della
Chiesa, che ne è dimensione intrinseca; ma nella dimensione
della sua storicità, che si realizza nell’esteriore
socio-storico della Chiesa e che è un’altra dimensione
intrinseca della sua consistenza».
Una questione, dunque, di
‘consistenza’ posta alla radice stessa della Chiesa; una
consistenza in cui la componente categoriale (il divenire nel tempo e
nello spazio) si trova a giocare un ruolo assolutamente decisivo…
come, p. es., la corporeità nella persona umana.
L’approccio
che ne deriva è tutt’altro che immanentista, come se ciascun
hic et nunc costituisse ‘la’ dimensione conclus(iv)a del
giuridico ecclesiale colto soltanto ed esclusivamente come ‘fenomeno’
in atto; tale approccio però sfugge anche le derive
retrospettiche tanto del fondazionismo che delle Scienze
socio-antropologiche le quali si accontentano di cercare nella storia
–in quanto cioè ‘già fatto’ o ‘unicamente
avvenuto’– sufficienza di motivi causali (ontologici per il
fondazionismo, fenomenologici per la Sociologia) per ‘giustificare’
la concreta attualità.
In
tutt’altra prospettiva lo sguardo del nostro autore s’indirizza
con forza, invece, verso il futuro: quel futuro che Cristo ha
affidato alla sua Chiesa perché ne faccia la ‘soglia’
dell’eternità, annunciando ed instaurando “il Regno di
Cristo e di Dio”, costituendo essa di questo Regno “il germe e
l’inizio” (LG 5); quel futuro che la Chiesa ha imparato a
chiamare ‘missione’ riconoscendo in essa la propria
dimensione più autentica;
«ogni
società ha la propria giustificazione, natura, funzioni,
ragion d’essere, e principio normativo o norma originaria o
fondamentale, nella propria finalità, secondo il primo
principio della logica normativa: “il principio è il fine”.
Ed il fine della società della Chiesa, quale fondata da
Cristo, è la missione che Cristo le affidò:
missione universale storico salvifica».
Una
dimensione –la missione– che lo stesso Vaticano II, soprattutto
nell’innovativa Costituzione pastorale Gaudium et Spes, ha
caratterizzato come intra-mondana, al pari della fede che anima e
sostiene questo cammino verso la patria eterna, fede che non smette
di essere teologale tanto nella sua origine che nella destinazione
anche se, giunta oltre la storia, smetterà di ‘essere’,
lasciando il posto alla visione beatifica.
«La
Chiesa […] fondata nel tempo dal Cristo redentore […] ha
una finalità salvifica ed escatologica […]. Essa poi
è già presente qui sulla terra, ed è
composta da uomini, i quali appunto sono membri della città
terrena, chiamati a formare già nella storia
dell’umanità la famiglia dei figli di Dio, che deve crescere
costantemente fino all’avvento del Signore. Unita in vista dei beni
celesti, e da essi arricchita, tal famiglia fu da Cristo “costituita
e ordinata come società in questo mondo”, e fornita
di “convenienti mezzi di unione visibile e sociale”. Perciò
la Chiesa, che è insieme “società visibile e comunità
spirituale”, cammina insieme con l’umanità tutta e
sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena,
ed è come il fermento e quasi l’anima della società
umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia
di Dio» (GS 40).
Ciò
che conta, allora, non è più ‘dove’ e ‘come’
nasca la Chiesa, ma cosa essa debba essere/fare: il mandato
ricevuto, la consegna…
Quel mandato che, pur in una
disarmante genericità ed indefinitezza, non ammette però
dubbi né esitazioni: «come il Padre ha mandato me,
anch’io mando voi […] a chi rimetterete i peccati saranno rimessi
e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 21.
23); «andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni
creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà
salvo» (Mc 16,15).
La Chiesa,
dunque, trova la propria giustificazione teologica “nel”
compiere e “per” compiere la missione costitutiva con la
quale Cristo stesso l’ha fondata!
E’
all’interno di questo mandato da giocarsi completamente entro i
confini della storia, che si colloca e si coniuga con piena
legittimità l’esperienza giuridico-canonica della Chiesa
quale espressione della necessaria contingenza/categorialità
del vivere hic et nunc un comando tanto radicale e tanto
generico.
«Non
c’è necessità di giungere ad una ‘mistificazione’
del Diritto canonico. Il Diritto canonico non è sacramento, né
quasi-sacramento, né riguarda, parlando in assoluto, l’essenza
della Chiesa. Il Diritto canonico è di pertinenza della
socialità, e pertanto della visibilità
della Chiesa. E, per una maggior esattezza: la storicità
è una nota di esigenza della stessa nozione di Chiesa
pellegrina, ma la sua storicità reale non appartiene alla
sua essenza, quanto solo alla sua esistenza: la Chiesa
pellegrina esiste solo come Chiesa storica, come congregazione
o associazione dei credenti in Cristo dotati della missione divina
che Cristo le affidò».
«Ciò
che è storico è sempre concreto per definizione, ed in
questo settore si colloca la normatività che la Chiesa
stessa deve stabilire».
«In
altre parole: è necessario negare che il Diritto canonico
debba essere già dato con la natura della Chiesa,
poiché allora sarebbe ‘Diritto divino’ e non norme date
dalla stessa Chiesa: si sarebbe fuori questione. E’ Sufficiente
affermare ed è necessario affermare che nella natura della
Chiesa, nella sua storicità, è data l’esigenza di
un Diritto canonico».
Chiave di
volta della concezione dell’autore –che lo guida con assoluta
fermezza– è dunque la peculiare concezione ecclesiologica
ribadita con forza dal Concilio Vaticano II in Lumen Gentium
n. 17: la natura ‘missionaria’ della Chiesa!
«Come infatti il Figlio è
stato mandato dal Padre, egli stesso ha mandato gli Apostoli […]. E
questo solenne comando di Cristo di annunziare la verità della
salvezza, la Chiesa l’ha ricevuto dagli Apostoli per adempierlo
sino all’ultimo confine della terra (cf. Atti 1, 8). […] Perciò
continua a mandare ininterrottamente missionari, fino a che le nuove
Chiese siano pienamente costituite e anch’esse continuino l’opera
di evangelizzazione. E’ spinta infatti dallo Spirito santo a
cooperare perchè sia mandato ad effetto il piano di Dio, il
quale ha costituito Cristo principio di salvezza per il mondo
intero».
La Chiesa
esiste in virtù di una missione, di un mandato, di un
incarico, di una finalità etero-fondata, di una volontà
ad essa esterna che l’ha costituita nella storia affidandole
un compito da assolvere all’interno della storia (‘in’ e
‘per’ la storia). E’ in ragione di questa sorta di necessaria
‘contemporaneità’ tra Chiesa e storia che nasce e
dev’essere ritenuto fondante il loro rapporto; la natura
missionaria della Chiesa, infatti, non avrebbe alcun significato
–ontologico–, nessuna ragion d’essere al di fuori della storia!
Un’impostazione
di questo tipo porta ad evidenziare un presupposto di solito non
colto da coloro che accusano l’autore di semplice sociologismo o
rinnovato Giusnaturalismo: proprio la de-teologizzazione del Diritto,
in fondo la sua ‘categorializzazione’, impedisce di ritenere
sufficientemente ‘fondante’ il solo fatto dell’esistenza del
Diritto stesso nella compagine ecclesiale (ubi societas ibi et
Ius); per l’autore infatti
«Il
Diritto canonico non è dato in o per la natura –l’essenza
quale principio operativo– della Chiesa, poiché questa
stessa natura, in quanto normativa lo è di contenuto
astratto e generico che, come tale, si colloca al livello pre-storico
e per essere compiuta storicamente necessita di forma storica.
Così la natura stessa della Chiesa si porta dentro il
principio di necessità di un Diritto canonico; tuttavia
non contiene e non fornisce Diritto canonico alcuno, poiché
infatti questo sarebbe Diritto divino e non norme date dalla
Chiesa. La forma storica della Chiesa non è, né
può esser data da questa natura (che sarebbe di ordine fisico
e di causalità efficiente), anche se dev’essere consentanea
con essa, ma è in e per la sua dimensione storica, in e per
la quale si realizza il deontico concreto per la causalità
finale. Questo, in altre parole, è quanto già detto
sulla necessità di ordinamentazione di ogni norma originaria.
Solo così possono esser giustificate ecclesialmente
l’esistenza di un ordinamento canonico, il suo radicemento nella
Chiesa, e l’obbligatorietà specifica di compimento
attribuita allo stesso. Tutto ciò che la dimensione
socio-storica della natura della Chiesa può offrire è
[solo] l’esigenza di un Diritto canonico».
E’ questa
lucidissima prospettiva/consapevolezza teologica e filosofica che
permette a T. Jiménez Urresti di distinguere accuratamente tra
la ‘norma fondante’ la Chiesa, cioè la missio
affidatale da Cristo, e la ‘norma fondata’ dalla Chiesa,
cioè il Diritto (canonico) di cui essa non ha potuto non
dotarsi autonomamente per realizzarsi secondo la propria finalità
costitutiva.
In tal modo, però, il
Diritto canonico rimane completamente ‘interno’ alla Chiesa,
trovando “da” essa e “per” essa origine e consistenza, nella
continua necessità di ‘adeguarsi’ a ciò che la
Chiesa stessa è o ritiene di essere/dover essere in ciascuna
‘propria’ fase di realizzazione storica della missione
affidatale.
«La
missione divina universale affidata da Cristo alla Chiesa è
missione storico-salvifica. In quanto salvifica, nel
suo essere attuata, fa sì che la Chiesa sia ‘il Sacramento
della Salvezza’; in quanto storica o per il fatto di essere
realizzata storicamente riveste la Chiesa della nota di storicità,
cioè, della responsabilità di agire con attuazioni di
densità e consistenza storica che si è soliti
riassumere nell’attuazione delle ‘tre funzioni’ (tria
munera), nelle quali rinchiude e trasmette, nell’attuarla,
l’efficacia salvifica. Tuttavia per questa attuazione, che deve
realizzarsi e solo può realizzarsi con attuazioni concrete,
Cristo lasciò alla sua Chiesa la responsabilità e la
necessità di determinare in concreto tali ‘forme concrete’
storiche di attuazione. Precisamente per questo i teologi sono soliti
parlare di ‘istituzione generica’ dei sacramenti e della
gerarchia, o di una ‘sostanza’ o ‘struttura
fondamentale’, posta da Cristo e chiamata perciò
‘Diritto divino’. Tale fondazione ‘generica’
responsabilizza precisamente gli inviati a decidere le forme
concrete, il funzionamento concreto e l’ordine concreto di
compimento di tale missione o attuazione delle tre funzioni e di
quanto esse implicano. Sorge così uno ‘Ius canonicum’,
nel cui ambito sistematico entrano decisioni molto varie in ragione
dell’oggetto –attuazione– a cui si riferiscono: ai sacramenti
ed all’amministrazione dei beni ecclesiastici o al computo del
tempo, per citare alcuni esempi. E determinare il tempo non è
qualcosa di sacramentale, anche se i sacramenti si realizzano
necessariamente in un tempo e in uno spazio concreti».
In questa
prospettiva diventa inevitabile –ma pur necessario a questo punto–
lo scontro col presupposto fondativo della c.d. Scuola di Monaco che,
caratterizzando Parola e Sacramento come già intrinsecamente
giuridici, presupponeva una pre-esistenza di fatto del Diritto alla
Chiesa stessa, facendone un datum intorno a cui ‘coagulare’
la stessa Comunità credente (ordinatio fidei): un vero
‘trascendentale’ addirittura costitutivo della stessa Chiesa.
Per
Mörsdorf e discepoli la storia è così solo un hic
et nunc in quo la Chiesa, fondata e stabilita in modo giuridico
in una diversa ‘dimensione’ dell’esistenza (o dell’essere?),
deve rendersi presente ed attuarsi su questa terra: la dimensione
contingente in cui l’eterno prende attualmente forma. Le
affermazioni pseudo-filosofiche di A.M. Rouco Varela circa
l’esistenza di un “Diritto divino soprannaturale” e la sua
versione ‘categoriale’ –unica– intra-storica nel Diritto
canonico sono inequivocabili in merito. Non migliori paiono le
posizioni di E. Corecco, secondo cui “Il Diritto è una
realtà teologico-soprannaturale, ma come tale è anche
una realtà che deve incarnarsi nella storia, assumendo forme
giuridiche anche umane”.
Per T.
Jiménez Urresti, al contrario, il Diritto canonico consegue
dalla essenziale storicità della Chiesa, presentandosi
a tutti gli effetti creatura della Chiesa anziché suo
creatore. Per la Chiesa la storicità non è
un accidens (medium in quo) ma un elemento
caratterizzante la sua esistenza (medium a quo e medium
quo), come la pienezza della natura umana per Gesù di
Nazareth, vero Dio e vero uomo.
«D’altra
parte, il principio secondo cui la Chiesa è ‘in Cristo il
Sacramento universale della Salvezza’ si riferisce alla Chiesa
considerata nella sua globalità, e non a tutti e ciascuno gli
elementi o fattori o aspetti contenuti nel concetto, nella realtà
o nelle attuazioni della Chiesa. E’ un po’ come nell’uomo, che
è ‘essere umano’, ma non tutti i suoi elementi,
operazioni, ecc. , ricevono la qualifica di ‘umani’, poiché
alcuni sono semplicemente ‘dell’uomo’ (‘hominis’),
per quanto tutti abbiano il proprio significato nella globalità
dell’essere umano».
Lo spazio,
pur fondamentale, che T. Jiménez Urresti dedica alla storicità
come tale nella sua riflessione dottrinale non è però
in realtà né ‘diretto’, né troppo ampio, in
quanto tale dimensione dell’esistenza ecclesiale, pur decisiva
sotto il profilo teologico-costitutivo, non ha lo specifico rilievo
comportamentale che polarizza, invece, la prospettiva teoretica
più generale dell’autore: la questione ecclesiologica non è
infatti di specifico interesse per l’agire canonistico una
volta che abbia trovato in essa il proprio fondamento!
4. La relatività della
norma canonica
L’altro
punto di vista privilegiato del nostro autore sul tema di questa
Giornata di studio –del tutto complementare alla storicità e
necessariamente da essa derivato– è costituito dalla
‘relatività’ delle norme giuridiche, relatività
ontologica cui neppure le norme canoniche sono sottratte: la
storicità del vivere secundum Ius rende infatti
ontologicamente ‘relativa’ ognuna delle concretizzazioni puntuali
di quel genere del tutto specifico di normatività che è
il Diritto… ogni Diritto.
L’espressione
più chiara di questo pensiero è forse quella affidata
all’Editoriale di Concilium del 1965 in cui il nostro autore
si associava P. Huizing (canonista olandese) e N. Edelby (vescovo,
padre conciliare e canonista cattolico orientale) nella condivisione
della prospettiva comune:
«preoccupato
di mantenere la sostanza della costituzione divina della Chiesa, ed
in uno spirito di servizio, questo numero di ‘Concilium’
vorrebbe aiutare i teologi a “degiuridizzare” la Teologia ed i
canonisti a “deteologizzare” il Diritto canonico. In tal modo
questi potrebbero in definitiva collaborare coi teologi della
Pastorale e dell’Ecumenismo, così come coi legislatori, per
presentare la Chiesa e le sue funzioni con un aspetto canonico che la
renda progressivamente più attraente e munita di un apparato
legislativo sempre più adeguato ai segni di ciascun tempo,
come la voleva Giovanni XXIII».
Ciò
che in quell’occasione risaltò maggiormente, non senza
strepito né un certo sgomento da parte di molte orecchie
‘pie’, fu lo slogan programmatico di “de-teologizzare il
Diritto canonico e de-giuridizzare la Teologia”; l’impatto
frontale, tuttavia, di una formulazione così esplicita e
prorompente –e rimasta tutt’ora oscura a molti– non permise di
rendersi conto del presupposto sottostante, ancor più radicale
e pervasivo: il “principio della relatività canonica”:
«la base teologica
pre-giuridica è spesso ‘indifferente o generica’ in
rapporto all’espressione strumentale concreta che è la norma
canonica. O inversamente: occorre considerare la ‘natura’
essenzialmente ‘relativa’ di numerose disposizioni canoniche,
resa possibile dal carattere generico delle loro basi teologiche. […]
La giusta valutazione della
relatività canonica nel tempo e nello spazio contribuirà
non poco a liberare la Teologia da questa accusa. L’analisi e
l’apprezzamento della vita storica del Diritto canonico sono
indispensabili per fissare in molti casi la dottrina teologica
esatta, poiché, mancando di prospettiva storica e dei dati
storici canonici, una tentazione minaccia il teologo: quella di
identificare delle Leggi, degli usi e dei costumi anche molto stabili
(e la forza di una tale tentazione è proporzionale a questa
stabilità), con delle norme di Diritto divino di carattere
immutabile, quando non si abbia in effetti che delle regole canoniche
che rivelino il potere discrezionale della Chiesa, che può
modificarle».
Alla base
di questo modo di approcciare il Diritto canonico sta una delle
convinzioni più stabili della dottrina teologica classica (sia
tardo che neo-scolastica): la Canonistica appartiene alla c.d.
Teologia pratica. Ne deriva immediatamente non solo la
‘vocazione’ specificamente pastorale del Diritto canonico
ma, più ancora, la necessità della sua efficacia
pastorale concreta:
«i teologi della Pastorale
accusano il Diritto canonico di non avare una agilità
sufficiente e di mancare d’efficacia strumentale. Essi non
dimenticano che la finalità del Diritto canonico è la
salvezza delle anime. Essi sanno che entro questi due poli –la
costituzione sociale della Chiesa, e la salvezza delle anime– il
Diritto canonico è uno strumento per la Pastorale, e che come
tale è necessario continuamente revisionare la sua fedeltà
teologica ed il suo adeguamento pastorale. La costituzione sociale
della Chiesa, non essendo immutabile che nelle sue linee sostanziali,
rende questa revisione possibile; e le necessità cangianti
della Pastorale la rendono necessaria.
Si comprende che la
“teologizzazione” del Diritto canonico assolutizza le Leggi
canoniche, le immobilizza e le fissa col rigore assoluto
dell’immutabilità della verità teologica,
trasmettendo questa stessa immobilità alla Pastorale, mentre
questa è per definizione dinamica ed agile, come la vita
stessa. Di qui il pregiudizio pastorale che ne deriva.
E’ per questo che le necessità
pastorali, incompatibili con l’immobilità canonica che le
opprime dalla propria rigidità, spingono così sovente
la Teologia ad approfondire ed a prendere una coscienza più
chiara dei punti di dottrina teologica anteriori al Diritto, come un
avvio previo e necessario per giungere ad una formulazione canonica
adeguata che ne deriva. Non è questa precisamente una delle
esperienze più marcanti del Vaticano II?»
Base teoretica irrinunciabile per
un approccio di questa portata è l’insegnamento di S.
Tommaso, cui T. Jiménez Urresti (teologicamente formato nella
neo-Scolastica gesuitica) fa costantemente riferimento come a
‘certezza’ indubitabile.
«Ogni
norma deontica, naturale o divina, ordinamentata o no, ha
contenuto prescrittivo astratto, essendo data a molti soggetti e
per molti atti in vista di un compimento de futuro. Non
si tratta però di un astratto universale come ‘gli
universali’ della Filosofia pura e ragione speculativa; né
di vigenza universale per la necessità fisica delle Scienze
naturali, come quella di gravità. La sua astrazione è
della ragion pratica, di formulazione a volte universale,
ma di contenuto generale in materia ed ambito del ‘dover
essere’, di condotta, oggetto di Scienza deontica,
indirizzato all’uomo libero, non predeterminato nella sua
condotta. […]
Ne deriva che [citando alla
lettera S. Tommaso]:
- “I
principi della Legge naturale non possono applicarsi a tutti allo
stesso modo (con la stessa concretezza) di compimento a causa
della gran varietà delle cose umane e degli uomini dei
diversi tempi, latitudini, razze, culture, e condizioni concrete
differenti. Di qui proviene la diversità delle leggi positive
nei diversi paesi” [«principia communia legis naturæ
non possunt eodem modo applicari omnibus, propter multam varietatem
rerum humanarum. Et exinde provenit diversitas legis positivæ
apud diversos». Summa Theologiæ, I-II. 95, 2
ad 3].
- “Le
cose umane, che sono indirizzate ad un fine, non sono
predeterminate, ma si diversificano in molti modi secondo la
diversità delle persone e degli argomenti” [«Ea quæ
sunt ad finem in rebus humanis non sunt determinata, sed
multipliciter diversificantur secundum diversitatem personarum et
negotiorum». Summa Theologiæ, II-II, 47, 15c].
- Le leggi
umane sono norme la cui prescrizione “imprime nelle menti degli
uomini una regola che è principio per attuare” [«Et
ideo rebus irrationalibus homo legem imponere non potest,
quantumcumque ei subiiciantur. Rebus autem rationalibus sibi
subiectis potest imponere legem, inquantum suo praecepto, vel
denuntiatione quacumque, imprimit menti earum quandam regulam quæ
est principium agendi». Summa Theologiæ, I-II,
93, 5c]».
Che in
questo modo l’autore affronti espressamente, e risolva pure, la
nostra domanda sulla categorialità o trascendentalità
del Diritto è chiaro: quanto è universale nella
norma deontica –e tale è il Diritto– non va confuso con
ciò che la Filosofia intende quando ragiona intorno a ‘gli
universali’: mentre questi, infatti, tendono a sfuggire alla stessa
categorialità, imponendosi attraverso una necessità di
carattere ontologico (anche se semplicemente in rebus, secondo
l’aristotelismo), altrettanto non vale in nessun modo per i
contenuti ‘generali’ delle norme deontiche, i quali sfuggono
anche la stessa ‘necessità fisica’, poiché l’azione
è posta sempre in atto da una persona ‘libera’ che agisce
–comunque– per ‘determinazione’ singolare.
E’, in
fondo, il portato della generalità deontica contro
l’universalità speculativa: ciò che oggi viene
ricondotto alle logiche intensionali in alternativa alle
logiche estensionali, ma che già S. Tommaso aveva ben
esplicitato:
«Quæ
sunt naturaliter iusta non sicut principia communia, sed sicut quædam
conclusiones ex his derivatæ; quæ ut in pluribus
rectitudinem habent, et ut in paucioribus deficiunt» [Summa
Theologiæ, I-II, 94, 4 ad 2].
La portata
delle norme comportamentali è suapte natura generale e
generica: “ut in pluribus” e tollera, ammette e perfino
regolamenta una loro –giustificata– inosservanza “ut in
paucioribus”, come accade in ambito canonico –addirittura–
con un istituto giuridico espressamente previsto dal Diritto positivo
qual è la ‘Dispensa’ (Can. 85).
In questa
prospettiva, poi, l’autore accentua ulteriormente l’esplicitazione
del principio di ‘relatività’ ricorrendo alla necessaria
–e strutturale– distinzione tra la volontà del
Legislatore ed il dettato concreto della sua norma:
«non
c’è equazione tra ciò che il Legislatore, anche
divino, esige e ciò che può racchiudere nella sua norma
o Legge: ogni norma naturale o rivelata è espressione
positivizzata della volontà del Legislatore ed è
per sua natura […] una prescrizione astratta, generica e
generale. Nella norma non entra la volontà intera del
Legislatore; allo stesso modo Dio, indirizzando all’uomo la propria
Rivelazione, deve attenersi al linguaggio umano (GS 58), e questa
natura della norma è l’unico linguaggio umano per
formularla. In tal modo, occorre distinguere tra Volontà
divina e sua norma, tra intenzione dell’autore e intenzione
oggettivata della sua norma o Legge».
I pochi elementi sin qui
illustrati rischierebbero tuttavia di fermarsi al semplice rilievo di
una ferma e motivata concezione del Diritto come categoriale
piuttosto che come trascendentale; questo però sarebbe un
grave torto a sì grande teologo e canonista: la sua
riflessione, infatti, è andata ben oltre la deriva idealista
e/o sacrale nella concezione del Diritto canonico per illustrarne e
spiegarne, invece, le logiche profonde che lo rendono un vero
‘prodotto’ del vivere quotidiano anche della Comunità dei
discepoli del Signore Gesù Cristo, attraverso due differenti
cammini: uno filosofico ed uno teologico.
5. La ‘logica deontica’
Molto al di
là delle semplici categorie di storicità e
relatività che palesano la portata del tutto
categoriale del Diritto canonico, T. Jiménez Urresti imposta
la propria riflessione teoretica più matura e profonda non
tanto nell’orizzonte della Fenomenologia sociologica o
antropologica, che oggi potrebbero già trovare vasta
accoglienza presso buona parte dei giuristi di più recente
formazione, ma su di un piano prima di tutto ed essenzialmente
‘logico’ e, diremmo, ‘tradizionale’ (ecclesiasticamente
parlando).
L’autore,
sfuggendo storicismi e derive troppo banalmente relativistiche e
fedele alla formazione teologica approfondita presso i Gesuiti
dell’Università Gregoriana alla metà del secolo,
colloca la questione all’interno di una solidissima prospettiva
tanto filosofica che teologica: la c.d. logica deontica già
ben nota a S. Tommaso, ma in seguito dispersasi tra i meandri della
tarda Scolastica e, tosto, sopraffatta dal dominio pressoché
assoluto della –sola– logica formale consegnataci dal
Razionalismo rinascimentale mercè l’apporto di F. Suarez, e
completamente assente nella revivescenza neo-scolastica.
Per T.
Jiménez Urresti non è possibile nessuna confusione tra
i paradigmi propri della Filosofia e Teologia e quelli della
Canonistica: formali i primi, deontico il secondo; deduttivi i primi,
pratico il secondo. Le Scienze normative (principalmente il
‘Diritto’, l’Etica e la Morale) occupandosi del dover agire
anziché del dover essere, seguono una logica del tutto
differente rispetto alle Scienze/Discipline ‘formali’, una
‘logica’ talmente diversa da rendere incomunicabili i due ambiti
di studio/conoscenza e non equivalenti i rispettivi approcci
logico/metodologici. Anche se, infatti, “agere sequitur esse”,
agere non è certo qualitativamente uguale ad esse.
Sotto questo profilo l’autore è
uno dei pochi canonisti del Novecento a sapersi riferire con piena
cognizione di causa e competenza alle strutture più profonde
del sapere teologico tradizionale secondo la prospettiva che oggi
chiamiamo ‘epistemologica’:
«ci
sono tuttavia due Teologie: una speculativa ed un’altra pratica,
secondo la terminologia di S. Tommaso. O meglio, due parti di
quella “unitas Scientiæ” che è la Teologia
totale. Due parti che si differenziano non solo per il proprio
oggetto materiale –de rebus, la speculativa; de actibus,
la pratica–, ma anche per il loro metodo di studio, poiché
il nostro intelletto agisce in una con la logica o leggi del
pensare della ragione speculativa, e nell’altra con la
logica della ragion pratica.
Le
conclusioni nella Teologia speculativa sono conclusioni
dottrinali, poiché vengono tratte dalle verità
(rivelate) attraverso la via della logica enunciativa da parte della
ragione speculativa, la cui finalità è conoscere la
verità (rivelata) per conoscerla e contemplarla. […]
Le
conclusioni nella Teologia pratica sono conclusioni pratiche,
poiché vengono tratte dai principi di condotta rivelati,
chiamati di “Diritto divino positivo” attraverso la via dello
logica normativa e mediante la ragion pratica, la cui finalità
è formulare il compimento concreto di quei principi di
condotta rivelati. […]
Non basta
tuttavia parlare di due parti di questa Teologia unitaria. È
necessario riconoscere che queste due parti costituiscono due
Scienze distinte, per le loro proprie logiche e metodi».
E’ questa riflessione, che
l’autore sviluppa dall’inizio degli anni ’80, lo snodo
principale del suo pensiero metodologico, che rimane tutt’ora una
soglia inviolata dalla maggior parte della dottrina canonistica. Ciò
che polarizza il suo sforzo intellettuale è la necessità
–assoluta– di distinguere teoreticamente e far cogliere la
differenza strutturale tra i due modi di ragionare: quello
speculativo e quello pratico. Con uso competente e corretto del
linguaggio scolastico e ricorrendo alle sue fonti più
autorevoli, il nostro autore indica con chiarezza la specificità
dell’ambito deontico rispetto a quello speculativo:
«nel
sillogismo enunciativo, la proposizione minore constata l’esistenza
di un caso o di un (modo d’) essere del soggetto della proposizione
maggiore, per concludere applicando a questo (modo d’) essere o
caso il predicato della proposizione maggiore. Nel sillogismo
normativo giuridico la minore non può esprimere nulla di
esistente, poiché il compimento concreto del principio di
condotta formulato nella proposizione maggiore non esiste in realtà:
[…] e in un certo modo è solo pre-vedibile, pre-sumibile,
pre-supposto, […] “ex præteritis oportet nos quasi
argumentum sumere de futuris”, “ex his quæ ut in
pluribus accidit” (Summa Theologiæ, II-II, 49, lc.
e ad 3)».
Non solo questo, tuttavia: egli
denuncia pure con estrema lucidità –e non senza ‘stupore’–
il progressivo decadimento di questa consapevolezza lungo i secoli
fino alla sua completa estinzione, nonostante già l’Aquinate
avesse formulato le riflessioni essenziali sulla logica normativa,
che avrebbero potuto essere sviluppate in seguito dalla Scolastica.
Di fatto però questo non è accaduto, come ben dimostra
la formazione insufficiente degli Ecclesiastici in metodologia
deontica, che T. Jiménez Urresti stigmatizza apertamente: i
futuri Chierici infatti, nella loro formazione filosofica e da varie
generazioni
«studiano
la Disciplina della Logica, ma solo quella enunciativa o
formale; e nulla, e nessuna sua menzione, della logica
normativa, pur considerando che tutte le Scienze pratiche di
condotta o deontiche che tuttavia studiano –Etica, Morale, Diritto–
ed anche le decisioni di ciascuno ogni giorno, procedano per logica
normativa».
La logica
deontica, appunto, è la chiave di volta della riflessione
del nostro autore che le dedica decine di pagine in vari dei suoi
scritti più speculativi; logica deontica segnata ab imis
fundamentis proprio dalla irrinunciabile categorialità
dell’agire umano.
Come alla
base delle Scienze/Discipline formali sta il c.d. sillogismo
formale-modale, così alla base delle Scienze/Discipline
normative sta il c.d. sillogismo deontico quello, cioè,
necessario affinché le statuizioni ‘generali’ (ut in
pluribus, secondo la formulazione di S. Tommaso) tipiche della
‘norma comportamentale’ possano essere convenientemente tradotte
in concrete scelte operative da parte di ciascun singolo soggetto
agente:
«la
logica normativa o delle Scienze normative, o logica deontica (da
“deos” – “deontos”: dovere) o delle Scienze del dovere,
formula le leggi della “recta ratio agendi” o “recta
ratio agibilium”. Essa riguarda il modo concreto di formulare
gli imperativi o norme di condotta futura, portandoli fino
all’imperativo concreto del suo compimento.
Le leggi di condotta non si
occupano di descrivere o enunciare qualcosa che è […];
tantomeno di descrivere o enunciare il futuro della condotta […].
Le Leggi
non descrivono ma prescrivono una condotta de futuro.
Per questo, il modo verbale con cui si esprimono è
l’imperativo (o suo equivalente). La conclusione del suo
sillogismo, come vedremo, è di semplice “probabilitas
conjecturalis”, non di certezza».
Sotto il
profilo strutturale e funzionale anche questo paradigma logico, come
il ben più noto ‘sillogismo formale-modale’ si compone di
tre elementi strutturali denominati premessa maggiore,
premessa minore e conclusione, ciò che tuttavia
questi elementi ‘sono’ e ‘significano’ in ambito deontico è
–e rimane– assolutamente peculiare. Proprio in questa linea
l’autore illustra le specifiche più proprie del sillogismo
normativo o deontico in continua dialettica con la logica formale
tipica della Teologia speculativa dalla quale mette ogni impegno per
differenziarlo:
«per attuare rettamente si
richiede una duplice conoscenza: quella del generale e quella del
concreto previsto. Il difetto di una delle due è sufficiente
perché risulti impedita la correttezza dell’attuazione. Non
è tuttavia la conoscenza dell’universale o norma generale a
ricoprire la funzione principale nell’attuazione, quanto piuttosto
la conoscenza del concreto, poiché le attuazioni avvengono nel
concreto».
E’ questo
l’apporto tutto specifico della premessa minore del sillogismo
normativo: essa, infatti,
«non è visibile o
constatabile in anticipo, non solo perché la condotta futura
appartiene all’ambito della libertà umana di contraddizione
(adempiere o non adempiere il precetto), ma anche perché,
essendo il principio generico, astratto e generale, implica dei
margini di libertà di specificazione o di libera decisione sul
suo contenuto, cioè, di libertà morale».
Proprio la
premessa minore contiene di fatto il ‘concreto previsto’
in base a cui valutare dapprima le possibili attuazioni del principio
generale ed in base a cui decidere, conclusivamente, quale concreta
opzione seguire per l’azione –spesso unica– da porre in atto.
Proprio il ‘concreto previsto’ tuttavia è assolutamente
‘relativo’ e ‘circostanziale’ ad ogni soggetto e ad ogni
situazione concreta: gli esempi tipici addotti dalla Morale in tema
di ‘legittima difesa’ o di ‘obiezione di coscienza’ non
lasciano dubbi in merito. Inutile ricordare che tutto ciò
appartiene concretamente alla ‘storicità’ del vivere
umano.
«La
conclusione di questo sillogismo, pertanto, non è di “certezza
infallibile”, “come nelle Scienze dimostrative” o della logica
enunciativa. Né tanto meno è di “certezza storica”
o morale, come nelle Scienze storiche. Né di certezza fisica,
come nelle Scienze positive o della natura. Così ci dà
solo la “congettura”: “conjectura” o “probabilitas
conjecturalis” secondo la previsione fatta, secondo ciò
che “ut in pluribus accidere solet”. Questa congettura
tuttavia è sufficiente per agire ragionevolmente,
prudenzialmente, “poiché non è possibile altra forma
di attuazione”».
Ne derivano per il Diritto
(comunque considerato) conseguenze difficilmente considerate, non
solo p. es. dai Teologi o altri studiosi, ma dagli stessi canonisti:
«in
un processo continuato di sillogismi di logica deontica la
conclusione del primo sillogismo, che è valida solo “ut
in pluribus”, è assunta come proposizione maggiore per
uno seguente o secondo sillogismo; la conclusione di questo secondo
sillogismo trasporterà il valore di “ut in pluribus”
anteriore ed inoltre vi cumulerà il valore proprio della sua
nuova minore, formulata anch’essa per previsione e valida solo “ut
in (suis) pluribus”: la conclusione del secondo sillogismo
sarà, di conseguenza, meno “ut in pluribus” di
quanto lo fu quella del primo sillogismo. […] Attuando così
successivamente, si giunge ad un momento in cui la conclusione è
indifferente: in cui non c’è più “ut in
pluribus”».
E’ dunque
questa dimensione strutturale del dover agire concreto e
puntuale di ciascun soggetto umano che fa riferimento alla e dipende
dalla storicità intesa nella sua accezione più
ampia ed esistenziale e lontana da ogni possibile svista
storicistica, cioè, necessitante o in qualunque modo
deterministica; è questa la conditio sine qua non per
ogni realizzazione comportamentale concreta, poiché non è
data azione umana fuori della storia:
«visto che la prescrizione
della norma –in questo caso sociale– è a-storica ed il suo
adempimento è storico, è necessario far appello alla
storia per poterla adempiere facendola entrare attraverso il suo
compimento, che sarà parte della storia. Si tratta, cioè,
di evidenziare l’apporto della storia alla stessa storicizzazione
della norma a-storica per poterla adempiere».
6. Il problema
dell’Incarnazione
Il profondo
fondamento teologico e logico del pensiero dell’autore sin qui
riportato, ed il suo radicamento non semplicisticamente
fenomenologico, conducono inevitabilmente a spostarsi verso un altro
livello della trattazione, addentrandosi in questioni
–ecclesiologiche e cristologiche– che smettono di essere
specificamente filosofiche per entrare in tutt’altro dominio di
competenza: quello ‘teologico-dogmatico’, il cui rilievo non è
per nulla secondario nella prospettiva con-disciplinare che abbiamo
intrapreso: l’esperienza cristiana, la Teologia e la ‘Dottrina’
ricevono infatti dalla Rivelazione biblica e dal Depositum fidei
specifici ‘contenuti’ e ‘fondamenti’ –ulteriori rispetto
alla elaborazione filosofica– dai quali il buon canonista non può
prescindere nell’elaborazione dei propri orizzonti di riferimento.
Proprio in
questa prospettiva va osservato innanzitutto come il problema
fondamentale circa il valore della storicità in
rapporto all’essenza della Chiesa e della sua missio
constitutiva si ponga –ben prima che in ambito giuridico o
filosofico– in quello teologico, in riferimento al grande tema
dell’Incarnazione la cui ‘luce’, dopo il Vaticano II, è
irrinunciabile non solo in campo cristologico ma anche
ecclesiologico, come ben ha espresso il n. 8 di Lumen Gentium.
Dal punto
di vista della Teologia dogmatica, infatti, la prospettiva soltanto
‘circostanziale’ della storicità –medium in quo–
porta con sé tutte le caratteristiche basilari delle
concezioni c.d. monofisite che hanno segnato la Cristologia fin dai
primissimi secoli di vita della Chiesa, con una sottolineatura
dell’umanità del Redentore come semplice ‘apparenza’
(circostanzialità, accidentalità), cui faceva da sfondo
una radicale distanza tra la divinità e l’umanità,
l’eterno e lo storico, il trascendete ed il contingente che –solo–
in occasione dell’Incarnazione del Verbo nel Cristo avrebbero
trovato coespressione simultanea ma non ‘strutturale’; a questo
il Concilio di Calcedonia dovette opporre la dottrina dogmatica
dell’unione ipostatica delle due ‘nature’, distinte ed
inconfuse ma anche inseparate, attraverso la ‘assunzione’ da
parte del Verbo di Dio della piena natura umana… assunzione
attuatasi ‘nella’ storia, ma divenuta ormai meta-storica per il
mistero dell’Ascensione al cielo del Cristo risorto.
E’ sotto
questo specifico profilo teologico che le dottrine canonistiche
articolatesi intorno alla Scuola di Monaco si rivelano, invece,
sostanzialmente monofisite in campo ecclesiologico: la storicità
non sarebbe cioè un elemento assolutamente caratterizzante la
esistenza della Chiesa pellegrina sulla terra ma ne
sarebbe un semplice rivestimento, un involucro
contingente e temporaneo, come la natura umana del Cristo per i
neofisiti delle antiche dispute cristologiche. F. D’Agostino parla
lucidamente in proposito di “tentazione docetista” –che lungo
la storia si ripresenta continuamente all’interno della tradizione
cristiana– di minimizzare quella realtà di incarnazione del
kerygma, di cui il Diritto canonico si fa (a suo modo) custode.
In quest’ottica –ancora
abbondantemente praticata– il modello interpretativo
dell’Incarnazione già individuato nella sua radicale
irrinunciabilità dalla Scuola cattolica di Tubinga a metà
del XIX sec. (ripreso ed approfondito sul cambio di secolo dal Card.
J.H. Neuman, rivitalizzato dalle proposte nella linea ‘conciliare’
dello Stickler e di J. Salaverri), per quanto riproposto con fermezza
dal Vaticano II (LG8) quale paradigma della strutturale complessità
ecclesiologica, non risulta né esaustivo, né
accettabile per questi ambienti canonistici che lo ricusano ben
presto come ‘insufficiente’:
«arginare la
giustificazione epistemologica del giuridico ecclesiale entro i
confini rigorosi dell’Ecclesiologia post-conciliare significa
limitare ulteriormente la riflessione in atto, almeno nella misura in
cui la riflessione sulla Chiesa non comprende in modo adeguato una
comprensione dell’uomo e dell’“evento cristiano” alla luce
della Rivelazione».
Si tende
così ad aggirare il monofisismo ecclesiologico con la
proposta di una nuova ottica: quella antropo-teologica che continua
tuttavia ad evidenziare la stessa carenza di base, astraendo la
persona umana dal contesto con-naturale della storicità,
assumendone una concettualizzazione del tutto idealistica e
tendenzialmente trascendentale: l’uomo creato e redento in
Cristo –invece di quello concretamente esistente nell’hic
et nunc storico che Cristo è venuto a salvare–; in tal
modo “il problema del Diritto ecclesiale tocca immediatamente la
fede, perché tocca la natura dell’uomo creato da Dio e
redento in Cristo e la natura della Chiesa”; l’attività
giuridica, infatti,
«è inerente all’uomo
in quanto uomo, per il fatto che è un essere sociale; l’uomo
redento in Cristo entra nella Chiesa, nuovo popolo di Dio, con tutte
le esigenze intrinseche alla sua natura, che, anzi, per opera della
grazia, vengono in essa pienamente realizzate. […]
Poiché l’uomo è
creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1, 26), è
persona, creatura razionale e libera, come Dio, capace di conoscerlo
ed amarlo. Per il fatto stesso che è persona, l’uomo è
capace di essere in relazione con l’altro e di realizzarsi mediante
il dono di sé. Proprio per il suo essere relazionale e
sociale, l’uomo non è chiamato da solo alla salvezza, ma
insieme ad altri, e quindi per il Battesimo è aggregato ad una
comunità, che è la congregazione e l’assemblea di
tutti coloro che nella fede sono salvati in Gesù Cristo».
La
riproposizione, seppure per vie traverse, del postulato originario è
inevitabile: “il Diritto canonico [d’altra parte] nella sua
essenzialità è contenuto in questa realtà
dogmatica della Chiesa come popolo di Dio”:
un trascendentale!
Per T.
Jiménez Urresti la prospettiva era assolutamente differente
poiché la Chiesa non è semplicemente collocata
‘nella storia’ ma esiste ‘per la storia’, trova cioè
nella storia uno dei propri elementi costitutivi.
Cristo Signore, d’altra parte,
l’ha costituita proprio perché continuasse dopo di Lui la
sua missione evangelizzatrice “fino alla fine del mondo” (della
storia, quindi [?]), perché attraverso il dipanarsi della
storia dell’umanità rimanesse testimone ed annunciatrice del
kerygma di salvezza che il Verbo fatto carne ha radicato nella storia
stessa quale ‘prima tappa’ del cammino che porterà “quelli
che mi hai dato […] con me dove sono io, perché contemplino
la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato
prima della creazione del mondo” (Gv 17, 24).
In
quest’ottica la storia è davvero terminus a quo per
l’esistenza stessa della Chiesa poiché è la storia
stessa che ne motiva l’esistenza; allo stesso tempo la storia si
presenta anche come vero terminus ad quem (‘quo’ è
dativo) seppure non ‘terminale’ ed esaustivo della Chiesa stessa
che mantiene, nella complessità del proprio Mistero,
un’ineliminabile tensione escatologica: “vi prenderò con
me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14, 3).
Proprio questa ‘destinazione’
costitutiva della Chiesa alla storia ne regge e guida le stesse
espressioni e strumentalità: essere mandati alla storia e non
intercettarne i dinamismi e le logiche strutturali ed operative, non
parlarne la lingua, non praticarne le espressioni, sarebbe un
radicale tradimento del proprio mandato, della propria missione:
della propria identità e ragion d’essere!
L’essere
‘nella’ storia per la Chiesa è come l’essere ‘nel’
corpo per la persona umana: conditio sine qua non della stessa
esistenza. Proprio questa connaturale storicità, tuttavia, non
solo caratterizza, ma anche plasma, il vivere e l’agire stesso
della Chiesa che non può agire che ‘storicamente’,
utilizzando mezzi e strumenti ‘della’ storia per conseguire
obiettivi e risultati ‘nella’ storia, anche se non di natura e
portata semplicemente intra-storica: tanto l’opera missionaria che
l’attività sacramentale che caratterizzano ontologicamente
l’agire ecclesiale sono chiarissime espressioni di ciò:
“tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche
in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà
sciolto anche in cielo” (Mt 18, 18).
Un annuncio
evangelico a-storico, disincarnato, sarebbe pura gnosi,
conoscenza iniziatica coltivata da qualche singolo o gruppo
esoterico… eventualità combattuta già dagli stessi
Evangelisti ancora durante la formazione del Canone neotestamentario,
come ben testimoniano San Giovanni (1Gv 2, 18-19. 22; 4, 1-13; 2Gv 7.
11), San Paolo (Col 2, 8-9. 16-23; 1Tm 4, 1-11; Tt 1, 10-16; 2Tm. 2,
14-18) o gli stessi Atti degli Apostoli (At 8, 9-24): l’accoglienza
del kerigma di salvezza deve portare invece ad aderire
–sacramentalmente e concretamente– alla Comunità di fede
ed alla sua vita di fraternità e condivisione (At 2, 41-48).
Poiché,
dunque, il mandato missionario affidato da Cristo richiede efficacia
storica, anche mezzi e strumenti che la Chiesa potrà o dovrà
utilizzare dovranno essere della stessa ‘natura’ e portata; allo
stesso modo l’accoglienza del Vangelo dovrà rendersi
‘concreta’ con la conversione, il cambiamento del proprio modo di
stare nella storia, il proprio modo di rispondere alle circostanze e
situazioni della quotidianità. La conseguenza anche a livello
di comportamentalità comunitaria richiesta e dovuta
(Diritto) non potrà che essere di tutta contingenza a seconda
di luoghi, circostanze e persone: la relatività della norma
canonica.
Nessun
dubbio quindi che anche sotto il profilo teologico la realtà-Chiesa
pre-esista al proprio Diritto e che questo nasca e si plasmi
esattamente a partire dalla vita stessa della Chiesa (medium a
quo) –assumendo in tal modo caratteristiche del tutto
differenti rispetto alle premesse di qualunque altro ordinamento
giuridico– e, al contempo, contribuisca a strutturarla (medium
quo), divenendone parte integrante e caratterizzante attraverso
il processo di Istituzionalizzazione che permette il
perseguimento di uno scopo comune e stabile al di là del
cambio fisico delle persone che ne erano state le prime espressioni.
In questa
linea prospettica giocata completamente all’interno dell’orizzonte
categoriale della storia –assunta tuttavia con valore
specificamente teologico–, l’autore ha potuto fare solido
affidamento sulla esplicita volontà fondazionale di Cristo nei
confronti della Chiesa senza dovere allo stesso tempo ricorrere alla
teoria della positivazione del Diritto divino positivo messa a
punto da J. Hervada, di fatto inutile, poiché non c’è
nulla fuori della storia che abbia rilevanza per l’azione
ecclesiale intra-storica che Cristo stesso dopo la Pasqua ha affidato
alla Chiesa fino alla fine dei tempi.
Proprio
questa assoluta ‘categorialità’ tuttavia dell’adempimento
di quella che può essere definita la “norma missionis”
spalanca le porte ad una diversa concezione del Diritto canonico che,
pertanto,
«sorge
nella e per l’attuazione o compimento della missione divina,
precisamente come esigenza della natura storica di questa missione
divina storico-salvifica e universale ad extra e ad intra:
Cristo, nell’affidarla responsabilizzò la sua Chiesa non
solo a realizzare o esercitare storicamente questa missione di
efficacia salvifica, ma anche e specificamente ad attuarla o
esercitarla prendendosi cura della sua efficacia storica,
rivestendone l’attuazione di efficacia storica […].
Il suo
storicizzarsi e storicizzare non è solo per mera
necessità-legge naturale di contattare i destinatari, ma
perché Dio ha assunto questa necessità-legge per il
proprio disegno divino di salvarci attraverso la via storica della
missione. Tra questo principio e l’attuazione storica della
missione sta la missione. Se alla Chiesa non fosse stata
affidata tale missione, non avrebbe motivo per esigere una ragione
teologica specifica per giustificare il fenomeno canonico:
poiché il fine della storicizzazione di questa missione
è incarnare l’efficacia salvifica della missione
nell’attuazione storica di questa stessa missione: questa storia è
il veicolo storico della salvezza. E il fine del fenomeno canonico è
ottenere che si compia storicamente bene la sua missione».
La portata ed estensione di
questo ‘mandato’ costitutivo sono perfettamente adeguate tanto
alla ‘consegna’ ricevuta che alla sua possibile e necessaria
attuazione:
«con
parole della logica deontica, si dice che la Chiesa ha il titolo
(facoltà) ed il dovere (responsabilità) di compiere non
solo ciò che è stato espressamente
–esplicitamente o implicitamente– comandato, ma anche di compiere
quanto implichi di storicamente necessario il realizzare, così
come realizzare bene la missione o mandato originario».
In questo
modo T. Jiménez Urresti poté accogliere e ‘gestire’
con tutta serenità la nozione di Diritto così come
conosciuto e vissuto dagli uomini, riconoscendone tutte la
caratteristiche più ‘proprie’ e modulandolo attraverso il
costante apporto della Storia della Chiesa (‘medium a quo’
e ‘medium quo’ del suo formarsi e divenire) ponendo al
contempo grande attenzione a smascherare il presupposto sacrale
sotteso alle dottrine giuridico-moralistiche pre-conciliari.
Se infatti la ‘legge’
dell’Incarnazione non è un pretesto per introdurre
sistematizzazioni teoretiche e precomprensioni ideologiche
(teologismi), ma si inscrive nella ‘stoffa stessa della creazione’,
allora non deve essere possibile prescindere dal fatto che
l’esperienza giuridica come tale appartiene all’essenza profonda
del vissuto dell’umanità. Per di più le Scienze
antropologiche hanno già dimostrato da tempo, con abbondanza e
chiarezza di termini, il radicamento socio-antropologico del fenomeno
giuridico, secondo solo a quello religioso (da cui in buona parte
discende e deriva per successive ‘laicizzazioni’).
7. Conclusione
Questi pur brevi elementi forniti
dallo studio del pensiero di T. Jiménez Urresti sono
inequivocabili circa il valore assolutamente categoriale da
attribuirsi al Diritto, anche canonico; la relatività canonica
e la molteplicità e divenienza (storicità) entro la
quale si colloca l’agire umano ne sono come le sentinelle.
Il modo un
po’ retrò di fondare ed affrontare gli argomenti più
filosofici, attraverso linguaggio, riferimenti, formulazioni e logica
di stampo scolastico, se a prima vista sembra dispersivo ed
inutilmente complicato ai nostri giorni, testimonia tuttavia la
perdita per il passato –anche non remoto– di una grande
possibilità concettuale e teoretica che avrebbe potuto senza
dubbio guidare la Canonistica ed i canonisti in percorsi speculativi
più equilibrati ed efficaci, soprattutto a partire dalla fase
razionalista del pensiero europeo.
Se, infatti, non è
corretto sostenere col senno di poi che una consolidata visione
categoriale della giuridicità sarebbe stata il miglior
antidoto alle sue degenerazioni positivistiche degli ultimi due
secoli, rimane tuttavia non controvertibile che la sua concezione
trascendentale ne ha sicuramente favorito l’assolutizzazione lungo
la Modernità, fino al tragico epilogo dello Stato etico per il
giuridico statuale ed alla, non meno problematica, sacralizzazione di
quello canonico, reso autentico sacramento di salvezza in quanto
«manifestazione della
reintegrazione dell’uomo e della vittoria sul peccato, perché
[…] promuove la comunione con Dio e fra gli uomini in ordine alla
salvezza dei membri della comunità ecclesiale».
Una fuga meno irragionevolmente
precipitosa dalle vere acquisizioni dell’autentica dottrina
classica e dai suoi fondamenti più solidi, com’è
invece avvenuta dall’epoca conciliare in avanti, avrebbe permesso a
buona parte della dottrina del secolo scorso di evitarsi le inutili
fatiche di un ‘fondazionismo’ a qualunque costo, offrendo anche
alle ultime generazioni di canonisti (le nostre) la possibilità
di affrontare serenamente le tematiche legate all’essenza della
giuridicità, senza trovarsi paralizzati davanti alla questione
odierna.
T. Jiménez Urresti lo ha
mostrato con chiarezza e definitività, come –vogliamo
augurarci– il lavoro di questa giornata.
A margine
della chiusura della presente trattazione, meritano senza dubbio
attenzione alcune obiezioni e considerazioni emerse nel dibattito
successivo. In particolare quella che vede nel riferimento troppo
forte alla ‘storicità’ del giuridico il rischio di
storicismo e di conseguente positivismo, cui va associato il richiamo
ad un’assunzione cauta dei paradigmi ‘storici’, almeno di
quelli più propri della Modernità; tale assunzione,
infatti, –si afferma– potrebbe acquistare valenze di grande
problematicità soprattutto nel loro rapportarsi all’ambito
più direttamente teologico. Ciò non toglie tuttavia
–per quanto riguarda la riflessione teologica propriamente detta–
che, al di là del termine concretamente utilizzato, il ‘tema’
del valore teologico della storia si ponga irrinunciabilmente,
né possa essere trascurato senza porre in serio pericolo tutta
la c.d. economia della salvezza.
«La Rivelazione biblica
avviene nella storia; la salvezza di Dio appare nella storia; la
predicazione della salvezza si riferisce a una storia, in cui Dio si
rivela come salvatore.
Che il Dio della Bibbia si riveli
“nella storia” è un fatto di grande importanza. Il mondo
biblico si distingue, infatti, dalle civiltà circostanti e il
suo comportamento religioso si distingue dagli altri appunto per il
legame che unisce fede e storia, fondando la fede sulla storia».
Evitare storicismi e deviazioni
pericolose del pensiero credente è senz’altro giusto,
privarsi però completamente di categorie concettuali che –in
determinati casi soltanto– possono diventare ambigue o ingannevoli,
potrebbe risultare sproporzionato, soprattutto per chi a certi
‘concetti’ non può rinunciare senza lasciar cadere allo
stesso tempo una connotazione qualificante del proprio ambito di
ricerca/interesse; che se poi fosse sufficiente cambiare qualche
termine per far cadere le obiezioni, occorrerebbe riconoscere che non
si tratta di obiezioni sostanziali in grado d’infirmare
l’impostazione della proposta dottrinale in questione!
Di questi apporti si è
comunque già tenuto conto nella stesura del presente testo,
cercando di adottare un linguaggio non generico e sufficientemente
attento e preciso, usando il termine ‘storia’ solo quando
difficilmente equivocabile oppure non facilmente sostituibile sotto
il profilo sintattico.
Un’osservazione tuttavia sembra
imporsi in merito, rendendo pacifica la posizione sin qui illustrata
ed argomentata, e distinguendo tra ‘timori’ causati dello
scricchiolare di palinsesti ormai ‘rinsecchiti’ e ‘fatti
reali’: l’approccio alla tematica utilizzato da T. Jiménez
Urresti non lascia il passo a nessun fenomenologismo o sociologismo;
la sua posizione è fondata ed argomentata su solide basi prima
di tutto teologiche (tradizionali e conciliari) e poi logiche
(espressamente tomistiche) palesemente estranee alla sensibilità
idealista hegeliana o moderna in genere, come d’altra parte è
stato espressamente riconosciuto da chi ha affermato che il discorso
dell’autore è principalmente un discorso ‘teologico’.
in: APOLLINARIS, (2006), p. 163-198.