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Diritto canonico, Antropologia e Personalismo

La seconda edizione della “Giornata Canonistica Interdisciplinare” che vede consolidarsi la collaborazione tra la Facoltà di Diritto canonico e la Facoltà di Filosofia della nostra Università, si pone in diretta continuità coi lavori della scorsa edizione non solo per l’impostazione e la metodologia seguite ma, molto di più, per la tematica cui dedicheremo le nostre attenzioni.


Il tema “Diritto canonico, Antropologia e Personalismo” si pone infatti come concreta esplicitazione e necessario sviluppo di quanto ‘raggiunto’ e fissato col “Bilancio canonistico” cui sono approdate le relazioni dello scorso anno in fatto di “Categorialità e trascendentalità del Diritto”. Il risultato, infatti, consegnatoci in quell’occasione può –molto sinteticamente– esser riproposto in due semplici proposizioni: a) il Diritto è un ‘prodotto’, una ‘costruzione’, del vivere umano, b) il Diritto è un’esperienza autenticamente antropologica; il concreto trait d’union tra la tematica dello scorso anno e quella odierna può così essere efficacemente individuato nell’affermazione del prof. Livi, in quella sede: «non esiste altra Metafisica che il Personalismo».

Proprio a questo livello c’inseriamo con le riflessioni odierne, coniugando consapevolezza e criticità –tanto teoretiche che pratiche– nei confronti di un ambito contenutistico ‘frequentato’ da varie Discipline e, anche per questo, non privo di rischi terminologici e concettuali, primo tra tutti l’identificazione –o l’indistinzione– tra ‘uomo’ e ‘persona’, oltre che delle loro diverse declinazioni semantiche quali: antropologico, umano, personale, oppure ancora: Antropologia, Personalismo, Umanesimo, ecc.

È utile precisare fin da subito la –eventuale– possibilità di accogliere come legittime, oltre che a loro modo significative, altre possibili formulazioni del titolo scelto per i lavori di questa giornata come, p. es., “Diritto canonico, Antropologia e Persona”; la formulazione scelta pare tuttavia offrire il vantaggio di porre in evidenza la possibile –o forse necessaria– ‘tensionalità’ tra diversi modi di riferirsi alla ‘stessa’ persona quale termine fontale di riferimento. In questo modo l’accostamento quasi dialettico tra ‘Antropologia’ e ‘Personalismo’ vuole proprio porre in evidenza la necessità di discernere il concreto punto di vista e la prospettiva che vengono collocati alla base del semplice utilizzo dei termini, poiché non basta un semplice riferimento terminologico alla ‘persona’ per attuarne una vera considerazione, né basta una visione antropologica che, per quanto cristianamente fondata, non tenga però conto di dimensioni di fatto ‘costitutive’ della persona stessa com’è concretamente quella ‘storico-culturale’. Come, infatti, già evidenziava Giovanni Paolo II alla Rota Romana oltre dieci anni fa:


«non è sufficiente richiamarsi alla persona umana e alla sua dignità, senza essersi prima sforzati di elaborare un’adeguata visione antropologica, che, partendo da acquisizioni scientifiche certe, resti, ancorata ai principi basilari della Filosofia perenne e si lasci insieme illuminare dalla vivissima luce della Rivelazione cristiana».


Dell’Antropologia autenticamente cristiana occorre, poi, cogliere e valorizzare il necessario realismo che obbliga alla considerazione storica e culturale dell’uomo stesso, tenendo conto proprio del suo impegno di fronte a se stesso per capire ‘chi è’, nella immediata concretezza ed irripetibilità dell’esistenza propria di ciascuno.

Giovanni Paolo II lo evidenziava fin dall’inizio del suo pontificato:


«qui, dunque, si tratta dell’uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione. Non si tratta dell’uomo “astratto”, ma reale, dell’uomo “concreto”, “storico”… L’uomo così com’è voluto da Dio, così come è stato da Lui eternamente “scelto”, chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio “ogni” uomo, l’uomo “il più concreto”, “il più reale”; questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo»;


spingendo così la Chiesa stessa ad accogliere «dalle culture dei popoli tutto ciò che è in grado di meglio esprimere le inesauribili ricchezze di Cristo», che essa pure già possiede attraverso la Rivelazione.


Tenuto conto di ciò, cercheremo di porre al centro della nostra riflessione, senza dispersioni di nessuna efficacia pratica nella contrapposizione terminologica, quanto emerso dalla riflessione, soprattutto del secolo scorso, a riguardo dell’individuazione e, per quanto possibile, determinazione del concetto di ‘persona’ cui il Diritto canonico, ma ogni forma ed espressione giuridica più in generale, deve irrinunciabilmente fare riferimento quale primo destinatario della propria attitudine ordinatoria e funzionale.


1. QUADRO GENERALE

Ci sono almeno tre buoni motivi per i quali la Canonistica può –o forse deve– porsi il problema del rapporto tra Diritto canonico, persona umana e concezioni teoretiche o ideologiche di riferimento (Antropologie o Personalismi che dir si voglia):

1) il primo è di carattere prettamente fenomenologico: ogni sistema giuridico, e valoriale in genere, è sotteso da una specifica Antropologia intesa come visione dell’uomo (come i piedi che, reggendo un tavolo, contribuiscono alla sua stessa costituzione);

2) l’attività giuridico-canonistica è stata più volte richiamata negli ultimi decenni, soprattutto dai romani Pontefici, ad un serio esame dei presupposti antropologici di riferimento di coloro che agisco all’interno dell’Ordinamento giuridico canonico, specie in ambito processuale-matrimoniale –ed è questa l’occasione che ci ha spinto ad invitare in questi due giorni gli Operatori dei Tribunali ecclesiastici italiani–;

3) negli ultimi decenni i livelli più teoretici e generali di approccio sistematico allo studio del Diritto canonico hanno fatto vari riferimenti sostanziali ad elementi indicati come ‘antropo-logici’ ma che in realtà si sono rivelati come decisamente ‘teo-logici’, rischiando di sviare completamente la percezione del Diritto canonico stesso –della sua struttura e funzionalità– verso un piano/livello della riflessione completamente al di fuori del corretto ambito della Scienza giuridico-canonistica.


L’explicatio terminorum cui mira questa seconda “Giornata Canonistica Interdisciplinare” ha perciò lo scopo di aiutare il canonista ad aumentare la chiarezza del preciso significato dei termini “uomo/umano/antropologico” e “persona/personale/personalista” cui spesso si riferiscono le diverse istanze normative, dottrinali e giurisprudenziali con cui viene quotidianamente a contatto, in modo da saper indirizzare criticamente la propria comprensione ed il proprio pensiero… e la prassi conseguente.

Le prospettive dottrinali che fanno riferimento alla consolidata ed organica attività giurisprudenziale di Mons. José Maria Serrano Ruiz e Mons. Juan José Garcia Failde, oltre che alla sistematizzazione della materia processuale da parte del prof. Manuel Arroba Conde, che interverranno come relatori in questi due giorni, ne sono l’espressione più evidente.


In realtà i tre approcci sopra indicati convergono a delineare una visione ‘globale’ dell’esperienza giuridica ecclesiale in grado di accompagnarne una comprensione davvero ‘contemporanea’ (per l’oggi) e propositiva per il futuro, oltre che rischiarare a-posteriori la comprensione dell’abbondante esperienza maturata in circa due millenni di vita ecclesiale, in una prospettiva di sostanziale ‘continuità’ con ciò che davvero risulta ‘costitutivo’ del Diritto canonico stesso: la vita del Christifidelis all’interno della più ampia e strutturata Comunità di fede nel Cristo crocifisso e risorto.

Un richiamo alla dialettica che nel XIII sec. oppose la Scuola giuridica bolognese e quella teologica parigina in tema di ‘consenso’ matrimoniale sarebbe fin troppo facile in questa sede; allo stesso modo la concreta ‘soluzione’ adottata dal Diritto canonico successivo (ed ancora vigente) è inequivocabile sotto questo profilo: “Consensus non concubitus facit nuptias” (Cfr. Can. 1057) ma, non di meno: consensus sine concubito dispensari potest (Cfr. Can. 1697). Restano così affiancate, ed in qualche modo complementari, le istanze concettuali ed assiologiche più espressamente sensibili all’essenza umana (Scuola di Parigi) o alla sua concreta esistenza (Scuola di Bologna)… l’idea di uomo o la sua realtà storica.

Venendo però con decisione ai nostri giorni si potrebbe affermare, e non in modo evocativo soltanto, che il Diritto canonico sgorgato dal Concilio Vaticano II è caratterizzato –e chiede di essere caratterizzato sempre maggiormente– da una spiccatissima sensibilità ‘personalista’ che sappia guardare sempre più e meglio alla ‘persona’ come tale, nella singolarità di ogni e ciascun Christifidelis, più che all’essere umano (come tale) che le diverse Filosofie e/o Teologie sistematiche hanno proposto –o ‘imposto’– negli ultimi quarant’anni. Il Concilio Vaticano II, infatti, ha intrapreso con chiarezza una nuova via di approccio alla realtà e missione ecclesiale che passa oggi per la persona umana prima che per l’Istituzione; lo stesso Giovanni Paolo II non ha esitato a proclamare più volte che l’uomo «è la prima e fondamentale via della Chiesa», mostrando a chi si occupa più direttamente della concreta vita ecclesiale –i canonisti in prima linea– la prospettiva unitaria cui ricondurre ogni elemento e considerazione.


In questa prospettiva ormai qualificante e ‘costitutiva’ per il Diritto canonico contemporaneo la pluri-invocata “salus animarum” quale ratio fundamentalis dell’intero Ordinamento canonico continuerà ad avere un significato irrinunciabile e decisivo solo se intesa come attenzione alla piena verità esistenziale e personale (psicologica, morale e spirituale) di ciascun membro della Chiesa e dell’umanità tutta, a partire da una vera e consapevole assunzione del principio soteriologico dell’Incarnazione che sappia manifestare il sommo valore dell’unica pecorella smarrita rispetto alle novantanove rimaste nel gregge (Lc 15, 4-7). In caso diverso finirebbe inevitabilmente per rilevare soltanto il numero di ‘esemplari umani’ (mi si passi l’immediatezza dell’espressione) strappati alla comune sorte della ‘massa dannata umana’: proprio quelle ‘anime’ –di fatto incorporee, astoriche e generiche– che popolavano gli orizzonti teologici e pastorali post-tridentini e pre-conciliari, ponendosi come le ‘referenti’ istituzionali delle norme canoniche codificate dal Gasparri, nella più volte osservata e ribadita problematica indistinzione tra Diritto canonico e Teologia morale.

Oggi tuttavia, ad un secolo dall’inizio dell’opera codificatoria canonica, la Teologia del Novecento ci ha reso consapevoli –e convinti– che l’uomo a cui si rivolge l’annuncio del Vangelo di salvezza non è un’anima rivestita (o imprigionata) da un corpo che le ‘impone’ necessità ed esigenze inevitabili, non solo fisiologiche ma anche ‘morali’ (la concupiscentia cui è necessario porre un lecito ‘rimedio’), ma una ‘persona’ che soffre con le stesse facoltà con cui gioisce ed ama… che sceglie la fedeltà coniugale con le stesse risorse e difficoltà con cui persevera in una matura vita spirituale. Un’idea di uomo semplicemente “creato e redento in Cristo” –come adottata da certa Canonistica– non riuscirebbe, invece, ad evitare che ciascun Christifidelis sia ridotto ad uno dei tanti milioni di anti-typoi ‘ricavati’ dal typos per eccellenza, che è Cristo stesso.

Se così fosse –o dovesse essere– ci troveremmo davanti ad un Diritto canonico che, per quanto ‘antropologico’, si mostrerebbe però incapace –come minimo– di evitare l’adozione di una logica ed un linguaggio ‘di genere’ (l’uomo) e non di singolarità (la persona) in cui invece ciascuno è chiamato alla salvezza ‘per nome’… col proprio nome, con la propria vita: in quanto ‘persona’, ‘figlio’ che si rivolge a Dio dicendo: ‘Padre’ …e non come semplice –anonima– ‘creatura’ verso un altrettanto anonimo, per quanto ‘amorevole’ e provvido, ‘creatore’.

Un esito di questo tipo, però, pone in seria difficoltà e discussione non solo il “Dio dei filosofi” –come lo chiamò a suo tempo B. Pascal– ma anche quello di molti teologi… anche del secolo appena conclusosi e dei decenni del dopo-Concilio.


La necessità di capire e di spiegare la complessità del panorama che emerge da queste semplici e sommarie osservazioni è quanto mai urgente per chi si occupa di Diritto canonico, ed in modo specifico di Diritto ‘sacramentale’ come fanno i matrimonialisti che, dovendo ‘verificare’ l’esistenza del vincolo matrimoniale tra due Fedeli, sono chiamati spesso a dover distinguere tra atto dell’uomo (actus hominis), atto umano (actus humanus), atto della persona (actus personæ) ed atto personale (actus personalis), questioni di specifica natura e portata ‘etica’, prim’ancora che teologica… trovandosi non di rado assediati dalle loro stesse parole e nell’incapacità sostanziale di capire e spiegare se, cosa, come sia accaduto.


2. PER ENTRARE NEL TEMA

Dopo aver delineato la portata più generale del tema proposto alla nostra riflessione di questi due giorni, si suggeriscono alcuni stimoli su ciascuno dei tre ‘filoni’ già indicati, in modo tale da circostanziare il più possibile la portata dei significati e dei concetti di ‘antropologico’ e ‘personalista’ che rimangono sullo sfondo delle considerazioni che sarà possibile/necessario proporre e sulle quali attivare il confronto.


2.1 Fondamenti dell’Ordinamento giuridico

Che un Ordinamento giuridico sia necessariamente fondato sull’uomo come tale o, addirittura, sulla ‘persona’ non è affatto scontato, come invece potrebbe apparire a prima vista; possono esserci, infatti, alla base di un Ordinamento socio-giuridico anche altre realtà ben diverse quali, p. es., un popolo/etnia come nell’Ebraismo, una classe sociale come nel Comunismo e Socialismo, una dinamica sociale come nel Capitalismo, una religione come nell’Islam. L’Ordinamento giuridico internazionale, a sua volta, ha come propri ‘soggetti’ né uomini, né persone ma delle collettività impersonali: gli Stati.

Tuttavia, quand’anche l’Ordinamento giuridico fosse fondato sull’uomo, non significa ancora che tale ‘uomo’ sia necessariamente la persona umana come tale, potrebbe infatti trattarsi del ‘cittadino’ che emerge dalla Rivoluzione francese (identificato per l’appartenenza e soggezione ad una giurisdizione statuale), o del ‘maschio circonciso’ cui si riferisce –una parte significativa del–l’Islam (identificato da una specifica caratteristica fisica, non naturale), oppure ancora dell’appartenente ad una determinata ‘casta’ com’è nell’Induismo (identificata in base alla genealogia), ecc.

Anche una più profonda prospettiva etico-filosofica, quale si accentua sempre maggiormente nelle questioni legate alla Bioetica, si trova spesso incapace di decidere ‘quale’ o ‘che cosa’ sia la ‘persona’ cui ci si riferisce, ritrovandosi a contrapporre visioni ‘sostanziali’ o ‘funzionali’ della persona stessa a seconda che si guardi all’essere umano in qualsiasi stadio della sua manifestazione o solo quando –e finché– possiede adeguate funzioni di coscienza, volontà, relazione, ecc. casi in cui, di fatto, il singolo soggetto concreto non riesce a rilevare rispetto all’essere ‘umano’ come tale. Le questioni legislative statuali legate ad eutanasia, testamento biologico, eugenetica, Matrimonio ecc. sono oggi più che eloquenti in merito.


2.2 Uomo e persona nell’Ordinamento canonico

Anche riferendosi direttamente all’Ordinamento giuridico ecclesiale in quanto tale non è per nulla ovvio che si tratti –in sé e per sé– di un Ordinamento ‘personalista’; la storia in questo è certamente testimone credibile.

Senza poter qui illustrare tutta la parabola percorsa in due millenni dalla giuridicità ecclesiale, basterà un semplice raffronto tra la concezione sottesa al Codex pio-benedettino ed a quello vigente. Che il CIC 17 reggesse il proprio impianto generale sul presupposto di una societas animarum è dato evidente; che oggi non sia più così neppure a livello codiciale non lo è di meno.

Che il Christifidelis sia, oggi, una persona e non semplicisticamente un’anima aggiogata ad una ‘carne’ è dato certo; che l’azione pastorale della Chiesa non si rivolga più a delle ‘anime’ –spesso come singole e disincarnate– ma ad una Comunità di credenti, altrettanto.

Il Concilio Vaticano II è stato senza dubbi il cuore di questo epocale cambio di paradigma: la Costituzione Gaudium et spes e la Dichiarazione Dignitatis humanæ hanno sottoposto ed acquisito alla consapevolezza cattolica elementi che non potranno più essere dimenticati e che lo stesso Diritto canonico, nonostante tutto, ha già abbondantemente integrato al proprio interno, nonostante per molti versi si tratti ancora degli inizi soltanto.

I Criteri di revisione del Codice sono davvero illuminanti in questa prospettiva: la distinzione tra foro interno ed esterno (2° crit.), la delineazione ‘giuridica’ (6° crit.) e tutela ‘istituzionale’ dei ‘diritti’ dei Fedeli (7° crit.) segnano con chiarezza il passaggio tra le differenti Antropologie (filosofiche e teologiche) sottese.

La stessa evoluzione del Diritto matrimoniale canonico che il CIC 83 palesa rispetto al Codice pio-benedettino è assolutamente inequivocabile, infatti, pur permanendo le categorie di “essenza” e “fini” del Matrimonio, il loro contenuto si presenta oggi sensibilmente diverso da quello precedente, con l’adozione di concetti decisamente innovativi quali: il “Matrimoniale foedus”, il “consortium totius vitæ”, il “bonum coniugum” che sostituiscono senz’appello il precedente “Ius in corpus… ad prolis generationem”.


2.3 Antropologie cristiane e ‘persona’

Il problema tuttavia di saper opportunamente individuare e distinguere differenti concezioni di Antropologia e differenti teorie antropologiche, pur all’interno dell’orizzonte di sostanziale ‘compatibilità’ biblico-evangelica, rimane del tutto aperto ed altamente problematico, soprattutto nelle sue applicazioni più ‘pratiche’ tanto in campo dottrinale, che di governo e di giudizio.

Concretamente, per il campo dottrinale: qual è il ‘referente’ corretto della Canonistica in campo antropologico? L’Antropologia filosofica o quella teologica? [Sarà questa la domanda rivolta alla pluridecennale riflessione del Prof. Battista Mondin, stimato specialista di entrambi gli approcci].

La questione non è assolutamente né teoretica né banale, poiché il secolo scorso ha già messo più volte in stallo questo ‘livello’ del discorso attraverso l’adozione di prospettive –e presupposti– unilaterali che hanno finito per complicare inutilmente l’orizzonte, già complesso, della materia senza approdare a conclusioni che non fossero inaccettabilmente ideologiche.

Chi si occupa di Teoria generale del Diritto canonico (soprattutto in riferimento alla concettualizzazione dell’agire giuridico canonico) o della ricerca intorno agli Istituti giuridici (come p. es. quello processuale) o della giustificazione e fondamentazione delle diverse ‘materie’ del Diritto canonico dev’essere in grado di saper come procedere, da dove muovere il proprio percorso, di quali categorie concettuali servirsi: come, però, farlo? Due soltanto sembrano le possibili risposte sostanziali alla questione: a) il modo deduttivo, con applicazione prevalente dell’analogia fidei partendo dall’Antropologia teologica, che risalta emblematicamente nella riflessione ed insegnamento del prof. G. Ghirlanda… ponendo poi il problema conseguente circa quale Antropologia teologica seguire: quella balthasariana, quella tomistica, quella agostiniana, o quella scotista? Oppure, b) partendo dall’Antropologia filosofica attraverso l’indagine esperienziale-induttiva e fenomenica, nel confronto col portato delle diverse Scienze/Discipline antropologiche, sociologiche e storiche, con apertura responsabile e veritiera verso i ‘dati’ che la Rivelazione biblica pone come imprescindibili ed invalicabili.

Il problema non è soltanto ‘di metodo’ ma sostanziale: il Christifidelis de quo è un ipotetico quanto generico (a-temporale, a-spaziale, a-storico ed a-nonimo) “uomo creato e redento in Cristo”, oppure una persona specifica collocata in un tempo ed in uno spazio determinati e determinanti, in una cultura, in uno status socio-economico, in situazioni e condizioni che indirizzano e/o forzano il libero esercizio della propria idealità e volontà? In modo più radicale, proprio sotto il profilo teologico: c’è, oppure no, spazio definitivo e costitutivo per il c.d. principio dell’Incarnazione quale sommo ed irrinunciabile criterio soteriologico? Quale concezione della ‘grazia salvifica’ e della sua azione nei Christifideles, poi, è posta alla base dell’intera prospettiva soteriologica ed ecclesiale? Con evidenza, ciò che si può chiedere o esigere da parte di ciascuno e ciò che si può delineare ed organizzare in modo istituzionale nella Chiesa assumono caratteristiche e prospettive ben diverse non tanto in dipendenza da un riferimento ecclesiologico ‘societario’ o ‘comunitario’ ma, molto di più, a seconda della reale consistenza riconosciuta o attribuita al suo soggetto o destinatario: il concreto Christifidelis.


Non si tratta certo delle domande che un canonista si pone quotidianamente, ma neppure di istanze senza alcuna connessione con un serio lavoro canonistico che intenda ‘collocare’ la vita di ciascun Christifidelis nella giusta luce, per comprenderne la portata dell’agire in riferimento a Sacramenti come l’Ordine o il Matrimonio o a scelte di vita come la Consacrazione religiosa. Non di meno lo stesso governo ecclesiastico in ciascuna delle sue tre espressioni (legislativa, esecutiva e giudiziale) dovrà sempre tenere nella dovuta rilevanza la concreta soggettività del Christifidelis cui si relaziona nei diversi tempi e luoghi, nelle diverse società e culture, nelle diverse tradizioni rituali e disciplinari, come già ‘istituzionalmente’ avviene per le diverse Chiese sui Iuris, dotate di disciplina giuridica ‘propria’.

Che il Christifidelis presente alla consapevolezza dei sacri Pastores sia un generico essere umano, o solo un’anima, o una specifica ‘persona’ non è certo mai irrilevante in vista dell’esercizio di un munus/ministerium finalizzato a creare/mantenere le migliori condizioni per conseguire la maggiore santificazione a lui concretamente possibile; si consideri, solo per esemplificare, la ‘qualità’ e consistenza della “giusta causa” necessaria e/o sufficiente per concedere la maggior parte delle Dispense di cui i Fedeli facciano richiesta o abbiano necessità.


3. CANONISTICA IN CHIAVE ANTROPOLOGICA

La seconda metà del secolo scorso, soprattutto negli zelanti tentativi di ricongiungere Canonistica e Teologia, ha conosciuto alcuni indirizzi fortemente antropologici che hanno finito per essere ritenuti ‘fondativi’ non solo della Canonistica in quanto Scienza ma dello stesso Diritto canonico. È la declinazione più espressamente italiana della Canonistica di origine bavarese delineatasi originariamente nella riflessione di Antonio Maria Rouco Varela ed Eugenio Corecco ed espressasi in modo eminente nell’attività di insegnamento e pubblicazione del prof. G. Ghirlanda presso la Pontificia Università Gregoriana in Roma, all’interno di una prospettiva dalla forte denotazione teo-antropologica generata dal rifiuto –barthiano– di accogliere qualunque dato, tanto storico che metafisico, ‘estraneo’ alla Rivelazione cristiana, nella convinzione che solo l’evento cristologico possa costituire un adeguato punto di partenza per la riflessione sull’uomo e tutto quanto gli si possa riferire.

Cornice di tale riflessione non è stata però la Canonistica in quanto Scienza del Diritto canonico –o, se vogliamo, consapevolezza riflessa dell’effettiva plurisecolare esperienza giuridica della Chiesa–, ma quel particolare ambito di riflessione che si propose in ambito dottrinale dalla metà del secolo scorso come “Teologia del Diritto canonico” e che finì per vedere quest’ultimo come la semplice espressione storica di un Diritto ‘meta-umano’ …trascendentale, si diceva lo scorso anno.

In questa prospettiva lo stesso riferimento socio-antropologico da cui il Diritto (o almeno il vissuto giuridico) non può mai separarsi diventa in realtà teo-antropologico: un argomentare, cioè, in termini puramente teoretici e deduttivi tipicamente ‘teologici’ senza alcun legame significativo con quella realtà assolutamente intra-storica –il vissuto/vivere umano– che il Cristo stesso ha voluto ‘assumere’ e redimere nel mistero della sua Incarnazione. La questione del Diritto –tipicamente ‘umana’– si è così trasferita dalle Scienze socio-antropologiche all’Antropologia teologica e di qui alla Soteriologia, finendo per sottrarre anche il Diritto canonico al proprio riferimento ‘naturale’ alla Teologia fondamentale (rapporto tra fede/Rivelazione e vissuto umano) ed all’Ecclesiologia (struttura funzionale della Comunità di fede).


A G. Ghirlanda va riconosciuto senza dubbi il grande sforzo di aver tentato di ricuperare l’elemento ‘umano’ alla Canonistica teoretica di base: l’esigenza cioè di non vedere l’esperienza giuridica ecclesiale come semplice Ordinamento od organizzazione, in una dimensione solo ‘istituzionale’ (in qualche modo), ponendo invece come fondamentale la domanda circa il rapporto più profondo del Diritto –non solo canonico– con la realtà umana.

In questa prospettiva la sua critica agli autori della Scuola di Monaco nelle poche pagine di “Ius gratiæ - Ius communionis” è acuta quanto stringata: di K. Mörsdorf afferma: «gli sfugge la connessione tra Antropologia ed Ecclesiologia» allo stesso modo di A.M. Rouco Varela cui «sfuggono le implicazioni antropologiche dell’Incarnazione»; ad E. Corecco contesta la difficoltà di fondo secondo cui «l’uomo, in quanto creatura, artefice insieme a Dio del mondo, sembra scomparire»; anche in R. Sobanski riscontra il punto debole della «mancanza di una penetrazione antropologica della realtà del Diritto, come esperienza umana, fondata teologicamente, che entra nella vita della Chiesa». Appare, tuttavia, legittimo il dubbio se in realtà la posizione di G. Ghirlanda (da buon ‘latino’) non sia semplicemente il ricupero della necessaria prospettiva ‘cattolica’ che vede l’uomo effettivamente coinvolto nell’opera della –propria– salvezza (gratia sanans) e non come suo semplice spettatore (gratia elevans) alla maniera luterana… prospettiva che la scuola di Monaco (‘germanica’), assumendo la sostanziale impostazione protestante della tematica giuridica –tanto in R. Sohm che nei teologi protestanti del dopo-guerra–, non aveva saputo cogliere né preservare.


Fulcro della leva teoretica dell’autore pare essere il ‘principio’, attinto da Paolo VI, secondo cui «l’uomo non è persona perché è sociale, ma è sociale perché è persona»… senza che ciò comporti poi nulla di più della conseguente «importanza della persona umana, fondamento della vita sociale», ma nella convinzione metodologica che «per comprendere il fenomeno del Diritto si deve partire dalla domanda: “che cosa è l’uomo?”»… domanda eminentemente ‘teologica’.

Il principio così posto, tuttavia, non pare fornire alcun valido aiuto nello stabilire un congruo legame tra uomo/persona e giuridicità/Diritto che finisce per risolversi nella semplice affermazione –apodittica– della normatività dell’essere personale nella singolarità propria di ciascuno: «la persona umana, per il fatto stesso di esistere, postula una normatività: gli spetta in modo assoluto uno “Ius suum” che obbliga all’osservanza»; sarebbe questa, pertanto, la ‘fonte’ originaria della giuridicità:


«la persona umana […] per il fatto stesso che esiste, ha e afferma il diritto primario e fondamentalissimo all’esistenza e ad un’esistenza degna, al quale corrisponde l’obbligo morale fondamentalissimo del riconoscimento e del rispetto di tale diritto, e quindi della sua protezione. L’obbligo morale scaturisce dallo stesso diritto soggettivo naturale, in quanto la persona umana, per il fatto stesso di esistere, richiede una normatività. Qui sono le radici del “giuridico”, cioè dell’obbligatorietà delle relazioni intersoggettive, come legittime esigibilità»…


posizione in realtà non troppo distante da quella di Javier Hervada e del ‘suo’ Diritto naturale.

Nonostante, tuttavia, questo primo ‘fondamento individuale’ della giuridicità –nello Ius suum cuiusque– l’autore non riesce però a sottrarsi all’evidenza del legame strutturale della giuridicità alla società, finendo per contraddirsi quando afferma che «l’esperienza giuridica fa parte dell’uomo, del suo essere sociale»… per concludere che il Diritto «va considerato innanzitutto come realtà ontologica, inerente, cioè all’uomo in quanto uomo, quindi universale (“ubi homo ibi Ius”)»; finendo così per scalzare l’originale “Ius suum” –individuato come “diritto soggettivo naturale”(!)– per un sostanziale “ubi societas ibi Ius”. Se non ché il presupposto anti-filosofico mutuato dalla Scuola canonistica bavarese costringe l’autore a sottrarsi alla dimensione socio-antropologica imponendogli l’adozione di un orizzonte ‘teologico’, fino a concludere –inaspettatamente– che «lo studio di essa [esperienza giuridica] conduce ad un approfondimento dell’Antropologia teologica, la quale diventa anche cerniera per una comprensione del fenomeno giuridico nella Chiesa, società umano-divina nello stesso tempo».

La tensione tra la radice ‘individuale’ e quella ‘societaria’ dell’esperienza umana del Diritto, per quanto entrambe ritenute ‘ontologiche’, sembra però essere solo un primo ‘sintomo’ della possibile/probabile aporia che si manifesta quando si passa dalla considerazione del Diritto in quanto tale, ritenuto adeguatamente fondato nella persona umana in dipendenza dall’Antropologia teologica, alla considerazione del Diritto ‘ecclesiale’ il cui studio –addirittura– «si presenta utile per una più profonda conoscenza dell’uomo salvato in Cristo e della Chiesa».

In questo modo, così, poiché lo studio del Diritto canonico conduce all’Antropologia teologica, il Diritto canonico finisce per porsi di fatto a fianco della stessa Rivelazione proprio come ulteriore ‘fonte’ di conoscenza –locus theologicus– dell’uomo de quo. L’uomo creato e redento in Cristo che la Scrittura ci presenta, quindi, coinciderebbe con quello desumibile dallo studio del Diritto canonico o, forse: studiando il Diritto canonico si potrebbe giungere alle stesse conclusioni dello studio della Rivelazione… conclusione certamente problematica sotto il profilo teologico!

In questa fondamentale indistinzione tra ‘fondato’ e ‘fondamento’ si ha come l’impressione di trovarsi davanti ad un ‘pallottoliere’ in cui la Chiesa risulta dalla semplice ‘somma’ dei singoli credenti: siccome ‘questi’ sono gli uomini, ‘questa’ è, di conseguenza, la Chiesa! Si rischia così una prospettiva ecclesiologica ‘individualista’ ed estrinsecista difficilmente compatibile con l’Ecclesiologia cattolica, nonostante si giunga poi a prospettare nella Communio un ‘undicesimo principio’ di revisione del Codice; ciò tuttavia prescinde di fatto dal legame costitutivo –ecclesiologico– dell’accoglienza del Vangelo, dell’adesione alla fede, dell’incorporazione al Corpo mistico di Cristo: essere uomo/persona ed essere Christifidelis pare, in fondo, non differire in nulla; appartenere all’umanità o alla Chiesa non pare prospettare grandi differenze… poiché sempre di uomini già “creati e redenti in Cristo” si tratta, anche in considerazione del fatto che, almeno teologicamente, non esistono ‘altri’ uomini diversi da questi!


Altro elemento problematico nella dottrina giuridico-antropologica di G. Ghirlanda è il rapporto tra ‘relazionalità’ interpersonale e ‘societarietà’, prontamente declinata in una più sfuggente ed elusiva “associabilità” dove, ancora una volta, relazionale e sociale s’identificano, al punto che «l’uomo è un essere sociale proprio perché creato ad immagine di Dio» e: «la Rivelazione biblica porta ad una comprensione più profonda dell’esperienza umana del Diritto, che si fonda nell’associabilità che fa strutturalmente parte della natura dell’uomo».

Alla base di questa prospettiva continua a palesarsi il presupposto –anti-sociologico ed anti-filosofico– della Scuola di Monaco che vede nel Diritto


«una realtà che si colloca nell’ambito di una pluralità di persone e quindi così ne enuncia la definizione assolutamente formale: “Diritto” sarebbe tutto ciò che causa o permette il nascere, il permanere, lo svilupparsi di una data aggregazione interpersonale. “Diritto” sarebbe pertanto una serie di elementi che, presupposta una pluralità di persone, ne fanno un “unum”, una aggregazione interpersonale, una comunità o socialità».


Secondo questa logica «per il fatto stesso che è persona, l’uomo è capace di essere in relazione con l’altro e di realizzarsi mediante il dono di sé», riconducendo direttamente l’essere persona alla relazionalità. A fondare questa prospettiva concorre –secondo l’autore– il Magistero di Giovanni Paolo II che, nella Mulieris dignitatem, insegnava:


«leggiamo, inoltre, che l’uomo non può esistere “solo” (Cfr. Gn 2, 18); può esistere soltanto come “unità dei due” e dunque in relazione ad un’altra persona umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo. Essere persona ad immagine e somiglianza di Dio comporta, quindi, anche un esistere in relazione, in rapporto all’altro “io”».


La sostanziale non pertinenza di tale rimando per fondare la dimensione ‘sociale’ e quindi giuridica dell’uomo/persona è palese: non basta nessuna relazionalità interpersonale –come m’è, p. es., nel rapporto di coppia ed in quello amicale– per ‘fondare’ la giuridicità/Diritto, che si regge, invece, su presupposti funzionali ben più ampi ed articolati di interazione intersoggettiva quale, appunto, quella ‘sociale’, come già ben indicava lo scorso anno il prof. Fabio Macioce affermando che l’essenza del Diritto postula la presenza del c.d. ‘terzo’; in quest’ottica affermare soltanto che «è la persona che fonda la vita sociale» risulta del tutto pleonastico e di nessuna reale utilità teoretica.


L’attendibilità che il prof. Ghirlanda pretende addurre per le proprie posizioni è costantemente articolata in rimandi al Magistero pontificio del XX sec., a partire dalla “Mystici corporis” di Pio XII per indugiare poi su una quantità di affermazioni, tanto di Paolo VI che di Giovanni Paolo II, in cui “uomo” e “persona” appaiono però indifferentemente e finiscono per essere del tutto identificati, ignorando l’assoluta peculiarità del pensiero filosofico (e non teologico!) di K. Wojtyla, e giungendo a definire la «singola persona» come «particolarizzazione storica della natura umana» in una prospettiva che, nonostante l’abbondanza di riferimenti alla Rivelazione biblica ed al Magistero, fa apparire l’uomo –o la persona– come l’antropos della Filosofia antica: più species che ens: un ‘universale’ astratto e teoretico… una pura ‘potenza’, una ‘idea’ …una ‘fattispecie’ più che un evento singolare, imprevedibile ed irripetibile; tanto più che, a detta dello stesso autore, «concettualmente la natura umana è un’astrazione»! A questa prospettiva se ne affianca, poi, un’altra non meno problematica secondo cui «il Diritto positivo è l’espressione della socializzazione storicamente possibile della persona umana. In questo modo la persona umana viene storicamente espressa per mezzo del Diritto positivo» il cui studio manifesta –deduttivisticamente– la «autocomprensione della persona umana, che porta in sé la natura, la quale per essa rimane sempre normativa».

Con evidenza ciò che Ghirlanda considera è, dunque, l’essere-umano in quanto ‘essenza’, che si cela e manifesta al contempo dietro ogni sua possibile ‘maschera’ (‘esistenza’), una sorta di potenziale infinito che ‘appare’ in ciascuna sua manifestazione individuale: la ‘persona’ secondo il concetto teatrale greco del prosopon, la maschera appunto, che individua ogni singolo ‘personaggio/ruolo’ della scena teatrale senza mai la capacità di diventare ‘soggetto’ individuale ed agente… protagonista; sul palcoscenico non si ha un nome ma un ruolo… non si ‘è’ qualcuno ma si impersona ‘colui che’.

Ci si trova così davanti ad un’essenza teorica invece che un’esistenza concreta; un ‘quid’ che non riesce mai a diventare ‘quis’; un ‘ognuno’ e ‘ciascuno’ che non riesce mai a pro-porsi (mettersi davanti) ai ‘tutti’ (i ‘terzi’) di cui rimane comunque ‘parte’ ed ‘espressione’ e dai quali non è concessa ‘autonomia’ alcuna. Una concretezza che è solo l’apparire, il manifestarsi, –puntuale e fugace– di una realtà priva di reale ‘alterità’ poiché la “natura dell’uomo” si riduce alla «capacità intrinseca di entrare in relazione con l’altro, per il fatto stesso che è creato ad immagine e somiglianza di Dio», trasferendo così ogni ‘valore’ nella premessa (Dio) e privandone ogni singola realizzazione (uomo concreto), vanificando di fatto ogni portata dell’irriducibile alterità individuale.


La portata ontologica dell’approccio teo-antropologico propugnato da Ghirlanda, considerando che l’uomo «nella dimensione di relazione all’altro è immagine e somiglianza di Dio», finisce per imporgli una concezione giuridica incapace anche di cogliere la reale differenza tra Diritto e Morale e pertanto costretta ad attribuire al Diritto ciò che, invece, caratterizza la Morale, intesa a sua volta –restrittivamente– come sola ‘Teologia morale’, unicamente dipendente dalla Rivelazione divina e senza –visibili– rapporti con l’Etica e la necessaria riflessione (filosofica) sui fondamenti dell’agire umano.

L’esito di questa impostazione, che in realtà viene addotto però come ‘presupposto’, porta così ad affermare che: «il problema del Diritto ecclesiale tocca immediatamente la fede, perché tocca la natura dell’uomo creato da Dio e redento in Cristo e la natura della Chiesa», scalzando completamente –ed a priori– proprio l’esperienza stessa del vissuto giuridico ecclesiale: il Diritto canonico concretamente esistito ed esistente.


A conclusione di questo brevissimo excursus dottrinale, sembra del tutto fondata la necessità per il canonista di riflettere su queste tematiche per individuare il corretto valore da riconoscere alla persona umana nel suo status di Christifidelis, proprio in considerazione dell’estrema fragilità ed inadeguatezza della maggiore proposta teoretica ad oggi disponibile sul tema.


4. PROSPETTIVE FILOSOFICHE

4.1 Personalismo e persona

La natura e portata interdisciplinare della nostra riflessione non può non valorizzare la componente più espressamente filosofica della problematica introdotta. Dopo quanto sin qui accennato ricorrendo spesso al concetto di ‘uomo’ e di ‘persona’, è infatti necessario precisare anche gli ‘estremi’ della questione dal punto di vista filosofico proprio per ottenerne i vantaggi sperati.

Gli addetti ai lavori, i Filosofi, per parte loro hanno parlato spesso nell’ultimo ventennio di ‘tramonto’ del Personalismo, al punto che per la Filosofia si tratta ormai di un ‘dato’ acquisito.

La questione fu posta già oltre vent’anni fa (nel 1983) da uno dei ‘padri’ del Personalismo stesso, P. Ricoeur che, in un celebre articolo su “Esprit”, lo dichiarò morto: «muert le personnalisme, revient la personne».

In effetti la questione del c.d. Personalismo si prospetta oggi molto articolata, dovendosi distinguere tra più Personalismi… più o meno saldi nella propria ‘autonomia’ ed identità, ma soprattutto giudicati strutturalmente impossibilitati a reggere il confronto concettuale e teoretico con quelli che si sono presentati nel secolo scorso come veri e propri ‘sistemi’ concettuali: primo tra tutti il nichilismo di stampo nietzchiano ormai trionfante, seppure in varie declinazioni.

Il Personalismo, d’altra parte, –come affermava E. Mounier– è una Filosofia, non un sistema: 


«una concezione della vita, ma non una costruzione teorica, che si qualifica per la finalità spirituale ed etico-sociale che intende perseguire. A ulteriore riprova di tutto ciò, vale anche la considerazione che esso esclude la possibilità di una definizione, in senso stretto, della nozione stessa di persona».


Se tuttavia il Personalismo come elaborazione teorica o movimento di dottrine filosofiche ha esaurito la sua funzione storica, non può dirsi lo stesso della ‘persona’, ossia del nucleo speculativo che lo ha contraddistinto ed identificato fino ad oggi. Proprio l’attenuarsi della dimensione più espressamente teoretica e sistematica nelle diverse declinazioni del Personalismo ha finito, infatti, per ridare smalto al suo nucleo più profondo, all’intuizione di base, di un così articolato movimento di pensiero: la persona, colta quasi in modo extra-concettuale nel suo identificarsi con l’existentia più che con la substantia, rientrando nella logica dell’essere prima che del concetto; incentrata, cioè,


«sugli atti con cui un soggetto attesta questa sua condizione. […] Ma, se consideriamo la persona a partire dal fatto che esiste, diventa inevitabile occuparsi del modo in cui questo avviene, ovvero delle forme effettive in cui si esprime. […]

Il fatto di esistere, peraltro, non ha lo statuto né di un fatto già accaduto e quindi ormai stabile e definitivo, né l’intangibilità di un fatto che deve ancora accadere, ma l’imprevedibilità propria di un evento che è in atto nel momento stesso in cui si propone alla riflessione e nella ricchezza impensabile delle modalità in cui si manifesta sul piano esistenziale».


Il confronto con la ricchezza del pensiero filosofico sull’uomo e sulla persona, Antropologia o Personalismo che dir si voglia, offre comunque la possibilità di rendersi conto della irrinunciabile necessità che il canonista, ed il giurista in genere, dedichi tempo e risorse ad accrescere le proprie competenze e convinzioni a riguardo del presupposto e destinatario insieme del suo lavoro di studioso e di tecnico: la persona.


4.2 Il concetto di ‘persona’ nella riflessione pre-moderna

Pur non competendo a questa introduzione generale (e forzatamente generica) l’onere di illustrare la complessità del tema uomo-persona a livello filosofico –riconoscendone, anzi, la piena inadeguatezza– è tuttavia utile sotto il profilo metodologico esplicitarne alcuni elementi più vicini alla sensibilità canonistica in modo che possano sorgere, o almeno rendersi plausibili, domande di livello concettuale le cui risposte abbiano davvero quella funzione di explicatio terminorum che ci andiamo proponendo col metodo di lavoro adottato.

L’utilità non è solo per i canonisti ma anche per gli stessi filosofi, perché possano meglio cogliere la portata di un tal tema in una prospettiva eminentemente ‘pratica’ com’è quella giuridica, e canonistica in particolare, mettendo in evidenza le concrete conseguenze che l’idea/concetto di ‘persona’ induce in modi spesso ben diversi tanto nel legislatore che nel Giudice, con anche le specifiche differenze tra la trattazione di tematiche ‘etiche’ oppure ‘sacramentali’, fosse anche in relazione allo ‘stesso’ istituto matrimoniale.

In quest’ottica la conoscenza dell’evoluzione, lunga e tormentata, del concetto di ‘persona’ si rivelerà particolarmente illuminante per comprendere –da parte dei canonisti– le premesse e le esigenze cui la Legislazione e la Giurisprudenza canonica hanno dovuto riferirsi soprattutto nel delineare il c.d. Diritto sostanziale a riguardo senza dubbio del Sacramento del Matrimonio, ma non soltanto. Allo stesso tempo risulteranno giustificate anche sotto il profilo teoretico più generale quelle posizioni giurisprudenziali che, adottando con maggior sensibilità o solerzia, nuove o più profonde acquisizioni scientifiche e/o concettuali hanno saputo ‘trainare’ Giurisprudenza e dottrina lungo sentieri fino ad allora non solo inesplorati ma –forse per qualcuno– addirittura ‘inammissibili’; gli esempi che ci verranno presentati a riguardo del Card. F. Roberti già nella prima metà del XX sec. e la testimonianza diretta di Mons. José Maria Serrano Ruiz che per oltre trent’anni ha saputo caratterizzare il proprio ministero di Uditore rotale in chiave ‘personalista’ precorrendo tempi e norme ne sono prova evidente.


Tra gli elementi fondamentali da acquisire –e di cui in questa sede non possiamo che andar fieri– si colloca innanzitutto la portata tipicamente cristiana e ‘teologica’ del concetto di ‘persona’ giunto fino a noi: dopo la ‘fase greca’ antica infatti della riflessione filosofica sulla consistenza/identità dell’essere umano come ‘sostanza’, i grandi passi teoretici della riflessione sono stati effettuati, fino alla Modernità, in ambito specificamente teologico, in vista dell’utilizzo del concetto nella Teologia c.d. trinitaria.

Agostino, Boezio, Riccardo di S. Vittore, Tommaso, hanno segnato altrettante tappe di questo cammino che –dopo l’apnea moderna– ha ritrovato un proprio vigore filosofico nel Novecento, attraverso gli apporti dell’Esistenzialismo e del c.d. Personalismo, offrendo alla Teologia stessa nuovi elementi concettuali sorprendentemente armonici con l’originaria (ma a lungo trascurata) prospettiva biblica.

Ciò con cui ci si confronta è un cammino che, prima di essere ‘concettuale’, è di consapevole acquisizione di auto-coscienza nel passare dal generico ‘uomo’ a quella specifica ‘persona’ che ciascuno sente ed esige ormai irrinunciabilmente di essere.


La Filosofia greca aveva sì cercato di comprendere che cosa è l’uomo in generale, indicandolo come substantia in contrapposizione a tutto ciò che è e rimane solo ‘accidentale’, ma non si era avventurata alla ricerca di


«che cosa è questo uomo qui, questo singolo individuo umano come me, come te, come lei, come lui, e che cosa è in riferimento al tutto, all’intero dell’essere e degli enti. […] un Platone o un Aristotele non avrebbero neanche potuto porsi una tale domanda o, in ogni caso, l’avrebbero respinta come insensata, perché mancava loro la paradossalità biblica e cristiana del concetto di esistenza fondato sulla fede nella creazione ad opera di un Dio trascendente».


Fu l’idea, di origine biblica, di creazione dal nulla che, spezzando il “cosmocentrismo sacrale” di matrice greca, portò a distinguere tre diversi ‘livelli’ dell’essere: Dio, l’uomo, il mondo, inducendo l’esaltazione della superiorità, addirittura la ‘eccedenza’ dell’uomo rispetto al ‘resto’ del cosmo, affermando l’interiorità spirituale di ogni singolo individuo umano… fino alla vera “invenzione” della persona, per quanto tale concetto abbia dovuto a lungo maturare per giungere alla nostra attuale consapevolezza.

Per Agostino la persona umana è il singulus quisque homo”: «qualcosa di irrelato, ab-solutus, quasi fosse una monade, sola e rinchiusa in se stessa», in una prospettiva che Boezio finirà per sviluppare nella celebre definizione di ‘persona’ come “rationalis naturæ individua substantia”, definizione che dominerà quasi incontrastata fino a Tommaso.

Riccardo da S. Vittore aveva introdotto una variante testuale di grande portata concettuale sostituendo la substantia con l’existentia spostando così il centro della questione dal “che cosa è” la persona al “chi è”:


«stando così le cose, substantia non designa direttamente “qualcuno”, bensì “qualcosa”; persona invece designa direttamente “qualcuno”, non “qualcosa”. L’existentia, conclude Riccardo, può dunque meglio di substantia attribuirsi alla persona umana e insieme, a proprio modo, anche alla tre persone divine».


Come spesso accaduto, l’apporto maggiore è quello di Tommaso che riformula radicalmente quanto a lui giunto dall’alta Scolastica per consegnare ai posteri una nuova definizione di persona come “intellectualis naturæ subsistens distinctum” di portata finalmente ‘universale’:


«chiamando la persona non substantia individua, bensì subsistens distinctum, e attribuendole una  intellectualis natura piuttosto che una rationalis natura, proprio mentre sposta energicamente la definizione dal “che cosa” al “chi”, Tommaso d’Aquino ritiene di poter designare persone Dio, l’angelo e l’uomo, senza problemi, in modo cioè non univoco, né equivoco, bensì appunto analogo».


L’Antropologia tomistica, a partire dalla creazione, permette inoltre di precisare come l’uomo non ‘sia’ l’essere ma, più semplicemente, lo ‘abbia’ attraverso il dono ricevuto dell’anima “unica forma corporis” in una prospettiva in cui «a rigore, non si potrebbe neanche parlare di anima e corpo: il corpo è corpo proprio in quanto è vivificato dall’anima […] senza l’anima non si ha il corpo, bensì il cadavere». Quanto fissato da Tommaso tuttavia va ben oltre, poiché l’intellectus è coscienza ed autocoscienza: «ciò che per i moderni è la soggettività»; in questa prospettiva ‘intellettuale/coscienziale’ si colloca poi la ‘libertà’, che appartiene alla stessa umana capacità di amare.


«L’intellectus è, infatti, anche la facoltà “apprensiva” dell’universale in quanto verum. Ad esso viene a corrispondere la voluntas o facoltà “appetitiva” dell’universale in quanto bonum. L’intellectus e la voluntas sono le facoltà superiori sprigionantesi dal principio vitale o anima radicalmente spirituale di quel tutto vivente che è la persona umana».


Per Tommaso, dunque, e per la Scolastica ‘classica’ la ‘persona’ umana non è un semplice individuo razionale, ma «l’individuo umano, sussistente, autocosciente, libero e insieme creato, redento e destinato alla beatitudine ultraterrena».


«Il Tomismo delinea un esemplare modello di Antropologia cristiana, con cui si contesta in radice qualsiasi attacco alla consistenza ontologica e all’identità di ciascuno, qualsiasi slittamento nell’impersonale, qualsiasi riduzione a sfuggevole emergenza dal nulla […]. La peculiarità dell’uomo viene scoperta e affermata nel suo essere e dirsi persona e così, proprio mentre è fatta risalire alla creazione ad opera di Dio, viene coordinata, da una parte, alla condizione storica e, dall’altra, alla destinazione eterna».


Il punto conseguito è senza dubbio di notevole consistenza, anche se non è possibile tacere l’assenza di grandi istanze quali: la relazionalità, la responsabilità, la storicità, la ‘singolarità’ che caratterizzano oggi la nostra percezione di ‘persona’ umana che Esistenzialismo e Personalismo ci hanno ben significato.


4.3 Il concetto di ‘persona’ dalla Modernità

La Modernità filosofica ha costituito una vera ‘crisi’, non tanto nell’elaborazione del concetto di ‘persona’ ma nella sua stessa percezione, indugiando, sulla scia di Cartesio, nella destrutturazione della ‘persona’ stessa non più percepita nella sua unitarietà e complessità ma scissa in res cogitans e res extensa ed in cui la prevalenza della soggettualità individuata dal cogito ha portato a vere forme di astrazione dalla concretezza della vita umana come tale, fino alle peggiori manifestazioni di un Idealismo im-personale ed anti-personale che ha portato alla prevalenza del semplicemente ‘umano’ collettivo sul ‘personale’ individuale; un’idea ‘spirituale’ di uomo contro la concretezza fattuale di ciascuna persona umana.

In quel contesto teoretico fattosi ormai a-teologico, la Teologia cattolica era rimasta fedele alla propria prospettiva sostanzialista che aveva impregnato e modellato il concetto stesso di ‘persona’ tentando soltanto


«di frenarne le degenerazioni. Ma non si è stati teoreticamente in grado di riconoscere anche all’individuo umano, in pienezza, tutta quanta la sua dignità di “immagine e somiglianza di Dio”. Occorre anche prendere atto che, nel bagaglio semantico accumulato intorno al termine persona, alcuni sviluppi appaiono come bloccati, alcune scoperte sembrano, per così dire, custodite e difese soli Deo gloria. Si pensi, per esempio, alla dimensione relazionale della persona».


La radicalità di quest’assenza in campo antropologico non può essere elusa dall’essere “ad” che Tommaso riconosce alla natura divina; proprio questo, infatti, è il problema che rimane aperto: per il Dio trinitario esse-ad è costitutivo, mentre per l’uomo è ritenuto semplicemente un accidens, visto che la persona umana ‘scolastica’ rimane comunque aliquid absolutum.

Un grande passo avanti è tuttavia venuto nel secolo scorso –sempre in prospettiva ‘teologica’– dal ricupero del Cristocentrismo e dalla conseguente rinnovata concezione di ‘Rivelazione’ più direttamente connessa al mistero dell’Incarnazione, nella concreta ed inevitabile valorizzazione che essa induce a vantaggio di tutta la dimensione del concreto vissuto umano, non solo ‘relazionale’.

La nuova valorizzazione della dimensione ‘economica’ dell’azione divina libera la riflessione trinitaria dalle sole esigenze logico-dogmatiche di un approccio alla Teologia cristiana rimasto quasi esclusivamente ‘metafisico’; il Cristo salvatore non è solo ‘uno della Trinità’ ma anche il Figlio di Maria, Gesù di Nazareth, vero uomo quanto vero Dio.

Nel Cristo, dunque, che si dà per la salvezza dell’uomo si supera l’incommunicabilitas dietro cui gli scolastici serbavano la singolarità irriducibile di ogni uomo come persona, e si va oltre anche alla semplice dialogicità del rapporto ‘io-tu’, per giungere alla coralità  comunionale del ‘noi’ che si manifesta nell’essere-per-gli-altri… proprio come Cristo. È la dimensione addirittura ‘agapica’ dell’amore personale che va ben oltre l’intersoggettività divenendo ‘responsabilità’ attiva verso –chiunque– altro, superando in parte la stessa incommunicabilitas e rendendo così capaci di vera condivisione: «soltanto le persone, infatti, sono responsabili, e lo sono facendosi carico del dolore e della felicità dell’altro. Soltanto le persone, amando, si tengono unite in sé, e così resistono all’autodissolvimento e, alla fine, alla resa al naufragio del nulla».


La prospettiva dell’Incarnazione, per parte sua, ricupera anche la primarietà irrinunciabile di una delle peculiari componenti dell’unitarietà personale già indicata da Tommaso nell’irrinunciabile corporeità della persona umana. In questa prospettiva la persona umana non s’identifica immediatamente con la propria ‘anima’ –che ‘possiede’ un corpo– ma è unione sostanziale (ilemorfica) di corpo ed anima, quali materia e forma della persona stessa, inserendo e ‘contestualizzando’ ogni e ciascuna vita umana in un proprio ‘ambiente’ socio-relazionale, oltre che storico-geografico e culturale; finendo per condizionare anche sensibilmente quell’aliquid absolutum giunto alle soglie della Modernità. Proprio in questa prospettiva, pertanto, «dopo l’avvento della Fenomenologia, dell’Ermeneutica, delle Scienze umane, la problematica antropologica oggi non può che essere affrontata a tutto campo, se si vuole ottenere una elaborazione appena avvertita e dignitosa dell’idea di persona».


Queste varie caratteristiche, stabili od emergenti, della persona umana hanno caratterizzato diverse linee e scuole di pensiero nel secolo scorso indirizzando l’attenzione ora verso una prospettiva, ora verso un’altra, tanto da parte dei più diversi autori che da parte degli stessi in diversi momenti della propria riflessione ed evoluzione dottrinale.


4.4 Persona e Diritto

Ciò che tuttavia risalta maggiormente per il nostro ambito di riflessione, specialmente per le sue ricadute canonistiche, non è tanto l’adozione di una scuola di pensiero al posto di un’altra (Wojtyla invece di Ricoeur o Mounier o altri) quanto, piuttosto, la capacità –e necessità– di fissare lo sguardo non sull’universale ‘uomo’ potenziale, ma sulla esistente ‘persona’ concreta quale adeguato referente dell’approccio giuridico alla vita quotidiana dei Christifideles.

In ambito canonistico questo comporta la capacità/necessità di relazionarsi non con l’essenza uomo, che del Diritto non avrebbe alcun bisogno –tanto più se creato ad immagine di Cristo stesso e pure redento dalle conseguenze del peccato– ma con l’esistente persona umana che non può sottrarsi alla necessità di stabilizzare, almeno formalmente, la problematicità della relazione inter-soggettiva col ‘terzo’ che sempre più spesso incrocia l’esistenza di ciascuno anche nella vita ecclesiale, dove la Communio deve spesso supplire la fraternitas concretamente non esperibile sia per l’alto grado di –inevitabile– istituzionalizzazione ormai assunto dalla vita ecclesiale, sia per i livelli sempre più scarsi di effettiva adesione ecclesiale da parte di molti battezzati che si rivolgono ormai alla Chiesa come ad un ente di servizi religiosi ‘tenuto’ –secondo loro– ad erogare le proprie prestazioni a chiunque ne faccia richiesta… senza nessun vincolo di oggettività dottrinale né premessa personale.

È il ‘terzo’ infatti che, nella sua genericità/universalità, inaugura la dimensione propriamente giuridica della relazionalità inter-soggettiva, relazionalità radicalmente diversa da quella inter-personale che configura ontologicamente la persona umana: «il terzo –infatti– non corrisponde ad un individuo che è davanti a noi, ma a chiunque abbia il diritto di essere riconosciuto come qualcuno».

Come già detto, infatti, non è l’inter-personalità la ‘sede’ appropriata del rapporto giuridico, ma l’inter-soggetività: l’incontro io-tu risponde già sufficientemente alla necessaria reciprocità che permette a ciascuno di darsi e ricevere spontaneamente come ‘persona’; il ‘terzo’ invece, nella sua genericità ed astrattezza, dev’essere ‘condotto’ ad una possibile relazione solo potenzialmente ‘reciproca’. Nella percezione di ciascuno, infatti, il ‘tu’ è persona-in-relazione, il ‘terzo’ è semplicemente ‘uomo’ (persona potenziale):


«a questo riguardo, si può forse dire che, se l’amore è la forma più propria e più diretta di pratica del reciproco riconoscimento in una situazione come quella dell’amicizia, dove i rapporti tra le persone sono “corti” e di perfetta pariteticità, la giustizia lo è in una situazione come quella sociale, dove i rapporti sono “lunghi” e non prevedono la corrispondenza bilaterale. L’ipotesi appare plausibile anche perché, come ricorda Ricoeur, “l’amore rende singolo, mentre la giustizia universalizza”».


Se, dunque, è la società come insieme dei ‘terzi’ e non la ‘persona’ la referente del Diritto, si palesa come insostenibile il riferimento teo-antropologico prospettato da G. Ghirlanda tanto per il Diritto come tale che per quello canonico in particolare; la relazionalità ontologica dell’essere umano ex imagine Dei non porta pertanto al giurista nessun elemento decisivo al di là di quelli doverosamente recepibili dall’Etica e dalla Morale, non solo teologica. È invece la conoscenza e padronanza dei meccanismi sociali ed istituzionali che aiutano a leggere correttamente il percorso di ciascuno da semplice uomo/terzo/lontano a vero fratello/tu/prossimo che deve essere sempre più interiorizzata per diventare la forma mentis del giurista, soprattutto canonico.


4.5 Persona e Diritto canonico

In questa prospettiva, per quanto intricata, ciò che interessa maggiormente il canonista è la imprescindibile attenzione alla concretezza della vita umana che ogni singola persona vive ed esperisce quale –unica– possibile espressione di sé e delle sue potenzialità, anche spirituali, in quell’insieme di ‘carne’ e ‘spirito’ che ogni uomo è sin nella propria più recondita interiorità.

Questo comporta che il canonista sappia correttamente distinguere tra il referente formale della propria attività e quello sostanziale: tra il Popolo di Dio come tale (referente ‘formale’) ed il singolo Christifidelis come ‘attuale’ (referente ‘sostanziale’). È questo, d’altra parte, il gap strutturale tra ogni norma giuridica (generale, astratta ed esteriore) ed il suo destinatario (specifico, concreto ed ‘interiore’), stacco che non può essere colmato ma soltanto ‘gestito’ da un’autentica ‘conoscenza’ tanto [a] della Legge, che [b] dei suoi fondamenti teologici o funzionali, che [c] della persona concreta ad essa soggetta.

È sempre questa persona concreta, infatti, e non un generico essere umano che viene in contatto con la norma giuridica e ad essa si deve rapportare; è proprio –anche– a questa persona specifica, d’altra parte, che si rivolge l’intera missione ed attività ecclesiale per invitarlo, introdurlo e sostenerlo nel cammino della santificazione cui Dio stesso lo ha destinato (Cfr. LG 41-42).

Ciò non desta meraviglia in chi abbia acquisito e sviluppato una corretta concezione della normatività canonica all’interno dell’orizzonte della c.d. logica deontica in cui, a differenza che nella logica formale, tipica della Filosofia e della Teologia, ‘premesse’ e ‘conclusioni’ si articolano e relazionano secondo modalità del tutto specifiche ma, soprattutto, non-necessitanti sotto il profilo metafisico. Data, infatti, quale ‘premessa maggiore’ la norma –morale o giuridica– valevole ut in pluribus (in modo, cioè, ‘generale’ sotto il profilo pratico, ma non ‘universale’ sotto quello ontologico) occorre individuare quale sia la corretta ‘premessa minore’ –la concreta circostanza, ‘storica’ ed ‘individuale’ al tempo stesso– da cui ricavare, come adeguata ‘conclusione’, quale precisa –ed unica– azione poter/dover compiere concretamente in via, comunque, di sola possibile ‘futuribilità’ cui la singola persona umana dovrà inevitabilmente prestare il proprio assenso ed impegno per realizzare questa invece di tutte quelle contrarie alla norma originante, ma anche invece di tutte le altre teoricamente possibili.


5. LA NOVITÀ DEL MAGISTEROCONCILIARE

Ciò che non può esser trascurato in questa sede è il grande passo compiuto nel secolo scorso dal Magistero pontificio, prima, e conciliare, poi, proprio a riguardo della ‘persona umana’ quale termine ultimo di riferimento per la stessa concezione dell’intera realtà.

I primi passi risalgono alle origini di quella che ormai chiamiamo ‘Dottrina sociale della Chiesa’ che, sulle ‘ricorrenze’ cronologiche o sostanziali della Rerum novarum ha inaugurato un filone magisteriale –ben prima che teologico– capace di resistere e sopravvivere alla Crisi modernista ed alle strettezze teoretiche e concettuali della Neo-scolastica, preparando la primavera della Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II da lui voluto ed inaugurato. È in queste Encicliche connotate da una forte sensibilità ‘sociale’ e necessariamente ‘al passo’ coi tempi, almeno nella concretezza dei problemi affrontati, che emerge con decisione un profilo della persona umana decisamente ‘innovativo’ rispetto alle trattazioni ed agli esiti della Teologia e Filosofia cattoliche ‘ufficiali’ della prima metà del Novecento.

Il portato del Vaticano II su questo tema è di primissim’ordine soprattutto nella Costituzione ‘pastorale’ Gaudium et spes e nella Dichiarazione Dignitatis humanæ che sembrano raccogliere e suffragare da parte dell’intero Episcopato cattolico ciò che ormai era dottrina pontificia indiscussa. Ci si riferisce in queste considerazioni non tanto all’ormai celebre –per i matrimonialisti– dottrina conciliare sul Matrimonio dei numeri 48-51 di Gaudium et spes, ma molto maggiormente ad un vero e proprio palinsesto che sembra reggere e strutturare l’intero pensiero conciliare in modo tanto ‘sereno’ quanto profondo, non lasciando –quasi– percepire il radicale cambio di prospettiva che l’Antropologia ‘magisteriale’ cattolica aveva ormai raggiunto.

L’indiscutibilità di tale acquisizione traspare con immediatezza dalla lettura dei testi conciliari –che non indugiano mai nell’argomentazione o nella giustificazione apologetica– ma si contentano di ‘affermare’, dando così per ‘scontati’ i contenuti di riferimento, divenuti ormai pacifici presupposti di una dottrina che si spinge ‘oltre’, guardando in modo prospettico ad un futuro che, solo cinquant’anni prima, avrebbe invocato esorcismi ed anatemi.

Sarà lo stesso Giovanni Paolo II, grande cultore di umanità e della persona umana, oltre che grande ‘istituzionalista’ post-conciliare (promulgatore dei due Codici canonici vigenti) a parlare espressamente –anche in anni recenti– di una specifica «dimensione personalistica dell’Ecclesiologia conciliare».


5.1 Dignitatis humanæ

La prospettiva in cui si colloca la Dichiarazione conciliare sulla ‘libertà religiosa’ è molto più ampia di quanto potrebbe supporsi a prima vista su tale tematica soprattutto in riferimento alla posizione tradizionale, fissata circa ottant’anni prima nel Sillabus di Papa Pio IX. Ciò che risalta, infatti, in modo più evidente è la visione antropologica sottesa al documento e, quindi, fatta propria ed espressa dalla Chiesa nel culmine magisteriale del Concilio ecumenico.

Prima, infatti, della legittima libertà individuale e collettiva da qualunque coercizione (politico-statuale) in campo religioso, a risaltare nell’insegnamento conciliare sono i presupposti dell’intero discorso, uno in particolare: l’inviolabilità della coscienza personale, nei confronti della quale la Chiesa stessa rinunciava senza rimpianti alle precedenti ‘assunzioni di responsabilità’ morale di cui per secoli si era fatta carico ratione peccati… a motivo del periculum damnationis… ecc.

Già dall’inizio della Dichiarazione troneggia il ruolo primario della “libertà responsabile” e della “coscienza del dovere”; al n. 2, poi, risalta una ‘descrizione’ della persona umana e della sua dignità in quanto “dotata di ragione e di libera volontà” e perciò “investita di responsabilità personale”, “spinta dalla sua stessa natura e tenuta per obbligo di coscienza a cercare la verità” e quindi “tenuta ad aderire alla verità conosciuta e ad ordinare tutta la vita secondo le esigenze della verità” stessa, la cui ricerca richiede “libertà psicologica” ed “immunità da coercizione esterna”.


«La verità poi va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale, cioè con una ricerca libera, con l’aiuto del Magistero o dell’insegnamento, della comunicazione e del dialogo, con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca della verità, gli uni espongono agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta»,


escludendo tanto la “costrizione ad agire contro coscienza” che l’“impedimento ad operare in conformità ad essa”.

Nuovo senza dubbio sotto il profilo argomentativo e fondativo anche il riferimento all’agire di Cristo stesso ed al suo «rispetto verso la libertà dell’uomo nell’adempimento del dovere di credere alla parola di Dio», così come testimoniato nella Rivelazione biblica.


5.2 Gaudium et spes

L’evento dottrinale d’importanza decisiva per il tema che andiamo trattando si concretizza comunque nella Costituzione pastorale Gaudium et spes che già al n. 3 esplicita la ‘propria’ concezione di ‘persona umana’: «è l’uomo dunque, ma l’uomo singolo integrale, nell’unità di corpo ed anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione», giungendo a parlare perfino di “personalizzazione”.

È però il n. 14 a segnare uno degli apici della nuova prospettiva antropologica che il Magistero conciliare assume da un più saldo e consapevole approccio al testo biblico non più come ‘cava’ di auctoritates ma come paradigma ermeneutico di base, scrollandosi di dosso in poche righe concezioni teologico-spirituali che avevano dominato la Christianitas per lunghi secoli, giungendo a posizioni di vera egemonia nelle diverse forme di spiritualismo e moralismo espresse dal Pietismo e Fideismo dei secoli XVIII e XIX:


«unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Allora, non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perchè creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno».


L’immagine di uomo/persona che il Concilio delinea progressivamente va arricchendosi di caratteristiche che, pur non contraddicendo le acquisizioni ‘metafisiche’ della Scolastica e della Filosofia ‘eterna’, le superano tuttavia d’un sol fiato riallacciandosi alla dimensione più ‘esistenziale’ sia del testo biblico che della Patristica più autorevole. Si tratta più di proporre uno scenario capace di evocare le grandi ricchezze della persona che non di fornirle una ‘nuova’ definizione teoretica, visto che la Filosofia e Teologia “ad mentem S. Thomæ” non è certo né ignorata, né abbandonata dal Magistero ecclesiastico. In questa linea si susseguono affermazioni che nella propria specificità si complementano reciprocamente in un quadro di grande ricchezza ed innovatività:


«la natura intellettuale della persona umana raggiunge la perfezione, com’è suo dovere, mediante la sapienza, la quale attrae con soavità la mente dell’uomo a cercare e ad amare il vero e il bene, e, quando l’uomo ne è ripieno, lo conduce attraverso il visibile all’invisibile»;

«la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. […] Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali»;

«l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà, […] La vera libertà, invece, è nell’uomo segno altissimo dell’immagine divina. […] Perciò la dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da convinzioni personali, e non per un cieco impulso interno o per mera coazione esterna. Ma tale dignità l’uomo la ottiene quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene, e si procura da sé e con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti».

«Tuttavia il fraterno colloquio tra gli uomini non si completa in tale progresso [quello tecnologico], ma più profondamente nella comunità delle persone che esige un reciproco rispetto della loro piena dignità spirituale».


Il cammino ormai intrapreso in questa sorta di ‘contemplazione’ della persona umana nelle sue migliori caratteristiche e potenzialità porta l’insegnamento conciliare ad ‘assumere’ quanto ormai ritenuto ‘patrimonio universale’ partendo dalla “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo” del 10 dicembre 1948 fornendone, tuttavia, una precisa ‘lettura’ ed interpretazione:


«occorre, perciò, che sian rese accessibili all’uomo tutte quelle cose che sono necessarie a condurre una vita veramente umana, come il vitto, il vestito, l’abitazione, il diritto a scegliersi liberamente lo stato di vita e a fondare una famiglia, all’educazione, al lavoro, al buon nome, al rispetto, alla necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto dettato della sua coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo religioso.

L’ordine sociale pertanto e il suo progresso debbono sempre lasciar prevalere il bene delle persone, giacché nell’ordinare le cose ci si deve adeguare all’ordine delle persone e non il contrario. 

Quell’ordine è da sviluppare sempre più, è da fondarsi sulla verità, realizzarsi nella giustizia, deve essere vitalizzato dall’amore, deve trovare un equilibrio sempre più umano nella libertà».


I Padri conciliari non si fermano, però, a questa ennesima dichiarazione di principio ma cercano di “scendere a conseguenze pratiche” ribadendo


«il rispetto verso l’uomo, così che i singoli debbano considerare il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro “se stesso”, tenendo conto della sua vita e dei mezzi necessari per viverla degnamente. […]

Inoltre tutto ciò che è contro le vita stessa… tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, […] tutto ciò che offende la dignità umana […] tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l’onore del Creatore»;

«avendo tutti gli uomini, dotati di un’anima razionale e creati ad immagine di Dio, la stessa natura e la medesima origine […] è necessario riconoscere ognor più la fondamentale uguaglianza fra tutti».


La riflessione dei padri Conciliari si spinge poi in una direzione storicamente imprevedibile ricuperando la dimensione culturale dell’uomo il quale, proprio attraverso la cultura, costruisce se stesso come persona. L’uomo non deve perciò essere apprezzato come una realtà originariamente perfetta, perché egli è chiamato ad “attuare”, “oggettivare” il suo valore assoluto, ossia il suo essere “immagine e somiglianza di Dio”, proprio per il tramite della cultura. Infatti:


«è proprio della persona umana il non raggiungere un livello di vita veramente e pienamente umano se non mediante la cultura, coltivando cioè i beni e i valori della natura. […] Con il termine generico di “cultura” si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e corpo. […] Di conseguenza la cultura presenta necessariamente un aspetto storico e sociale, e la voce cultura assume spesso un significato sociologico ed etnologico. In questo senso si parla di pluralismo di culture. Infatti dal diverso modo di far uso delle cose, di lavorare, di esprimersi, di fare leggi e creare gli istituti giuridici, di sviluppare le scienze e le arti e di coltivare il bello, hanno origine le diverse condizioni comuni di vita e le diverse maniere di organizzare i beni della vita. Così dalle usanze tradizionali…si costruisce l’ambiente storicamente definito, in cui ogni uomo, di qualsiasi stirpe ed epoca si inserisce, e da cui attinge i beni che gli consentono di promuovere la civiltà».


L’abbraccio conciliare alla ‘persona umana’ così come emerge nelle coeve circostanze socio-culturali di maggior importanza giunge a ‘concludersi’ evocando addirittura la «nascita d’un nuovo umanesimo in cui l’uomo si definisce anzitutto per la sua responsabilità verso i suoi fratelli e verso la storia», sancendo così in modo ‘definitivo’ l’acquisizione da parte del Magistero cattolico di una visione e concezione della ‘persona umana’ non solo ‘al passo coi tempi’ ma addirittura profetica per i tempi stessi, non sempre rispettosi di cotanta dignità.

E proprio sulla ‘dignità’ della persona umana è necessario porre una specifica attenzione: si tratta, in effetti, della ‘chiave di volta’ dell’intero discorso conciliare che pare ricondurre ogni affermazione e sottolineatura proprio al concetto –generico ma di amplissimo respiro– di ‘dignità umana’. Tutto quanto il Vaticano II esprime in riferimento alla persona umana, alle sue caratteristiche strutturali e sostanziali (ontologiche), alle sue potenzialità ed aspirazioni, alla sua ultima destinazione finale (teologica), viene di fatto raccolto e raccordato nell’unico concetto di ‘dignità’ che, da sé soltanto, supera ciascuna delle innumerevoli esplicitazioni via via introdotte, aprendo contemporaneamente l’orizzonte a nuove attribuzioni che meglio facciano emergere la sua più profonda verità. Sarà questo il concetto-pilota utilizzato in seguito tanto dal Magistero che da altre espressioni autorevoli della vita ecclesiale, come lo stesso Diritto canonico.


Senza disquisire inutilmente in questa sede se una tale visione della persona umana sia o meno riconducibile ad una qualche forma di ‘Personalismo’ tra quelle ‘identificate’ e ‘codificate’ dalla dottrina filosofica, è certamente necessario riconoscere la portata dei progressi concettuali così espressi e consolidati a livello magisteriale ed ‘ecclesiale’ in genere. Per i canonisti più attenti e sensibili del dopo-Concilio si tratterà di un ‘punto di vista’ irrinunciabile (ben più fondato ed efficace della Communio) che solo dalla dignità teologica ed ontologica dei Christifideles può ricevere sufficiente fondamento canonistico.

Lo stesso legislatore canonico non ha voluto sottrarsi a queste –nuove– prospettive ‘personalistiche’ sottomettendo la propria opera al dettato del terzo criterio per la Revisione codiciale:


«per favorire al massimo la cura pastorale delle anime, nel nuovo Diritto, oltre alla virtù della giustizia si abbiano presenti anche la carità, la temperanza, l’umanità, la moderazione, con le quali si realizzi l’equità, non solo nell’applicazione delle Leggi da parte dei pastori delle anime, ma nella stessa Legislazione, e di conseguenza si tralascino le norme più severe, anzi si ricorra piuttosto alle esortazioni e allo stile di persuasione, ove non c’è la necessità di osservare lo stretto Diritto per il bene pubblico e per la disciplina generale della Chiesa»;


criterio che rimane a tutti gli effetti chiave ermeneutica autorevole per l’applicazione del Codice nato dal Vaticano II.


6. PERSONA UMANA ESTORICITÀ

Al di là degli apporti più direttamente ‘personalistici’ –tanto filosofici che del Magistero ecclesiastico– molto attenti alla concettualizzazione (intellettuale) della realtà ‘persona’ in termini di intelletto, volontà, relazione, coscienza, non pare però rinunciabile per i Giuristi un approccio –in realtà maggiormente ‘esistenzialista’ e ‘fenomenologico’– al dato spazio-temporale normalmente riconducibile alla c.d. storicità del vivere umano; a questo ‘dato’ si riferiscono anche, per diverse vie, gli apporti delle più moderne Discipline neurologiche, psicologiche e comportamentali orientate maggiormente a cogliere il proprium di ciascun singolo: “questa persona”, rispetto agli elementi più ‘comuni’: l’uomo-in-genere, di cui si occupano prevalentemente Sociologia, Antropologia, Etnologia, ecc.

Si tratta, in altri termini, del tema filosofico del “in-sein” e di quello teologico della ‘Incarnazione’ che quasi ‘costringono’ a non poter pensare alla persona umana se non nel suo essere ‘collocata in’ uno spazio ed un tempo precisi, specifici e –soprattutto– assolutamente unici ed irripetibili.

Proprio perchè la persona –data per assodata la sua essenza– finisce però per essere irrinunciabilmente caratterizzata dalla esistenza, nessun vero uomo potrebbe ‘esistere’ (esser-ci) fuori da un proprio spazio-tempo… indipendentemente, cioè, dalla coppia di ‘coordinate esistenziali’ che ‘individuano’ –nel vero senso del termine– ogni uomo e donna venuti alla luce di ‘questo’ mondo ed in esso ‘cresciuti’ e divenuti ‘se stessi’ in dipendenza certamente dal ‘luogo/cultura’ ma –molto di più– in funzione del tempo vissuto. In questa prospettiva ognuno è ciò che diviene, non solo sotto il profilo ‘ontologico’ dell’autodeterminazione cosciente e volontaria del proprio cognitum e delle scelte esistenziali poste (il volitum) ed attuate (il factum), ma anche –e spesso perfino di più– delle concrete esperienze di vita di cui è comunque ‘protagonista’ fin dalla sua stessa nascita, come non solo la Fenomenologia ha insegnato a considerare ma anche ben ci testimoniano e dimostrano le Discipline neurologiche a noi contemporanee. Lo stesso ‘sviluppo’ strutturale e fisiologico del cervello e delle più differenti ‘attitudini’ della persona e della personalità dipendono in larga parte dalla qualità e quantità di ‘stimoli’ che il soggetto riceve, al punto che gli stati di deprivazione sensoriale, percettiva e relazionale infantile hanno vistose ricadute e ripercussioni sulla stessa ‘crescita’ della persona e sulla sua ‘capacità’ di affrontare la vita adulta.

È proprio questa ‘individualità esistenziale/esistente’ che ‘distacca’ ciascuno dalla comune umanità (approccio antropologico) per metterlo in evidenza come ‘persona’ singola, specifica ed irripetibile –non solo di principio, ma anche di fatto–, impedendone qualsiasi ‘omologazione’ e facendo perdere di efficacia a qualunque forma di ‘deduzione’ a riguardo suo e della sua concreta esistenza quotidiana (approccio ‘personalistico’). Come scriveva Maurice Blondel, bisognerà lasciar cadere una «casistica oggettiva e omnibus, le astrazioni della quale e le approssimazioni pericolose tendevano a far credere che noi abbiamo tutti gli stessi obblighi, gli stessi lumi, le stesse forze, le stesse scuse»; si dovrà piuttosto attribuire a ciascuno il senso della sua “sorte originale” e della sua “incomparabile responsabilità”… diversamente «rischiamo di seppellire la vita morale nel fatto (tout fait), nell’abitudine e nelle generalità, nel sotterfugio, nelle scappatoie giuridiche».


Un grande aiuto in questa linea di riflessione è offerto oggi dalla c.d. Psicologia del profondo proposta dai Gesuiti Luigi Maria Rulla e Franco Imoda che, all’interno di una visione assolutamente ‘teologica’ della persona umana, cercano di sviluppare le connessioni tra Psicologia e Spiritualità in relazione soprattutto ai processi di sviluppo e crescita della maturità personale.

Al centro di questa riflessione –di amplissima portata anche filosofica– si trova il “” quale ‘identificatore’ della singola concreta persona umana colta nella sua strutturale tensione dialettica tra l’importante per me (come tendenza egocentrica a ciò che sta bene a me) e l’importante in sé (come presenza ed azione amorevole per gli altri e per Dio):


«dalla tensione tra ciò che io faccio e voglio per me e ciò che faccio e voglio in sé si forma […] la struttura del Sé. La descrizione della struttura del Sé permette di prendere in considerazione la singola persona, anche se i termini sono schematici e non devono essere erroneamente intesi come “contenitori chiusi”. Rulla distingue chiaramente tra l’Io-ideale (Ideal Self) ideale e l’Io-attuale (Actual Self) attuale. L’Io-ideale è costituito da ciò che io accolgo come ideali personali (self-ideal) e dagli ideali che credo siano considerati importanti dalla mia istituzione di riferimento (institutional ideal).

La libertà di vivere i miei ideali nel quadro degli ideali che l’istituzione mi propone (self-ideal-in-situation) dipende da quanto consciamente o inconsciamente cerco di realizzare di più i valori e gli ideali rispetto ai miei bisogni.

Il mio Io-attuale, invece, è responsabile del fatto che spesso non faccio ciò che corrisponde ai miei ideali e valori e invece do spazio ai miei bisogni autocentrati. L’Io-attuale comprende quella parte di me e del mio comportamento concreto che conosco, riconosco e normalmente accetto (Present Behaviour); quella parte del mio Sé che può essere scoperta attraverso gli strumenti della psicologia del profondo (Latent Self) e quella parte che determina il mio Sé in quanto appartengo a un determinato gruppo (Social Self). Naturalmente ho o sono solo un unico Sé. Ma questo Sé porta in sé diverse tendenze e intenzioni che possono appunto essere descritte (operazionalizzate) con i termini sopraccitati».


Proprio secondo F. Imoda «la persona è nel tempo e non può sottrarsi a questa condizione di flusso che la costituisce», poiché proprio la temporalità è “l’essere dell’esserci (Dasein)” e –mentre l’uomo “è”– la persona umana ‘si sviluppa’, diviene.


«Ciascun uomo, a misura del suo patire (fisico e psichico) e agire (razionale e volontario) viene comunque a “cristallizzarsi” in un equilibrio singolarissimo e continuamente ridefinito nel corso della vita, in un processo instancabile di inibizione di alcune tendenze e di promozione di altre».


È quest’acquisizione ormai irrinunciabile del divenire personale ed inter-personale che porterà Giovanni Paolo II ad adottare, proprio in ambito di relazione matrimoniale, la c.d. “legge della gradualità”:


«l’uomo chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno, con le sue numerose libere scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita» (FC 34).


Ne deriva la concreta impossibilità –teoretica e tecnica– di ‘applicare’ all’agire delle persone umane tanto criteri ‘universali’ che procedimenti ‘deduttivi’ incapaci, per loro stessa natura, di cogliere il proprium di ciascuno: quel proprium che, tuttavia, non può essere trascurato quando sono in gioco gli elementi costitutivi della vita di fede come il depositum fidei o i Sacramenti di cui la Chiesa è depositaria ed amministratrice per il bene degli stessi Christifideles (Can. 213).


È questa, però, anche la dimensione che –paradossalmente– dovrebbe rilevare maggiormente per la Legge ed i suoi ‘tecnici’, studiosi ed applicatori, nel difficile compito –giustamente sempre indicato come “Prudentia” e non come “Scientia”– di interconnettere la norma, generale ed astratta, con la concreta vicenda esistenziale di ciascuna singola persona, tanto nello stabilire la norma generale che nella sua applicazione specifica. Non è un caso, d’altra parte, che la Sentenza riguardi sempre persone determinate, con nome e cognome, luogo e data di nascita… oltre al fatto che ‘oggetto’ del giudizio siano sempre ‘atti’ e ‘fatti’ collocabili in un luogo ed in una data che non solo li ‘individuano’ ma ne sono in qualche modo ‘costitutivi’. La Legge per parte sua [come illustrerà il prof. C. Begus], tranne le strutturazioni istituzionali di carattere più spiccatamente teoretico, si forma ed alimenta proprio partendo dalla Giurisprudenza astraendo e generalizzando ciò che concretamente la storia ha mostrato avvenire nella quotidiana esistenza delle persone umane.

La stessa Rivelazione cristiana dà piena conferma di questo status quæstionis affermando senza tema di smentita che il Cristo redentore, Figlio di Dio fatto uomo, è la ‘persona’ fisica e storica chiamata ‘Gesù di Nazareth’.


7. CONCLUSIONE

Lasciando necessariamente da parte inaccettabili concezioni della ‘persona’ come semplice ‘soggetto’ (nella prospettiva di ‘sola’ intelligenza e volontà individuali) per coglierne invece la profonda dimensione di ‘incarnazione’ che fa sempre e dovunque di ciascun uomo o donna una diversa ed insostituibile espressione della stessa umanità –un autentico “fratello per cui Cristo è morto” (1 Cor. 8, 11)–, si può giungere a porsi qualche domanda prospettica –se non proprio in termini ‘canonistici’– almeno di utilità istituzionale generale; a questo, d’altra parte, mira l’illustrazione e consapevolezza dei termini e concetti cui dedichiamo la riflessione in questo nostro lavoro interdisciplinare.

- Che sia giunto ormai il tempo in cui valga la pena ripensare la cornice ‘umana’ soggiacente alla realtà fattuale del Diritto, canonico in particolare?

- Che sia ormai necessario ridisegnare il paradigma istituzionale della Chiesa a partire dalla realtà del singolo Christifidelis che è davvero ‘soggetto’ primario ed autentico protagonista della vita ecclesiale in ragione della specifica volontà divina che “neppure uno vada perduto” (Gv. 6, 39. 17, 12. 18, 9)?

- Il fatto che Cristo abbia dato la vita per ciascun singolo uomo e non, genericamente, per l’umanità come tale appare oggi ‘sufficiente’ per recepire l’incontestabile fondamento ‘personalista’ cui la vita ecclesiale non può sottrarsi, anche nel suo aspetto istituzionale e giuridico?


La questione, tuttavia, che motiva in profondità questa seconda “Giornata Canonistica Interdisciplinare”, conferendole una portata non solo teoretica, riguarda l’effettiva possibilità di recepire, da parte delle diverse ‘Teorie canonistiche’ che si sono contese i fondamenti e le rationes dell’ambito giuridico ecclesiale durante il secolo scorso, il nuovo –e diverso– ‘fondamento personalista’ che il Vaticano II ha posto alla base dell’agire istituzionale della Comunità dei discepoli del Cristo.

Se quanto sin qui solo delineato ad introduzione del lavoro odierno potesse o riuscisse a passare dallo status di ‘ipotesi teoretica’ a quello di ‘datum receptum’ si potrebbe certamente affermare che i tempi siano maturi per un salto di qualità anche ‘ontologica’ dei fondamenti della Scienza canonistica, delineando così una linea di pensiero –fondato, organico, coerente e fondante– finalmente capace di ‘esprimere’ l’intero vissuto giuridico della Chiesa nell’unica cifra di una concezione “istituzional-personalista” dell’Ordinamento canonico e dei suoi strumenti operativi.

Le conseguenze di questa nuova concezione canonistica sul modo di concepire ed applicare il Diritto canonico sarebbero vistose ma soprattutto strutturali, non avendo più per referente un impersonale sistema normativo da ‘attenuare’ ed ‘umanizzare’ attraverso equità e dispense, ma trovando proprio nella persona del Christifidelis la misura primordiale dell’essere ed agire giuridico ecclesiale. Dispensa, equità, epicheia infatti, insieme ad altri strumenti giuridici di pari natura, si rivolgono ed applicano alla norma come tale – la dura Lex– mettendone in risalto il vero cuore: quello Ius che, quando diventasse ‘sommo’, sarebbe anche summa iniuria; al Diritto, infatti, e non ai suoi destinatari s’indirizzano questi strumenti.

Mettere al centro la persona anziché la norma, per contro, non porterebbe a nessuna forma di relativismo contenutistico né di destrutturazione istituzionale, poiché offrirebbe al vivere giuridico la solidità e la consistenza della substantia subsistens, ben più ‘oggettiva’ e ‘stabile’ della semplice opinio che una società o un legislatore possano elevare al rango di norma più o meno giuridica.


In questa prospettiva sarebbe anche possibile contribuire ‘istituzionalmente’ all’efficace incontro tra ogni singola concreta espressione dell’umanità (la ‘persona umana’, il singolo Christifidelis) e l’origine stessa dell’umanità (Dio creatore e redentore) in quell’abbraccio singolare che la sacra Scrittura cerca di esprimere coi paradigmi –personalistici– della filiazione e della sponsalità, paradigmi in cui la singolarità del rapporto personale non accetta dispersione alcuna nell’indefinitezza del ‘genere umano’ cui è donata la salvezza escatologica, ed a cui generici riferimenti alla Chiesa come ‘Popolo di Dio’ o alla Communio, possono, invece, inclinare anche inconsapevolmente.



P. Gherri 




in: P. GHERRI (Ed.), Diritto canonico, Antropologia e Personalismo. Atti della Giornata Canonistica Interdisciplinare, Città del Vaticano, 2008, p. 11-50. [anche in: APOLLINARIS, LXXX (2007), __].