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Questioni gnoseologiche ed epistemologiche nella Scienza 'ecclesiastica' del XX secolo


Premessa generale. Premessa metodologica. Prospettiva gnoseologica. La questione del 'realismo'. Prospettiva epistemologica. Tra Gnoseologia ed Epistemologia. Il problema del metodo aristotelico. L'apporto dell'esperienza. Il sapere 'ecclesiastico' medioevale. Il sapere 'ecclesiastico' del XX secolo. L'oggetto materiale. Una 'prospettiva' decisiva. Conclusione.

Premessa generale Ciò che a tutt'oggi si coglie nel modo di ragionare e procedere nella propria ricerca da parte di un buon numero di autori teologi, filosofi, canonisti 'ecclesiastici' è una vera e propria forma mentis del tutto diversa rispetto a quella degli altri ricercatori loro contemporanei, anche nelle stesse Discipline, provenienti da altra formazione di base com'è la tecnico-scientifica. Tale differenza -spesso marcatissima- si manifesta in modo evidente soprattutto nella concezione del lavoro scientifico, con le inevitabili ricadute a livello metodologico.
Al di là dei singoli ambiti di ricerca e di ciascuna questione specifica, ciò che emerge come problematico nella maggioranza delle 'posizioni ecclesiastiche' del secolo scorso -e di non poche di quello appena iniziato- è la difficoltà a maneggiare in modo competente e circostanziato le tematiche epistemologiche e metodologiche che proprio in tale secolo hanno progressivamente 'occupato' la scena dell'attività scientifica sotto il forte stimolo dello sviluppo delle Scienze c.d. naturali. Tale difficoltà pare legarsi in modo sostanziale alla difficile recezione -negli ambienti ecclesiastici- della legittimità e del valore dei metodi di natura 'induttiva', ormai portanti anche nelle c.d. Scienze dello spirito, ma ancora poco praticati dagli ecclesiastici in genere, che sembrano invece continuare a privilegiare esclusivamente procedimenti 'deduttivi' o comunque sostanzialmente 'formali', nonostante già dagli anni Settanta del secolo scorso ci siano stati tentativi d'altissimo livello volti a mutare quest'impostazione delle cose: l'insegnamento del Gesuita canadese B. Lonergan (1904-1984) col suo "Metodo Empirico Generalizzato" rimane il portale d'accesso a quest'ambito.
Questo forte attaccamento -ecclesiastico- alle metodologie 'classiche' di stampo deduttivo, trascurando buona parte di quelli che ad oggi sono ritenuti gli elementi portanti della 'scientificità', comporta però notevoli difficoltà di comunicazione -e comprensione- col resto del mondo della ricerca scientifica, manifestandosi con maggior evidenza in quei campi della ricerca dove gradualmente si siano introdotti anche studiosi 'non-ecclesiastici', oppure che riguardino 'materie' di comune interesse o con approcci complementari: l'ambito giuridico -canonistico in particolare- è forse uno dei più fecondi in quest'ultima prospettiva.

L'interesse della presente riflessione è rivolto principalmente alla concezione della Scienza e, più in generale, del lavoro scientifico e dei suoi metodi, sia nella propria configurazione peculiare che nei suoi irrinunciabili rapporti con gli altri 'ambiti/modi' della conoscenza praticati dall'uomo di sempre: quello filosofico e quello teologico.
La prospettiva d'indagine si volge qui alla ricerca dei fattori, almeno più importanti e plausibili, che hanno causato e sostenuto le diffidenze e le difficoltà degli ambienti ecclesiastici (filosofico-teologici in particolare) nell'adozione delle linee metodologiche empirico-induttive che contraddistinguono -ormai- la Scienza contemporanea.
Lo sviluppo della riflessione vedrà un continuo rimando dalla dimensione epistemologica a quella gnoseologica e viceversa, nella convinzione che le due dimensioni non siano scindibili se non al prezzo, ormai comunemente valutato inaccettabile, dell'idealismo come epilogo di una conoscenza disincarnata, o del tecnicismo come sbocco di una pratica scientifica disumanizzata. Si accetterà anche una certa commistione tra prospettiva storica e sistematica che, per quanto renda più impegnativo il discorso, ne tutela tuttavia maggiormente le imprescindibili componenti 'ermeneutiche'.

Premessa metodologica Le riflessioni qui proposte conservano una prospettiva generale e generica, non intendendo affatto illustrare la storia dell'evoluzione del pensiero gnoseologico occidentale ma solo coglierne alcuni elementi e caratteristiche tendenziali, utili a rendersi conto soprattutto delle diverse prospettive paradigmatiche adottate in differenti 'fasi' gnoseologiche ed epistemologiche, con una specifica ricaduta sulla consapevolezza e modalità di lavoro scientifico di canonisti, filosofi e teologi ecclesiastici attivi nel secolo scorso.
L'approccio sarà effettuato per (macro)'paradigmi' utilizzando sguardi d'insieme, di estrema sintesi, che traggono la propria credibilità ed utilità dal reciproco confronto strutturale e non dalla puntuale applicazione/traduzione di ciascun 'paradigma' nell'opera di singoli pensatori del passato o nella proposta di 'metodi' precisi e dettagliati per il futuro.
Il 'paradigma' infatti, inteso non tanto come modello esplicativo-evocativo didattico, ma secondo l'accezione complessa di "costellazione di credenze condivise da un gruppo" (comunità scientifica), aiuta a focalizzare le linee di tendenza e di sviluppo del pensiero e dell'elaborazione teoretica, permettendo di separare vari piani d'azione (e concezione) anche laddove essi tendano alla sovrapposizione o, più facilmente, alla mimesi.
Principio di riferimento implicito e connessione degli elementi gnoseologici con quelli epistemologici sarà -seppur sempre in sottofondo- il c.d. "isomorfismo della conoscenza" ben evidenziato a suo tempo da B. Lonergan: l'uomo conosce secondo i processi (e gli schemi) propri della sua intelligenza; il modo di conoscere dell'uomo funziona 'sempre' allo stesso modo poiché è l'uomo ad essere fatto così; di conseguenza il modo autentico di fare Scienza (Epistemologia) -ma anche Filosofia e Teologia- non può che dipendere dalla specificità del modo umano di conoscere (Gnoseologia).

Prospettiva gnoseologica Il primo passo da compiere è una ricognizione, per quanto sommaria, dei principali paradigmi gnoseologici ai quali pare possibile ricondurre -seppure per sommi capi e per sintesi estrema- lo sviluppo del sapere nel c.d. mondo occidentale.
Senza volere -né dovere- 'pagare dazio' alle già celebri 'fasi' dello sviluppo umano prospettate a suo tempo da A. Compte appare ormai necessario esplicitare quelle che ad oggi potrebbero efficacemente venir indicate come le (quattro) fasi gnoseologiche fondamentali percorse dall'uomo occidentale nel tentativo plurimillenario di gestire il proprio rapporto con la realtà.

1) La prima fase della 'conoscenza' umana potrebbe essere definita 'rappresentativa': l'uomo cerca/crede di conoscere la realtà rappresentandola; la rappresentazione del reale costituisce un primo approccio conoscitivo, una prima 'presa di coscienza' dell'alterità ed una sua 'sintesi' nella rappresentazione. Poter/saper 'riprodurre' qualcosa significa in fondo 'possederne' l'essenza: l'immagine -per quanto scarna ed 'essenziale', ingenua ed imprecisa- assume un valore ed una funzione 'trascendente' ...e -spesso anche- 'trascendentale'. L'Antropologia culturale e l'Etnologia conoscono bene le manifestazioni di questo approccio 'cognitivo' e l'importanza sacrale assunta da tali raffigurazioni; la stessa 'Arte' non dispera (ambisce spesso) ancora oggi di offrirsi all'uomo come specifica e peculiare via cognoscentiæ proprio attraverso la 'rappresentazione'.
Le principali articolazioni di questa 'fase' gnoseologica sono: a) quella raffigurativa degli 'oggetti' attraverso l'immagine, presente fin dalla preistoria (graffiti), b) quella rappresentativa del vissuto attraverso la ritualità ed -in modo tutto specifico- il teatro, cresciuto e sviluppatosi nella cultura greco-ellenistica. Anche il sorgere ed affermarsi della mitologia risponde a questa modalità cognitivo-rappresentativa del reale: l'uomo 'conosce' ciò che lo circonda rispondendo ai propri interrogativi sulla realtà attraverso la 'illustrazione' (eziologica) di fatti ed avvenimenti del mondo divino le cui conseguenze ricadono anche sulla terra e nella storia (mito).
Tempi: dalla prima 'consapevolezza', alla grecità classica senza, tuttavia, una netta cesura con le fasi successive.

2) La seconda fase della 'conoscenza' umana potrebbe esser definita 'lirica': lo stupore, la meraviglia, l'emozione, che l'uomo prova davanti a ciò che lo circonda lo spingono a farsi domande su quanto sperimenta; Platone (428-348 a. C.) teorizza addirittura la meraviglia come l'inizio della Filosofia. Si passa dalla rappresentazione-riproduzione 'esteriore' della realtà alla sua prima concettualizzazione intellettuale (interiore). Chiave di volta di questa fase è la domanda "perché?" che l'uomo rivolge a se stesso a riguardo delle realtà (soprattutto 'esterne') di cui si è accorto facendone in vario modo esperienza.
L'uso della ragione teoretica diventa preponderante sull'immaginazione rappresentativa e l'uomo si concentra su se stesso 'ragionando' e 'discorrendo' di ogni cosa. In quest'approccio però gli oggetti concreti della quotidianità (le cose) e le relative esperienze non rivestono particolare importanza: sono semplicemente lo stimolo, l'occasione che innesca il ragionamento umano, il quale tuttavia avviene completamente all'interno del soggetto attraverso la scoperta e la messa a punto dei principali meccanismi intellettuali. Tanto il dualismo platonico (mondo fisico e mondo delle idee) che il monismo aristotelico (unica realtà in potenza ed in atto) non offrono però, né ricercano, agganci 'strutturali' e 'strutturanti' con la 'concretezza' delle cose o con l'esperienza, che rimangono del tutto marginali rispetto alle linee dominanti della riflessione e della proposta teoretica generale. Il trapasso nella romanità e la sopravvivenza medioevale del 'sapere classico' non muteranno sostanzialmente la prospettiva all'interno della c.d. Scolastica.
In questa fase gnoseologica la deduzione è il motore di tutto: da poche cose si ricavano interi sistemi cosmici e di significato. Si tratta di una conoscenza che potremmo definire 'soggettuale' poiché riferita unicamente al soggetto, un soggetto però che non ha nulla da spartire con quello che uscirà dalla Modernità (per la quale si usa comunemente il termine 'soggettivo'). La sostanziale irrilevanza dell'oggetto concreto dell'indagine (oggetto materiale) porta a differenziare le conoscenze in base al 'punto di vista' che il soggetto può assumere nel proprio ragionare (obiectum formale quo). Non per nulla le Artes liberales del Trivio e Quadrivio erano presentate come attività dell'intelletto, che discorre (grammatica, retorica, dialettica/logica) o mette in ordine (aritmetica, geometria, musica, astronomia).
Tempi: dalla grecità antica fino a Galileo (1564-1642), con strascichi nella tarda e neo-Scolastica e nella maggior parte della cultura ecclesiastica (anche attuale).

3) La fase 'empirica' della conoscenza inizia a delinearsi -sovrapponendosi alla precedente- quando l'uomo smette di chiedere a se stesso "perché?" ed inizia a chiedere alle cose "come?": alla meraviglia si sostituisce la curiosità! E' un trapasso epocale: l'uomo scopre l'oggetto nella sua piena ed irriducibile 'alterità'. La realtà viene presa in considerazione per il suo complesso 'presentarsi' alla percezione sensoriale e l'uomo inizia a rivolgersi a lei -invece che a se stesso- per conoscerla e per conoscere. La conoscenza comincia a diventare 'oggettuale' (non oggettiva!) ponendo, cioè, i propri 'oggetti' non più 'dentro' l'uomo (come rappresentazioni o concetti ideali: le 'essenze', gli 'universali') ma davanti a lui nella propria 'materialità sensibile': la 'realtà' oggetto di indagine/conoscenza si 'sdoppia' aprendo gli orizzonti di un sapere davvero 'nuovo' ed imprevedibile per gli antichi ai quali tale 'problema' non si era mai posto. Questo sdoppiamento, anzi, fu proprio la maggior acquisizione cartesiana: la necessaria distinzione dell'antica res 'unitaria' in res cogitans e res extensa destinata a 'spezzare' la 'a-fasia' della concezione 'classica' che, non essendosi affatto mai posta il problema, non aveva neppure permesso la creazione del 'linguaggio' connesso ...perpetuando fino ad oggi tale problema; a Cartesio almeno di merito di essersene accorto e di averci provato! Dal Rinascimento prende poi deciso sviluppo quel movimento che lentamente porterà a passare dalla iniziale conoscenza del 'come' a quella del 'cosa': dalla Tassonomia (già aristotelica) ad una reale capacità 'ontologica' ...dal 'come se' al 'come è'! Chiave di volta della nuova conoscenza (Scientia nova) è l'inferenza induttiva che sposta l'interesse ed i procedimenti intellettuali dal soggetto all'oggetto. Alla riflessione si sostituisce (in modo ovviamente non assoluto) l'osservazione sul campo e la sperimentazione in laboratorio per verificare 'come' funzionano le cose ...e da queste conoscenze derivare nuove applicazioni.
Controparte della conoscenza scientifica diventa la Tecnica mentre il binomio sofia-religione -assestatosi nella precedente fase cognitiva- diviene sempre più marginale, fino alla completa esclusione o alla contrapposizione (fede contro ragione e viceversa), che il Concilio Vaticano I sentirà di dover risolvere.
Razionalismo, Illuminismo, Positivismo, Scientismo, costituiscono altrettante possibili declinazioni filosofiche di questo nuovo, enfatico ed entusiastico, sbilanciamento sull'oggetto della conoscenza e sulla sua insondabile ricchezza (e profondità).
Idealismo e Romanticismo, a loro volta, si profilano come 'patologie' di questa fase gnoseologica: due forme differenti di nevrosi dissociativa rispetto a quanto non risulta più contestabile: la realtà non sono 'solo' io! Ci si muove nel verso contrario alle tendenze oggettivistiche, sbilanciandosi oltremodo sul 'soggetto', ma all'interno dello stesso paradigma dove è comunque l'oggetto a dominare.
Il XX secolo costituisce contemporaneamente il climax e l'inizio della decadenza di questa fase gnoseologica, riconsegnandoci valorizzazioni nuove sia per l'oggetto (che smette di essere positivisticamente 'assoluto') sia per il soggetto (che ricupera una sua centralità anche gnoseologica: l'Ermeneutica): relatività, matematiche quantistiche, linguaggio, Esistenzialismo, Ermeneutica, impongono una nuova presa di coscienza e riflessione sui fondamenti, ma soprattutto, sulle modalità del conoscere.
Le questioni metodologiche ed epistemologiche del Novecento costituiscono la sua vera novità sotto questo aspetto: l'istanza ermeneutica riguadagna al soggetto (dopo l'oggettivismo del XIX secolo) un ruolo co-primario rispetto all'oggetto, riequilibrando la conoscenza possibile.

4) La seconda metà del Novecento pare inaugurare una quarta fase gnoseologica: quella 'integrante' -o 'complessa'- in cui oggetto e soggetto diventano co-primari in una tensione che non permette mai di affermare l'uno ignorando l'altro. Heisemberg col suo principio d'indeterminazione 'impone' questa co-primarietà alle stesse Scienze microfisiche, facendone addirittura il fondamento della loro stessa possibilità d'esistere: posizione della particella e sua velocità non possono mai essere conosciute simultaneamente; qualunque intervento di 'misurazione' altera sempre l'equilibrio della realtà osservata: il soggetto non è mai 'estraneo' ai fatti che rileva.
L'istanza ermeneutica pone sempre a qualunque soggetto il compito irrinunciabile di riconoscere ed interpretare correttamente tanto il proprio circolo ermeneutico che quello dell'oggetto in esame. La falsificabilità delle Teorie scientifiche enunciata da K. Popper può essere utilizzata anche a livelli inferiori per ristabilire il necessario equilibrio tra momento induttivo e momento deduttivo, costringendo di fatto il ricercatore a partire dai 'dati' (induzione) e ad essi ritornare (deduzione) per verificarne la corretta recezione e concettualizzazione attraverso il lavoro intellettuale, fino all'enunciazione di 'Teorie' che tentino efficacemente di 'spiegare' i fenomeni constatati.

La questione del 'realismo' Per cogliere la portata fondativa delle riflessioni sin qui accennate sullo sviluppo delle modalità cognitive del mondo occidentale -e conseguentemente sul concetto stesso di 'Scienza' che ne deriva- è opportuno dedicare qualche cenno alla questione -sottostante- del c.d. realismo della conoscenza che costituisce, fino ad oggi, il punto di non-ritorno e l'istanza sostanziale di non-comunicazione tra le posizioni comunemente dette 'oggettiviste' e 'soggettiviste' in ambito gnoseologico, preludendo anche alle difficoltà di carattere metodologico a riguardo di induzione/deduzione. Una maggior percezione della portata del problema (e del relativo vocabolario) sarà utile per comprendere in modo più chiaro la prospettiva gnoseologica sin qui proposta.

La concezione pre-moderna della conoscenza è comunemente detta realista in ragione dei suoi assunti di base: a) la realtà è 'altra' dal pensiero -dimensione 'oggettiva' (=non idealista) della realtà-, b) il pensiero coglie la realtà -realismo della conoscenza-: "le cose esistono indipendentemente dall'intelletto, e [che] quindi questo deve adeguarsi ad esse, o -per dirla con Étienne Gilson- [che] è la conoscenza a essere giudicata a partire dalle cose, non il contrario".
Ciò era ben attestato già dalle riflessioni di Parmenide che colse la crucialità del rapporto pensiero-essere e sostenne che la verità del pensiero si basa sull'essere delle cose, ossia nel dire ciò che è, e che non può non essere.
L'indirizzo fu accolto dagli insegnamenti di Platone che, pur assegnando a due 'mondi' distinti le "cose particolari sensibili" e le loro "essenze o idee intelligibili universali" (dualismo), non cadeva tuttavia nella semplice 'rappresentazione' idealista ma, orientando la conoscenza all'essenza delle cose in modo ricettivo e non creativo, va assunto a tutti gli effetti come un "realista"; (solo) in questo senso si afferma di lui che "ricerca l'essenza delle cose non dal lato del soggetto ma da quello dell'oggetto", pur non potendosi porre nella concezione realistica classica la questione del rapporto soggetto-oggetto -che, invece, è proprio lo snodo della istanza che andiamo illustrando in queste considerazioni-. Per Platone, come anche per la tradizione che lo seguirà, la conoscenza dell'essenza delle cose non è una mera universalizzazione di casi particolari col fine di raccogliere gli stessi in un concetto universale da 'sostanzializzare' (ipostatizzare) poi come 'essenza'; piuttosto la conoscenza platonica dell'essenza si dirige alle cause costitutive delle cose, soprattutto alla causa formale che Platone chiama "idea". A questo proposito è utile sottolineare come per Platone il mondo materiale fosse in realtà un sorta di 'copia sbiadita' del mondo delle idee (gli universali) e come, soprattutto, la conoscenza del mondo materiale avesse le caratteristiche della 'reminescenza' del mondo delle idee. Tale prospettiva gnoseologica, che individua il conoscere come "ri-conoscere", pone il soggetto conoscente in posizione dominante rispetto a qualsiasi 'oggetto', rendendo del tutto impossibile l'induzione, con evidenti ricadute strutturali sulle concezioni gnoseologiche ed epistemologiche future. Secondo qualche autore, addirittura, "il filone platonico è oggi quello maggiormente percorso, probabilmente perché sembra presentare maggiori vantaggi. In fondo la Scienza galileiana, come ha bene mostrato Alexandre Koyré è di matrice platonica, dato il ruolo di schema interpretativo ideale che in essa è giocato dalla matematica".

La via 'realista' inaugurata da Platone -res sunt- trovò continuità sostanziale, anche se non teoretico/sistematica, negli insegnamenti del primo dei suoi discepoli, Aristotele (384-322 a. C.) che, pur criticando la 'separazione' platonica, continuò ad assumere -come il maestro- le essenze delle cose, ribadendone la conoscibilità e la possibilità di definirle attraverso concetti universali; la correzione rispetto a Platone riguarda non il realismo gnoseologico ma la 'collocazione' delle essenze rispetto alle cose stesse: mentre infatti Platone identifica il modo secondo cui l'essenza è dalla parte delle cose con il modo secondo cui l'universale è nell'intelletto, cioè come "l'uno al di sopra del molteplice" (universalia ante rem), per Aristotele l'essenza si trova in ciascuna delle molte cose (universalia in re), potendone essere come 'estratta' solo nel processo conoscitivo (universalia post rem) che può poi servirsene anche indipendentemente dalle cose stesse ...che -però- finiscono così per essere inesorabilmente trascurate una volta 'spremutane' fuori l'essenza! ...Come una semplice 'buccia'.
S. Tommaso per parte sua approfondì l'impostazione aristotelica constatando che come l'universale è nell'intelletto, così l'essenza non è dinanzi alle cose ma si trova in ciascuna di esse, meritandosi così ulteriori riconoscimenti quanto a realismo della posizione gnoseologica propugnata. In tal modo l'essenza delle cose, pur conosciuta attraverso concetti universali che si riferiscono all'intelligibile essenziale nelle cose sensibili particolari, non si trova dalla parte dell'universale (che è nell'intelletto) ma da quella delle cose singole, essendo 'in' ciascuna. Di più: "la conoscenza per Tommaso si compie attraverso e a causa dell'assimilazione del conoscente alla cosa conosciuta ("per assimilationem cognoscentis ad rem cognitam, ita quod assimilatio dicta est causa cognitionis"), e la medesima convinzione è espressa da Agostino quando afferma che "la mente dunque riesce a capire [le cose] nella misura in cui si adegua alla [loro] verità, la quale è immutabile"".
Per Tommaso la stessa verità -da cui la conoscenza non può discostarsi-, in quanto 'qualità' del giudizio, è sia soggettiva che oggettiva: avendo infatti il giudizio la propria 'sede' nel pensiero, per l'originaria e costitutiva intenzionalità che collega il pensiero alle cose, non si potrebbe dare nessuna conoscenza senza rapporto con esse, poiché l'adeguazione del pensiero alle cose avviene sulla base dei dati in nostro possesso (secondo la massima scolastica: quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur).
Il realismo di S. Tommaso è talmente radicale che anche la sua Teologia rivendica un proprio peculiare riferimento realistico, in quanto l'atto di fede, da cui essa parte ed entro cui si muove "non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem" (S. Th., II-II, q. 1, a2). ...Peccato, però, che questa 'res' sia in realtà un 'ente' (teorico) e non un obiectum concreto.
Di fatto la questione filosofica dell'essenza delle cose e dell'uomo non concerne per nulla la ricchezza dei contenuti vissuti psichicamente (sentimenti, affetti e simili) -e neppure l'esperienza concreta di sé e delle cose- bensì il solo formale essere tale (esse tale) intelligibile delle cose stesse, in vista delle loro cause costitutive, che vengono comprese soltanto dall'intelletto attraverso concetti universali. L'essenza delle cose e dell'uomo non è in nessun modo un 'vissuto' che cambia, ma riguarda semplicemente le cause del loro essere-tali alla luce dell'identità ontologica secondo cui ciascun ente è ciò che è: l'albero un albero, il cane un cane, l'uomo un uomo. In tal modo la conoscenza del reale non è una semplice 'opinione' sulle cose ma il risultato di un'operazione 'scientifica' che separa metodicamente l'essenziale dall'accidentale, l'identico dal mutevole, arrivando alle cause costitutive, fino a non poter penetrare oltre nell'intimo di una cosa (e questa è -per Tommaso- 'Scienza').
In questo modo, il realismo -gnoseologico ed ontologico- che informa la conoscenza dei pensatori classici e scolastici (attraverso lo scire per causas) permette loro di non limitare i risultati della propria conoscenza al semplice contenuto della 'proposizione' gnoseologica e neppure alla sua sola 'forma logica', ma li pone in grado di pronunciare giudizi dell'intelletto a partire dai dati presenti nelle cose, dalla loro stessa essenza: i c.d. universali che, in tal modo, fondano -ma anche costituiscono- la conoscenza stessa.
"In prospettiva storica, la riflessione in merito alla relazione conoscitiva causale tra oggetto e soggetto si è compiuta, per la prima volta, nell'Epistemologia di Platone (Teeteto) e di Aristotele (Analitici secondi), ed è stata provocata dalla scepsi dei Sofisti, i quali mettevano in questione la verità oggettiva delle cose". L'unitarietà e solidità di questo modo di procedere ('realista' per quanto intellettuale) furono messe in forte crisi dalla grande frattura che la Modernità -partendo dai 'fatti' più che dalle 'cose'- introdusse nel pensiero occidentale, sovvertendo letteralmente in pochi secoli un orizzonte gnoseologico rimasto indiscusso per circa due millenni. R. Cartesio (1596-1650) è unanimemente individuato come il padre di tale sovvertimento, sfociato poi nell'opera di E. Kant (1724-1804) da cui prenderanno il via Soggettivismo e Relativismo che ancor oggi configurano così profondamente la nostra cultura: "persa la connessione costitutiva e originaria che è da constatare e non da provare -ha rilevato Gilson non senza ironia-, da Descartes in poi l'esistenza del mondo esterno è divenuta oggetto di fede, poiché non è apparsa più evidente".

Cartesio, d'altra parte, probabilmente non ebbe scelta poiché non esistevano al tempo né i termini, né le categorie, per dare al 'destinatario' dei suoi efficaci studi scientifici un'adeguata consistenza ontologica. La radicalità del paradigma soggettuale, infatti, era ancora talmente costitutiva di quel modo di pensare che neppure la crescente presenza e 'prestanza' dell'obiectum riuscì a resisterle, almeno in campo filosofico-metafisico; al punto che, accettando che fosse il soggetto stesso l'unica 'certezza', non seppe rinunciarvi sotto il profilo ontologico-fondativo, finendo per fidarsi maggiormente del "cogito" che della realtà 'sperimentale/ta' ...ridotta necessariamente a pura 'apparenza'. Fu così che il 'percepito' attraverso i sensi venne ridotto a semplice "rappresentazione" soggettiva, che diventa affidabile in quanto il soggetto 'conoscente' procede non attraverso la constatazione di 'evidenze' oggettive (a lui esterne/estranee) ma tramite la formulazione di giudizi chiari e distinti a partire da un 'metodo' che ne assicuri la rigorosità del procedere.

Il cambio di 'fase cognitiva' (da lirica ad empirica) è però già avvenuto e non permette di ripristinare il dubbio sistematico degli antichi Sofisti che negavano la realtà sensibile: dopo Galileo non si può più prescindere dall'obiectum che impone (=getta contro) ai sensi del conoscente la propria presenza. Contraddittoriamente, -in/da Cartesio- la nuova conoscenza si trova ad essere 'soggettivista' per quanto sperimentale ('oggettuale'), senza poter così costituire una valida alternativa, né un reale progresso, nei confronti della precedente posizione (realista-'soggettuale') cui gli ecclesiastici rimarranno saldamente -e motivatamente, sic stantibus rebus- legati.
Realismo gnoseologico (classico) ed 'oggettualità' della conoscenza (moderna) non sono quindi equivalenti ma si mantengono rigorosamente opposti, nonostante i termini possano spesso far credere il contrario, inducendo molti in errore con l'indebita identificazione tra realismo ed oggettivismo.

Prospettiva epistemologica La direzione assegnata a queste riflessioni (la difficoltà delle Discipline ecclesiastiche a distaccarsi dai metodi 'soggettuali' - deduttivi) porta a soffermarsi con maggior attenzione sulle implicanze epistemologiche della conoscenza già indicata come 'lirica' (e deduttiva).
Tale modalità di conoscenza si caratterizza per un approccio alla realtà prettamente intellettuale-speculativo da potersi condurre anche nell'isolamento più completo rispetto a ciò di cui si discorre (come di fatto avvenne): il soggetto non ha bisogno di altro che di sé e del proprio pensiero/punto di vista. La 'Scienza' è presentata come "per causas scire" ed il carosello delle più diverse causalità (efficiente, finale, formale, materiale, intenzionale, strumentale, esemplare, ecc.) rischia di non essere altro che il processo 'mimetico' con cui coprire l'inefficacia di un modo di conoscere, incapace di uscire da se stesso per superare il vero distacco da ciò che continua a strutturare la vita quotidiana di ciascuno: il concreto e realistico rapporto con le 'cose'.
Il capovolgimento che Aristotele dovrebbe costituire in ambito gnoseologico rispetto a Platone (universalia in rebus anziché ante res) in realtà non tocca l'assoluta centralità/unicità del soggetto e la sostanziale irrilevanza delle 'cose' concrete: di fatto il paradigma di riferimento non cambia! Il grande sforzo aristotelico di fissare i cardini della 'sua' logica conferma questa direzione: la pura 'formalità' del pensiero che, se permette un approccio al 'reale' (fisico e metafisico) su base razionale invece che mitologica (cambio di paradigma gnoseologico rispetto alla 'fase' precedente), non ricupera tuttavia la forte deriva 'soggettuale' alla base dell'intero sistema del pensiero classico. La necessaria corrispondenza alla realtà concretamente esperibile dei 'concetti' e 'termini' utilizzati nell'elaborazione intellettuale di matrice aristotelica, così come l'inseparabilità nella 'forma' degli stati di 'potenza' ed 'atto', non muta la sostanza dell'approccio che rimane indipendente dagli 'oggetti' (deduttivo). Ad ulteriore conferma della non-oggettualità tanto dell'impostazione platonica che di quella aristotelica va considerata l'assoluta teoreticità -relativamente al ruolo assegnato/riconosciuto all'oggetto di conoscenza- dei principi di riferimento posti alla base dei due sistemi filosofici: che si tratti di 'idee' o di 'essenze', che vengano prima o dopo o siano 'contemporanee' alle diverse realtà considerate, nulla cambia nel modo di gestirle; né può fare alcuna reale differenza l'affermazione che le 'essenze' aristoteliche non siano semplici forme ideali ma abbiano precise 'corrispondenze' nella realtà (in entibus); il modo concreto di procedere a livello gnoseologico (e pertanto metodologico ed epistemologico) rimane comunque deduttivo ed indifferente all'esperienza concreta. Non esiste rapporto 'fisico' con gli oggetti: la conoscenza si sviluppa in 'accademia', peripateticamente ...camminando e discorrendo! Filosofia e Metafisica sono considerate le chiavi della conoscenza umana ed occupano il tempo degli uomini 'liberi' ...lontani dalla dura realtà delle cose! L'insuperata distanza dall'oggetto 'materiale' e la concentrazione sul soggetto pensante portano questa modalità conoscitiva a differenziare i diversi ambiti del conoscere e del sapere in base al 'punto di vista' del soggetto stesso (obiectum formale quo) trascurando quasi completamente il 'vero' oggetto d'indagine: l'obiectum formale quod che continua a non riscuotere alcun interesse in sé e per sé, ma è semplicemente fruito come la 'scintilla' che attiva l'intelletto (la meraviglia platonica).
Non per nulla il Razionalismo è ormai comunemente individuato come la degenerazione strutturale della Scolastica attraverso l'apporto magisteriale di F. Suarez (1548 - 1617) che -negli stessi anni di Galileo- spinse decisamente Teologia e Filosofia in direzione contraria (soggettuale) a quella intrapresa dalla concretezza della Scientia nova (oggettuale).

In modo del tutto contrario, nella successiva fase gnoseologica (quella 'empirica') le Discipline/Scienze si differenziano proprio in base all'oggetto materiale d'indagine (obiectum formale quod) lasciando cadere sia i 'punti di vista' che una 'causalità' senza effettive corrispondenze empiriche. Nell'approccio soggettuale è sempre il soggetto che fa la grande differenza gnoseologica, si giustifica quindi pienamente una teoria epistemologica fondata sul (suo) 'punto di vista' (obiectum formale quo) che in realtà non è altro che il soggetto stesso! Con l'approccio oggettuale, invece, comincia a risaltare una vera 'autonomia/alterità' dell'oggetto che quindi diventa a tutti gli effetti il 'centro' d'interesse: obiectum formale quod, è lui il centro della nuova Epistemologia! Muta così radicalmente la stessa teoria di base della Scienza/conoscenza che voleva come 'oggetto materiale' solo delle res e trasferiva la vera 'sostanza' gnoseologica al punto di vista; dall'imporsi delle Scienze moderne è invece possibile prescindere dal punto di vista ritrovando direttamente nell'oggetto materiale la differenza tra una Scienza ed un'altra, poiché l'oggetto può anche non essere più una res ma un 'rapporto' o una 'relazione'.
Il principio di causalità abbondantemente utilizzato nelle Scienze moderne (ogni 'azione' è frutto di una 'azione' precedente che l'ha resa possibile/necessaria) non condivide nulla con la -intellettuale- causalità aristotelico-tomistico-scolastica.
Le Scienze sperimentali diventarono così -per riconosciuta efficacia e concretezza di risultati e realizzazioni- il paradigma del 'vero conoscere' e finirono per trainare dietro di sé anche le Scienze socio-antropologiche ed 'umanistiche', proponendo loro capacità d'indagine e realizzazioni cognitive di tutt'altra natura e portata rispetto a quelle ormai assestate all'interno della Scolastica.
Il trionfo metodologico della Scientia nova non lasciò scoperto neppure l'ambito storico-letterario che già dal Rinascimento aveva iniziato a maturare il proprio interesse per le 'fonti' quali 'dati' non-sperimentali, ma comunque 'empirici', per le nuove Scienze storiche ed umanistiche: il Classicismo rinascimentale ne è chiara comprova. Alla nuova prospettiva non sfuggì neppure il testo biblico che Galileo -secondo il nuovo approccio gnoseologico- invitava ad affrontare come 'oggetto' di ricerca e non semplice rivelazione di 'principi' universali ed eterni; in questo modo, però, come ben riconosceva Giovanni Paolo II nel suo famoso discorso del 1992 alla Pontificia Accademia delle Scienze: "la Scienza nuova, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, obbligava i teologi a interrogarsi sui loro criteri d'interpretazione della Scrittura. [...] L'irruzione di una nuova maniera di affrontare lo studio dei fenomeni naturali impone una chiarificazione dell'insieme delle Discipline del sapere. Essa li obbliga a delimitare meglio il loro campo proprio, il loro angolo di approccio, i loro metodi, così come l'esatta portata delle loro conclusioni"; proprio ciò che non era strutturalmente possibile attuare all'interno del paradigma gnoseologico lirico-deduttivo su cui la Scolastica rimaneva fondata.

Tra Gnoseologia ed Epistemologia Il discorso sin qui articolato trova il proprio punto di forza, l'elementum crucis, nella constatazione -decisiva, quanto banalmente trascurata dalla maggioranza degli autori- che "la "realtà" a cui si riferisce la formulazione tommasiana di adæquatio rei et intellectus è quella della "res" e non quella dell'"obiectum", come si è preso a dire in età moderna, da Descartes a Kant e oltre. Se infatti "res" indica l'ente considerato nella sua essenza, "obiectum" costituisce invece ciò che il soggetto ha già dinanzi a sé, la conoscibilità e la presenza della cosa al suo cospetto, insomma la sua "rappresentazione" (Vorstellung)"; come osserva A. Livi a proposito della verità (tema strutturalmente connesso con la conoscenza) nella prospettiva moderna "il discorso non si svolge primariamente sul piano dell'oggetto trascendentale ma innanzitutto sul piano del singolo (determinato, "empirico", storico) soggetto della conoscenza. La verità della quale qui si parla è una qualità del pensiero, è la sua perfezione naturale, la sua rettitudine, e si identifica con la conoscenza in quanto tale, ossia con l'atto di conoscenza compiutamente realizzato in rapporto a un determinato oggetto".
Proprio questa non-equivalenza dei concetti posti a fondamento delle due prospettive gnoseologico-epistemologiche tra Scolastica e Modernità giustifica e spiega la sostanziale incompatibilità delle rispettive posizioni ...e delle loro conseguenze sotto il profilo del paradigma metodologico (lirico o empirico): res ed obiectum. Conoscenza come verità o come 'Scienza' non sono affatto la stessa cosa... poiché la res della conoscenza 'veritativa' classica rimane un 'concetto' intellettuale che continua a sottrarsi alla concretezza di quanto lo stesso soggetto conoscente 'sperimenta' coi propri sensi: l'obiectum da cui genera la stessa possibilità della conoscenza (per viam adæquationis).

Ciò che a questo punto rileva con sicuro interesse è la -sommaria- puntualizzazione del concetto di 'Scienza' utilizzato nei diversi periodi: ed è proprio questo che manifesta in modo più specifico l'approccio paradigmatico di nostro interesse.
"Tutta la Filosofia greca parte dalle cose naturali come date per evidenza. [...] Secondo Eraclito, le cose naturali, nel loro movimento, sono date in modo evidente, e la ricerca filosofica mira al principio immutabile delle cose che sta oltre i fenomeni sensibili, che non appare, e che è compito della ragione rendere palese. Questa via del filosofo è completamente diversa da quella degli uomini che guardano le cose soltanto con i sensi, e che non impegnano la ragione adatta di per sé alla ricerca del principio. [...] Per Platone la distinzione (preparata già dai Presocratici) tra i fenomeni sensibili e le cause essenziali intelligibili è fondamentale. Ad essa corrispondono due livelli conoscitivi, quello sensitivo e quello intellettivo. Il compito di un progresso della conoscenza delle cose consiste proprio nel passaggio dall'uno all'altro livello, mentre memoria, immaginazione, opinione ed esperienza rappresentano un livello intermedio tra i due. Separando dalle cose sensibili le cause costitutive, le "idee", Platone presenta due mondi, quello sensibile e quello intelligibile delle idee. [...] L'ontologia di Parmenide, Platone ed Aristotele ci insegna che considerare le cose sensibili in quanto "enti" significa proprio non considerarle più nel loro aspetto sensibile empirico familiare senza importanza rispetto alla verità, ma considerarle nel loro aspetto intelligibile che è importante per l'intelletto e lo rinvia all'essere tale, all'essenza, alla verità delle cose. [...] In Platone l'ente rappresenta proprio l'intelligibile immutabile cui corrisponde una conoscenza transempirica. [...] Secondo Platone e Aristotele la conoscenza intellettiva è Scienza, ossia spiegazione delle cose attraverso le loro cause".

In fondo però, una volta posta l'opzione 'realista' per la conoscenza (si conosce ciò che "è", e non semplici 'rappresentazioni' soggettive) si è solo fatto il primo passo -necessario ma non sufficiente- dopo il quale diventa necessario porsi l'ulteriore domanda circa le modalità possibili di tale conoscenza: l'Ontologia da una parte e la Fenomenologia dall'altra (senza in questo scomodare inutilmente Kant con noumeni e fenomeni), legittimando così, in linea di principio, tanto l'approccio filosofico classico che quello scientifico moderno come due differenti 'modi' di conoscere la stessa -unica- realtà.
Nella prima prospettiva, che è quella di S. Tommaso e della Scolastica dopo di lui, la ricerca rimane imperniata sul soggetto che, su base 'realista' (= corrispondenza di conoscenza e realtà), mette in opera una conoscenza di ciò che "è", proprio in quanto 'ente': nella sua relazionalità pluriformemente articolata con l'essere in quanto tale, nei suoi vari livelli/gradi di partecipazione, nelle sue componenti materiali e formali, alla ricerca delle diverse 'causalità'; ciò succedeva -conseguentemente- anche in ambito 'scientifico' tanto che, fino all'epoca di Galileo -e ben dopo-, "era classificata come scientifica solo una conoscenza di tipo causale dei fenomeni fisici". Nonostante la scelta tomista in ambito teologico implicasse l'adozione del realismo (solo gnoseologico!) in sede logica e filosofica ed imponesse che ogni termine del discorso fosse riferibile a qualcosa di realmente esistente, ciò non fu sufficiente a sottrarre tale impostazione gnoseologico-epistemica al paradigma poco sopra indicato come 'conoscenza lirica': intellettuale, formale, deduttiva ed analogica e, quindi, non 'oggettuale'.
"La categorizzazione aristotelica relativa alle quattro cause (efficiente, materiale, formale, finale) e ai primi principi ad esse collegati (in primo luogo i principi di causalità e finalità) ha normato per secoli l'esercizio della razionalità filosofica e scientifica dell'Occidente, ma è entrata vistosamente in crisi per l'imporsi di quel complesso e imponente processo, cui diamo il nome di Scienza moderna. Qui non solo ha assunto un rilievo primario la categoria di correlazione funzionale, ma è stato chiarito che la razionalità scientifica moderna, a differenza di quella antica, non avanza nessuna pretesa di spiegazione attraverso cause ultime, efficienti o finali che siano".

È tuttavia doveroso osservare anche come proprio dalla stessa opzione gnoseologica realista (si conosce ciò che "è") derivi, forse come conseguenza necessaria quanto insperata, l'approccio empirico così fermamente propugnato da Galileo più che da ogni altro ricercatore lungo i secoli precedenti: non solo "le cose sono", ma anche: "le cose sono così", oppure: "le cose sono queste"... anche se non 'tutte' e 'soltanto'! "Il vero conoscere è esprimere fedelmente ciò che è, cioè la realtà che si impone incondizionatamente alla mia intelligenza [...] Non si ha conoscenza che non sia conoscenza del reale "così com'è"".
È la 'scoperta' dell'oggetto, il quale smette di essere solo 'formale' e diventa 'materiale', concretamente esperibile: c'è 'qualcosa' là fuori... 'qualcosa' che mi si impone, 'qualcosa' che mi è 'gettato addosso' (obiectum) e che non posso più ignorare nella sua concreta 'fattualità'. Non più le essenze -dunque- ma le modalità, non più le forme ma le misure diventano 'oggetto' d'indagine della Scientia nova che fa uscire la conoscenza dallo studium per trasferirla nel laboratorium e nella bottega.
È questo il momento in cui la conoscenza inizia a trasformarsi da 'ontica' in 'predicativa': affermare l'essere ed i suoi gradi di partecipazione derivata e proporzionale (deduzione ed analogia) non basta più, né permette all'uomo -artigiano- di trarne utilità concreta per la propria attività in continua crescita e sviluppo; è divenuto ormai irrinunciabile "ciò" che si può attribuire alle cose che "sono"; "ciò" che, se forse non indica "che cosa" le cose siano, tuttavia le "qualifica" nella loro modalità di funzionamento, invertendo però in tal modo la 'logica' del processo conoscitivo (il paradigma gnoseologico) che ora parte dall'esperienza per cogliere l'essenza, dal fenomeno per cogliere la 'legge' fisiologico-strutturale che lo presiede.
"Da qui la giustificazione dell'autonomia dell'impresa conoscitiva volta, nelle sue varie forme ed espressioni, a cogliere e formulare le leggi regolanti il mondo naturale. Tale principio, come noto, faticò non poco ad affermarsi, emancipandosi da una malintesa tutela presuntivamente teologica e metafisica".

A complicare ulteriormente i rapporti gnoseologici ed 'epistemologici' tra cultori della Scientia nova e teologi/filosofi scolastici intervenne anche la "forma espressiva che la relazione di creazione tra Dio e il mondo venne ad assumere nella Scolastica decadente e, più ancora, nella vulgata metafisica recepita, come termine di riferimento di confronto, anche da molti uomini di Scienza. La creazione, infatti, fu spesso intesa come produzione delle cose da parte di Dio. Tale concetto è strettamente collegato a quello, proprio della fisica aristotelica, di causalità: Dio è Creatore nel senso che è Causa prima omnium rerum".

L'iniziale impossibilità di affermazione ed accoglienza di una tale prospettiva gnoseologica all'interno del paradigma 'soggettuale' dominante portò lo stesso Galilei ad utilizzare la categoria della conoscenza ipotetica (vera 'reticenza gnoseologica') per poter continuare a beneficiare -in 'santa' pace- dell'uso del metodo induttivo-sperimentale, pur nell'incontrastata piena vigenza di quello formale-deduttivo; un escamotage applicato per lunghi secoli fino all'attuale necessaria affermazione tanto del c.d. realismo sulla verità che del realismo sulle entità. A tal punto: non solo "le cose sono" ma "le cose sono come ci appaiono", o almeno: non ci appaiono troppo diversamente da quello che effettivamente 'sono'! "Nel 1978 Hilary Putnam sostenne che se non si adottasse un'interpretazione realista, il crescente successo predittivo raggiunto nella storia della Scienza sembrerebbe un "miracolo". Putnam osservò che il realismo in questione formula affermazioni sia sulla verità sia sull'esistenza. Entro un certo dominio scientifico, il crescente successo predittivo riflette un'approssimazione sempre più adeguata alla verità. E proprio perché sequenze di teorie di successo formulano affermazioni diverse riguardo a specifici oggetti teorici (per esempio "elettroni", "campi gravitazionali, "geni"), tali oggetti devono esistere".
Sommo esito per una conoscenza davvero 'realista' ...in chiave, però, moderna e non classica.

Il problema del metodo aristotelico Sarebbe del tutto ingenuo trascurare in queste riflessioni tra Gnoseologia ed Epistemologia la problematicità, più volte denunciata nell'epoca moderna, della posizione 'metodologica' aristotelica a proposito della deduzione e degli altri procedimenti logici che il filosofo greco ha teorizzato ed applicato quali strumenti adatti alla (propria) riflessione, soprattutto metafisica e poi assunti quali fondamenti pressoché assoluti del procedimento conoscitivo (scientifico) scolastico.
Il problema rileva specificamente in relazione al paradigma gnoseologico sotteso al concetto di conoscenza classica o moderna: lirico o empirico, soggettuale od oggettuale, come sin qui indicati.

Ad Aristotele va unanimemente riconosciuto il merito di aver espresso (per primo, visto che per Platone non risultava ammissibile l'induzione) il c.d. metodo induttivo-deduttivo cui ancor oggi non ci si può sottrarre in ambito gnoseologico ed epistemico. Secondo il principio realistico della conoscenza da lui propugnato, gli scienziati dovrebbero indurre i principi esplicativi a partire dai fenomeni che devono essere spiegati (universalia in rebus), e poi dedurre da premesse comprendenti questi principi (universali, appunto) asserzioni riguardo ai fenomeni stessi.
"Secondo Aristotele, ogni cosa particolare è unione di materia e forma. La materia è ciò che fa del particolare un individuo unico, e la forma è ciò che fa del particolare un membro di una classe di cose simili. Specificare la forma di un particolare vuol dire specificare le proprietà che esso condivide con altri particolari. [...] L'induzione [...] è una questione di intuizione; si tratta della capacità di vedere ciò che è "essenziale" nei dati dell'esperienza sensibile. [...] Nella seconda fase dell'indagine scientifica, le generalizzazioni ottenute induttivamente vengono utilizzate come premesse per la deduzione di asserzioni relative alle osservazioni iniziali".

In questo Aristotele aveva ben colto l'essenziale differenza -ed opposizione- tra deduzione ed induzione affermando addirittura (sic!) che "l'induzione è cosa più convincente e più chiara e più nota secondo la percezione e comune ai più; invece il sillogismo è cosa più forte e più efficace contro gli oppositori"; in tal modo si palesa come l'induzione si opponga al sillogismo perché non ha già un 'medio' a sua disposizione, ma deve andarlo a cercare, deve inferirlo da un certo numero di particolari che non esauriscono tutti i casi possibili, e quindi non ha mai in sé la 'certezza' del sillogismo; l'induzione tuttavia ha per noi una maggiore significatività perché ci mostra nell'esperienza dei particolari l'unione di quei caratteri che connettiamo nella conclusione. Per Aristotele, pertanto, l'induzione resta sempre un'ipotesi suffragata dall'esperienza e da confermare con l'esperienza mentre l'attività di analisi logica operata dal sillogismo non ha rapporti con l'esperienza, essendo una pura conseguenza delle premesse 'universali' ricavate dall'esperienza stessa.

Aristotele, poi, nell'assegnare il sostanziale primato gnoseologico (perché 'universale') alla deduzione si dimostrò tutt'altro che sprovveduto, sostenendo che la validità di un ragionamento è determinata unicamente dal rapporto tra le premesse e le conclusioni e che le premesse di una spiegazione soddisfacente devono essere vere; il requisito, poi, in base a cui queste risultino vere è uno dei quattro requisiti extralogici cui devono sottostare le premesse delle spiegazioni scientifiche: tali premesse devono infatti essere vere, indimostrabili, meglio note della conclusione, oltre che essere le cause dell'attribuzione fatta nella conclusione stessa, condizioni chiare e ragionevoli -in via teorica- ma spesso disattese da molti autori che, come al solito, si sono accontentati di applicare pedissequamente la 'procedura' senza verificarne le condizioni di possibilità (le premesse).
Proprio qui, tuttavia, si manifestano i problemi che vengono contestati all'aristotelismo sotto il profilo metodologico: a) la 'qualità' oggettiva delle premesse (loro affidabilità), b) il reale incremento alla conoscenza fornito dalla deduzione! a) Contro l'intelletualismo -per quanto teoricamente 'realista'- di quest'impostazione metodologica s'indirizzò l'aspra critica di F. Bacone (1561-1626) che contestava ad Aristotele ed ai suoi seguaci di praticare una raccolta di dati casuale ed acritica, di essere troppo precipitosi nelle generalizzazioni, di basarsi sull'induzione solo per 'enumerazione semplice' dichiarando proprietà che si sono scoperte valide per svariati individui di un certo tipo per tutti gli individui di quel tipo. Più radicalmente, poi, F. Bacone rilevava che la dimostrazione sillogistica a partire dai principi primi è efficace solamente se i termini dei sillogismi sono ben definiti, poiché le argomentazioni deduttive hanno valore scientifico solo se le loro premesse dispongono di un appropriato supporto induttivo; in tal modo Aristotele e i suoi seguaci avevano ridotto la Scienza a semplice logica deduttiva , esasperando l'importanza della deduzione da principi primi: un puro sistema formale tanto perfetto ed efficace (ad intra) quanto chiuso e non-utile (ad extra).
La critica baconiana, pur senza cogliere che una parte sostanziale del problema contestato stava proprio nell'induzione da lui stesso propugnata e nelle sue 'condizioni' di possibilità, evidenzia tuttavia con efficacia l'estrema debolezza e labilità della trasformazione del principio generalizzato (per induzione) in 'premessa' per il procedimento deduttivo. In questo, tuttavia, Bacone opera il salto dal semplice schema induttivo-deduttivo aristotelico a quello ipotetico-deduttivo[-falsificabile] ormai strutturale nella concezione moderna della conoscenza scientifica.

b) A riguardo, poi, del reale apporto conoscitivo cui la ricerca 'scientifica' di matrice aristotelica dovrebbe condurre, non si può che rilevare la sterilità gnoseologica di tal modo di procedere formale e teoretico. Se davvero, infatti, "Aristotele sapeva che un ragionamento deduttivo non può fornire un'informazione maggiore di quella implicata dalle sue premesse, e asseriva che i principi primi della dimostrazione devono essere per lo meno altrettanto evidenti quanto le conclusioni che da esso si ricavano" quale reale giovamento poteva aversi dall'applicare tale metodo alla ricerca scientifica? Di fatto, come giustamente afferma il teologo e canonista spagnolo T. Jiménez Urresti, "nel sillogismo formale-modale, il predicato concreto della minore è contenuto nel soggetto universale della maggiore, e questo è il ponte o l'inferenza per collegarlo col predicato della stessa maggiore: la sua conclusione afferma che il soggetto della minore è pure un caso del predicato della maggiore universale. Così, la conclusione si limita ad esplicitare qualcosa di concreto -la minore- che stava contenuto implicitamente nella proposizione maggiore universale", senza fornire così alla conoscenza umana nessun apporto ulteriore rispetto a quanto già conosciuto.

Non può tuttavia non palesarsi, a questo proposito, la strisciante ambiguità che -all'interno di una certa forma mentis- continua a restare sottesa all'uso di termini quali 'esperienza', 'empiricità', 'esperimento', 'sperimentazione', 'sperimentalità', spesso ingenuamente confusi o -anche- abilmente sostituiti tra loro con l'evidente fine di continuare a sfocare ed attenuare l'inevitabile contrasto tra l'approccio gnoseologico 'soggettuale' ('lirico') e quello 'oggettuale' ('empirico') sin qui delineati.
Ne dà prova evidente la posizione di A. Strumia che contesta la qualifica di "sperimentale" normalmente attribuita al metodo galileiano: "enfatizzando ad esempio il ruolo di un Francesco Bacone, sperimentatore, nella formazione dell'idea di Scienza moderna e lasciando intendere che tale Scienza si differenzierebbe da quella antica, in particolare da quella aristotelica che l'ha immediatamente preceduta, per il suo carattere di Scienza dell'osservazione, in contrapposizione con il carattere non sperimentale, aprioristico della Scienza aristotelica".
Per sostenere, poi, il 'realismo' e l'oggettività della concezione del reale e della conoscenza (e della Scienza) trasmesso alla Scolastica dall'aristotelismo attraverso l'opera dell'aquinate, l'autore aggiunge in nota che: "la fisica di Aristotele, e anche più quella dei Nominalisti parigini, di Buridano e di Nicola Orasmo, come è stato osservato da Tannery e Duhem, era molto più prossima all'esperienza del senso comune che quella di Galileo e Cartesio".
Lo stesso Strumia prosegue nel proprio ragionamento a favore della prossimità della fisica aristotelica al senso comune distinguendo tra 'esperienza' ed 'esperimento', dimenticando però come "esperienziale" e "sperimentale" non siano affatto la stessa cosa, né richiamino gli stessi principi e componenti/facoltà dell'agire umano, ma rimandino a due diversi 'centri' d'interesse e conseguente elaborazione del 'dato reale': il soggetto che 'fa esperienza' o l'oggetto sottoposto ad esperimento; secondo il paradigma sin qui argomentato.
Un vero peccato sotto il profilo logico, poiché se -come lui stesso riporta- "l'esperimento è il metodico interrogare la natura, che presuppone e richiede un linguaggio in cui formulare le domande e un vocabolario che ci permetta di leggere e interpretare le risposte. [E poiché] secondo Galileo, com'è noto, dobbiamo parlare alla natura e ricevere le risposte in curve, cerchi, triangoli, in linguaggio matematico o più precisamente geometrico - non nel linguaggio del senso comune o in quello dei simboli", con certezza assoluta questo non può essere attribuito né ad Aristotele, né alla sua Scienza, né al suo metodo e neppure ad alcuno dei suoi discepoli... e tanto meno si può parlare per essi di vera 'induzione'! L'apporto dell'esperienza Altro elemento che occorre considerare in queste riflessioni è l'estrema differenza esistente -non valorizzata però dagli scolastici- tra 'esperienza' ed 'esperimento', tra 'esperire' e 'sperimentare': la semplice esperienza lascia sensazioni ed emozioni da ricordare, riferire ed elaborare quanto a significati per il soggetto, non 'dati' da misurare e confrontare quanto a funzionalità dell'oggetto, come invece avviene per l'esperimento. Le due 'causalità' che ne derivano sono totalmente differenti: ontologica (strutturale) la prima ("perché?" = secondo quale significato), funzionale la seconda ("in conseguenza di quale altra 'azione' previa?").
Il c.d. realismo, aristotelico e tomistico (soggettuale), è un riferirsi all'esperienza nella puntuale concretezza e fattualità di ciascuna esperienza vissuta dal soggetto (= esistenza), tanto unica che ripetuta nel tempo; quello galileiano (oggettuale) è invece la deliberata volontà di non staccarsi dalle 'risposte' che l'oggetto di ricerca fornisce alle 'interrogazioni' sperimentali cui viene sottoposto: emerge ancora una volta la differenza e la non conciliabilità tra i due paradigmi gnoseologici.
Il permanere, tuttavia, e radicalizzarsi dell'approccio bivalente all'esperienza (soggettuale, oggettuale) costringe ad indirizzare la riflessione verso i presupposti della conoscenza umana, soprattutto nei suoi passi iniziali per cercare una risposta convincente alla possibilità di 'gestire' una contrapposizione così radicale.
Nulla quæstio a riguardo dei cardini del realismo gnoseologico: le cose "sono" (realismo) e noi le cogliamo in modo sostanzialmente adeguato (cognitività); ciò che attribuiamo alla struttura e funzionalità delle cose non è pura e semplice rappresentazione intellettuale intra-soggettiva ma possiede un'effettiva corrispondenza alla loro realtà (adæquatio).
L'altra grande 'certezza' condivisa riguarda la 'porta' attraverso cui l'uomo accede al reale: la c.d. esperienza sensoriale; senza le sensazioni prodotte dai sensi nell'incontro con la realtà, non potrebbe esserci conoscenza alcuna, poiché l'uomo risulterebbe completamente 'isolato' rispetto alla realtà stessa di cui non avrebbe neppure 'idea', potendosi percepire forse soltanto -cartesianamente- nel proprio ripiegamento (fetale) sull'azione stessa di 'pensare'.
È tuttavia al momento di partire da queste 'sensazioni' attribuendo loro 'significati' e/o 'misure' che diventa necessaria la corretta individuazione della strada da percorrere per giungere ad un'adeguata conoscenza: il realismo gnoseologico infatti, ponendosi al livello di 'premessa', non pare implicare ancora una specifica ed esclusiva modalità di conoscenza. Le singole modalità conoscitive, invece, dovranno sottoporsi alla verifica di tale presupposto per vagliare la propria affidabilità gnoseologica.
Proprio in questa specifica 'fase' del processo cognitivo pare porsi il vero problema che discrimina tra il modello soggettuale e quello oggettuale della conoscenza: il rapporto tra 'comune percezione/conoscenza ordinaria' (dei diversi soggetti) e 'conoscenza induttiva' (degli oggetti).
Per ciò che si prende in considerazione dal punto di vista della Filosofia e della Teologia la 'comune percezione/conoscenza ordinaria' -spesso impropriamente identificata con l'induzione- assicura un sufficiente rapporto e raccordo con la 'realtà' (realismo); ciò risulta sufficiente per cogliere il concetto e la portata del 'senso' ed introdurre nel campo proprio di tali Discipline: la verità ed i significati, ai quali ben si addice un sistema gnoseologico basato su percezione-concettualizzazione-deduzione. Tale sistema si caratterizza però per un rapporto sensoriale con la 'realtà' che valorizza la 'globalità percettiva' rispetto alla sua 'metodica', privilegiando la 'ricchezza' percettiva rispetto alla sua 'precisione': un 'vedere' più che un 'osservare'.
Proprio per questo si è indicato tale paradigma gnoseologico come 'lirico'; in esso, infatti, il soggetto provocato dall'incontro spesso 'sproporzionato' con la realtà reagisce a 360 gradi, sull'intero orizzonte delle sue potenzialità recettive interrogando se stesso sulla portata e significatività di queste sensazioni, sollecitato dallo stupore (del bello) ed interrogato dal 'perché?' (della sofferenza).
Lo stesso non vale invece per la conoscenza induttiva 'moderna', che richiede sempre un profondissimo atto d'intelligenza critica, spesso contrario alla stessa 'conoscenza ordinaria' (com'era la concezione geocentrica tolemaica). Per la Scienza moderna non ci si può infatti accontentare di una concezione 'statistica' dell'induzione, come se si trattasse di una semplice operazione matematica dal risultato in qualche modo 'necessitante', come sembrerebbe indicare il pensiero di F. Bacone.
"Agli inizi del secolo XX, profeticamente, Pierre Duhem scriveva: "La Fisica progredisce perché l'esperimento porta alla luce di continuo nuove discordanze tra i fatti e le leggi, e perché i fisici ritoccano e modificano costantemente le leggi in modo che rappresentino sempre più fedelmente i fatti". Non bisogna irrigidire e assolutizzare questa forma di relazione tra teoria ed esperienza, o relativizzare i dati degli esperimenti, mettendo in discussione il metodo sperimentale, quanto piuttosto di riconoscere che l'accumulo di dati sperimentali non costituisce una teoria".
L'induzione vera si caratterizza per qualcosa di più rispetto alla semplice generalizzazione: si tratta non di 'calcorare' ma di 'cogliere' il legame tra i fatti osservati e -soprattutto- di sintetizzarlo in concetti ed ipotesi che permettano qualche forma di 'verifica' sperimentale. Come suggeriva W. Whewell (1794-1866): occorre anche 'fantasia', poiché "il collegamento tra i dati di fatto viene raggiunto per mezzo dell'intuizione creativa degli scienziati, e non per mezzo dell'applicazione di specifiche regole induttive"; perciò B. Lonergan parla di 'atto d'intelligenza'.

Il sapere 'ecclesiastico' medioevale Non è probabilmente inutile, qui giunti, un (pur) semplice richiamo alle logiche strutturali e funzionali della formazione che per oltre un millennio è stata impartita agli ecclesiastici europei con riferimento, almeno nominale, alla mediazione tomistica dell'Aristotelismo: è infatti da questa consapevolezza che diventa possibile capire il formarsi e consolidarsi di un modo di pensare ed agire che va ben oltre la semplice individuazione teoretica del concetto di 'Scolastica'.

L'impostazione tardo-romana del sistema scolare (Trivium - Quadrivium), approdato poi all'Età di mezzo, fissò per lunghi secoli la concezione del sapere sostanzialmente mutuata dalla grecità classica, in un'oscillazione periodica tra aristotelismo e platonismo che -come già illustrato- non comportava però il cambio del paradigma gnoseologico di riferimento: monismo o dualismo, universalia ante res o universalia in rebus delineavano due differenti 'sistemi' teoretico-concettuali di riferimento ma non mutavano affatto la concezione epistemica comune ai due antichi maestri (il formalismo deduttivo).
Nel sistema scolare romanistico solo gli uomini liberi potevano dedicarsi alle Artes liberales (appunto) senz'essere gravati dal peso della dura sottomissione alla realtà delle 'cose' e del lavoro quotidiano: il tempo/spazio per lo 'studio' era l'otium; e lo strumento pressoché universale per tale 'studio' il 'discorso', la parola. Trivium e Quadrivium esprimono e realizzano in modo chiaro la concezione gnoseologico-epistemica lirico-deduttiva già delineata.
Nelle Artes del Trivium -significativamente dette sermocinales- si procedeva attraverso il 'discorso' e l'argomentazione: tutto -anzi- era funzionale al discorso ed alla sua efficacia tanto che la stessa 'sofia' (sapienza) era ben presto diventata 'logia' (discorso).
Nel Quadrivium era la Matematica a farla da padrona attraverso il proprio metodo formale e rigidamente deduttivo: dati i principi primi tutto il resto ne derivava per (semplice) deduzione logica.
Assolutamente adeguato (e sottomesso) a queste premesse 'fondative' fu lo sviluppo della c.d. Scolastica quale nuovo sistema globale di docenza e formazione che andò gradualmente sostituendosi alle Artes liberales delle scuole monastiche e palatine col diffondersi dal XII secolo delle nuove scuole e soprattutto delle Universitates con la loro innovativa articolazione dell'insegnamento in Scientiæ (Discipline del vero, del certo, del necessario) ed Artes (trattazione del verisimile e dell'opinabile); senza tuttavia rinunciare in nulla alla struttura dialettico-argomentativa dell'insegnamento e della conoscenza che aveva caratterizzato i secoli precedenti.
Nel nuovo orizzonte didattico-formativo -soprattutto ecclesiastico- Diritto, Teologia e Filosofia iniziarono la propria 'ascesa contenutistica' non più in modo complementare alle vecchie Artes sermocinales, ma senza distaccarsene sotto il profilo metodologico. L'argumentatio rimase l'espressione principe di queste Discipline che trovavano nella Dialettica il proprio strumento metodologico di base, riducendo tanto la docenza che la Scienza a Questiones e Sententiæ.

Non deve trarre in inganno, in questa cornice, la forte presenza della Matematica sia all'interno del sistema scolare greco-romanistico (cardine metodologico del Quadrivium) che in quello scolastico medioevale: l'approccio galileiano infatti alla Matematica, ed il suo utilizzo intensivo nella Scientia nova, non ha nulla a che vedere con l'utilizzo della stessa secondo il paradigma gnoseologico sin qui delineato. Mentre, infatti, per gli 'antichi' la Matematica rappresentava un'espressione privilegiata del rigore logico-deduttivo (applicato ad un certo tipo di 'fenomeni' come, p. es., Musica ed Astronomia) privilegiando un suo utilizzo funzionale, per Galileo essa rappresenta invece la 'struttura' ed il 'linguaggio' espressivo della stessa realtà creata, attraverso cui può fruttuosamente instaurarsi il rapporto -induttivo-sperimentale- tra il ricercatore e l'oggetto materiale della ricerca/conoscenza/Scienza. Non per nulla lo stesso Galileo, tutt'altro che digiuno di Filosofia (e Teologia), si professa 'pitagorico' quanto a concezione della realtà, cosa del tutto esclusa per platonici ed aristotelici per i quali prevale la 'logica formale' del ragionamento.
La matematizzazione delle Scienze moderne si esercita 'dal basso', a partire dalle 'misure/misurazioni' dell'oggetto materiale di conoscenza e non 'dall'alto' quasi si potesse 'calcolare il risultato' del proprio pensare/argomentare, come invece accadeva spesso di sillogismo in sillogismo e da una causalità all'altra.
Senza dubbio anche questo riferimento equivoco alla Matematica ha contribuito alla non comprensione, per parte ecclesiastica, del radicale cambio di paradigma gnoseologico proposto ed attuato dalla Scientia nova.

Ulteriore motivo di 'distanza' tutt'altro che formale tra i due paradigmi gnoseologici (ed epistemici) va riconosciuto in modo crescente nel tempo al fatto che "la Scienza -più o meno indirettamente- a causa del suo metodo ha atteggiamenti culturali per certi versi opposti alla mentalità religiosa come: il primato dato all'esperimento o all'osservazione, l'atteggiamento critico di fronte alle proprie dottrine (teorie), il venir meno la convinzione di poter giungere a scoprire il perché ultimo dei fenomeni naturali, la disposizione ad affrontare i problemi in modo settoriale e parcellizzato. Sono questi tutti aspetti che alimentano un orientamento culturale estraneo al criterio di accoglienza della Rivelazione, della verità rivelata e del dogma; nonché a quella assenza di verifica e sperimentazione su cui a volte può basarsi una data realtà religiosa. [...] Le ragioni concettuali e storiche di questi contrasti, sono generalmente legate a difficoltà di comprensione e d'intesa fra gli spazi concettuali di una tradizione culturale -entro la quale la fede religiosa aveva trovato le categorie per esprimersi- e la rottura di alcuni quadri concettuali che le nuove discipline scientifiche stavano producendo".

Ciò detto, tuttavia, è necessario riconoscere come alcuni passi oltre il solo 'realismo gnoseologico' -anche se non ancora oltre il conseguente per causas scire- si fossero già prefigurati dal XII secolo con quella che M.D. Chenu ha chiamato la "scoperta della natura". Secondo lo storico Domenicano, infatti, gl'inizi del nuovo millennio cristiano furono caratterizzati da un deciso risveglio dell'attenzione verso il mondo 'circostante' sollecitato soprattutto dal ricupero (anche attraverso lo studio delle opere di Boezio) dei testi platonici -il Timeo in particolare-; in tal contesto una nuova visione del mondo iniziò a spingersi ben al di là del luogo comune poetico od oratorio, innestando negli ambienti colti (anche ecclesiastici) una curiosità scientifica sempre più vivace.
"Non siamo ancora, naturalmente, alla scossa provocata alla fine del XII e nel XIII secolo dalla scoperta della Scienza aristotelica e araba; ma già si leggono le opere degli antichi sulla natura, sia quella vivente che quella degli astri; ed è noto che a Chartres il quadrivium, quadro enciclopedico delle Scienze, è coltivato nella stessa misura del trivium, quadro enciclopedico delle lettere, se così si può dire con linguaggio moderno. Assalonne di San Vittore, tipico rappresentante della crisi "mistica" della sua abbazia, protesterà contro queste curiosità per "la forma del globo, la natura degli elementi, la collocazione delle stelle, la natura degli animali, la violenza del vento, la vita delle piante e delle radici". Se gli artisti dei bestiari simbolici e mostruosi si trovano in concorrenza con i naturalisti che sui capitelli delle cattedrali scolpiscono minute scene animali o umane, è perché ormai, nelle scuole e nella vita, gli spiriti sono stati risvegliati al realismo di queste osservazioni".
Ciò tuttavia, come già visto, non sarà ancora in grado di sovvertire il paradigma gnoseologico dominante, anzi, proprio l'affermazione a partire dal XIII secolo della 'Scienza' aristotelica imporrà un significativo arresto a tale processo (forse già primitivamente 'oggettuale'), 'forzando' all'interno del nuovo schema sistematico e metodologico il nuovo corso gnoseologico al quale ormai il palinsesto teoretico platonico non bastava più.

Il sapere 'ecclesiastico' del XX secolo Circa la concezione ecclesiastica della conoscenza e della Scienza nel Novecento occorre riconoscere da subito com'essa sia giunta ad una fase -che solo parzialmente potrebbe essere indicata come- 'empirica' soltanto in tempi recentissimi, e non in ogni sua componente.
Fino alla maggior parte del XX secolo in ambito ecclesiastico (sostanzialmente teologico ed in parte filosofico) non ci si era infatti mossi dal paradigma 'soggettuale' tipico della Scolastica, riproposta per lunghi secoli fino alla 'imposizione' magisteriale della Neo-scolastica alla fine dell'Ottocento in piena 'Crisi modernista'. Va riconosciuto tuttavia, ad onor del vero, che nel contesto filosofico-teologico la maggior parte delle problematiche di origine 'empirica' che avevano costretto -in modo endogeno- le Scienze naturali al cambio di paradigma già dal XVI secolo non si giustificava affatto: il sapere teologico, infatti, godeva di un singolare 'beneficio' -che ne costituisce al contempo la 'croce' metodologica-: la sostanziale coincidenza dell'oggetto materiale (la Rivelazione) e del punto di vista (quello teologico); ne è derivata una forte sovrapposizione di piani che, a causa della troppa omogeneità concettuale e semantica, ha impedito di cogliere quelle che, invece, erano autentiche differenze o addirittura problemi irrisolvibili sotto il profilo metodologico e cognitivo.
Su questa base la maggior parte della Teologia (dogmatica) continuò il proprio approccio 'intellettuale' alla Rivelazione utilizzando gli strumenti della speculazione formale ereditati dall'aristotelismo attraverso la Scolastica e senza porsi sostanzialmente problemi di 'metodo', che cominciarono ad affacciarsi seriamente -ed in modo estrinseco- solo ai tempi del Concilio Vaticano II. La Neo-scolastica per di più, recepita ed applicata in modo spesso ingenuo e grossolano, aveva portato molti ecclesiastici ad un'identificazione di fatto della logica 'scientifica' con quella formale, dimenticando come invece lo stesso S. Tommaso fosse stato di vedute ben più ampie ...e 'realiste'; ne è prova (per rimanere nell'ambito giuridico di nostra competenza) la distinzione tra logica deontica e logica formale conosciuta dall'aquinate ma generalmente non recepita dalla quasi totalità degli autori (teologi e canonisti) ecclesiastici del secolo scorso.

È questo, probabilmente, il maggior snodo da considerare sotto il profilo più strettamente epistemologico: la percezione e concezione di ciò che delinea (ancor oggi in molti casi) il concetto di conoscenza e pertanto di 'Scienza' nell'ambiente ecclesiastico.
La posizione 'scolastica' non risulta più sufficiente a risolvere -e neppure ad impostare- efficacemente il problema, poiché il semplice definire come Scienza una "conoscenza rigorosa a partire da determinati principi" (principio di coerenza formale) non offre nessuna possibilità d'incontro e relazione con ciò che diffusamente costituisce ormai il concetto di Scienza, tutto imperniato sulla centralità -assoluta- dell'obiectum cognoscentiæ/obiectum formale quod, concretizzato metodologicamente nell'applicazione del c.d. procedimento scientifico in senso ampio e strutturale.
"Quando parliamo di procedimento scientifico [scrive il Gesuita N. Spaccapelo sulla scia di B. Lonergan] non ci riferiamo a ciò che distingue una Scienza dall'altra ma a ciò per cui tutte sono Scienze, nonostante le diversità degli oggetti considerati. Nello sviluppo di ogni Scienza particolare c'è un procedimento che è essenzialmente identico a tutte e che, perciò, si può chiamare procedimento scientifico.
Lo scienziato, in primo luogo, parte sempre dall'osservazione empirica.
In secondo luogo, la tensione della ricerca e dell'indagine culmina in un atto d'intelligenza. Questo momento dell'intelligenza è centrale in tutto il procedimento scientifico: ogni volta che si chiede il "perché" di qualche cosa si cerca una ragione, un motivo che spieghi un certo fenomeno. Cogliere tale ragione o motivo è capire, avere un atto di intelligenza.
In terzo luogo, una volta capito e perché ha capito, lo scienziato elabora ciò che ha capito e lo formula in una ipotesi.
In quarto luogo, c'è la verifica. Principio fondamentale del procedimento scientifico è di non accettare alcuna teoria o ipotesi che non sia verificata con opportuni esperimenti.
In quinto luogo, c'è la legge scientifica. Se l'ipotesi è verificata in un numero sufficiente di esperimenti, se tale teoria non è solo coerente con i dati del problema o gli aspetti del fenomeno, ma anche aiuta alla soluzione di altri problemi o apre la strada ad applicazioni tecniche, allora la teoria diventa legge scientifica.
Tali sono, dunque, le parti o i momenti del procedimento scientifico: l'osservazione, l'indagine che porta all'intelligenza, la formulazione in ipotesi di ciò che si è capito, la verifica dell'ipotesi, e, se la verifica è positiva, la conversione dell'ipotesi in legge scientifica".

Nella prospettiva sin qui delineata, una conoscenza anche -ma solo- 'rigorosa' in chiave tuttavia 'soggettuale' non potrebbe pertanto uscire dai confini di un sistema teoretico 'logico-proposizionale' -del tipo, p. es., delle Matematiche- per guadagnarsi il riconoscimento di Scienza.
Ancora una volta si pone la necessità di passare da una prospettiva 'soggettuale' ad una 'oggettuale' in cui il 'rigore' venga inteso non in semplice chiave 'logica' (quasi unicamente come non-contraddizione all'interno del percorso argomentativo del soggetto ricercante/conoscente) ma in chiave 'empirico/esperienziale': non-falsificazione delle conclusioni raggiunte attraverso l'itinerario dimostrativo intrapreso partendo dai 'dati di fatto' disponibili, anche se ciò fosse a livello di Rivelazione cristiana ...come dev'essere per la Scienza teologica.
È significativo che autori del calibro di J. Gevaert accolgano come definizione descrittiva di Scienza quella già proposta da A. Lalande nel suo "Dizionario critico della Filosofia": "insieme di conoscenze e ricerche aventi un grado sufficiente di unità, di generalità, e suscettibili di condurre gli uomini che vi si dedicano a conclusioni concordanti le quali non risultano da convenzioni arbitrarie, né dai gusti o dagli interessi individuali che sian loro comuni, bensì da relazioni oggettive che gradualmente vengono scoperte e confermate da metodi di verifica definiti".

Ad accompagnare e 'confermare' l'approccio non-oggettuale degli autori ecclesiastici del secolo scorso contribuì non poco il permanere del giudizio di problematicità a carico dell'approccio gnoseologico esperienziale, tacciato troppo semplicisticamente di 'soggettivismo' e tenuto, pertanto, ben distante dalle vie normalmente frequentate da filosofi e teologi cattolici, almeno fino al Dopoguerra. A questo proposito vari autori di rilievo (Mouroux, Kasper, Moioli) hanno rilevato e 'denunciato' negli scorsi decenni il forte clima di sospetto maturato a partire dagli inizi del Novecento nei confronti dell'esperienza nel timore che, esaltando il 'soggettivo' della fede (Teologia liberale protestante e Modernismo cattolico), si recasse nocumento alla sua 'oggettività', di fatto del tutto teoretica poiché basata su infiniti cicli deduttivi prima che sulle 'fonti'.
Molla del nuovo corso 'empirico' -dove si verificò- fu proprio la riscoperta delle 'fonti' operata soprattutto dai Movimenti preconciliari di rinnovamento: liturgico, patristico, biblico, ecumenico; la nuova disponibilità di 'dati' offerta dal rinnovato interesse per le 'fonti' antiche e la loro valorizzazione non-argomentativa ma sostanziale permise di uscire dalla logica speculativa formale -asettica ed impersonale- per ricuperare una dimensione della ricerca più vicina agli apporti positivi della Modernità.
Il Concilio Vaticano II ha sancito in modo irreversibile il nuovo status quo gnoseologico anche per l'ambito ecclesiastico tanto con l'accoglienza del c.d. Metodo storico-critico nell'approccio alla S. Scrittura (DV 12), che nella rivalutazione delle 'fonti' (patristiche in particolare), che nella legittimazione teoretica della giusta autonomia delle realtà creaturali e del loro studio (GS 36).

Queste considerazioni sarebbero tuttavia 'monche' se si trascurasse la forte istanza 'dialettica' che ha caratterizzato -essa pure- il cuore stesso dell'ambito teologico (anche cattolico) nel secolo scorso. Si tratta del netto rifiuto espresso in modo emblematico (anche se non esclusivo) dal teologo protestante K. Barth nei confronti della 'ragione' quando si tratti di questioni di 'fede'. La posizione 'dialettica' è chiara: "Diem si pronuncia contro il "presupposto che la Teologia abbia in comune con le altre Scienze lo stesso concetto della veritas, sì che risulti possibile [...] stabilire un rapporto con la Scienza dell'uomo naturale". [...] La Teologia non sarebbe fedele alla sua realtà, ove "impiegasse un concetto di Scienza comune anche alla Filosofia". Ciò nonostante, Diem dà valore al fatto che la Teologia è una Scienza. Deve essere, però, una Scienza "ecclesiastica", come dice il titolo della sua opera. In perfetta consonanza con Karl Barth, Diem afferma che la Teologia è una funzione della Chiesa. La Teologia potrebbe situarsi in un "universo delle Scienze" solo "se tutta la Scienza venisse trattata a partire dalla fede nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo". Ma siccome non è così, la Teologia è costretta a considerarsi una "Scienza speciale"".
Un atteggiamento 'nominalistico' che permette di non assumersi la responsabilità -inaccettabile sia storicamente che attualmente- di affermare che la Teologia non è 'Scienza', ma che continua a proclamare la legittimità del suo non adeguamento al c.d. procedimento scientifico creando l'assurdo concettuale (aporia) di una Scienza non-scientifica.
L'influsso di tale posizione anti-razionale (in senso moderno) anche in ambito cattolico non può esser trascurato, legittimando come dall'esterno i risultati delle tendenze più esistenzialiste (ma ancora del tutto intellettuali) che continuavano ad evitare ogni incontro e rapporto con il mondo della vita quotidiana nella sua 'oggettualità'.
Dalla stessa linea non-oggettuale non si possono escludere gli apporti che lungo l'ultimo secolo alcuni settori della Teologia cattolica centro-europea hanno creduto dover mutuare dall'esperienza e tradizione ortodossa, decisamente intellettualistica e 'soggettuale'. L'immensa portata (e credito) dell'opera di H.U. von Balthasar anche nella Teologia e Filosofia cattolica di questi decenni consolida tale posizione.

L'oggetto materiale L'affermarsi -istituzionale- nel secolo scorso delle prospettive neo-scolastiche in ambito teologico-filosofico ha indotto un vero -per quanto inconsapevole- 'blocco' di formazione e crescita della coscienza epistemologica di molti ecclesiastici, spesso ancora incapaci di uscire dalle strettoie della visione 'soggettuale', deduttiva e formale della conoscenza e della Scienza.
Ne rende chiara ragione la persistente difficoltà di molti ecclesiastici nell'individuare correttamente gli statuti epistemologici delle diverse Discipline e forme di conoscenza, come ben appare anche da recenti interventi di illustri ricercatori e pubblicisti.
Solo per esemplificare: nella propria relazione al Seminario "La visione del mondo e dell'uomo tra Scienza e fede" (Frascati 18-20 maggio 2000) il fisico A. Strumia, pare non cogliere l'aporia di fondo sottesa all'impostazione epistemologica di cui si fa portatore. Egli infatti non considera per nulla la 'consistenza' propria dell'oggetto materiale delle singole Discipline ma riduce tutto al semplice 'punto di vista' per cui "ciascuna Scienza appare irriducibile ad un'altra in quanto dotata di un punto di vista assolutamente proprio". A suo dire, Biologia, Chimica e Fisica risulterebbero differenti in ragione del diverso 'punto di vista' (obiectum formale quo), senza riconoscere che, in realtà, ad essere del tutto diversi -e pertanto giustamente incommensurabili o 'irriducibili'- sono invece i loro 'oggetti materiali' (obiectum formale quod).
Lo 'stallo epistemologico' della persistente impostazione 'soggettuale' impedisce all'autore di accorgersi che sono gli 'oggetti materiali' a costituire i confini invalicabili dell'individuazione delle Scienze: la Biologia -in questo suo esempio- studia solo ciò che vive (o potrebbe strutturalmente farlo), la Chimica solo le strutture molecolari, la Fisica solo quelle sub-atomiche o cosmiche. Non si tratta di 'punti di vista', ma di realtà assolutamente diverse e spesso neppure contigue (come Biologia e Fisica), per quanto non indipendenti.

A monte di ciò occorre non trascurare come anche l'oggetto materiale della Teologia (la Rivelazione in generale) era risultato per lunghi secoli tutt'altro che univocamente definito: per buona parte del Medio Evo, infatti, il concetto di 'ispirazione' da applicarsi al testo biblico e alle altre 'fonti' della Tradizione non era stato per nulla univoco né chiaramente definito a livello dogmatico (operazione iniziata a Trento e conclusa dal Vaticano II), al punto che gli stessi Padri della Chiesa erano considerati ispirati in modo simile agli agiografi biblici, aumentando così a dismisura la mole di 'dati' indubitabili dai quali far originare le proprie deduzioni teologiche. Non per nulla dopo il Concilio di Trento il Domenicano M. Cano (1509-1560) tenterà di porre un poco d'ordine nell'immenso arsenale teologico del tempo fissando ed ordinando gerarchicamente le 'fonti' della Teologia nei c.d. loci theologici.

A questo si aggiunga un altro 'cardine' della conoscenza medioevale: l'argumentum ex auctoritate che regnò quale principio gnoseologico ed epistemico sovrano fino alla Scientia nova, egemonizzando l'intero Medio Evo. "Nella pedagogia medioevale, sempre più cosciente nel XII secolo, tutte le Discipline, scientifiche come letterarie o filosofiche, si costruiscono a partire da testi di base, riconosciuti come miniera della materia da elaborare. Pedagogia comune ad ogni trasmissione scolastica del patrimonio culturale, ma inoltre, in questo periodo di rinascita attiva, di scoperta delle opere antiche, curiosità avida, che, sotto la seduzione dei modelli antichi, suscita un'imitazione insieme candida e ragionata. Da Donato in Grammatica ad Aristotele in Metafisica, la cultura si farà su dei testi, considerati come i maestri del ben pensare e del ben dire: sono delle "autorità", e i loro enunciati sono "autentici"".
Non va dimenticato in quest'ottica come nel Medioevo l'impostazione di ogni insegnamento -e tutti i quadri della cultura- fosse organizzata da chierici; la civiltà nasce nella Chiesa: si tratti della corte di Carlo Magno, delle scuole monastiche alto medioevali, delle scuole comunali del XII secolo, o delle Università del XIII, l'iniziativa e l'ispirazione partono da membri della Chiesa e l'insegnamento è polarizzato dai fini religiosi, dalla potenza spirituale di una concezione cristiana dell'uomo e del mondo. È dunque normale che la Teologia sia la Scienza suprema, essa però è la Scienza di un libro, la Bibbia. Lo è di diritto poiché trova in questo libro la Parola di Dio, la sua Rivelazione; lo fu di fatto, poiché l'insegnamento si stabilì spontaneamente sul testo di questa Parola di Dio e sulla collazione dei testi di una tradizione che l'interpreta, agglutinandosi intorno ad esso.
L'autorità, le "autorità", sono la legge del suo procedere, tanto che la Teologia per lunghi secoli rimase -solo/pressoché- 'commento/confutazione' alle Sententiæ o risposta alle Quæstiones, senza la più pallida idea che si potessero/dovessero studiare le 'fonti' della Rivelazione in quanto tale. Così, a partire dalla Teologia -primo sapere costituitosi autonomamente già prima della fase 'universitaria'- si compose una pedagogia che, senza giungere ad un autoritarismo di principio, abituò però l'intelligenza medioevale a procedere allo stesso modo negli altri insegnamenti, degradandone spesso l'autonomia del metodo 'proprio'. L'intangibilità del presupposto cognitivo 'autoritativo' non fu messa in discussione neppure dall'adozione sistematica del metodo 'dialettico': la Scolastica infatti impose a se stessa la ricerca dell'armonizzazione e della concordia tra le Auctoritates, anziché la verifica critica della loro attendibilità e fondatezza; in questo contesto fino al Rinascimento "si sosteneva che qualunque opinione, se fosse stata appoggiata da un antico, poteva esser vera, ma che non poteva meritare rispetto un'opinione che non fosse stata mai sostenuta da un antico".

Come già segnalato però, una certa linea di progresso in direzione 'oggettuale' aveva iniziato a delinearsi anche all'interno della Teologia già in piena Scolastica: Alberto Magno (~1200-1280) infatti, nell'indagine sulle c.d. causæ naturales, riteneva più sicure le prove basate sulla percezione sensibile rispetto al ragionamento senza sperimentazioni; nella stessa linea si era sviluppata la c.d. Scuola inglese di R. Grossatesta (1175-1240) e R. Bacone. Con J. Buridano (1290-1358) si ebbe addirittura un sorprendente anticipo del 'metodo empirico' moderno: "mi sembra di dover sostenere questa tesi, dal momento che altre tesi non mi appaiono vere, mentre rispetto ad essa tutti i fenomeni sono conformi [consonant]".

Un deciso passo avanti si era avuto anche come parziale risposta alle istanze della Riforma protestante (negli stessi decenni del fiorire della Scientia nova di Galileo) attraverso la distinzione, almeno teorica, tra 'Teologia storica/positiva': il 'dato' della fede e 'Teologia speculativa/sistematica': la sintesi di fede. Si trattava della distinzione, concettualmente pregnante, tra "auditus fidei" ed "intellectus fidei", distinzione che non riuscì però a generare frutti epistemologicamente apprezzabili a causa del permanere dell'insufficienza della concezione 'formalistica' della Scienza scolastico-aristotelica.
Va tuttavia significativamente rilevato come sia stato proprio l'affermarsi di un 'altro' punto di vista 'soggettuale' (quello protestante) a rendere necessaria nella Chiesa cattolica una maggior aderenza ai 'fatti' della Rivelazione: un necessario ritorno all'obiectum quod nella sua specifica e puntuale consistenza storica per non perdere la propria identità a causa dello stravolgimento del sistema dei principi fondamentali indubitati del Cattolicesimo posto in radicale crisi dalle 95 Tesi di Wittemberg.
Nella prospettiva scolastica infatti -ormai consolidatasi da cinque secoli- il 'dato' rivelato, accolto in modo deduttivo quale insieme di principi teologici rivelati da Dio stesso, non permetteva nessuna lettura della concretezza dei dati biblico-magisteriali nella loro consistenza propria, ma solo la 'dichiarazione' di 'contenuti' irriducibili dai quali dedurre risposte alle più diverse esigenze della vita di fede.
La grande prossimità dei due 'oggetti formali' della Teologia (quod e quo) e la prospettiva 'soggettuale' sottesa finivano inoltre per identificare la Teologia col momento 'intellettivo' della sintesi dottrinale, lasciando di fatto all'investigazione dei 'dati' della fede un semplice ruolo di conferma a posteriori. Ciò porta a dover riconoscere un ulteriore slittamento e confusione tra i termini della questione con una prevalenza pressoché assoluta della proposta teologica sistematica rispetto ai dati della Rivelazione/Tradizione: la Teologia è la sistematica e questa s'identifica con la Teologia scolastica, finendo per sostituirsi -di fatto- alla Rivelazione stessa e generando la convinzione che non sia possibile altro modo di pensare e conoscere che quello così sancito. La proposta sistematica (intellectus fidei) s'identifica così con la Scienza teologica stessa trasformandola in un vero 'punto di vista' (obiectum formale quo) del tutto staccato dall'oggetto proprio d'indagine della Scienza teologica: i dati della Rivelazione.

Si deve così giungere a sottolineare nuovamente la carenza di chiarezza e consapevolezza epistemologica in cui la questione continua a rimanere impantanata; la concezione della Scienza infatti non è più oggi di carattere 'formalistico' quanto piuttosto 'procedurale': non è Scienza ciò che risponde a determinati principi logici per quanto rigorosi, ma ciò che applica il c.d. procedimento scientifico.
E non è sufficiente il 'rimando' all'oggetto proprio dell'indagine, come fanno spesso teologi e filosofi ecclesiastici, perché proprio su questo punto si concentra l'elemento di maggior debolezza epistemologica: quale "oggetto proprio" (quod o quo)? Fintantoché, infatti, la Rivelazione quale 'oggetto' proprio dell'indagine teologica è percepita in modo 'dogmatico' come semplice 'deposito' contenutistico 'chiuso' su se stesso, tale Teologia non è altro che un sistema logico-proposizionale a partire da asserti accettati per fede, come da assiomi indimostrabili nelle diverse Matematiche.
Solo una vera percezione 'storica' (incarnata) della Rivelazione permette di uscire dalla strettoia formalistico-deduttiva per utilizzare -come le altre Scienze- il paradigma induttivo ed il procedimento scientifico moderno, accostando la Rivelazione come un fatto che si esprime ed articola attraverso svariate manifestazioni (prima tra tutte la S. Scrittura) ma che deve essere 'estratto' nella sua componente contenutistica (dogmatica) dagli svariati rivestimenti 'incarnatori' che l'hanno innestata nella storia umana, in modo umano, cosa del tutto impossibile (non permesso) ai cattolici prima della Dei Verbum.

Una 'prospettiva' decisiva Volendo spingere più in profondità l'approccio metodologico alla ricerca di elementi sintetici che possano illuminare le dinamiche di base sin qui sommariamente illustrate, sembra possibile rilevare una 'prospettiva' tipicamente gnoseologica la cui portata trasversale potrebbe efficacemente dar conto di quanto proposto circa le posizioni ecclesiastiche del millennio scorso.
Si tratta della concezione 'unitaria' del reale che caratterizza e modella dal profondo il paradigma gnoseologico soggettuale: "la percezione dell'universo come un tutto, convinzione fondamentale già per gli Antichi ed ora [XII secolo] ripresa. Ne è un indizio decisivo la diffusione del termine universitas, usato in senso assoluto e astratto (e non universitas rerum), per designare "l'universo", nelle descrizioni o nelle riflessioni sistematiche. Senza dubbio quest'uso fu provocato dalla lettura di Scoto Eriugena, nel cui vocabolario il termine compare con questa accezione specifica; ma proprio questa origine ci spinge a riconoscere il significato cosmico, fra i molteplici usi semantici contemporanei (logico, giuridico, sociale, intellettuale). Non è la prima volta che, nella storia delle Scienze, l'idea di un mondo uno e consistente si forma grazie e nella religione. Percepire questo mondo come un tutto significa scoprirne già l'architettura profonda, il mondo delle forme al di là della serie di fenomeni visibili e sensibili. La totalità penetra così ciascuna delle sue parti: è un universo; Dio l'ha concepito come un unico organismo vivente e il suo modello intelligibile è un Tutto".

È questo concetto/presupposto unitario che permette alla Scientia antiqua -ed alla Scolastica, anche moderna- di reggersi nonostante un'efficacia tanto parziale delle metodologie formalistico-deduttive da essa adottate; proprio l'unitarietà del reale permette -e legittima- la conoscenza delle essenze e la ricerca regressiva delle loro causæ. È il dominio indiscusso e trascendente dell'universale che permette di configurare la Scienza come sua ricerca nell'orizzonte della causalità metafisica o come sua specificazione nell'orizzonte deduttivo che riconduce a ciascun particolare ciò che lo connota essenzialmente. È questa categoria di fondo che permette la sintesi ontologica di quanto la percezione sensoriale 'denuncia' -invece- come 'frammentato'.
Ma è proprio contro questo concetto/presupposto che pare essersi scagliata la Modernità e la Scienza a noi contemporanea nel suo progressivo ed irreversibile proporre quale 'dimensione' fondamentale del reale 'scientificamente' percettibile e percepito la 'complessità'.
In questo modo però l'unum reale che si presenta quale 'correlato' dell'umana conoscenza dev'essere distinto tra 'unicità' ed 'unità/unitarietà': la prima ammette complessità al proprio interno, la seconda no.
In altri termini: una concezione della conoscenza basata sulla precomprensione 'unitaria' del reale (universitas/universum) si troverebbe completamente spiazzata quando ogni particolare o esperienza non potesse esser ragionevolmente ricondotto a qualcosa di 'sintetico' e permanente (universalia ante/in); saremmo davanti ad un atteggiamento non cognitivo degno dei peggiori soggettivismi.
Al contrario una concezione del reale che si 'accontenti' della sua sola 'unicità' sarebbe già in grado di permettere conoscenza 'realistica' (res sunt) e 'critica' (res sunt heæ et sic), senza tuttavia escludere una 'complessità' del reale stesso, -solo o forse- ipotizzabile in linea di principio nell'antichità ma non più ignorabile dopo lo sviluppo tecnico-scientifico del XX secolo all'interno del quale -senza sufficiente consapevolezza gnoseologica- si tenta addirittura di parlare di 'multiversum'.
Ne deriva che mentre l'unicità del reale è condizione sufficiente per la conoscenza -possibile-; la sua unitarietà è condizione necessaria -solo- per la conoscenza 'classica' che non potrebbe scire per causas se le essenze non fossero 'omogenee', permettendo deduzione, analogia ed altre 'cognitività formali' non esperienziali.

Proprio all'interno di questa specifica alternativa -'unitarietà' o 'complessità' del reale- pare potersi collocare quello che risulta senza dubbio il maggior tentativo filosofico-teologico del secolo scorso di superare la staticità del sistema gnoseologico tardo/neo-scolastico (senza tuttavia contraddirne il principio più radicale): il bi-polarismo tensionale di H.U. von Balthasar.
L'autore svizzero è forse l'araldo più fiero dell'evoluzione post-scolastica della Teologia di fine millennio con la sua netta opposizione al formalismo disincarnato e -a modo proprio- razionalista del presunto ritorno a S. Tommaso; in fondo però il suo schema 'a coppie' ("opposizione polare") non esce dalla concezione 'unitaria' che continua ad alimentare un deduttivismo formale: dall'universum si passa alla 'coppia bi-polare/complementare' continuando di fatto a far riferimento ad un principio 'unitario' (la 'coppia' o il 'paradosso') nel permanente rifiuto della 'complessità' del reale che le Scienze moderne avevano ormai acquisito con definitività.
Concretamente questo tentativo 'estetico' di rifiutare il formalismo 'scolastico' non ha segnato l'acquisizione metodologica dell'esperienziale ('oggettuale') ma il riflusso in nuove forme di deduttivismo intellettualista ('soggettuale') sostanzialmente disincarnato, per quanto teoricamente appoggiato alla multiforme 'drammaticità' del vivere umano.
Dal punto di vista della caratterizzazione della conoscenza l'integrazione della 'tensionalità bi-polare' non coincide affatto con l'ammissione della 'complessità' del reale, né muta il paradigma gnoseologico, che da 'lirico' diventa 'drammatico'(!) ma pur sempre assolutamente 'soggettuale'. Un'allettante proposta (teologico-)fondamentale non implica necessariamente una corretta impostazione metodo-epistemica! Conclusione Al termine di questo lungo e complesso percorso, è necessario focalizzare con maggior puntualità la proposta interpretativa sin qui illustrata circa la difficoltà degli autori ecclesiastici dell'ultimo secolo a riguardo soprattutto della concezione del lavoro scientifico e dei suoi metodi, all'interno della posizione di grande riserva e forte diffidenza verso gli sviluppi metodo-epistemologici della Modernità che ha caratterizzato il Novecento ecclesiastico.

Nodo della questione è parso essere il differente paradigma di riferimento per la Gnoseologia 'classica' (e conseguentemente per Epistemologia e Metodologia), protrattasi fino alla Neo-scolastica, fissatasi in essa -e perdurante in opposizione ad essa-, e quella 'moderna', sviluppatasi dal XVI secolo fino ai giorni nostri. La differenza sostanziale tra le due impostazioni si manifesta principalmente nella diversa valorizzazione del soggetto conoscente: a) nel modello che diventerà quello scolastico tale soggetto è comunque l'unico elemento attivo che, partendo dall'esperienza sensoriale, svolge l'intero percorso cognitivo 'al proprio interno', ponendo a se stesso le domande e cercando nei 'principi' già conosciuti le risposte (logica formale); in tale concezione le cose materiali non rilevano che come 'spie' di presenza dell'elemento ontico (le essenze) che concretizza 'il reale' (le res); b) nel modello -che evolverà nella c.d. Scienza moderna- il soggetto conoscente attua, invece, una estroversione conoscitiva riconoscendo agli 'oggetti' percepiti un'importanza primaria: le cose materiali sono recepite come obiecta (= ciò che viene 'gettato' contro il soggetto ed a cui egli non può sottrarsi) e l'indagine si svolge nel continuo 'interpellare' le cose che avvengono (fenomeni) per avere informazioni circa il loro funzionamento, non rinunciando tuttavia al desiderio di raggiungere per questa via anche una conoscenza 'strutturale' della realtà stessa.
Questa posizione, in fondo, si è manifestata più 'realista' di quella 'classica': essa infatti non riguarda solo l'esistenza 'autonoma' delle cose e la loro conoscibilità (realismo gnoseologico) ma richiede di guardarle con attenzione, d'interrogarle, di sperimentare, per scoprirne i segreti più profondi ed imprevedibili secondo i 'principi' di ogni tempo.
Il primo paradigma -individuato come 'soggettuale'- distingue le diverse Discipline/Scienze in base al 'punto di vista' del soggetto (obiectum formale quo) mentre l'oggetto materiale d'indagine rimane sempre lo stesso: le essenze; il secondo paradigma -individuato come 'oggettuale'- opera tale distinzione in base all'oggetto materiale (obiectum formale quod) d'indagine e conoscenza: è la diversità degli oggetti d'indagine che differenzia le Scienze.
La ricaduta epistemologica è evidente: nel primo caso la Scienza s'identifica con la Logica e la ricerca scientifica con l'applicazione di 'modelli' logici rigorosi ai principi universali individuati -o 'scelti'- come basilari per la Disciplina in questione; nel secondo caso la Scienza assume un tenore critico (ipotetico), evolvendo in funzione delle conferme o smentite che gli 'oggetti di ricerca' recano alla 'sperimentazione' nei loro confronti.

Il contrasto gnoseologico-epistemico creatosi dai tempi di Galileo -e non ancora pacificamente risolto nei fatti- trova uno dei propri elementi cardine nell'errata identificazione di 'realismo' (gnoseologico) ed 'oggettualità' della conoscenza. Il vero problema non sta, nonostante le deviazioni di Cartesio, Kant, ecc., nell'Idealismo soggettivista secondo cui la realtà non esiste in sé ma esistono solo le nostre rappresentazioni di essa, ma nell'ammissione del valore conoscitivo delle 'cose' nella loro concretezza e 'completezza' (oggettualità) e non soltanto nella loro 'essenza', ciò che non significa sostenere la necessità di conoscere il 'singolo' -per altro inevitabile e fondamentale se si tratta di persone umane!- ma la consapevolezza di non poter separare la conoscenza umana dalla effettività e concretezza degli 'oggetti' che l'hanno originata e continuano a 'motivarla' conferendole significato e valore ...anche perché la conoscenza scientifica (moderna) non conosce gli 'universali' ma le 'leggi' che -molto probabilmente- regolano le relazioni tra le 'cose', la loro struttura, la loro fisiologia. Se è vero che "de individuo non est Scientia", non è meno vero che sine individuis non est cognoscentia.
Di fatto il realismo gnoseologico 'classico' secondo cui "res sunt" costituisce solo il primo passo, necessario ma non sufficiente, per inquadrare correttamente l'orizzonte in cui si articola e sviluppa oggi la conoscenza umana. Senza acquisire anche un realismo 'oggettuale' ("res sunt heæ et sic") non si giunge a quella che oggi par'essere a tutti gli effetti la conoscenza scientifica.
E proprio qui si pone, secondo le considerazioni illustrate in queste pagine, il crinale che continua a distinguere -e dividere- i due versanti della conoscenza attuale: filosofico-teologica da una parte, scientifica dall'altra; rivolta alla realtà in quanto 'ente' la prima, alla stessa realtà in quanto 'fatto concreto' la seconda.
Senza cadere nella 'necessità' di stabilire una graduatoria tra queste due modalità di conoscenza, va invece riconosciuta la radicale discontinuità -ma non opposizione o incomunicabilità- tra una conoscenza che rimanga totalmente 'interna' al soggetto, semplicemente stimolata dall'esperienza sensibile, ed una che prenda sul serio l'irriducibile unicità di ciascun 'fatto' (fenomeno) che cada sotto i sensi.

Ne segue, in definitiva, la necessaria constatazione della inadeguatezza del linguaggio utilizzato dalla maggior parte degli autori ecclesiastici del secolo scorso in ambito gnoseologico, epistemico e metodologico a causa del diverso 'valore' che i termini-chiave di questo genere di approccio al 'sapere' assumono all'interno dei due 'paradigmi' gnoseologici indicati: 'soggettuale' od 'oggettuale'.
Di conseguenza ogni loro affermazione che coinvolga i concetti di 'conoscenza', 'scientificità' e 'metodo' dovrà essere attentamente vagliata secondo l'utilizzo o meno del c.d. procedimento scientifico; così come ogni affermazione sul metodo non potrà evitare un serio confronto con l'istanza induttiva quale base necessaria per l'incremento gnoseologico.
In assenza di ciò, o non sarà possibile individuare correttamente a quale 'tipo' di 'sapere' ci si stia riferendo (scientifico, filosofico, teologico), oppure si renderà impossibile un vero dialogo tra le diverse 'tipologie' del 'sapere' stesso.
Gli sviluppi del Magistero ecclesiale in quest'ambito, dalla Dei Filius, alla Gaudium et Spes, a Fides et Ratio, non legittimano però nessuno di questi due esiti, tanto meno in ambito teologico.

Paolo Gherri (Teologia del Diritto canonico - PUL, Roma) P. Gherri


in: Ricerche Teologiche, XIX (2008), 97-148.