Arturo Cattaneo - Paolo Gherri

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La Canonistica a 25 anni dal CIC: impostazione, metodo e prospettive



NB: L’articolo nasce come traccia di lavoro proposta alla riflessione del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (GIDDC) in preparazione dell’attività promossa dal Coordinamento delle Associazioni Teologiche Italiane (CATI) a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II. Il testo è frutto di un dialogo fra i due autori che, pur trovandosi su impostazioni scientifiche piuttosto differenti, hanno qui rinunciato alle maggiori specificità in nome di una condivisione ritenuta più importante.


I. Aspetti storici

1. L’isolamento e l’impoverimento della Canonistica nei decenni precedenti il Vaticano II

Alla metà del Novecento la Canonistica si trovava in una situazione di grande isolamento sia ecclesiale che culturale soprattutto in conseguenza di diversi fattori provenienti in gran parte dalla società civile in cui si era diffusa una cultura giuridica razionalistica e positivistica –alimentata da correnti filosofiche più attente ai dati sperimentali e positivi che alla metafisica– spesso anche in chiaro e dichiarato contrasto con la Chiesa. Tali presupposti culturali favorirono lo sviluppo di una Scienza giuridica secolare di stampo positivistico accentuando, da una parte, il solco con la Canonistica e tentando, dall’altra, di trascinarla più lontano dalla Teologia.

Nella Canonistica preconciliare hanno predominato tre “Scuole” che, senza negare alcuni pregi, hanno però mostrato evidenti limiti scientifici che il Vaticano II e la riflessione scientifica successiva si sforzarono di superare.


a. La Scuola del Diritto pubblico ecclesiastico

Il Diritto pubblico ecclesiastico può considerarsi come la risposta a livello dottrinale giuridico da parte della Chiesa di fronte alle pretese assolutistiche degli Stati moderni ed agli errori diffusi dalla Riforma protestante. La risposta al primo problema diede luogo al cosiddetto Diritto pubblico ecclesiastico-esterno e consisteva nell’affermare l’indipendenza della Chiesa di fronte al potere statale, mentre la risposta al secondo problema diede luogo al Diritto pubblico ecclesiastico-interno, la cui preoccupazione centrale era l’affermazione della struttura gerarchica della Chiesa e soprattutto del primato del Romano Pontefice. Con il Diritto pubblico ecclesiastico la Chiesa cercò quindi di difendersi nei secoli XIX e XX dalle idee liberali, secondo le quali l’Ordinamento statale è l’unico perfetto e sovrano. I fautori di tale impostazione elaborarono il concetto di «societas iuridice perfecta» con il quale si indicavano quelle società che, in quanto «moralmente necessarie», avevano un fine proprio e tutti i mezzi necessari per conseguirlo. Sia lo Stato che la Chiesa risultavano così due «società giuridicamente perfette» e, pertanto, autonome e sovrane (superiorem non recognoscentes). Questo concetto fu accolto dal Magistero per la prima volta nell’enciclica Immortale Dei di Leone XIII (1895).

Nel solco di tale Scuola, gli ecclesiologi ed i canonisti –spesso portati da un certo spirito apologetico– sottolinearono (a volte in modo unilaterale) l’aspetto esterno, visibile, gerarchico e giuridico della Chiesa. Si comprendono così le critiche intorno al “giuridismo” che si ascoltarono nei dibattiti durante il Vaticano Il cosiddetto Diritto pubblico ecclesiastico –senza negare la buona volontà dei suoi cultori e una sua indubbia utilità pratica in ambito politico2– non contribuì tuttavia a far luce sulla natura specifica del Diritto canonico come realtà specificamente ecclesiale.


b. La codificazione del 1917 e la Scuola esegetica

Nel 1804 apparve il Codice di Napoleone (Code civil)3 come espressione tipica di una rinnovata concezione del Diritto dello Stato moderno. A partire da allora molti Stati europei e dell’America Latina codificarono il loro Diritto secondo quel modello, oggi dominante (civil Law). Già durante il Vaticano I ci furono osservazioni critiche rispetto all’insoddisfacente situazione legislativa della Chiesa ed alla sua difficile fruizione ed applicabilità reale; non ci fu però consenso sul modo di porvi rimedio se non varie voci che invocavano la sua codificazione. Un noto storico del Diritto canonico, Stefan Kuttner, ha scritto che al principio del XX secolo

«il Diritto canonico, sulla base delle vecchie collezioni del Corpus iuris canonici, era cresciuto –specie dal Concilio di Trento in poi– per via di atti, decreti e decisioni singole, come un’intricata foresta in cui rami vivi e morti si intrecciavano allacciati insieme»4.


Il CIC 17 riassumeva in sé le parti dispositive del Diritto sino ad allora vigente abrogando le leggi e le raccolte anteriori (era la prima volta che si seguiva un tal procedimento); esso comprendeva 2414 canoni (il CIC 83 ne avrà 662 in meno) ed era suddiviso in cinque libri. Seguiva la tripartizione del Diritto romano in personæ, res, actiones, utilizzato anche dal Codice napoleonico. La poca adeguatezza di tale sistematica alla realtà ecclesiale si manifestava soprattutto nel fatto di raggruppare fra le “cose” temi alquanto eterogenei come sono i Sacramenti, la Parola di Dio, i luoghi di culto e i beni ecclesiastici. Si vedrà come il CIC 83 seguirà, anche per la sua articolazione, gli spunti offerti dal Vaticano II assumendo una impostazione ecclesialmente più adeguata. Può sorprendere il fatto che la Chiesa abbia scelto di codificare il suo Diritto, trattandosi di un metodo sorto da un’impostazione razionalistica, illuministica e di rottura con il passato. Sembra però che la decisione di san Pio X sia stata principalmente dettata da motivi pratici (mettere ordine nel caos delle leggi canoniche), disciplinari (il CIC avrebbe costituito un valido strumento di disciplina ecclesiastica) e per rafforzare l’unità della Chiesa. Questi ultimi due motivi avevano una particolare attualità per via del pericolo costituito all’epoca dagli errori del modernismo.

Senza negare il valore di tali considerazioni, va riconosciuto che il sistema della codificazione, ponendo la legge come un a-priori che precede la vita5, tende a fossilizzare il Diritto, che di per sé è una realtà viva e, come tale, deve essere flessibile, sempre aperta ad essere rinnovata. In effetti, l’immobilismo giuridico seguito alla promulgazione del CIC ha fatto sì che, per contro, sorgessero diverse strutture –dal punto di vista giuridico scarsamente regolate– attraverso le quali si svolgeva gran parte dell’attività pastorale della Chiesa, provocando così un crescente divario fra Diritto e pastorale. Ben presto diverse norme del Codice si rivelarono anacronistiche (come quelle riguardanti il sistema beneficiario). Altri inconvenienti di quella codificazione sono soprattutto conseguenza dei limiti e dell’unilateralità dell’Ecclesiologia dell’epoca: gerarcologismo, clericalismo, centralismo, insufficiente attenzione ai laici e al fenomeno associativo.

Con la promulgazione del CIC il compito della Canonistica cambiò radicalmente e, come primo effetto, si ebbe lo sviluppo di numerosi studi esegetici. Ciò fu dovuto anche al fatto che lo studio del Codice venne posto quale materia obbligatoria in tutti i Seminari (cfr can 1365 § 2 CIC 17) e la Sacra Congr. dei Seminari prescrisse espressamente ai docenti l’uso del metodo esegetico seguendo «religiosissime» anche l’ordine del CIC6. I limiti della Scuola esegetica sono fin troppo evidenti, e più ancora se si tengono presenti le gravi deficienze dell’Ecclesiologia sottostante al CIC 17; era iniziata una vera e propria «sterilizzazione» teologica del Diritto canonico7. Da notare, tuttavia, come la Teologia morale del tempo fece amplissimo ricorso al CIC proprio a causa del suo stile dispositivo.


c. La Scuola dogmatico-giuridica (o Scuola laica italiana)

La Scuola esegetica svolse comunque un servizio alla Chiesa, contribuendo alla conoscenza del Diritto canonico. Dal punto di vista scientifico, essa era tuttavia alquanto limitata, soprattutto per quanto riguardava l’aspetto fondativo-motivazionale e sistematico. Ad occuparsi di quest’ultimo, proponendo brillanti soluzioni sistematiche (proprie della dogmatica giuridica, da cui il nome della Scuola), furono invece i giuristi laici delle Facoltà di giurisprudenza italiana presso le quali insegnavano Diritto ecclesiastico dello Stato. Gradualmente essi incominciarono ad interessarsi anche del Diritto canonico quale ‘altra’ forma di vero Diritto rispetto a quello statuale. Questo interessamento si spiega, oltre che per la base offerta ora dal CIC, per l’evoluzione dei rapporti Chiesa-Stato in Italia8 e poi in Spagna, dove la Scuola ebbe dei continuatori9.

Per comprendere la menzionata evoluzione occorre anzitutto tener presente che lo spirito anticlericale, diffusosi un po’ in tutta l’Europa nel secolo XIX, aveva portato a estromettere la Teologia dalle Università civili e a sostituire lo studio del Diritto canonico con quello del Diritto ecclesiastico dello Stato. All’inizio del secolo XX si osservò in Italia una graduale diminuzione di quello spirito; uno dei primi segni in tal senso fu la proposta del noto ecclesiasticista Francesco Ruffini di studiare con il Diritto ecclesiastico anche le norme della Chiesa. In alcune Facoltà di giurisprudenza la trattazione del Diritto ecclesiastico venne quindi fatta precedere da uno studio generale del Diritto canonico. Nel 1927 Arturo Carlo Jemolo (discepolo di Ruffini e docente prima a Milano e poi a Roma) pubblicò un’opera di Elementi di Diritto canonico e l’Università Cattolica di Milano creò una cattedra di Diritto canonico (che fu poi di Orio Giacchi) indipendente da quella di Diritto ecclesiastico; iniziò così la Scuola laica italiana. Nel 1936 il Diritto canonico divenne materia facoltativa nel piano di studi delle Facoltà di giurisprudenza. Gli autori di questa Scuola10 centrano l’attenzione sugli aspetti tecnico-giuridici derivanti dal Diritto positivo offerto loro dal CIC, lasciando da parte gli aspetti storici e le questioni teologiche previe o soggiacenti ai temi studiati. Sottolineano il carattere giuridico del Diritto canonico (anche per ovvie ragioni professionali) senza preoccuparsi di cercare una fondazione appropriata del Diritto nella Chiesa. Il rapporto fra Diritto divino ed umano viene risolto seguendo quanto proposto da Del Giudice con la “canonizatio” del primo da parte del legislatore.

Il maggior difetto della Scuola deriva dall’influsso positivista proveniente dalla Scienza giuridica secolare. Di conseguenza, si accettano le soluzioni giuridiche contenute nel CIC senza distinguere quelle di chiara derivazione teologica e quelle che sono invece il frutto di costruzioni umane, storicamente circostanziate e sempre riformabili. Per i canonisti di questa Scuola il Diritto divino costituisce un insieme di principi di natura teologica e non giuridica. Il carattere giuridico delle norme proviene unicamente dalla volontà del legislatore umano (attraverso la canonizatio). Si crea così una sorta di indipendenza fra l’Ordinamento canonico e quello divino, che costituisce solo “lo spirito” del primo11; questa indipendenza rischia però di sfociare in una rottura quando l’Ordinamento canonico viene considerato autosufficiente dall’elemento teologico originario.


2. Il progresso ecclesiologico realizzato dal Concilio Vaticano II

Il progresso ecclesiologico conciliare può essere sintetizzato quale superamento di una visione troppo parziale della Chiesa come “societas inequalium” in cui «duo sunt genera christianorum: clerici et laici» (secondo la massima di Graziano); nella quale si accentuava in modo unilaterale l’aspetto esterno, giuridico e gerarchico (Ecclesia regnans et Ecclesia oboediens; Ecclesia docens et Ecclesia discens), con una visione più completa ed approfondita che trova un proprio orizzonte unitario ed organico nella hierarchica communio che tutti lega nell’unico discepolato evangelico.

In sintesi si può dire che il Vaticano II ha offerto una visione della Chiesa più attenta alle fonti della Rivelazione (Scrittura e Tradizione [DV 7-8]); più ampia (si riscopre la vocazione universale alla santità [LG 40], il sacerdozio comune dei fedeli [LG 10], il collegio episcopale[LG 20-24], le Chiese particolari [LG 23], la rilevanza dei carismi [LG 12], ecc.); più profonda (si riscopre l’aspetto interno, spirituale, misterico, sacramentale, eucaristico e comunionale della Chiesa); più dinamica (si valorizza la dimensione missionaria, emerge una maggior sensibilità pastorale, si sottolinea che la Chiesa nel suo pellegrinaggio verso la patria celeste deve continuamente purificarsi e si impone la consapevolezza che tutti i fedeli partecipano attivamente – ognuno a suo modo – all’unica missione della Chiesa); più ecumenica (si riconosce che anche al di fuori dei suoi confini visibili esistono elementi di ecclesialità, di verità e di santità; di conseguenza si riconosce che con le altre Chiese e Comunità ecclesiali –ortodosse e protestanti– esiste già una comunione che può avere diversi gradi [LG 15] e che si deve cercare di portare alla sua pienezza, senza tuttavia assorbire le altre Chiese o Comunità ecclesiali, dato che si devono rispettare le legittime diversità); più aperta (al dialogo con la società civile e attenta ai problemi dell’uomo d’oggi [GS 1], nonché al dialogo con le religioni non cristiane [LG 16]).

Tutto ciò ebbe notevoli ripercussioni sul Diritto canonico, con grande rilievo:

- per la fondazione del Diritto canonico (a partire dalla sacramentalità della Chiesa);

- per determinare il fine ed il ruolo del Diritto canonico (ministerialità della Chiesa e soprattutto della potestà di governo);

- per approfondire la comprensione della struttura organica della comunità ecclesiale (comunità sacerdotale originata dalla correlazione tra sacerdozio comune e ministeriale);

- per una comprensione teologicamente più corretta della struttura della potestà sacra (unità-complementarità di ordine-giurisdizione e il suo rapporto con il triplice ufficio di Cristo e della Chiesa: insegnare, santificare, governare);

- per una miglior comprensione del rapporto fra il Romano Pontefice e i Vescovi, così come di quello fra la Chiesa universale e quelle particolari,

- per una adeguata comprensione dei diritti-doveri dei fedeli: chierici, laici e religiosi (in virtù della differenza essenziale fra le due forme di sacerdozio e delle diverse grandi linee carismatiche).

- per una più adeguata sistematica del Codice (cfr triplex munus Christi).


3. L’indicazione metodologica di Optatam totius, n. 16

Il documento in cui il Vaticano II si soffermò brevemente, ma in modo alquanto significativo, a riflettere sul Diritto canonico è il decreto Optatam totius, dedicato alla formazione dei presbiteri. Nell’ambito delle indicazioni sulla riforma degli studi teologici si trova anche un’indicazione per l’insegnamento del Diritto canonico che, alla luce dello sviluppo registrato dalla Scuola laica nel decennio precedente il Vaticano II, risulta alquanto significativa.

Nel primo paragrafo del n. 16 si indica:

«Le discipline teologiche, alla luce della fede e sotto la guida del Magistero della Chiesa, siano insegnate in maniera che gli alunni possano attingere accuratamente la dottrina cattolica dalla divina rivelazione, la studino profondamente, la rendano alimento della propria vita spirituale, e siano in grado di annunziarla, esporla e difenderla nel ministero sacerdotale».


Vengono poi fatte delle precisazioni per lo studio della Sacra Scrittura e della Teologia dogmatica. Il paragrafo successivo afferma:

«Parimenti tutte le altre discipline teologiche vengano rinnovate per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza. Si ponga speciale cura nel perfezionare la Teologia morale in modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura, illustri la grandezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo. Così pure nell’esposizione del Diritto canonico e nell’insegnamento della storia ecclesiastica si tenga presente il mistero della Chiesa [respiciatur ad mysterium Ecclesiæ], secondo la costituzione dogmatica De Ecclesia promulgata da questo Concilio» (n. 16).


Nell’ampio dibattito sorto dopo il Vaticano II, incentivato dai lavori di revisione del CIC, non mancarono le riflessioni epistemologiche e metodologiche. Non è difficile comprendere l’importanza che venne riconosciuta alla citata indicazione conciliare. In modo particolare, ad essa si riferirono coloro che criticavano la Scuola laica italiana, ed i suoi emuli spagnoli, per non prestare sufficiente attenzione agli aspetti teologici del Diritto canonico. Fra le diverse Scuole si sviluppò così un vivace dibattito, che acquistò toni particolarmente accesi in occasione dei Congressi canonistici internazionali celebrati con una periodicità triennale negli anni ’70.

Nel contesto del menzionato dibattito, risultano alquanto significativi i pronunciamenti di Paolo VI e di Giovanni Paolo II sulla portata teologica del Diritto canonico.


4. I discorsi di Paolo VI e di Giovanni Paolo II sul Diritto canonico

a. I discorsi di Paolo VI

Particolarmente significativi sono i discorsi di Paolo VI tenuti in occasione dei primi due Congressi internazionali di canonisti (a Roma e a Milano) che si conclusero alla presenza del papa. Il loro valore è facilmente apprezzabile tenendo presente che erano allora in pieno svolgimento i lavori di revisione del Codice e i dibattiti circa i rapporti fra Canonistica, Teologia e Scienza giuridica secolare.

Nel primo discorso, tenuto il 19 gennaio 197012, egli sottolineò che, dopo il Vaticano II, la gran novità per lo studio e l’elaborazione del Diritto canonico era la necessità di cercare nella natura intima e misterica della Chiesa le ragioni ed i principi della sua disciplina canonica.

«Questa più stretta parentela fra la Teologia e il Diritto canonico infonderà in quest’ultimo caratteristiche nuove […]. Il Concilio vi aiuta, quasi vi obbliga, a questa nuova visione, più profonda e più realistica. Se di giuridismo e di formalismo non dovrebbero più essere colpevoli gli uomini di Chiesa, anche quando devono legiferare, vedete che queste accuse ricadono su quegli studi canonici che si attengono alle vecchie posizioni del positivismo giuridico, o dello storicismo giuridico»13.


Nel secondo Congresso internazionale di Diritto canonico del 1973, il Papa insistette sulla necessità che la Canonistica mantenga e coltivi un intimo rapporto con la Teologia. Il Diritto canonico è infatti anch’esso

«una Scienza sacra, e non è certo quella ‘arte pratica’ che alcuni vorrebbero, il cui compito sarebbe solo quello di rivestire di formule giuridiche le conclusioni teologiche e pastorali, ad esso pertinenti. Col Concilio Vaticano II si è definitivamente chiuso il tempo in cui certi canonisti ricusavano di considerare l’aspetto teologico delle discipline studiate, o delle leggi da essi applicate»14.


Il Papa concluse l’allocuzione con le seguenti significative parole:

«La vostra prima preoccupazione non sarà quella di stabilire un ordine giuridico puramente esemplato sul Diritto civile, ma di approfondire l’Opera dello Spirito che deve esprimersi anche nel Diritto della Chiesa»15.


Un altro importante discorso sul Diritto canonico fu quello rivolto da Paolo VI il 13 ottobre 1972 in occasione di un Corso di aggiornamento per membri dei Tribunali ecclesiastici. In questa occasione il papa affermò che il Diritto canonico è uno «ius sacrum, prorsus distinctum a iure civili»16 per il fatto che si tratta di uno «ius societatis visibilis quidem, sed supernaturalis, quæ Verbo et Sacramentis ædificatur et cui propositum est homines ad æternam salutem perducere»17.


b. La Costituzione apostolica Sacræ disciplinæ Leges e i discorsi di Giovanni Paolo II

Il 25.I.1983 Giovanni Paolo II promulgò il CIC con la Costituzione apostolica Sacræ disciplinæ Leges nella quale fece importanti osservazioni sulla natura del CIC e del Diritto canonico. Come si intuisce fin dal titolo scelto per questo documento, il papa mette in evidenza la sacralità della disciplina canonica, il rapporto fra le norme del CIC, la Rivelazione (con il suo messaggio salvifico) e l’Ecclesiologia del Vaticano

Egli affronta anzitutto la questione circa la natura stessa del Codice. Per impostare tale questione in modo adeguato, osserva,

«bisogna riandare con la mente al lontano patrimonio di Diritto contenuto nei libri del Vecchio e Nuovo Testamento dal quale, come dalla sua prima sorgente, proviene tutta la tradizione giuridico-legislativa della Chiesa. […] Gli scritti del Nuovo Testamento ci consentono di percepire ancor più l’importanza stessa della disciplina e ci fanno meglio comprendere come essa sia più strettamente congiunta con il carattere salvifico dello stesso messaggio evangelico.

Stando così le cose, appare abbastanza chiaramente che il Codice non ha come scopo in nessun modo di sostituire la fede, la grazia, i carismi e soprattutto la carità dei fedeli nella vita della Chiesa. Al contrario, il suo fine è piuttosto di creare tale ordine nella società ecclesiale che, assegnando il primato all’amore, alla grazia e al carisma, rende più agevole contemporaneamente il loro organico sviluppo nella vita sia della società ecclesiale, sia anche delle singole persone che ad essa appartengono.

Il Codice, dal momento che è il principale documento legislativo della Chiesa, fondato nell’eredità giuridico-legislativa della rivelazione e della tradizione, va riguardato come lo strumento indispensabile per assicurare il debito ordine sia nella vita individuale e sociale, sia nell’attività stessa della Chiesa. Perciò, oltre a contenere gli elementi fondamentali della struttura gerarchica e organica della Chiesa quali furono stabiliti dal suo divin Fondatore oppure radicati nella tradizione apostolica, o in ogni caso antichissima, e oltre alle principali norme concernenti l’esercizio del triplice ufficio affidato alla stessa Chiesa, il Codice deve definire anche alcune regole e norme di comportamento».


Il Papa ricorda poi con forza lo stretto rapporto che il Codice ha con il Vaticano

«Il Codice corrisponde in pieno alla natura della Chiesa, specialmente come viene proposta dal Magistero del Concilio Vaticano II in genere, e in particolar modo dalla sua dottrina ecclesiologica. Anzi, in un certo senso, questo nuovo Codice potrebbe intendersi come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico questa stessa dottrina, cioè l’Ecclesiologia conciliare. Se poi è impossibile tradurre perfettamente in linguaggio ‘canonistico’ l’immagine della Chiesa, tuttavia a questa immagine il Codice deve sempre riferirsi, come a esempio primario, i cui lineamenti esso deve esprimere in se stesso, per quanto è possibile, per sua natura.

Da qui derivano alcuni criteri fondamentali, che reggono tutto il nuovo Codice, nell’ambito della sua specifica materia, come pure nel linguaggio collegato con essa. Si potrebbe anzi affermare che da qui proviene anche quel carattere di complementarietà che il Codice presenta in relazione all’insegnamento del Concilio Vaticano II, con particolare riguardo alle due costituzioni, dogmatica Lumen gentium e pastorale Gaudium et Spes.

Ne risulta che ciò che costituisce la ‘novità’ fondamentale del Concilio Vaticano II, in linea di continuità con la tradizione legislativa della Chiesa, per quanto riguarda specialmente l’Ecclesiologia, costituisce altresì la ‘novità’ del nuovo Codice.

Fra gli elementi che caratterizzano l’immagine vera e genuina della Chiesa, dobbiamo mettere in rilievo soprattutto questi: la dottrina, secondo la quale la Chiesa viene presentata come il popolo di Dio e l’autorità gerarchica viene proposta come servizio (cfr Lumen gentium, nn. 2 e 3); la dottrina per cui la Chiesa è vista come ‘comunione’, e che, quindi, determina le relazioni che devono intercorrere fra le Chiese particolari e quella universale, e fra la collegialità e il primato; la dottrina, inoltre, per la quale tutti i membri del popolo di Dio, nel modo proprio a ciascuno, sono partecipi del triplice ufficio di Cristo: sacerdotale, profetico e regale. A questa dottrina si riconnette anche quella che riguarda i doveri e i diritti dei fedeli, e particolarmente dei laici; e, finalmente, l’impegno che la Chiesa deve porre nell’ecumenismo.

Se, quindi, il Concilio Vaticano II ha tratto dal tesoro della tradizione elementi vecchi e nuovi, e il nuovo consiste proprio in questi e in altri elementi, allora è chiaro che anche il Codice debba rispecchiare la stessa nota di fedeltà nella novità, e di novità nella fedeltà, e conformarsi ad essa nel proprio campo e nel suo particolare modo di esprimersi».


Il 3.02.1983, nel discorso di presentazione del nuovo Codice, Giovanni Paolo II ha sottolineato che esso non potrebbe essere correttamente interpretato se venisse considerato secondo l’ideologia delle codificazioni civili, ossia come un testo normativo autonomo, completo ed esauriente.

«Questo nuovo Codice io […] l’offro con fiducia e speranza alla Chiesa, che si avvia ormai al suo terzo millennio: accanto al Libro contenente gli Atti del Concilio c’è ora il nuovo Codice Canonico, e questo mi sembra un abbinamento ben valido e significativo. Ma sopra, ma prima di questi due Libri è da porre, quale vertice di trascendente eminenza, il Libro eterno della Parola di Dio, di cui centro e cuore è il Vangelo. Concludendo, vorrei disegnare dinanzi a voi, a indicazione e ricordo, come un ideale triangolo: in alto, c’è la Sacra Scrittura; da un lato, gli Atti del Vaticano II e, dall’altro, il nuovo Codice Canonico. E per risalire ordinatamente, coerentemente da questi due Libri, elaborati dalla Chiesa del secolo XX, fino a quel supremo e indeclinabile vertice, bisognerà passare lungo i lati di un tale triangolo, senza negligenze ed omissioni, rispettando i necessari raccordi: tutto il Magistero –intendo dire– del precedenti Concili Ecumenici e anche (omesse, naturalmente, le norme caduche ed abrogate) quel patrimonio di sapienza giuridica, che alla Chiesa appartiene»18.


Un altro significativo discorso di Giovanni Paolo II è quello rivolto il 21 novembre1983 ai partecipanti al corso sul nuovo Codice svoltosi presso la Gregoriana. Fra l’altro egli osservò che il nuovo Codice

«non è ciò che soprattutto fu il Codice del 1917: l’unificazione e la purificazione del Diritto esistente, secondo gli intendimenti di quel pastore incomparabile che fu S. Pio X. Il codice del 1983 […] è un Codice molto differente. Esso si inserisce, certo, nella tradizione ecclesiale, ma la vivifica con lo spirito e le norme conciliari. È il Codice del Concilio e, in questo senso, è l’’ultimo documento conciliare’, il che indubbiamente costituirà la sua forza e il suo valore, la sua dignità e il suo irraggiamento»19.


Nel numero conclusivo, prima dei ringraziamenti, Giovanni Paolo II ha ricordato che

«Paolo VI ha giustamente sottolineato che il Diritto della Chiesa differisce da quello dello Stato20. Esso infatti è un Diritto della grazia, se è un Diritto di comunione. Amo citare Paolo VI, perché egli è stato per i canonisti un maestro di pensiero, un teologo del Diritto; egli ha voluto che si riunissero di nuovo, nella contemplazione del mistero unico della Chiesa, Scienza teologica e Scienza canonistica»21.


Fra i discorsi di Giovanni Paolo II in cui si riferisce al Diritto canonico, una menzione speciale merita quello in occasione del Convegno celebrato in Vaticano per i 20 anni del CIC 83, discorso pronunciato il 24 gennaio 2003.

Fra l’altro egli affermò:

«Felicemente le voci di contestazione del Diritto sono ormai piuttosto superate. Tuttavia, sarebbe ingenuo ignorare quanto resta da fare per consolidare nelle presenti circostanze storiche una vera cultura giuridico-canonica e una prassi ecclesiale attenta alla intrinseca dimensione pastorale delle leggi della Chiesa» (n. 1).


Egli ha poi così sottolineato l’orizzonte ecclesiale e teologico nel quale vanno comprese le norme canoniche:

«L’intenzione che ha presieduto la redazione del nuovo Corpus Iuris Canonici è stata ovviamente quella di mettere a disposizione dei Pastori e di tutti i fedeli uno strumento normativo chiaro, che contenesse gli aspetti essenziali dell’ordine giuridico. Sarebbe però del tutto semplicistico e fuorviante concepire il Diritto della Chiesa come un mero insieme di testi legislativi, secondo l’ottica del positivismo giuridico. Le norme canoniche, infatti, si rifanno ad una realtà che le trascende; tale realtà non è solo composta di dati storici e contingenti, ma comprende anche aspetti essenziali e permanenti nei quali si concretizza il Diritto divino. Il nuovo Codice di Diritto Canonico – e questo criterio vale anche per il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali – deve essere interpretato ed applicato in quest’ottica teologica. In tal modo, si possono evitare certi riduzionismi ermeneutici che impoveriscono la Scienza e la prassi canonica, allontanandole dal loro vero orizzonte ecclesiale» (n. 2).


Giovanni Paolo II ha quindi ricordato l’esigenza di

«un’autentica interdisciplinarità tra la Scienza canonistica e le altre Scienze sacre. Un dialogo davvero proficuo deve partire da quella realtà comune che è la vita stessa della Chiesa. Pur studiata da angolature diverse nelle varie discipline scientifiche, la realtà ecclesiale rimane identica a se stessa e, come tale, può consentire un interscambio reciproco fra le Scienze sicuramente utile a ciascuna» (n. 3).


5. L’introduzione di una nuova disciplina negli studi di Diritto canonico: «La Teologia del Diritto canonico»

Il 2.09.2002 la Congregazione per l’educazione cattolica ha emanato un decreto con cui si introducono diverse modifiche nelle norme di Sapientia Christiana (1979) che regolano gli studi nelle Facoltà di Diritto canonico. Una delle novità più significative per il tema che ora ci interessa è la necessità di una maggior preparazione teologica (due anni invece di uno) di coloro che desiderano accedere agli studi di Licenza in Diritto canonico e non provengono dagli studi teologici di base (Baccellierato). Inoltre, fra le discipline d’obbligo nella Licenza ne compaiono alcune nuove: una di esse è la «Teologia del Diritto canonico».

La prima questione che ci si deve porre nei confronti della nuova disciplina è il suo statuto scientifico e, in particolare, se essa debba essere considerata parte dell’Ecclesiologia o della Canonistica. La denominazione «Teologia del Diritto canonico» ha portato alcuni autori (soprattutto quelli che considerano la Canonistica come Scienza giuridica e non teologica) a concepirla come parte dell’Ecclesiologia mantenendola a latere delle discipline giuridiche ed escludendola dall’ambito propriamente canonistico; la nuova disciplina sarebbe perciò diversa da quella che alcuni hanno chiamato «Teoria fondamentale del Diritto canonico». C’è poi chi la vedrebbe come disciplina metodologica a cavallo tra Teologia e Canonistica22.

Fra gli autori che considerano la Canonistica una disciplina teologica predominano coloro secondo cui la nuova disciplina è parte della Canonistica, poiché si tratta pur sempre di uno studio svolto in prospettiva giuridico-ecclesiale. Il motivo per cui sia stata chiamata «Teologia del Diritto canonico» sarebbe dovuto al fatto che essa si occupa degli aspetti più prettamente teologici, perché più vicini all’Ecclesiologia; in tal senso la nuova disciplina potrebbe forse essere più adeguatamente denominata «Fondamenti ecclesiologici del Diritto canonico».

Le varie posizioni tendono comunque a considerare che la nuova disciplina si debba occupare dei fondamenti (o delle questioni di «fondazione») del Diritto canonico nella vita ecclesiale. Se per quanto riguarda i contenuti della «Teologia del Diritto canonico» non sembrano quindi esserci differenze sostanziali, il diverso orientamento epistemologico esistente fra i canonisti dovrebbe invece portare a una diversa soluzione per quanto riguarda l’aspetto metodologico. Per i primi il suo metodo sarà quello teologico, per i secondi sarà quello canonistico, per quanto il significato delle due qualificazioni non sia ancora univoco. Il «dovrebbe» è d’obbligo, poiché –a ben vedere– anche questa differenza va almeno ridimensionata. Per alcuni autori della seconda posizione, infatti, il metodo canonistico non si contraddistingue da quello teologico, ma ne costituisce piuttosto una specificazione; essi considerano che la Canonistica –come tutta la Teologia– deve procedere alla luce della Rivelazione e con la guida del Magistero (ed è perciò disciplina teologica). Ogni disciplina teologica è poi determinata da una ulteriore specifica prospettiva (dogmatica, morale, spirituale, liturgica, pastorale, storica... e la Canonistica da quella giuridica). Per altri autori, di contro, il metodo canonistico è più legato alla sistematica giuridica come tale ed il rapporto con la Teologia, pur costitutivo, rimane pre-giuridico e meta-giuridico (come la Filosofia del Diritto in ambito civilistico).

Come suaccennato, fra gli autori sembra comunque esistere una certa concordanza nel considerare che la nuova disciplina debba studiare principalmente i fondamenti ecclesiologici del Diritto canonico. I suoi capisaldi potrebbero essere distinti in due grandi parti: la prima riguarda il Diritto canonico (fondazione, natura e finalità), mentre la seconda riguarda la Scienza del Diritto canonico (evoluzione storica, epistemologia, metodologia e rapporti con altre Scienze).


Impostazioni metodologiche

1. I successivi sviluppi della Canonistica e le attuali tendenze23

Alla luce dell’indicazione conciliare di OT 16, dei menzionati discorsi pontifici e dei sempre più intensi rapporti fra i canonisti delle diverse Scuole, si comprende che le forti differenze del periodo preconciliare si siano gradualmente smussate, così che oggigiorno più che di “Scuole” sembra meglio parlare di “tendenze” della Canonistica. Ci si limita ora ad illustrare brevemente l’orientamento di massima che determina queste tendenze, rimandando ad un secondo momento l’approfondimento sulla questione epistemologica che funge in buona parte da spartiacque fra i maggiori indirizzi dottrinali.

Nella Canonistica odierna predominano due grandi tendenze che possiamo qualificare come teologica e giuridica. Esse sono caratterizzate e si differenziano per via delle rispettive divergenti concezioni epistemologiche24.

Queste divergenze si spiegano, almeno in buona parte, considerando il differente Sitz im Leben che caratterizza i canonisti delle due tendenze: i primi provengono da studi sostanzialmente umanistico-teologici, mentre gli altri hanno una formazione e mentalità di stampo tecnico-giuridico25. Oltre alla diversa provenienza soggettiva, ha senz’altro un influsso importante anche il contesto in cui essi svolgono la propria attività. I primi sono in genere ecclesiastici che possono trovarsi impegnati nell’insegnamento presso una Facoltà di Diritto canonico o di Teologia, presso un Seminario o uno Studentato di un Istituto di vita consacrata. I secondi –più spesso laici– sono invece di solito impegnati nella docenza presso una Facoltà di Giurisprudenza di una Università statale o si dedicano, quali avvocati ecclesiastici, soprattutto all’attività forense per le cause di nullità matrimoniale. Tali diversità spiegano perché alcuni canonisti si interessino maggiormente alle questioni di tipo più ecclesiologico, mentre altri prediligano questioni proprie della tecnica e sistematica giuridica. Va inoltre ricordato che molti canonisti, chierici e religiosi, si trovano impegnati nel servizio pastorale nelle Curie diocesane o in altre istituzioni ecclesiastiche e il loro interesse per il Diritto canonico avrà logicamente scopi eminentemente pratici e pastorali.

Si possono quindi distinguere tre grandi tendenze, anche se naturalmente in molti canonisti le differenze sono alquanto sfumate.


a. La tendenza pastorale

È la tendenza che prevale fra coloro che si trovano confrontati in modo diretto con l’applicazione del Diritto canonico soprattutto nel governo ecclesiale: Vescovi, Vicari generali, e chi lavora per esempio nella Curia Romana, in una Curia diocesana o in qualche altra istituzione ecclesiastica. Lo sviluppo di questa tendenza è comprensibile considerando che il Vaticano II fu concepito come un Concilio prevalentemente pastorale e nelle norme del nuovo CIC si osserva una accresciuta attenzione per gli aspetti pastorali e la vita concreta della Chiesa; anche Giovanni Paolo II nei suoi discorsi sul Diritto canonico ne ha spesso sottolineato la pastoralità. È questo un indirizzo dottrinale di una certa novità che qualcuno ha voluto collegare proprio all’evento conciliare26. Più che di una vera «tendenza metodologica» si tratta di una sensibilità, argomentativa ed applicativa, che può caratterizzare tanto gli autori dell’una che dell’altra impostazione metodologica, riuscendo spesso ad evitarne gli esiti più radicali.


b. La tendenza giuridica

È la tendenza che prevale negli studi elaborati dai giuristi che si occupano di Diritto canonico da punto di vista più ‘tecnico’ e considerano la Canonistica quale Scienza propriamente giuridica e non teologica. Essi fanno ampio ricorso alle categorie giuridiche secolari anche da un punto di vista fondativo e valoriale. Oltre ai canonisti laici italiani, vanno qui ricordati diversi spagnoli, molti dei quali provenienti dalla Facoltà di Diritto canonico dell’Università di Navarra27. Si muoveva in questa linea anche l’applicazione più rigida della metodologia esegetica nei primi decenni del secolo scorso.


c. La tendenza teologica

È la tendenza che prevale nel pensiero dei canonisti che provengono da studi teologici e tendono ad affrontare le questioni canonistiche in stretto rapporto con la Teologia. L’indirizzo più rilevante in questo senso è quello che si rifà a Klaus Mörsdorf (1909-1989), fondatore della c.d. Scuola di Monaco (di Baviera). Già prima del Vaticano II, egli aveva iniziato l’elaborazione di una originale visione del Diritto della Chiesa nel suo insieme e dopo il Concilio, i suoi discepoli, hanno sviluppato una corrente molto influente a livello ecclesiale, cercando di mantenete una forte connessione – anche terminologica – con l’ambito strettamente teologico.


2. Lo statuto epistemologico della Canonistica

La questione fondamentale – a partire dall’impostazione data al problema da K. Mörsdorf e sostanzialmente non contestata fino ad oggi neppure da parte degli autori di altra tendenza dottrinale – è stata individuata nel chiedersi se sia più corretto considerare la Canonistica quale Scienza teologica o quale Scienza giuridica.

Conviene anzitutto notare che la diversità delle risposte alla questione epistemologica offerte dalle varie correnti della Canonistica non si riferisce al fatto, ormai da tutti assimilato, che il Diritto canonico debba essere studiato tenendo conto sia del suo aspetto teologico che di quello giuridico, ma alla diversa rilevanza strutturale che viene loro riconosciuta, al diverso modo in cui i due aspetti vengono posti in relazione ed in cui diventano uno determinante per l’altro, soprattutto in vista della legittimazione e collocazione del Diritto canonico all’interno della vita ecclesiale.

A seconda della priorità che viene attribuita a uno o all’altro aspetto, la questione epistemologica sarà focalizzata e risolta diversamente, pur all’interno di una irrinunciabile prospettiva di fede, legata all’adesione/appartenenza ecclesiale28. Il Diritto canonico può infatti essere inteso come una realtà essenzialmente ecclesiale e specificata giuridicamente, oppure come una realtà essenzialmente giuridica e specificata ecclesialmente29.

Nel primo caso il suo studio verrà considerato come Scienza teologica, nel secondo come Scienza giuridica. Ciò ha, ovviamente, importanti ripercussioni metodologiche.

Ci si può chiedere se la differenza fra questi due modi di concepire la Canonistica sia solo un gioco di parole e fra di essi non esista realmente nessuna differenza sostanziale, ma unicamente una diversa accentuazione dovuta alla differente prospettiva con cui viene affrontato il problema, o se ci sono invece argomenti di peso che fanno pendere la bilancia in uno o nell’altro senso in modo qualificante e non-negoziabile.


a. Scienza giuridica o disciplina teologica? Le origini delle divergenze

Come già anticipato, tra i fattori che danno origine alle diverse tendenze vanno anzitutto menzionati quelli di natura soggettiva. Tali diversità connesse alla formazione ed alle mansioni ricoperte spiegano perché alcuni canonisti si occupino prevalentemente di questioni ecclesiologiche e fondamentali, altri di aspetti pastorali di maggior incidenza pratica, mentre altri ancora di questioni più proprie della tecnica legislativa.

Se le differenze fra l’una e l’altra tendenza fossero solo queste, di carattere sostanzialmente ‘applicativo’, più che di tendenze divergenti si dovrebbe parlare di tendenze integranti la Canonistica, intesa nella sua globalità. Analizzando però gli argomenti a favore o contrari all’una o all’altra opzione epistemologica, emergono ragioni che possiamo definire oggettive. Si osservano infatti prima di tutto delle diversità nel significato da attribuire a: “disciplina teologica”, “metodo teologico” e “metodo giuridico”; neanche rispetto alla stessa nozione di “Canonistica” e di “Diritto canonico” c’è unanimità d’opinione30. Non si tratta di mere disquisizioni terminologiche, poiché, come vedremo, esse sottendono importanti questioni concettuali.


b. Gli argomenti della “tendenza giuridica”

Secondo alcuni autori della tendenza giuridica, Teologia e Canonistica avrebbero (ragionando con categorie scolastiche) un diverso oggetto formale quod. Il ragionamento prende avvio dalla classica distinzione delle Scienze, ancora in uso presso molti ambienti ecclesiastici, secondo il loro oggetto materiale e formale. La Canonistica potrebbe allora venir considerata quale disciplina teologica in virtù del suo oggetto materiale (la Chiesa) e disciplina giuridica per l’oggetto formale (il Diritto). Tuttavia, segnalano giustamente tali autori, nella definizione epistemologica di una Scienza è determinante l’oggetto formale, per cui la Canonistica andrebbe situata nell’àmbito delle Scienze giuridiche31.

Uno degli autori di questa tendenza che maggiormente si è impegnato nella questione, cercando di precisare quale sia l’oggetto formale della Canonistica, è Javier Hervada. Egli osserva che

«il canonistica studia le relazioni sociali della Chiesa nella prospettiva della giustizia, nella prospettiva del giusto per essere più precisi. Non studia dette relazioni nella prospettiva della Divinità, sub ratione Deitatis; pertanto il canonista non è un teologo. Illuminato dalla luce della fede, e tenendo in conto i dati teologici, la prospettiva del canonista è il giusto; studia le relazioni sociali ecclesiali sub ratione iusti, sub ratione iustitiæ»32.


Altri autori della tendenza giuridica, che si riferiscono però ad un quadro epistemologico diverso dalla considerazione degli “oggetti” materiali e formali33, individuano quale oggetto di studio proprio della Canonistica non la Chiesa (da un punto di vista giuridico), ma l’Ordinamento giuridico canonico come tale e le norme che lo costituiscono; dominio di ricerca e linguaggio formale sono conseguenti; lo spagnolo Teodoro Jiménez Urresti ne è il principale fautore. La prospettiva risulta, in tal modo, completamente giuridica in quanto gli elementi d’individuazione disciplinare sono prettamente giuridici. La dimensione specificamente ecclesiale non risulta però né esclusa né insignificante, poiché trova la propria corretta collocazione tra i presupposti valoriali dell’Ordinamento stesso (il dominio di ricerca), alla stregua dei valori costituzionali che condizionano “ideologicamente”34 i diversi sistemi politico-giuridici statuali differenziando radicalmente, per esempio, quelli socialisti da quelli liberali la cui la specificità non risiede, evidentemente, nelle norme giuridiche (il Diritto) ma nei presupposti fondativi (i valori) da cui esse derivano e che devono rendere concretamente applicabili nel vissuto sociale35. T. Jiménez Urresti afferma inoltre che «il Diritto canonico utilizza un linguaggio pratico, nel quale non interessano le disquisizioni teoriche, speculative o dottrinali»36, poiché il Diritto canonico appartiene – classicamente – al novero delle c.d. Teologie pratiche (come la Morale, la Liturgia, la Pastorale).

Alcuni autori negano il carattere teologico della Canonistica considerando che vada escluso dal compito del canonista lo studio diretto del Diritto divino positivo (ossia dei princìpi di rilevanza ecclesiale-istituzionale contenuti nelle fonti della Rivelazione) in quanto tecnicamente non giuridico ma teologico. La Canonistica è così rivolta allo studio dell’Ordinamento giuridico ecclesiale ed alle norme di Diritto positivo vigenti nella Chiesa, non potendosi ritenere Scienza teologica in senso proprio per il fatto che non si occupa direttamente della Rivelazione: si pone espressamente in tal modo la questione epistemologica a riguardo della Canonistica.

È quanto traspare sostanzialmente dal programma con cui la Rivista “Concilium” suggerì nel 1965 di intraprendere il rinnovamento del Diritto canonico37. Tale programma venne sintetizzato con lo slogan: “de-teologizzazione” del Diritto canonico e “de-giurisdicizzazione” della Teologia, in una prospettiva che, per non assolutizzare le opzioni giuridiche contingenti e mutevoli poste lungo la storia, tende a contrapporre l’assolutezza dell’imperativo teologico alla relatività di quello canonico38.

Altri argomenti rivolti a negare una diretta ed espressa teologicità della Canonistica derivano dal circoscrivere la Teologia al solo aspetto speculativo teoretico della vita ecclesiale: in tal senso, P.A. D’Avack assegnava alla Teologia unicamente lo studio dell’aspetto dogmatico e teorico della realtà soprannaturale della Chiesa, come se tale realtà venisse studiata in un modo intellettualistico, avulso dalla concreta e storica esistenza cristiana39.

Per apprezzare anche nell’oggi i motivi che portano alcuni canonisti a sottolineare la giuridicità della loro Scienza occorre tener presente la tendenza, manifestatasi con una certa frequenza in alcuni studi canonistici degli ultimi decenni, a perdere di vista la prospettiva specificamente giuridica per dare ampio spazio a considerazioni che sono più proprie della Ecclesiologia, o della Teologia pastorale. In questo senso è stato rilevato:

«Già da alcuni decenni nella produzione scientifica si dedica giustamente molta attenzione ai fondamenti teologici e filosofici del Diritto canonico. Per troppo tempo aveva predominato il positivismo giuridico. Tuttavia anche la nuova concezione ha un lato negativo. L’interesse comprensibile per la dimensione teologica del Diritto canonico ha portato troppo spesso a un’antitesi in cui la dinamica propria del Diritto non riceve più l’attenzione che merita. Negli autori di questa tendenza si nota che spesso si concentrano sul Diritto in generale e sulla norma giuridica, trascurando invece il concetto giuridico, forse perché sembra statico e tecnico, comunque univoco. Questa concezione sorvola però sulla forza sorprendente che il concetto giuridico sa trarre dalla sua flessibilità»40.


c. Gli argomenti della “tendenza teologica”

La principale caratteristica di quella che abbiamo chiamato “tendenza teologica” è la consapevolezza che la Canonistica è una disciplina intrinsecamente teologica. Non si tratta, cioè, di discutere sulla necessità di svolgere lo studio del Diritto ecclesiale in stretta relazione con la Teologia, o sull’importanza che deve assumere il dato teologico nella riflessione canonistica, ma di affermare che quest’ultima è essenzialmente teologica o, in altri termini, che possiede una dimensione intrinsecamente teologica.

K. Mörsdorf fu sicuramente il canonista che maggiormente contribuì a far sì che il Diritto canonico venisse compreso quale elemento essenziale della Chiesa, promovendo un rinnovamento della Canonistica nella consapevolezza della sua natura teologica. La sua famosa definizione della Canonistica quale «disciplina teologica con metodo giuridico» si trova già nella prima rielaborazione (del 1949) del manuale di E. Eichmann41. L’impegno per diffondere la convinzione che il Diritto canonico va studiato ed elaborato in consonanza con il suo carattere fondamentalmente teologico (che non implica perdere di vista la sua specificità giuridica, ma al contrario la rafforza) è stato il filo conduttore della sua ampia produzione scientifica42. Egli ha sintetizzato il suo pensiero affermando:

«La Canonistica si occupa dell’ordinamento della comunità ecclesiale quale istituzione che, nelle sue linee fondamentali, si basa sulla volontà di Gesù Cristo; è perciò una disciplina teologica e coglie il suo oggetto alla stregua della dogmatica, ossia illuminata dalla fede che si basa sull’autorità di Dio. La Canonistica è allo stesso tempo una Scienza giuridica e, da un punto di vista formale, si può paragonare alla sua sorella civile, di cui ha preso le caratteristiche del pensiero giuridico che, applicate all’àmbito ecclesiale, hanno originato un fecondo sviluppo. Si può perciò affermare in modo succinto che la Canonistica è una disciplina teologica con metodo giuridico»43.


Il carattere intrinsecamente teologico del Diritto canonico fu evidenziato da Mörsdorf con l’appellativo di «ius sacrum». Voleva così sottolineare il fatto che, quale elemento appartenente essenzialmente alla natura della Chiesa, non può essere trattato alla stregua di qualsiasi altro Diritto umano. La concezione di Mörsdorf è stata così esplicitata da W. Aymans, il principale continuatore della sua linea:

«Il Diritto canonico non è semplicemente il Diritto di una comunità religiosa, in tal modo che –prescindendo da determinate premesse– potrebbe costruirsi sulla stessa base filosofica del Diritto statale e svilupparsi con gli stessi princìpi. Dev’essere, invece, considerato quale elemento essenziale della Chiesa stessa e, di conseguenza, dovrà basarsi e configurarsi a partire dalla concezione dell’essenza teologica della Chiesa»44.


In altri termini, il Diritto canonico, per la sua intrinseca connessione con la Chiesa richiede di essere studiato con l’apporto diretto di princìpi, criteri e categorie determinati dalla fede45 secondo quanto espresso dalla c.d. Teologia positiva. Occorre inoltre segnalare che una concezione della Canonistica come mera Scienza giuridica difficilmente potrebbe evitare il pericolo di introdurre nella Chiesa una visione giuridica della vita ecclesiale sullo stampo di quella della società civile: volontarista e spesso disincarnata. Risultano opportune, al riguardo, le parole di Giovanni Paolo II in occasione della presentazione del nuovo Codice:

«È da questa mirabile realtà ecclesiale, visibile e invisibile, una ed insieme molteplice, che dobbiamo riguardare il ‘Ius Sacrum’, che vige ed opera all’interno della Chiesa: è prospettiva che, evidentemente, trascende quella meramente storico-umana, anche se la conferma e avvalora»46.


Quando si afferma che il Diritto canonico è un elemento essenziale della Chiesa non si pretende, evidentemente, di asserire che ogni norma canonica appartenga alla sua essenza, ma solo che la Chiesa ha un’intrinseca e costitutiva dimensione istituzionale, quindi giuridica. Bisogna inoltre ricordare che, pur dovendo distinguere fra norme di origine divina e altre di origine umana, il Diritto canonico costituisce un’unità complessa non scomponibile.


3. Il metodo canonistico

a. Presupposti del metodo canonistico

Per quanto nel secolo scorso si sia discusso in Italia, e si continui, sulla reale esistenza di un metodo specificamente giuridico47, è comunque possibile affermare che il metodo canonistico partecipa oggi delle caratteristiche del metodo giuridico in generale, che derivano dalle peculiarità della realtà giuridica (la determinazione del “giusto” che implica: esistenza di un titolo giuridico, intersoggettività e socialità, beni con manifestazioni esterne, istituzioni) e dalla finalità del Diritto (esigenza di chiarezza, certezza, equilibrio, sostenibilità, ecc.) con una progressiva apertura e sensibilità verso la c.d. comparazione tra differenti Ordinamenti giuridici, oltre che il delinearsi di una vera e propria comparazione giuridica tra i diversi sistemi religioso-confessionali.

Quando però si afferma che la Canonistica utilizza un metodo giuridico non ci si riferisce tout-court al metodo sviluppato dalla Scienza giuridica secolare, ma alla concettualizzazione propria che è comune ad ogni fenomeno giuridico. Senza negare che la Scienza giuridica secolare possa offrire alla Canonistica dei validi ausilii, occorre però tener presente che il metodo giuridico-canonico dovrà necessariamente essere co-determinato dalla realtà ecclesiale a cui fa riferimento. In tal senso Aymans ha perfezionato la definizione di Mörsdorf affermando che «la Canonistica è una disciplina teologica che opera con metodo giuridico alle condizioni determinate dalla propria conoscenza teologica»48. Così, anche quando il canonista riterrà conveniente ricorrere a determinate tecniche o istituti elaborati dal Diritto secolare, dovrà necessariamente esaminare fino a che punto tali ausilii siano compatibili con la realtà soprannaturale della Chiesa e apportarvi, eventualmente, le necessarie modifiche concettuali ed applicative.

Come qualunque Ordinamento giuridico non è solo tecnico ma esprime e realizza una precisa concezione del mondo, della vita e della persona umana (liberale o socialista, p. es.) e questo ne condiziona il metodo scientifico di approccio, così, quello canonistico ha alcune peculiarità che derivano dalla specificità del proprio oggetto. Quest’ultimo è infatti una realtà il cui nucleo è basato sulla Rivelazione cristiana. Di conseguenza, il metodo canonistico sarà determinato, oltre che dalle caratteristiche del metodo giuridico in generale, dalla luce della Rivelazione (fides quæ) che va accolta con la virtù della fede (fides qua) e con la guida del Magistero della Chiesa49 nell’orizzonte di una vita davvero credente ed ecclesiale, in cui la piena comunione di fede, Sacramenti e governo non può essere solo formale. In tal senso G. Ghirlanda ha osservato che

«l’uso della tecnica giuridica è necessario, ma sempre subordinandolo ad una metodologia teologica, la quale esige che si proceda in una prospettiva di fede e che si prendano le mosse dalla Rivelazione, Scrittura e Tradizione, e dal Magistero»50.


Il dato risulta ormai pienamente acquisito e nessuno pretende più di studiare solo ‘dogmaticamente’ il Diritto canonico alla stregua del Diritto romano o di qualunque altro Ordinamento giuridico con l’idea di essere un semplice osservatore esterno, ‘estraneo’ all’oggetto ed al contesto della ricerca.


b. Il metodo canonistico in riferimento alle altre discipline teologiche

Premesso il permanere della difficoltà terminologica e concettuale d’individuazione dello stesso “Diritto canonico”, identificato spesso equivocamente sia col Diritto della Chiesa nella sua essenzialità e globalità, che col Diritto della Chiesa nella sua formulazione positiva, che con la Scienza del Diritto canonico51, la problematica attuale della Canonistica rimane quella della sua identità ‘scientifica’ e non certo ‘religiosa’ (in riferimento alla fede).

La questione epistemologica continua infatti a giacere non risolta nella tensione tra le due prospettive sin qui evidenziate: quella che studia il concreto vissuto giuridico della Chiesa come espressione giuridica di un preciso ordine assiologico (religioso-cristiano) –impostazione giuridica– e quella che studia la Chiesa stessa alla luce del suo agire giuridico –impostazione teologica–.

Il rapporto fra Teologia e giuridicità nella costruzione del metodo della Canonistica pare tuttavia indirizzarsi sempre maggiormente verso una sostanziale integrazione di orizzonti, almeno operativi, al punto da trovare una concordia di fondo sul fatto che:

«Il metodo teologico va unito a quello giuridico in tal modo che il metodo teologico viene specificato da quello giuridico e, al contempo, il metodo giuridico viene modificato da quello teologico. La materia studiata dalla Canonistica non può dividersi come se una parte debba elaborarsi con metodo teologico e un’altra con metodo giuridico. Bisogna piuttosto affermare che tutto il Diritto canonico va studiato contemporaneamente con metodo teologico e giuridico. Un oggetto che non potesse essere studiato con l’unione di entrambi i metodi, non sarebbe propriamente qualificabile come canonistico»52.


Ciò non impedisce tuttavia che, secondo il livello in cui ci si muove nello studio del Diritto canonico (fondamentale, tecnico o prudenziale) e secondo l’àmbito materiale di cui ci si occupa (soprattutto secondo la vicinanza alle concrete norme positive) l’incidenza della dimensione teologica o di quella giuridica si manifesti con accentuazioni ben diverse.

Il problema per di più risente in modo decisivo dell’analoga tensione presente oggi nell’ambito teologico circa l’individuazione e la definizione del metodo teologico cui parte della Canonistica vuole riferirsi. Anche nella Teologia, infatti, il Vaticano II ha influito in modo significativo inducendo prospettive e concrete scelte metodologiche ancora in parziale evoluzione ed assestamento; la discontinuità tra Apologetica e Teologia fondamentale pare emblematica in merito.


III. Prospettive

1. Superare le dicotomie istituzione-persona, Diritto-pastorale e Diritto-Teologia

a. Istituzione e persona: una contrapposizione già in gran parte superata

La grande prospettiva ecclesiologica aperta dal Concilio Vaticano II con la concezione della Chiesa come Popolo di Dio, comunione «di fede, speranza e carità» (LG 8), in cui il primato dell’ascolto e della sottomissione alla stessa Parola di Dio (LG 12) crea l’indispensabile premessa alla comune esperienza della salvezza donata da Cristo e partecipata ai suoi fedeli attraverso i Sacramenti, ha inaugurato anche una nuova ‘era’ ecclesiale.

L’unum genus Christianorum in ragione dell’iniziazione cristiana pone oggi i discepoli del Cristo in una condizione ecclesiale completamente rinnovata e certamente più aderente all’esperienza originaria. Il comune sacerdozio (LG 10) e l’universale chiamata alla santità (LG 40) restituiscono a ciascun fedele in quanto tale la dignità filiale guadagnata dal sacrificio di Cristo sulla croce.

L’innovativa dimensione della communio, per quanto gerarchicamente ordinata e strutturata, restituisce a ciascuna persona ed a ciascuna realtà ecclesiale un ruolo insostituibile ed innegabile; il Collegio episcopale, le Chiese particolari, l’intero Popolo di Dio, offrono oggi una prospettiva unitaria della vita nuova in Cristo secondo un respiro ben diverso da quello puramente gerarchico che la reazione alla Riforma protestante aveva accentuato per tutelare l’unità della fede e della Chiesa.

L’Ecclesiologia tridentina aveva ridotto i ministeri ecclesiali –soprattutto quelli ordinati– a funzioni autoritative da svolgere con rigore perché il gregge di Cristo non andasse disperso; l’accento posto sulla legittimità dell’azione sacramentale aveva accentuato il formalismo della vita ecclesiale incoraggiandone la concezione gerarchica, creando autorità e sudditi. L’istituzione ecclesiale si era così allontanata sempre maggiormente dai fedeli ponendoli come sotto tutela da parte dei sacri pastori. La persona come tale in quel contesto finiva per non apparire neppure, sopraffatta dalla sua collocazione gerarchica e dal suo ruolo, legato principalmente allo status canonico (duo sunt genera christianorum: clerici et laici).

L’attuale prospettiva, soprattutto attraverso il ricupero costitutivo dei tria munera Christi, pone pastori e fedeli in tutt’altra prospettiva e relazione. Il ministeriale sacerdotium, proprio perché diverso per natura e non per solo ‘grado’, è ministero e diaconia verso il commune sacerdotium di tutti i fedeli, e non più funzione autoritativa da svolgere verso i sudditi canonicamente assegnati in ragione di un ufficio (spesso beneficiale).

La vera partecipazione di tutti i fedeli alla missione evangelizzatrice della Chiesa, la loro formazione nelle Scienze teologiche, la loro partecipazione alla decisionalità ecclesiale mediante i diversi Consigli voluti dal Vaticano II, integrano oggi i fedeli nell’attività della Chiesa che loro stessi svolgono in prima persona in ragione del Battesimo ricevuto. Anche i diversi doni con cui lo Spirito santo arricchisce i singoli, illuminandone il percorso spirituale, missionario e caritativo, contribuiscono all’edificazione della stessa Chiesa.

Il forte ricupero della dimensione comunitaria della vita ecclesiale induce una vera soggettività dei singoli che vivono in prima persona una vera esperienza di Chiesa, percependo se stessi come Chiesa e non più la Chiesa come una realtà distaccata, estranea.


b. Diritto e pastorale: l’importanza di una correlazione

Il clima antigiuridico, che dopo il Vaticano II si è esteso in diversi ambiti della Chiesa, ha contribuito a diffondere l’idea che il Diritto non giovi alla pastorale e che nella pastorale sia meglio prescindere il più possibile da considerazioni giuridiche. Tale posizione è stata alimentata dalla contestazione dell’autorità che ha caratterizzato il ’68, nonché dalla concezione normativista e positivista del Diritto, che perde di vista il suo intrinseco vincolo con la giustizia. Le stesse riforme conciliari –fraintese– parevano aver autorizzato un clima di anomia e spontaneismo pastorale.

L’avversione al Diritto era anche alimentata dalla sempre inevitabile imperfezione nelle regole umane, poiché esse non rispondono mai del tutto alle esigenze della realtà e possono a volte sembrare rigide e non adattarsi alle necessità circostanziali. Le norme giuridiche non correttamente intese sembrano infatti intralciare l’azione pastorale o favorire un legalismo privo di iniziativa e di fantasia creatrice che sono così importanti nella pastorale. Di conseguenza, le leggi, i processi, le sanzioni, ecc. non vengono considerati di per sé come realtà pastorali. Il Diritto, poi, è stato visto quale strumento in mano all’autorità per fini prevalentemente repressivi e di tutela dello status quo, mentre la pastoralità vorrebbe dire promozione positiva e libera della nuove vie richieste dai tempi e che lo Spirito suscita nella Chiesa. Non sempre queste posizioni raggiungono gli estremi dell’antitesi; anche, però, in posizioni piuttosto equilibrate, e sinceramente aperte ad accogliere il Diritto canonico con senso ecclesiale, facilmente si continuano a notare elementi di disarmonia concettuale e vitale tra Diritto e pastorale.

Questa dialettica è simile a quella tra Diritto e carità: nella Chiesa il senso pastorale porterebbe a risolvere i problemi in chiave di carità, e dunque di misericordia e comprensione verso le persone nelle loro singolarissime circostanze. Ciò richiederebbe il superamento di una logica improntata al rigore e alla severità di un formalismo non evangelico, il quale metterebbe certe considerazioni istituzionali, societarie e collettive al di sopra del bene di ciascuna persona.

La sfida attuale consiste dunque nel riuscire a trovare –nella teoria e nella prassi– una nuova sintesi, nella quale non vada perso niente di quanto appartiene davvero al mistero della Chiesa. A tale sintesi possono giovare molto sia l’esperienza millenaria della Chiesa in campo giuridico sia le istanze di questi anni in tutto ciò che esse veicolano di positivo: la consapevolezza dell’indole propriamente ecclesiale del Diritto canonico, il senso dell’uguaglianza e della libertà di tutti i fedeli, la consapevolezza dell’importanza dei carismi nella vita ecclesiale, il desiderio di autenticità, di creatività e di un rinnovato slancio missionario verso tutti gli uomini, l’attenzione sollecita ai bisogni pastorali delle persone e delle comunità, ecc. Tutte istanze che di per sé non sono per niente destinate ad entrare in conflitto con la realtà del Diritto canonico che, anzi, ha sempre teso a regolarne l’effettivo esercizio e bilanciamento nella più ampia comunione ecclesiale.


c. Verso l’integrazione di Canonistica e Teologia

Nel panorama dottrinale sin qui illustrato si attestano, dunque, due concezioni: da una parte quella secondo cui il Diritto canonico va inteso come una realtà ecclesiale specificata giuridicamente ed il suo studio come disciplina teologica, dall’altra quella che considera più appropriato intendere il Diritto canonico come una realtà giuridica specificata ecclesialmente e il suo studio come Scienza giuridica.

A questo proposito sembra innanzitutto che vada sfumata l’ipotesi di contrapporre Teologia e Canonistica nel senso che la prima verrebbe svolta sub ratione Deitatis, mentre la seconda sub ratione iusti. La prospettiva della Canonistica potrebbe porsi in realtà

«contemporaneamente sub ratione Deitatis e sub ratione iusti. Sub ratione Deitatis nel senso che il canonista deve studiare, comprendere e configurare il Diritto divino positivo (nucleo di tutto il Diritto canonico) in una prospettiva di fede, ossia in quanto rivelato da Dio e riconosciuto come tale dalla Chiesa. Sembra infatti essere questo il senso con cui San Tommaso d’Aquino utilizza l’espressione ‘sub ratione Dei’ per indicare la formalità della Scienza teologica53»54.

Allo stesso tempo, per altra via epistemologica, la Canonistica dovrebbe saper distinguere al proprio interno tra l’elemento contenutistico extra-giuridico (teologico) e quello struttural-funzionale tipico dell’istituzionalità umana; l’uno fondato, espresso ed approfondito secondo le fonti, le modalità e le acquisizioni proprie della Teologia, l’altro analizzato, sistematizzato e gestito secondo le logiche ed i concetti propri della riflessione giuridica, evitando che la contrapposizione di contenuti e forme lasci i primi senza concreta espressione e le seconde senza effettiva consistenza. In tal senso si è recentemente pronunciato Benedetto XVI osservando che la legge canonica

«deve essere legata, da un lato, a quel fondamento teologico che le fornisce ragionevolezza ed è essenziale titolo di legittimità ecclesiale; dall’altro lato, essa deve essere aderente alle mutabili circostanze della realtà storica del Popolo di Dio. Inoltre, deve essere formulata in modo chiaro, senza ambiguità, e sempre in armonia con le restanti leggi della Chiesa»55.


In secondo luogo va segnalato come la netta distinzione fra Teologia e Canonistica, considerando la prima di indole speculativa e la seconda eminentemente pratica, si basi su di una comprensione della Scienza teologica oggi non più universalmente condivisa, poiché «con il Vaticano II il concetto di Rivelazione è evoluto da una visione intellettualistica verso una visione storico-salvifica»56. Anche se tale affermazione richiederebbe ulteriori sfumature, certamente oggigiorno la Scienza teologica non viene intesa come indagine astratta della verità rivelata, ma come lo studio dei misteri salvifici annunciati, celebrati e vissuti in comunione con la Chiesa.

In questa prospettiva per cogliere il senso con cui oggi si utilizza l’espressione «disciplina teologica»57 risultano illuminanti le considerazioni della Esortazione apostolica Pastores dabo vobis (25.I 1992) sulla Teologia pastorale (quest’ultima è infatti, come la Canonistica, una disciplina prevalentemente pratica). Riguardo alla formazione pastorale dei candidati al sacerdozio, il citato documento afferma:

«Si esige, dunque, lo studio di una vera e propria disciplina teologica: la Teologia pastorale o pratica, che è una riflessione scientifica sulla Chiesa nel suo edificarsi quotidiano, con la forza dello Spirito, dentro la storia (...) La pastorale non è soltanto un’arte né un complesso di esortazioni, di esperienze, di metodi; possiede una sua piena dignità teologica, perché riceve dalla fede i princìpi e i criteri dell’azione pastorale della Chiesa nella storia»58.


È quindi possibile affermare che per «disciplina teologica» va intesa ogni riflessione scientifica intorno a qualsiasi aspetto della realtà viva e salvifica della Chiesa, svolta con princìpi e criteri di fede (fides quæ et fides qua creditur). Secondo l’aspetto studiato di quella realtà divino-umana che è la Chiesa, ognuna delle discipline teologiche svilupperà, a sua volta, princìpi, criteri e metodi propri, ma sempre sulla base e con la luce della fede. In tal senso è innegabile che sia appropriato qualificare come disciplina teologica non solo la dogmatica e la morale, ma anche la Teologia pastorale, la liturgia59, la storia della Chiesa60 ...e la Canonistica.

Da quanto sin qui esposto si deduce che nella Canonistica l’aspetto teologico e quello giuridico non si possono considerare come contrapposti, nel senso di un «aut... aut», ma integrati nella costituzione di quell’unità epistemologica che è propria di questa Scienza. Il lavoro del canonista va visto, di conseguenza, come intrinsecamente teologico e, nell’ampio spettro delle discipline teologiche, specificato in virtù del suo peculiare punto di vista (la prospettiva giuridica), che contribuisce a sua volta a determinarne il metodo, il linguaggio, le tecniche.

Ciò implica riconoscere che nella Scienza teologica (conoscenza di Dio e del suo disegno salvifico alla luce della fede) si devono distinguere diverse prospettive, che danno luogo alle varie discipline teologiche: la prospettiva dogmatica, morale, ascetica, pastorale, liturgica, storica... e quella giuridica. È infatti quest’ultima prospettiva a determinare la Canonistica all’interno delle discipline teologiche. Il metodo teologico (o logica della fede) comune ad esse troverà in ciascuna una specificazione in consonanza con le caratteristiche del rispettivo punto di vista. In questo senso si potrebbe definire la Canonistica come disciplina teologica con metodo giuridico, anche se la formula è forse fin troppo sintetica prestandosi ad equivoci61.

Nel dibattito in corso sul rinnovamento della Canonistica si sono anche sollevate delle critiche contro il tenore poco ‘giuridico’ di certi studi di Diritto canonico, qualificandoli come frutti del ‘teologismo’ o della ‘teologicizzazione’ del Diritto canonico. Queste critiche sembrano pertinenti nella misura in cui denunciano la tendenza a travisare il linguaggio giuridico utilizzando una terminologia vaga e polivalente, o il malinteso di pensare che la teologicità del Diritto canonico significhi corredare con abbondanza di definizioni e di esortazioni i testi legali62. Più grave –e ancor più criticabile– è la tendenza ad accentuare smisuratamente la differenza fra Diritto canonico e secolare fino all’estremo di «ridurre la sostanza del Diritto canonico alla coscienza dell’individuo e di concepirla come mera direttrice del comportamento, portando così alla dissoluzione del suo carattere giuridico»63.

Alla luce del pericolo reale rappresentato da tali tendenze, non solo per la Canonistica, ma anche per la Chiesa stessa, risulta opportuno l’impegno con cui alcuni canonisti sottolineano il carattere ed il metodo propriamente giuridico di questa Scienza. Tuttavia, come conclusione del nostro studio, possiamo affermare che la concezione della Canonistica quale Scienza intrinsecamente teologica non implica affatto una dissoluzione o svalutazione della specificità giuridica, o della forza vincolante del Diritto ecclesiale. Al contrario, proprio così queste due caratteristiche risultano adeguatamente fondate e illuminate. Solo una Canonistica che sappia integrare nel giusto modo la sua dimensione teologica con quella giuridica sarà in grado di comprendere e di esporre il Diritto canonico nella sua natura intrinsecamente ecclesiale e nella sua portata propriamente giuridica64.


2. Esigenze di interdisciplinarità

La considerazione della Canonistica quale disciplina teologica oltre che giuridica implica importanti conseguenze per quanto riguarda i rapporti con le altre discipline teologiche e con quelle giuridiche.

Riguardo al rapporto con le altre discipline teologiche va ricordata la profonda unità della Teologia, un’unità più profonda di qualsiasi altra Scienza dovuta alla partecipazione della stessa unità divina (si dice che la Teologia è una Scienza atoma, ossia che non permette separazioni).

In questa linea, l’Esortazione ap. Pastores dabo vobis (25. 1992) raccomanda che «l’alunno sia aiutato ad operare una sintesi che sia il frutto degli apporti delle diverse discipline teologiche, la cui specificità acquista autentico valore solo nella loro profonda coordinazione» (n. 54). Il Diritto canonico è qui considerato in quella riflessione teologica in cui l’uomo è

«chiamato a ‘credere’, a ‘vivere’, a ‘comunicare’ agli altri la fides e l’ethos cristiani. Di qui lo studio della Dommatica, della Teologia morale, della Teologia spirituale, del Diritto canonico e della Teologia pastorale» (n. 54).

Non è difficile scorgere nell’ultima riforma circa gli studi ecclesiastici di Diritto canonico65 e, in modo specifico, nell’esigenza di una maggior esigenza riguardo agli studi teologici, la consapevolezza delle esigenze di questa interdisciplinarità. Evidentemente ciò non deve essere inteso nel senso di portare i canonisti ad allontanarsi (o estraniarsi) dallo studio del Diritto come tale, dallo studio della dogmatica giuridica o dalla Filosofia del Diritto. Tuttavia, nell’utilizzo delle tecniche giuridiche sviluppate nell’ambito secolare, essi dovranno vagliare attentamente la loro compatibilità concettuale e funzionale con le caratteristiche proprie della Chiesa –che, in quanto comunità di fede, speranza e carità, è profondamente diversa da ogni Stato– e quindi del suo Diritto.

Alle esigenze di interdisciplinarità proprie della Scienza canonistica si è riferito Giovanni Paolo II nel Discorso, pronunciato il 24.01.2003, ai partecipanti alla Giornata accademica organizzata in occasione dei 20 anni del CIC.

«L’intenzione che ha presieduto la redazione del nuovo Corpus Iuris Canonici è stata ovviamente quella di mettere a disposizione dei Pastori e di tutti i fedeli uno strumento normativo chiaro, che contenesse gli aspetti essenziali dell’ordine giuridico. Sarebbe però del tutto semplicistico e fuorviante concepire il Diritto della Chiesa come un mero insieme di testi legislativi, secondo l’ottica del positivismo giuridico. Le norme canoniche, infatti, si rifanno ad una realtà che le trascende; tale realtà non è solo composta di dati storici e contingenti, ma comprende anche aspetti essenziali e permanenti nei quali si concretizza il Diritto divino.

Il nuovo Codice di Diritto Canonico –e questo criterio vale anche per il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali– deve essere interpretato ed applicato in quest’ottica teologica. In tal modo, si possono evitare certi riduzionismi ermeneutici che impoveriscono la Scienza e la prassi canonica, allontanandole dal loro vero orizzonte ecclesiale. Ciò avviene, com’è ovvio, soprattutto quando si pone la normativa canonica al servizio di interessi estranei alla fede e alla morale cattolica» (n. 2).

«In primo luogo, perciò, il Codice va contestualizzato nella tradizione giuridica della Chiesa. Non si tratta di coltivare un’astratta erudizione storica, ma di penetrare in quel flusso di vita ecclesiale che è la storia del Diritto Canonico, per trarne lume nell’interpretazione della norma. I testi codiciali, infatti, si inseriscono in un insieme di fonti giuridiche, che non è possibile ignorare senza esporsi all’illusione razionalistica di una norma esaustiva di ogni problema giuridico concreto. Una simile mentalità astratta si rivela infeconda, soprattutto perché non tiene conto dei problemi reali e degli obiettivi pastorali che sono alla base delle norme canoniche.

Riduzionismo anche più pericoloso è quello che pretende di interpretare ed applicare le leggi ecclesiastiche distaccandole dalla dottrina del Magistero. Secondo tale visione, i pronunciamenti dottrinali non avrebbero alcun valore disciplinare, valore che sarebbe da riconoscere soltanto agli atti formalmente legislativi. È noto che, in quest’ottica riduzionista, si è arrivati talvolta ad ipotizzare perfino due diverse soluzioni dello stesso problema ecclesiale: l’una ispirata ai testi magisteriali, l’altra a quelli canonici. Alla base di una simile impostazione vi è un’idea di Diritto Canonico molto impoverita, quasi che esso si identificasse con il solo dettato positivo della norma. Così non è: la dimensione giuridica infatti, essendo teologicamente intrinseca alle realtà ecclesiali, può essere oggetto di insegnamenti magisteriali, anche definitivi.

Questo realismo nella concezione del Diritto fonda un’autentica interdisciplinarità tra la Scienza canonistica e le altre Scienze sacre. Un dialogo davvero proficuo deve partire da quella realtà comune che è la vita stessa della Chiesa. Pur studiata da angolature diverse nelle varie discipline scientifiche, la realtà ecclesiale rimane identica a se stessa e, come tale, può consentire un interscambio reciproco fra le Scienze sicuramente utile a ciascuna» (n. 3)66.



in: APOLLINARIS, LXXXI (2008), pp. 603-640.