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Norme e regole nella vita e nel Diritto

Sommario: 1. La questione di base. 2. Predittività ed aspettative. 3. Il presupposto. 4. Il presupposto gnoseologico. 5. Precettività e fallacia naturalistica. 6. Regola, operatività e significato. 7. Il problema linguistico e l’analogia. 8. Il problema dell’auctoritas. 9. Il Diritto come Ordo. 10. Ius naturale e Ius divino. 11. Il Diritto tra volontà e verità. 12. Conclusione


Summary: l. The basic question. 2. Predictivity and expectations. 3. The presupposition. 4. The gneosological presupposition. 5. Preceptivity and naturalistic fallacy. 6. Rule, operation and meaning. 7. The linguistic problem and analogy. 8. The problem of “auctoritas”. 9. Law as “Ordo”. 10. Natural law and Divine law. Il. The law between will and truth. 12. Conclusion. 



1. La questione di base

1.1 Il contesto

Accostando in modo critico la Teoria generale del Diritto canonico, soprattutto negli ultimi anni, ci si rende conto del problematico delinearsi di una tematica, spesso solo latente ma non per questo meno decisiva, circa la qualificazione ontologica del Diritto (canonico) stesso e la portata della sua vincolatività etico/morale; ciò soprattutto nelle opere di carattere ‘ecclesiastico’.

Il problema riguarda la ‘natura’ più profonda del Diritto (canonico), percepito da alcuni come ‘norma’, con tanto di implicita ed espressa ‘doverosità’ etico-morale-dogmatica: un ‘dover-essere’ metafisicamente necessitante, oppure da altri come –semplice– ‘regola’ di natura ‘funzionale’ ed operativa: un ‘dover-fare’ del tutto ‘categoriale’, eticamente, moralmente e dogmaticamente non-autonomo né autofondante. Tale bipolarità tra i termini/concetti di ‘norma’ e ‘regola’, se appare oggi forzata e solo parzialmente apprezzabile nel linguaggio filosofico e delle diverse Scienze e Discipline contemporanee così come anche nel linguaggio tecnico abituale, non va tuttavia sottovalutata nel linguaggio comune, soprattutto ecclesiastico e, più ancora, nelle sue concettualizzazioni pregiudiziali di origine essenzialmente morale in cui sono cresciuti la quasi totalità dei canonisti (ecclesiastici) anche del secolo scorso in riferimento soprattutto all’idea di ‘dovere’.

È questa, infatti, la vera chiave ermeneutica della visione comportamentale ecclesiastica pienamente trasfusasi nella Canonistica codiciale di inizio Novecento: «l’idea del dovere è necessariamente connessa con l’idea di legge, essendo quello un effetto di questa». Di più, in questa prospettiva:

«legge, nel senso più proprio e più stretto (legge morale), si dice solamente quella norma dell’atto libero, che obbliga l’uomo. Essa non solo gli mostra come può e deve regolare la sua condotta […] ma si avvicina a lui con una pretesa assoluta, e gli dice: tu devi! Le leggi di un’arte –finché vengono in campo esse soltanto– possiamo osservarle o trasgredirle a piacere, senza cessare per questo di essere moralmente buoni e virtuosi; e sogliono, quindi, chiamarsi piuttosto regole che leggi. Al contrario le leggi vere e proprie, obbliganti, non possono violarsi con libera coscienza, senza metterci in contraddizione con l’ordine etico e meritare biasimo. La loro osservanza non è rimessa al nostro arbitrio.

In questo senso proprio, la legge si può giustamente definire: un ordinamento razionale, reso noto sufficientemente e promulgato dal superiore di una comunità pubblica, per il bene comune. […] Per ora ci limitiamo a spiegarne il significato.

a) Chiamiamo legge un ordinamento, cioè un principio pratico, che esige –in forma di comando– un determinato atto da coloro, cui è rivolto: cosicché viene imposta loro una certa costrizione morale. Noi esprimiamo tale costrizione con la parola dovere. […] Per questo dovere le leggi proprie, morali, si differenziano dalle regole dell’arte. […]

f) La legge deve emanare dal soggetto del massimo potere pubblico di giurisdizione. […] Di fatti la legge è un precetto obbligante che viene imposto alla comunità pubblica. Conseguentemente è un’emanazione ossia una manifestazione del massimo potere di giurisdizione sulla medesima; quindi può derivare unicamente da chi possiede tale potere, o per lo meno da chi ha ricevuto da esso l’autorizzazione di dettare norme obbliganti. […]

Le leggi vere e proprie si dicono leggi morali in senso stretto, in quanto impongono alla volontà esigenze incondizionate. […] suppone ed esprime la volontà di obbligare. Da tale volontà il giudizio pratico riceve tutta la sua forza obbligante. Quindi la legge si concepisce, in generale, come espressione della volontà del legislatore, da cui dipende pure l’obbligazione».


Ciò basti a dar fondamento e significatività alla ‘contrapposizione’ concettuale –e strumentale– così proposta, non solo all’interno dell’orizzonte canonistico che ci ha preceduti ma anche attuale; dando pure sufficiente ragione dell’equivocità in materia introdottasi con la promulgazione del Codice pio-benedettino.


Al di là tuttavia della necessaria riflessione su questo tema in ambito teoretico generale, più ‘filosofico’, non si può ignorare anche l’importanza di un approccio concreto e pratico a tale problematica così come si presenta oggi al tecnico del Diritto canonico davanti alla possibilità/necessità di prendere sul serio il dettato testuale delle prescrizioni canoniche –codiciali e non–: che ‘valore’ hanno, in concreto, le diverse prescrizioni con cui la Chiesa struttura e guida se stessa ed il proprio funzionamento istituzionale?

In altre parole: la prescrizione canonica, al di là della sua denominazione tecnica (Legge, Decreto generale, Istruzione, Precetto, ecc.), va ritenuta ed applicata in quanto ‘norma’ e quindi per imperatività ‘interna’ (dogmatica o trascendentale) oppure in quanto ‘regola’ e perciò per funzionalità tutto sommato ‘estrinseca’?

A questo primo problema se ne accompagna un secondo –conseguente–, non meno concreto e spinoso, suscitato dalle due ‘soluzioni’ interpretative estreme: [a] come e perché si possa o si debba non-applicare con precisione la ‘norma’ (da cui p.es. si può dispensare), [b] come e perché doverla applicare con precisione (se è solo una formalità)? Mentre, infatti, la ‘norma’ obbligherebbe ab intrinseco –ontologicamente–, la ‘regola’ non avrebbe alcun valore ‘proprio’ oltre la pura –estrinseca– convenzionalità/opportunità che l’ha generata, non meritando pertanto più attenzione di un semplice ‘consiglio’ pro opportunitate… ragionevole ma di scarsa ‘necessità’ e quindi, tutto sommato, trascurabile.

Il Diritto canonico, soprattutto codiciale, viene così –ancora una volta– posto alle strette tra due poli: da una parte un ontologismo ‘gius-divinistico’ ieratico e sacrale oppure un –equifunzionale– normativismo autoritario e volontarista per i quali –semplicisticamente– la “norma è la norma” e deve essere obbedita (Ius quia iussum); dall’altra parte, un atteggiamento destrutturante, convenzionalista e relativista, che renderebbe del tutto inutile qualunque genere di organizzazione a-priori del vissuto anche ecclesiale, in forza di una visione a-nomica o anarcoide che lasci tutto all’immediatezza delle circostanze di cose e, soprattutto, di persone, stemperando ogni cosa nelle tinte pastello di ‘certa’ carità, della Communio o del Carisma… uniche ‘vere’ norme per la Chiesa. La ricaduta dell’una o dell’altra opzione sul metodo della Canonistica è di tutta evidenza, così come la derivante concezione della ‘natura’ stessa del Diritto canonico, della sua fisionomia e teorizzazione.


La domanda circa la natura (o essenza) normativa o regolamentare del Diritto risalta poi nell’orizzonte canonistico attuale per la sua novità poiché una tal questione, che non poteva neppure porsi fino al Vaticano II, fatica ancor oggi anche solo ad esser tematizzata a causa del perdurare in molti ambienti di una mentalità –in fondo indiscussa– moralistica di stampo precettivo.

Di fatto in quella concezione, secondo cui “omnis Lex est præceptum”, non restava altro –e fondamentalmente– che ‘obbedire’ per molti e ‘comandare’ per qualcuno, visto che la ‘cornice’ interpretativa generale risultava maggiormente basata sulla ‘qualità’ del soggetto (autorità o suddito) che sulla reale consistenza dell’oggetto: l’azione da compiersi.

L’estrema confusione, poi, derivante dalla sostanziale indifferenziazione tra Diritto, Morale e Liturgia accrescevano e confermavano ancora, ben oltre gli inizi del secolo scorso, la portata totalizzante di tale precettività, come ben dimostrano le chiare affermazioni del Renard nel 1936 da una ‘tribuna’ non certo ‘ecclesiastica’ né antimodernista o reazionaria:

«Teologia, Liturgia, Diritto canonico: tre diritti frammentari, ma complementari e per conseguenza solidali, triplice manifestazione delle facoltà umane associate nel servizio della verità, triplice via d’accesso alla contemplazione del mistero, sotto il lume della fede!»


Non a caso già dal 1905 il Gesuita Arthur Vermeersch aveva fondato presso l’Università Gregoriana di Roma la Rivista intitolata “Periodica de re liturgica, morali et canonica” palesando un chiaro ‘programma’ in grado di propugnare e sostenere la profonda unità che ancora per lunghi decenni si sarebbe presunta esistere tra queste aree disciplinari, accomunate dal semplice ‘dover fare’, all’interno della più generica ‘Teologia pratica’, che rimase dominante fino agli stessi anni del Vaticano II, e della cui ‘stabilità’ dottrinale rendono ancora eloquente testimonianza opere quali il “Dictionarium morale et canonicum” del 1962, forse ultima espressione significativa di questa impostazione. Il rinforzo, d’altra parte, che l’insegnamento della Teologia morale aveva ricevuto dalla promulgazione del Codice pio-benedettino è ben conosciuto.

Allo stesso tempo onor di verità esige la consapevolezza che l’ambito socio-culturale europeo delle prime decadi del Novecento fosse particolarmente predisposto a tal genere di vedute, come ben dimostra l’affermarsi dei diversi regimi ‘etici’ che sconvolsero l’Europa del tempo: dalla dittatura del proletariato sovietica, al nazional-socialismo hitleriano, al fascismo italiano. Lo stesso Hans Kelsen (1881-1973) non avrebbe potuto trovar terreno migliore per la propria “dottrina pura del Diritto”.


Per altro verso –forse– solo chi è cresciuto in ambienti formativi e spirituali completamente diversi da quelli preconciliari è in grado di percepire tutta la portata –programmatica ma anche regressiva– della mentalità moralistico-precettiva del cattolicesimo dei primi decenni del Novecento.


1.2 La domanda di fondo

Questi semplici stimoli sono già sufficienti per giustificare la nostra attenzione al fondamento della ‘necessità’ imposta dalle prescrizioni giuridiche canoniche (ma non solo): dove si fonda il ‘dovere’ della loro osservanza? Se, infatti, si esclude la prospettiva normativista/positivista –e moralistica– come, e soprattutto perché, dare il giusto valore ed osservare con scrupolo le prescrizioni giuridiche, se non s’impongono al soggetto né per il fatto del loro ‘esserci’ –ed essere ‘così’–, né per l’autorità di chi le ha poste?

Per quale motivo, poi, si dovrebbe porre attenzione alla formulazione testuale delle prescrizioni giuridiche se né autorità né testo, in fondo, giustificano la loro presenza e formulazione? Perché piuttosto non «rinunciare alla sicurezza del positum, quasi per recuperarne lo spirito sempre nuovo e continuamente dinamico»?

L’assenza di una congrua risposta al tema fondazionale del Diritto crea la situazione che ben vediamo ogni giorno nel vissuto ecclesiale: totale irrilevanza del Diritto o sua sostanziale inefficacia.


In questa prospettiva il riconoscere la vera natura ontologica del Diritto quale regola comportamentale –è questa la nostra ipotesi di ricerca e tesi da verificare– potrebbe risolvere in modo efficace il dilemma proposto: la prescrizione giuridica, che nasce dalla complessità del vissuto umano, è regola necessaria e sufficiente perché questo stesso vissuto possa non soccombere alla proprie incoerenze e debolezze, spesso prettamente strutturali o funzionali.

Una tal prospettiva potrebbe anche valorizzare efficacemente a livello ecclesiale la Communio quale ‘logica’ di base per la vita della Chiesa, assegnandole un posto di prim’ordine in chiave ermeneutica ed intenzionale, pur senza farne la quintessenza della ecclesialità e della canonicità: le prescrizioni giuridiche canoniche indicherebbero così la strada per una corretta –poiché ‘condivisa’– ed efficace –poiché osservata– vita ecclesiale.

In questo modo non sarebbe più necessaria una ‘autorità’ –divina o umana– per giustificare metafisicamente le prescrizioni ed il dovere della loro osservanza, né si potrebbe tuttavia supporre l’insignificanza intrinseca delle loro formulazioni testuali, accusando di ‘Positivismo’ o ‘Normativismo’ coloro che studiano ed applicano il Diritto con espresso e puntuale riferimento al testo della norma scritta. In fondo: come il pensiero senza la parola non può né esprimersi né comunicarsi, allo stesso modo il disposto comportamentale senza la sua enunciazione ‘formalizzata’ (che vale anche nella Consuetudine) non può ottenere alcuna efficacia concreta… il ‘non-conosciuto’ –infatti– non può essere né osservato né esigito.


A rendere maggiormente complesso il problema, anche solo nel suo porsi, è il necessario riferimento, almeno linguistico, alla ‘Legge’; ad essa, infatti, si finisce spesso per riferirsi in una commistione di termini e concetti che si dimostra ancor oggi del tutto incapace di qualsiasi linearità tanto logica che contenutistica. Punto debole del ‘sistema’ rimane la corretta relazione tra Diritto e Legge; relazione che continua ad esser polarizzata dall’assunzione o [a] della loro identità nel Positivismo e nel Normativismo, per i quali il Diritto è la Legge (e viceversa), oppure [b] dalla loro contrapposizione in base alla quale la formalità della Legge viene del tutto relativizzata in nome della sostanzialità del Diritto, poiché il Diritto non è la Legge e la Legge non è il Diritto.

Il problema è particolarmente grave visto che, come si dirà in seguito, alla sua radice si pongono pre-supposti, assolutamente inconsapevoli per la maggioranza degli stessi canonisti, che distorcono completamente la percezione concettuale fin dai suoi primi passi, impedendo la corretta tematizzazione della maggior parte degli elementi che via via entrano in gioco in questo genere di tematiche.


1.3 Il vero problema concettuale

L’attuale contesto culturale e socio-politico –artefice e custode di termini/concetti– fa sì che la tematica non possa più essere affrontata con le categorie ‘classiche’ che hanno supportato la riflessione dei canonisti nei secoli scorsi; in particolare è grandemente problematico il tema della ‘obbligatorietà’ della Legge (umana) che il millennio scorso aveva risolto in modo tanto univoco quanto certo attraverso la sua intrinseca connessione alla Legge naturale –in fondo “il Diritto” in senso forte–.

«Una questione estremamente importante, che S. Tommaso si pone a proposito della Legge civile, è quella della sua obbligazione. Impone essa un obbligo morale, vincolante la coscienza del suddito, oppure soltanto un’obbligazione giuridica, esigente una pena? La sua risposta è che si tratta di una obbligazione morale, oltre che giuridica. […] La Legge civile obbliga in coscienza, sia che si consideri da parte del suo fondamento (diretto o indiretto) che è la Legge naturale; sia che si consideri da parte del suo fine (il bene comune temporale), oppure da parte della sua causa efficiente, che è l’autorità pubblica. Questa infatti, essendo necessaria alla società, procede da Dio, come la natura sociale stessa dell’uomo. Per conseguenza deve avere il potere di obbligare moralmente i cittadini. Una Legge positiva che si opponesse alla Legge naturale, o andasse contro il bene comune, a vantaggio del bene particolare di un individuo o di una classe, o che non fosse emanata dalla competente e legittima autorità, non sarebbe propriamente una Legge, ma un abuso di essa».


Quest’impostazione del problema, tuttavia, in modo semplicemente teoretico ed ideale(ista), risulta gravemente inadeguata ed inefficace, poiché il secolo scorso ha ben dimostrato la sostanziale e concreta inutilità di una conclusione logica formalmente corretta –“iam non erit lex, sed legis corruptio”– ma incapace di reggere l’effettivo confronto con la storia e le sue complesse dinamiche. Scrisse in proposito A.M. Rouco Varela oltre quarant’anni fa, esprimendo il disagio di un’intera scuola canonistica e della maggioranza del mondo teologico (anche protestante) tedesco:

«mai il Diritto era giunto ad un grado tale di perfezione tecnico-logico-giuridica ed anche politica, come in questi ultimi centocinquant’anni di storia europea, però mai neppure era giunto ad un tal grado di disponibilità venale, di permeabilità all’ingiustizia ed alla tirannia. Per molto paradossale che ciò suoni: lo stesso Diritto –non solamente gli uomini del Diritto, coloro che lo creano, lo pensano, lo applicano–  si converte in struttura d’ingiustizia. […] Col principio che il Diritto è ciò che risulta utile al popolo o ad una classe sociale, si fa Diritto in opposizione cosciente ai postulati della giustizia, negando premeditatamente questo minimum di uguaglianza  nella valutazione e nel rapporto socio giuridico, che è il suo stesso nervo. A maggior perfezione formale, tecnico-logica, cultural-giuridica, [corrisponde] maggior disumanizzazione del Diritto, così potrebbe esser formulata la Legge storica che ha retto di fatto il corso della evoluzione moderna del Diritto».


Di fatto, dopo che le tremende esperienze del Novecento (comunismo, nazi-fascismo, shoah, due guerre mondiali, Hiroshima e Nagasaki) hanno infranto per sempre il mito che voleva vedere nel Legislatore umano un ‘rappresentante’ del dominio di Dio stesso e dimostrato l’infondatezza dell’incantesimo secondo cui “ogni potestà viene da Dio”, tagliando dietro le spalle dell’umanità l’ultimo esile ponte a fondamento della vincolatività in coscienza della Legge (umana), il problema che oggi si pone riguarda proprio la ‘natura’, il fondamento e la stessa esistenza di questa vincolatività. Ciò impone alla riflessione giuridica, canonistica in particolare, di verificare nomina et substantiæ dell’intero ambito comportamentale per riconoscere la reale portata e consistenza di ogni sua espressione.


2. Predittività ed aspettative

Posto in questi termini il problema di base, diventa assolutamente necessario affrontarlo in modo tale da prescindere quanto più possibile dalle categorie –per il vero solo moderne– di doverosità ed obbligo, così da non cadere in vuote tautologie o inutili teoresi che nulla aggiungerebbero a quanto giunto fino a noi per quella stessa strada.

Per una via investigativa completamente nuova è così possibile sostenere che il primo elemento costitutivo da porre oggi in risalto sotto il profilo fenomenologico nell’accostare e rapportare tra loro ‘norma’, ‘regola’, ‘legge’ e Diritto sia la constatazione che tutti questi termini/concetti riguardano cose non-presenti al momento ma ‘appartenenti’ al futuro …al campo, cioè, dell’ipotetico e del predittivo ed a questo campo rivolgono la loro ‘attenzione’. Norme, regole, leggi e Diritto si muovono nel campo della predittività; la loro funzione principale ed utilità effettiva è ‘anticipare’ a livello cognitivo quanto sta per accadere a livello ‘operativo’ o fenomenico.

Ciò che accomuna queste diverse forme ‘predittive’ è proprio il loro generare ‘attesa’ nei confronti del futuro: non tuttavia un’attesa qualunque, una semplice situazione di ‘sospensione’ emotiva aspettando qualcosa che potrebbe accadere come semplice ‘eventualità’ (come l’attesa che nevichi o che venga il sole o che la propria squadra di calcio vinca la partita), ma la specifica attesa che si realizzi o si compia ciò che è stato ‘previsto’, in modo anche piuttosto preciso, in ragione di una serie di pre-supposti già noti e, soprattutto, stabili.

A ben vedere però, per indicare questo atteggiamento specificamente ed assolutamente umano di ‘attesa’ del futuro sarebbe forse più corretto utilizzare il termine ‘aspettativa’, meno sbilanciato verso la componente temporale (il semplice attendere, il lasciar scorrere il tempo) e più denso di contenuto specifico e con espressa attenzione verso una qualche forma di ‘necessarietà’ (in termini metafisici) di quanto non solo ‘si’ attende, ma ‘ci si’ attende… ponendo in primo piano il coinvolgimento ‘personale’ del soggetto che finisce per trovarsi in qualche modo coinvolto anche emotivamente nell’aspettativa stessa che tende a trasformarsi così da ‘attesa’ in ‘pretesa’.


Questo però non basta poiché i livelli di attendibilità sono ben differenti a seconda degli ambiti di riferimento e da una forma all’altra: diversa è l’attendibilità di un evento previsto per legge fisica (come la caduta di un corpo per gravità), o per via statistica (come le previsioni meteorologiche o finanziarie), o morale (per senso del dovere o per lealtà), o giuridica (come l’applicazione della pena stabilita dalla Legge o l’adempimento di un contratto).

Di conseguenza il problema non solo dell’attendibilità ma anche della essenza/identità delle diverse forme ‘predittive’ si sposta al livello dei ‘fondamenti’ della predizione stessa e delle connessioni con la realtà su cui essa si basa. Proprio circa la realtà di riferimento occorre, però, distinguere due differenti ambiti: quello fisico e quello umano. [a] La predittività della legge fisica, infatti, si basa sul sistema delle cause fisiche che difficilmente conoscono eccezioni o errori se non di chi non ha considerato a sufficienza tutti i fattori in gioco; quella statistica si basa invece sull’osservazione e correlazione di dati rilevati nella realtà, senza però connessioni necessitanti e quindi solo ‘probabili’. [b] Per quanto concerne, invece, il mondo ‘umano’ e delle sue azioni, bisogna considerare come la Legge morale o giuridica prima di ‘operare’ debba relazionarsi con l’operare umano, un operare volitivo, che non dà certezza alcuna neppure del proprio ‘accadere’ o ‘realizzarsi’, poiché una persona può anche scegliere di non-agire …mentre un corpo fuori equilibrio non può scegliere di non-cadere. Non si tratta più di realtà ‘future’ ma di semplici, eventuali, ‘futuribili’.

L’ambito dell’agire umano si presenta poi ulteriormente articolato in termini di ‘qualità’ della predizione/aspettativa propria delle norme morali rispetto, questa volta, a quelle giuridiche; fonte di tale differenza è il loro fondamento: la norma morale, infatti, è costituita da una deduzione formale a partire dal principio morale generale (il Valore); alla norma morale deve poi esser ricondotta –attraverso il sillogismo deontico– la concreta azione morale, adattata a circostanze e soggetti concreti.

Questo non accade di per sé per le ‘regole’, che derivano invece –operativamente– dall’esperienza: così è anche del Diritto, poiché Ius sequitur vitam.


Nella prospettiva complessa sin qui delineata, la considerazione del ruolo centrale del soggetto umano che nutre l’aspettativa potrebbe suggerire l’opportunità di sostituire l’idea impersonale di ‘predittività’ con quella –più soggettiva– di ‘expectatio de futuro’, facendo tuttavia notare come non si tratti di qualcosa di individuale ma collettivo: è l’insieme dei soggetti, la comunità/società (l’umanità nel caso delle leggi fisiche e statistiche) che si aspetta un certo risultato! Fenomenologicamente ed esistenzialmente dunque: expectatio piuttosto che obligatio.


3. Il presupposto

Quest’aspettativa verso ciò che ‘dovrebbe’ accadere/realizzarsi, per quanto completamente ‘umana’ anziché metafisica, non è, però, né velleitaria né arbitraria o immotivata, si basa infatti su di un presupposto che accomuna radicalmente tutte le diverse forme di ‘aspettativa’: tale presupposto è l’ordine sotteso alla realtà stessa; quella sorta di ratio o di logos che pare in qualche modo dare struttura e funzionalità –e quindi consistenza e stabilità– a quanto esiste. Detto in altri termini: alla base di qualunque idea di regola/norma/legge/Diritto si pone sempre il concetto fondante ed originario di ‘ordo’, che motiva e contemporaneamente supera ciascuno degli altri e ne costituisce, spesso inavvertitamente, il vero princeps analogatum. È l’ordo –e non la Legge o il Diritto– la vera idea fontale, ripresa e variamente espressa e declinata secondo le diverse modulazioni comportamentali, scientifiche e giuridiche; è l’ordo il typos cui s’ispirano e si rifanno i concetti presi in esame.

L’idea è suggestiva poiché già di primo acchito l’ordo si oppone al ‘caso’, come anche la legge si oppone all’anarchia, la ratio al caos; ma ciò è ancora troppo semplice e –al contempo– già troppo strutturato, poiché tra ordo, lex, ratio non c’è –in realtà– immediatezza concettuale né contiguità ontologica …e neppure si possono invocare a buon mercato semplici –quanto generici– legami di ‘inerenza’ o di ‘co-inerenza’, come accade per qualche autore nel tentativo di trarsi d’impaccio davanti alla palese carenza di motivazioni che affligge spesso certi modi di accostare il Diritto canonico.


La radice di una connessione concettuale così profonda, che sopravanza la semplice ‘logica’ in ragione di una più evidente efficacia funzionale, è antichissima e non disdegna neppure di coinvolgere Dio stesso quale suo fondamento e garante. Ciò, tuttavia, non avviene secondo i criteri divenuti –purtroppo– usuali nella Modernità che ha fatto di Dio l’orologiaio o la semplice autorità… colui “che puote ciò che vuole”; occorre invece porsi in una prospettiva squisitamente relazionale e qualitativa che riconduca a lui le caratteristiche stesse dell’ordo, della lex, della ratio.


3.1 La stabilità di Dio e del suo essere ed agire 

Un semplice approccio biblico sarà di grande aiuto a cogliere questa prospettiva basilare per ogni successivo sviluppo. Com’è ben noto, la stessa ‘qualificazione’ del Dio biblico come ‘giusto’ poggia proprio su questo fondamento: Dio è colui che è stabile, affidabile, fedele, che non cambia e non muta, l’eterno –non per durata soltanto, ma per consistenza e stabilità–. Nella stessa linea, anche della Sapienza si dice che è “stabile, sicura, senz’affanni” (Sap 7, 23).

La percezione ‘giuridica’ del Dio biblico va intesa proprio nell’ottica della fedeltà alla parola data: Dio è ‘giusto’ poiché mantiene per mille generazioni la parola data e non cambia neppure davanti all’infedeltà dell’uomo… castiga e punisce ma non tradisce. E proprio perché l’uomo possa avere questa certezza indubitabile, Dio s’impegna nei suoi confronti con giuramenti, con impegni formali, con patti di alleanza… per garantire all’uomo –attraverso categorie ‘umane’ pienamente comprensibili, come sono quelle giuridiche– la sua piena ottemperanza verso gli impegni assunti. La ‘giustizia’ di Dio è, in realtà, ‘giustezza’: correttezza, lealtà, fedeltà ed affidabilità; attributi che sembrano –e diventano– tanto maggiormente ‘divini’ quanto maggiormente l’uomo se ne allontana con la propria iniqua condotta. Proprio in questa prospettiva il Dio biblico è anche presentato –e si presenta– come ‘Giudice giusto’, che non cambia parere né sentenza, che riconosce e tutela la verità delle cose e si comporta in conformità alle decisioni prese: è questa la giustizia di Dio!


Il Dio d’Israele, inoltre, è anche il Deus Sàbaoth, il Dio “delle schiere” …non però quelle militari che Israele dispone a battaglia ma le ‘schiere celesti’ che Dio stesso ha creato e messo in ordine, che egli chiama per nome ed esse escono e non ne manca neppure una… D’altra parte il riferimento concettuale primario alle ‘schiere’ è connesso proprio all’ordo con cui le milizie antiche venivano strutturate e disposte secondo ‘figure’ e schematismi che ben presto l’occhio scrutatore del cielo ha creduto rinvenire anche nella disposizione astrale: quale immagine migliore di questa per esprimere l’ordo sideralis et æternus? La stessa idea di ‘costellazione’ va in questa direzione: le stelle visibili dalla terra –in questa logica– non sarebbero poste ‘a caso’ ma secondo ‘figure’ precise e specifiche derivanti dall’effetto visivo del loro ‘appiattimento’ contro la volta celeste.


I Salmi costituiscono una buona testimonianza dell’equivalenza di termini/concetti quali: parola, decreto, sentenza, precetto, comando, in cui la ‘giuridicità’ dei termini non pare per nulla costitutiva delle affermazioni stesse, che vogliono invece affermare la stabilità e fedeltà di Dio. Fedeltà, giustizia e stabilità sono nella mentalità biblica –ma anche ‘antica’ in genere– termini/oggetti omogenei, equivalenti, sinonimi: facce diverse della stessa idea di rispetto di qualcosa di pre-stabilito, qualcosa che “è così” e non muta: un vero e proprio ordo a cui Dio stesso in qualche modo ‘partecipa’ e si attiene, essendone al contempo l’origine ed il custode.

Lo stesso termine “Torah” tradotto dal Giudaismo intertestamentario con ‘Legge’ significa, invece, originariamente ‘istruzione’ e come tale è strutturata ed è stata recepita e gestita da Israele sia alle origini che lungo i secoli. In tal modo, però, si pone in risalto la sua dimensione cognitiva prima di quella volitiva: osservare la Torah non è tanto obbedire ad un precetto (la Legge) quanto conformarsi alla verità stessa delle cose: il loro ordo.

Questa consapevolezza linguistica e concettuale –ben salda e matura tra teologi e biblisti– implica la necessaria capacità di ‘svestire’ il linguaggio biblico dalle componenti più strettamente e formalmente giuridiche per raggiungerne i contenuti più sostanziali, accordando maggior credito interpretativo e fondativo alla relazionalità ed azione divina che non alla sua imperatività.


4. Il presupposto gnoseologico

Una fondata riflessione sui concetti di norma, regola, legge e Diritto approcciati in prospettiva di ‘predittività’, ‘attendibilità’ ed ‘ordine’, evidenzia senza dubbi anche una forte portata a livello cognitivo –già evidenziata in modo specifico per la Torah ebraica–, poiché senza un ordo sottostante alla realtà stessa non sarebbe possibile neppure una sua vera conoscenza.

Come, infatti, ben ha evidenziato John Stuart Mill (1806-1873) la conoscenza in quanto tale è possibile solo partendo dal presupposto della non-casualità del reale e del nostro approccio ad esso: «osserviamo infatti la natura. Essa ci appare dotata di un ordine globale che è costante; essa è uniforme»; è da questa costanza ed uniformità –che non è semplice ripetitività– che si possono ricavare ‘principi’ generali capaci di farci ‘comprendere’ la realtà senza doverne descrivere ogni singola espressione, come supponeva invece l’empirismo –in fondo non-cognitivo– di Karl Gustav Hempel (1905-1997) angustiato dal come provare la verità dell’affermazione che “tutti i corvi sono neri”.

Di fatto, se la realtà non possedesse una ‘trama’ profonda che tutto regge, struttura ed ‘organizza’, ogni cosa sarebbe solo ‘se stessa’, senza connessione strutturale alcuna col resto dell’esistente: pura attualità circostanziale ed estemporanea, casualmente percepita ed inutilmente tematizzata, poiché nulla se ne potrebbe trarre al fine di conoscere la restante realtà; ogni cosa, infatti, sarebbe solo se stessa… muta monade irrelata.

Per contro, solo una qualche forma di ordo (creationis) permette di ricorrere a concetti come gli ‘universali’ di platonica, aristotelica e tomistica memoria, o le ‘leggi’ scientifiche degli eredi di Galileo e Newton. Senza una ‘base comune’ costante ed omogenea dell’esistente non sarebbe possibile alcuna ‘Scienza’ poiché de singulis non est Scientia. Solo la rispondenza della realtà ad un ordo ne permette una ragionevole conoscenza… o, almeno, conoscibilità di principio.

È quanto avevano intuito già dall’antichità i Greci che indicarono con “cosmo” l’insieme delle realtà esistenti e percepite, dando così corpo al presupposto di organicità che si coglieva in ogni contatto con la realtà quotidiana.


Senza quest’ordo oggettivamente dato ed oggettivamente recepibile (ratio), ogni ‘percezione’ sarebbe in realtà sola ‘sensazione’, soggettiva e relativa, individua e puntiforme. Non a caso il travisamento rinascimentale che trasformerà l’ordo in præceptum e la ratio in voluntas aprirà le porte al soggettivismo relativista della Filosofia moderna da cui prenderanno origine quell’Idealismo e Positivismo che tanto risulteranno deleteri alla stessa concettualizzazione del Diritto… oltre che alla sua ‘fissazione’ ed applicazione.


5. Precettività e fallacia naturalistica

Il problema gnoseologico, però, così come viene a porsi nel rapportare tra loro ordo/ratio e norma/regola/legge/Diritto porta immediatamente a dover affrontare una delle maggiori croci della Filosofia e Teoria generale del Diritto approdate al secolo scorso: quale legame intercorre tra cognitività (l’essere) e comportamentalità (il dover-essere)?

Si tratta della questione critica già posta da David Hume (1711-1776) e conosciuta col nome di ‘fallacia naturalistica’ a causa della sua pretesa di derivare norme comportamentali (etiche, morali e giuridiche) dalla semplice osservazione della ‘natura’. Secondo questa prospettiva

«da una serie di proposizioni tutte assertive non può essere inferito alcun precetto. O altrimenti detto: nessuna conclusione precettiva può essere tratta logicamente da una serie di premesse che non contenga almeno un precetto. Dalle asserzioni ai precetti vi è, insomma, un ‘salto logico’».


Il problema, in realtà, risulta mal posto poiché a non essere logicamente congrua non è la consecutio tra essere e dover-essere –secondo la contestazione di Hume– in realtà pienamente fondata sul concetto di ordo, ma la identificazione tra un dover-essere ed un modus faciendi; il primo elemento, infatti, –dover-essere– ha una chiara struttura e portata metafisica (connessa all’ordo), costituendo il campo proprio dell’Etica, mentre il secondo non esce dalla pura operatività categoriale; è a questo livello, invece, che si pone il Diritto!

Quanto contestabile a Hume ed ai suoi seguaci, tuttavia, non è troppo distante dalla domanda intorno a cui ruota la riflessione odierna: se il Diritto, infatti, (e con esso la Legge) va concepito come ‘norma’ (= imperativo morale obbligante – agere) il problema del suo ‘fondamento’ resta aperto –e problematico– se, al contrario, il Diritto appartiene all’ambito regolamentare (= del semplice fare – facere) non sussiste nessuno dei problemi così palesati poiché –come vedremo– il legame con l’essere non attiene alla ‘regola’ come tale, che ha altrove il proprio fondamento, ma alla sua ratio.

Chiave di volta della problematica concettuale –prima che logica– che emerge dai sostenitori della fallacia naturalistica rimane la fondamentale indistinzione tra i diversi tipi di predittività/attendibilità –equivocate dal Rinascimento fino alla post-Modernità– con la ‘doverosità’: problema sommo tanto per David Hume che per Immanuel Kant (1724-1804) ed il suo imperativo categorico, dopo che Francisco Suarez (1548-1617) aveva sterzato così vigorosamente l’asse del pensiero giuridico europeo in chiave volontaristica e precettiva.


Non bisogna tuttavia pensare che s’intenda contestare in questa sede il principio metafisico secondo cui “agere sequitur esse”; non si può però neppure dare per scontato che agere ed esse si identifichino, né tanto meno che si identifichino dover-essere e dover-agire; tanto più che l’agere mantiene caratteristiche di fondamentale differenza dal facere, al punto che oggi –diversamente dal passato ‘prossimo’– la diversità tra Etica e Diritto risulta abbastanza assodata per la maggioranza degli autori. Che cosa, poi, significhi ai nostri giorni un dover-essere humeano o kantiano rimane ulteriormente problematico, dopo che la Filosofia del Novecento ha rinnovato quasi completamente le proprie categorie e la stessa Metafisica contemporanea utilizza approcci piuttosto discontinui rispetto, soprattutto, alla tarda Scolastica del XVIII secolo ed alle categorie genericamente ‘moderne’ utilizzate soprattutto dagli autori tedeschi: Kant, Hegel…

Proprio, anzi, perché “agere sequitur esse” è possibile e necessario il ‘ricupero’ del valore e della portata ‘ontologica’ della realtà –e di una sua più profonda conoscenza– anche ai fini comportamentali (etici); contrariamente, infatti, a quanto proposto da Hume dalla struttura stessa delle cose –e da una loro adeguata conoscenza– può derivare un’attitudine comportamentale che, pur senza alcuna precettività autoritativa, giustifichi però la ragionevole aspettativa di un comportamento ‘conseguente’ …un comportamento che, almeno funzionalmente, risponda ad una ratio in qualche modo interna –costitutiva– alla realtà stessa, poiché rispondente alla sua struttura più profonda (ordo). Si ricupererebbe così la discontinuità suareziana tra ratio e voluntas, ordo ed auctoritas ed il Diritto potrebbe ‘derivare’ semplicemente dallo ‘stato’ delle cose, senza l’intervento di alcuna autorità, palesandosi come ‘regola’ operativa, funzionale ed organica, adeguata alla realtà concreta, senza soffrire affatto dell’incongruità della c.d. fallacia naturalistica. 


6. Regola, operatività e significato

6.1 Regola e norma

L’approccio critico sin qui proposto all’utilizzo genericamente equivoco dei termini/concetti di ‘norma’ e ‘regola’ (cui ricondurre Legge e Diritto) impone di approfondire, almeno sommariamente, la consistenza e portata del ‘minore’ tra i due termini: la regola, al fine di poterla giustificatamente proporre quale corretto ed adeguato referente concettuale per il Diritto.

Tale concetto indica sostanzialmente un procedimento operativo (abbastanza) rigido volto a conseguire un risultato specifico previamente determinato; in tal modo la ‘regola’ si caratterizza per: operatività, rigidità, specificità ed intenzionalità, palesando radicali differenze costitutive rispetto alla ‘norma’, più legata alla obbligatorietà. Ciò che, infatti, risulta sostanziale per la ‘regola’ –data la sua intenzionalità e determinatezza– è l’efficacia mentre per la ‘norma’, di contro, risulta determinante l’imperatività; proprio per questo la ‘sanzione’ appartiene intrinsecamente alla ‘regola’ mentre risulta soltanto accessoria rispetto alla ‘norma’: chi, infatti, non osserva la ‘regola’ non consegue il risultato voluto, mentre chi non osserva la norma viola un Valore! Mentre, cioè, la ‘regola’ è funzionale, operativa, la ‘norma’, invece, è imperativa, cogente.

Con ciò non s’intende affatto contrapporre i due concetti per negarne la consistenza, ma differenziarli e correlarli in modo corretto realizzando la explicatio terminorum imprescindibile per poter affrontare le tematiche giuridico-canonistiche con piena cognizione di causa ‘logica’ e ‘sostanziale’, prima che dottrinale.

In questa prospettiva la ‘regola’ –per propria stessa ‘natura’– si pone ‘a valle’ della ‘norma’ costituendone una delle possibili forme applicative. Dopo, infatti, che attraverso il sillogismo deontico si è deciso che cosa fare –a partire dalla ‘norma’–, si sceglie quale ‘regola’ applicare per conseguire concretamente (ed unicamente) il risultato prescelto.


Ciò che la precettività volontaristica (rinascimentale, illuministica, moderna e tardo-scolastica) non ha saputo distinguere, appare invece –in questo modo– di tutta linearità: ‘norme’ e ‘regole’ si pongono su –ed esprimono– differenti ‘livelli’ ontologici e, conseguentemente, operativi, come l’analisi ‘funzionale’ dell’agire umano illustra adeguatamente.

La ‘norma’ deriva per logica formale (sillogismo formale) dal Valore di cui costituisce una espressione ‘precisiva’: la ‘norma’, recependone l’irrinunciabilità e l’obbligatorietà, generica e teorica, è un ‘caso’ del Valore, esprimendo in tal modo un faciendum cogente e precettivo. La ‘norma’ tuttavia per essere concretamente attuata nell’agire umano (specifico e concreto) deve calarsi nella realtà attraverso un procedimento –ancora logico, ma questa volta– deontico (sillogismo deontico) che trae la propria ‘conclusione’ correlando la ‘norma’ (che costituisce la ‘premessa maggiore’) con la circostanza concreta (‘premessa minore’), interrompendo in tal modo –senza introdurre alcuna ‘fallacia naturalistica’– la ‘continuità imperativa’ da cui era scaturita la ‘norma’ stessa ed aprendosi ad una serie di azioni possibili e del tutto ipotetiche che ‘applichino’ la ‘norma’ alla circostanza in atto. Quando il soggetto ‘personale’ abbia scelto –coniugando faciendum e circostanze concrete– che cosa fare (il factibilium) tra i diversi factibilia possibili, si entra nel campo ‘funzionale’ delle ‘regole’ (il ‘fare’): in base al risultato che s’intende conseguire si sceglie quale ‘regola’ applicare per ottenerlo in modo ragionevolmente certo. Questo però, come vedremo, è il campo proprio –anche se non esclusivo– del Diritto!

Il vero problema, trascurato originariamente da Suarez (e di seguito da Hume, Kant, ecc.), è la discontinuità logica che occorre riconoscere al passaggio dalla ‘norma’ alla ‘regola’: il salto ontologico tra faciendum, factibilium e factum che non sono mai sullo stesso piano in rapporto all’essere, al punto che, nella prima Giornata Canonistica Interdisciplinare (2006), Antonio Livi affermò che «l’adozione di quello strumento logico [il sillogismo formale-modale] risulta non solo del tutto inadeguata ma, molto più radicalmente, “assurda”!»

In questa prospettiva diventa allora facile riconoscere [a] sia la comune ‘natura’ predittiva tanto della ‘norma’ che della ‘regola’, [b] sia la loro estrema differenza sostanziale: la comune e generica expectatio de futuro che entrambe esprimono non è sufficiente ad identificare faciendum e factibilium, [c] sia il ricorrere dell’elemento specificamente volitivo, ben differenziato, tuttavia, tra volontà della ‘norma’ (imperium/præceptum) e ‘volontà’ del soggetto (intenzionalità).


6.2 Regole e significati

Il confronto ad ampio respiro tra ‘norma’, ‘regola’, ‘legge’ e Diritto che guida queste riflessioni fa sì che non sia sufficiente considerare la specificità della ‘regola’ rispetto alla ‘norma’ soltanto per quanto concerne [a] la sua ‘inferiorità’ dispositiva e [b] la sua efficacia operativa o funzionale; la ‘regola’ infatti riveste –per propria ‘natura’– una doppia valenza: tecnica e comportamentale, che ne caratterizza la portata e la funzionalità in relazione diretta alla sua strutturale componente sanzionatoria. È, infatti, la strutturalità della ‘sanzione’ a costituire il ‘punto forte’ della ‘regola’: una ‘regola’ –a differenza di una ‘norma’– produce sempre un risultato diretto ed immediato sulla realtà, facilmente recepibile dai soggetti interessati. L’osservanza della ‘regola’ è sanzionata dall’efficacia di conseguimento di quanto previsto, mentre la sua inosservanza, per contro, è sanzionata dalla ‘risposta negativa’ della realtà stessa. Se ciò risulta di tutta evidenza per le ‘regole’ tecniche, la questione diventa ben più complessa per le ‘regole’ comportamentali, alle quali è necessario attribuire specifica importanza di trattazione; queste soltanto, d’altra parte, interessano la presente riflessione.


Le Discipline antropologiche e sociologiche hanno ormai dimostrato con abbondanza di prove ed argomentazioni il valore ‘comunicativo’ delle ‘regole’ comportamentali: la ‘regola’ non solo ‘possiede’ un contenuto, poiché deriva ‘deonticamente’ da una ‘norma’ di cui costituisce l’ultimo anello operativo verso la realtà, ma anche ‘comunica’ un contenuto, poiché ogni azione concreta sulla realtà genera sempre una re-azione da parte della realtà stessa: la ‘sanzione’. Quando poi la realtà sulla quale si agisce è costituita da rapporti interpersonali la ‘regola’ diventa addirittura ‘linguaggio’, ‘codice’ contenutistico che sollecita nei destinatari l’appropriata ‘sanzione’: gli altri rispondono all’agire del soggetto in base al ‘codice’ relazionale (la ‘regola’) in uso, cosicché chi agisce sa in precedenza che cosa conseguirà alla sua azione… La ‘regola’ comportamentale diventa così vero strumento di comunicazione tra gli appartenenti allo stesso gruppo sociale garantendone non solo la relazionalità ma, molto maggiormente, la stabilità connessa alla permanenza e condivisione dei significati. È il ‘meccanismo’ della istituzionalizzazione all’interno del quale la condivisione operativa dei codici significanti (le regole) struttura e garantisce l’ordine necessario alla continuità vitale del gruppo umano, al di là delle inevitabili varianti di comportamenti, persone, luoghi e tempi.


È su questo presupposto regolamentare (comunicativo-sanzionatorio) che si è sviluppato –nelle sue diverse forme ed articolazioni– il fenomeno tipicamente ed autenticamente umano chiamato Diritto, come la stessa Storia del Diritto (occidentale) pre-moderno ha ben dimostrato da tempo, evidenziandone la dimensione prevalentemente ‘operativa’, rispetto a quella ‘valoriale’ –tipica delle ‘norme’– già contenuta ai livelli più profondi della società antica (almeno). L’immissione nel campo giuridico della pretesa autoritaria ed imperativista dello Stato moderno ha però stravolto completamente il nostro quadro concettuale di riferimento ordinario per la tematica, la sua comprensione e la sua gestione.


6.3 Regole e sistemi

La regola, inoltre, proprio in quanto ‘significante’ ha la possibilità tutta specifica di ‘creare’ tra gli uomini –in quanto ragionevoli ed aperti alla dimensione ‘concettuale’ del reale e dell’esistenza– nuove realtà di significato, proprio come ‘sistemi di regole’: è forse questa la maggior proprietà del Diritto… invidiata da molte altre espressioni antropologiche ma difficilmente eguagliata. A questa attitudine si deve ricondurre probabilmente la præstantia Iuris che ha spinto parecchi lungo i secoli a rifarsi proprio al Diritto come ‘typos’ per molte altre espressioni del vivere umano.

Questo accade perché il linguaggio e l’agire giuridico sono ‘performativi’: danno, cioè, consistenza reale a quanto esprimono; ciò che essi ‘significano’ viene concretamente espresso e come tale recepito dando corpo alla realtà stessa. In questo modo l’esplicitazione di uno o più significanti logicamente correlati ‘crea’ davvero qualcosa di nuovo in derivazione dal legame tra i ‘contenuti’ coinvolti nel nuovo ‘sistema relazionale’; al contrario, la sola dichiarazione di un valore –un ‘dover-essere’– non otterrebbe, in sé, nessun risultato.

I diversi Istituti giuridici, in fondo, non sono altro che ‘sistemi di regole’; allo stesso modo i ben più articolati Ordinamenti giuridici.


Due esempi espressivi in merito: lo sport ed il Diritto internazionale.

- I bambini che giocano in cortile non fanno altro che ‘giocare’, poiché la loro attività si svolge con spontaneità e, soprattutto, senza ‘regole’; quando però entrano ad una scuola-calcio o scuola-volley il loro giocare cambia: acquista struttura e significato, diventa ‘sport’ perché si assoggetta a delle ‘regole’ precise e specifiche che connettono ed integrano l’operato di ciascun singolo all’interno di uno ‘schema’ (ordo) comune. Lo sport non è soltanto attività fisica ma un ‘sistema di regole’ che crea una realtà completamente diversa e con una propria vita ‘autonoma’ rispetto ad altri ambiti, per quanto contigui, della realtà. Il fatto che regole diverse diano corpo a sport diversi anche utilizzando gli stessi attrezzi (palla, sci, canoa, bicicletta, ecc.) testimonia proprio questa portata e capacità delle regole nel loro rapportarsi e connettersi per strutturare anche ciò che –altrimenti– non ci ‘sarebbe’ neppure.

- In modo non troppo differente anche il Diritto internazionale si presenta proprio come ‘sistema di regole’; sono solo le regole che lo strutturano e lo reggono! Popoli, Nazioni e Regni si sono alternati lungo i secoli ed attraverso la terra, allo stesso modo alleanze politiche, militari ed economiche… basate sulla ‘norma’ fondamentale “pacta sunt servanda”. Solo, però, la costruzione di un vero ‘sistema di regole’ come attuatosi in seguito alla seconda guerra mondiale, attraverso la comune e diffusa sottoscrizione di accordi multilaterali, ha permesso la creazione di qualcosa di completamente diverso rispetto al resto della storia politica umana: un vero sistema giuridico in cui solo la ‘regola’ condivisa ed accettata ‘regge’ un tutto che non potrebbe neppure esistere al di fuori delle regole stesse.


6.4 Leggi moderne e Diritto

La logica e natura prettamente regolamentare delle Leggi giuridiche moderne è del tutto evidente ormai da secoli. Al di là infatti della Teoria contrattualistica di Jean Jaques Rousseau (1712-1778) il mondo occidentale già dal XVIII secolo, almeno, conosce con chiarezza la distinzione tra ‘Legislatore formale’ e ‘Legislatore materiale’ nella piena consapevolezza che chi promulga le Leggi non è chi le fa. La totalità della legislazione occidentale moderna, infatti, al di là dell’Organo ufficialmente incaricato di promulgare le Leggi giuridiche (Capo dello Stato), ha la propria sede elaborativa nelle assemblee parlamentari il cui lavoro si svolge nella dinamica –dialettica o complementare– delle parti politiche sia in ragione di componenti ideologiche, che economiche, che culturali… in funzione del gioco di alleanze, maggioranze, minoranze, attraverso i meccanismi delle mozioni a favore o contro, ecc. In tal modo la Legge giuridica che ne emerge è soltanto ‘una’ delle tante ‘regole’ possibili per gestire le situazioni in oggetto; allo stesso tempo, in base ai diversi meccanismi di rappresentanza, la vera autorità legislativa risiede nel popolo, così come l’autorità di promulgazione legislativa.

Il cammino codificatorio della Chiesa cattolica non si è mostrato troppo differente, impegnando centinaia di esperti ed anni di lavoro, stesure, verifiche, confronti e valutazioni per mettere a punto quelle che sono a tutti gli effetti le ‘regole’ con cui il Popolo di Dio si organizza oggi e svolge le proprie attività vitali. I verbali dei lavori di Revisione dei Codici canonici preconciliari ne danno una chiara testimonianza in facto, al di là di ogni artificiosa preconcezione dottrinale o ideologica.


Solo la natura regolamentare –anziché normativa– del Diritto permette, inoltre, di ipotizzare e sostenere quanto consegnatoci dalla tradizione morale e teologica in fatto di Leggi ingiuste: se il Diritto, infatti, fosse ‘norma’ –in quanto dover-essere– non potrebbe darsi tale possibilità, oppure il suo concreto delinearsi aprirebbe una crisi ontologica della stessa giuridicità; proprio, invece, la natura non-normativa delle Leggi giuridiche ne permette e richiede il continuo ed attento vaglio etico e morale per verificarne l’effettiva corrispondenza al verum, bonum et iustum al di là di qualsiasi valutazione funzionale od organizzativa. La cosa non è radicalmente diversa per il Diritto canonico, in quanto le sue dinamiche interne ed i concreti motivi di ‘crescita’ non differiscono in nulla da quelli di ogni altro Diritto prodotto dagli stessi uomini; le motivazioni ideali ed i fondamenti valoriali non riguardano infatti il ‘come’ del Diritto quanto piuttosto il ‘che cosa’.


7. Il problema linguistico e l’analogia

Il discorso sin qui articolato ha cercato di portare in evidenza alcuni elementi tra i maggiormente significativi in grado di illuminare la radicale connessione ‘operativa’ –molto più che sostanziale– sottesa alla prossimità concettuale progressivamente assunta dai termini ‘norma’, ‘regola’, ‘legge’, Diritto, prima che si creasse lo scivolamento nell’attuale indistinzione ed equivalenza degli stessi.

La questione mostra tuttavia, insieme al carattere ‘logico’ appena illustrato, anche una forte componente ‘gnoseologica’ a cui devono esser ricondotti –ad onor del vero– la maggioranza dei problemi concettuali sin qui emersi.

Si tratta, infatti, di riconoscere come l’ambito comportamentale umano si sia ottimamente prestato –e continui– ad un approccio analogico alle diverse forme ‘predittive’ finendo ben presto per perdere di vista cosa sia effettivamente ‘analogabile’; incappando spesso nella ‘fallacia’ di una non sufficiente consapevolezza e distinzione logica tra ‘proporzione’ e ‘proporzionalità’.

Alla base del ricorso all’analogia come strumento gnoseologico si colloca la struttura stessa della conoscenza umana che procede per assimilazioni successive, incrementali  e differenziali, a partire da quanto già appreso e ritenuto e si sviluppa per similitudini e differenze attraverso cui si relazionano le conoscenze stabili –previe– con le nuove esperienze percettive non ancora tematizzate. Si tratta di scegliere ‘modelli’ rappresentativi efficaci cui ricondurre le nuove esperienze cognitive in modo da poter indirizzare la novità sulle tracce del già conosciuto e così collocarla organicamente all’interno delle conoscenze possedute dal soggetto (o da un’intera comunità). Le conoscenze già possedute ed a cui si fa riferimento costituiscono così il ‘modello’, il ‘paradigma’, l’analogatum princeps che, data la sua miglior conoscenza, si presta a ‘guidare’ e strutturare la percezione e comprensione del ‘nuovo’, secondo la massima scolastica: “quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur” …cosicché chi non abbia mai visto uccelli non può comprendere né immaginare cosa significhi ‘volare’ …ed un aeroplano gli risulterebbe una macchina ben bizzarra.

Alla radice dell’analogia sta la percezione della somiglianza/similitudine tra realtà che, pur formalmente differenti, lasciano tuttavia cogliere elementi comuni o accomunabili; in base alla sostanzialità degli elementi percepiti e reciprocamente rapportati tale similitudine offrirà un maggior o minore apporto cognitivo permettendo di passare dall’uno ai molti, dai molti al concetto, dal concetto ai ‘tutti’.

Proprio questa struttura analogica della conoscenza umana è la principale responsabile dell’assimilazione pre-concettuale dei termini e delle categorie di ‘norma’, ‘regola’, ‘legge’ e Diritto sulla base dell’elemento individuato come ‘portante’: la predittività… l’expectatio de futuro. Stabilità e regolarità –della realtà e dei comportamenti umani– si sono ben presto confuse con l’imperatività che, analogamente, permetteva di ‘prevedere’ le azioni umane, formando un unico ‘grembo’ in cui ordo, ratio, præceptum, lex, imperium finivano per confondersi o –comunque– coimplicarsi indifferenziandosi.

In questa prospettiva è fondamentale considerare anche come nel mondo antico e medioevale l’assenza della Scienza moderna e della connessa Tecnologia non lasciassero all’uomo altro paradigma concettuale praticabile per ‘gestire’ l’ordo che quello giuridico. L’homo faber, politicus et philosophicum ma non ancora ‘ingegnere’ e ‘tecnico’ –vero ‘costruttore’ nel senso moderno del termine– non possedeva altra esperienza-coscienza dell’ordinatio che il Diritto, e ad essa si riferì per ‘immaginare’ lo stesso ordo cosmicum. L’efficacia dell’analogia e la pregnanza concettuale sottesa hanno finito per consacrare l’uso di “lex” al posto di “ordo”, “norma” al posto di “regula”, togliendo alle immagini utilizzate il significato e la verità iniziale e riducendo irrimediabilmente la prospettiva linguistico-concettuale attraverso l’inserimento di un elemento –quello volitivo/autoritativo– originariamente estraneo ad una concettualizzazione che potremmo appropriatamente definire ‘ordinamentale’. Il linguaggio tomistico originario –in cui lex ed ordo possono identificarsi– e la sua ‘riduzione’ volontarista rinascimentale sono certamente una delle tracce maggiori della non-pacificità di questo dominio linguistico e concettuale che continua a pesare –inconsapevolmente per i più– sulle stesse concettualizzazioni cui Filosofia, Teologia e Canonistica sono lungamente ricorse.

Come ben segnala Giuseppe Tanzella Nitti: 

«il concetto di Legge è in realtà un concetto fortemente analogico. Sorge in ambito giuridico-sociale e si estende successivamente alla razionalità scientifica, dapprima con le nozioni di regola armonica e proporzione numerica (Pitagora), poi, a partire dal metodo sperimentale, come espressione matematica dei fenomeni fisici (Galileo, Newton, Leibniz). […] La nozione di Legge contiene l’idea di “ordine”, di un “dettato” (latino lex, dal greco léghein, udire), e non è lontana dall’idea di vincolo, legame (latino ligare). Così come il suo sinonimo “norma” (greco nómos), la Legge indica una prescrizione positiva che ha come fine “regolare”, cioè ordinare con una misura, il comportamento dei membri di una comunità. […] Il regolare sorgere e tramontare del sole, della luna e delle stelle, o il moto periodico dei pianeti e delle comete rappresentavano un grandioso esempio di comportamento “legale”».


L’esempio di S. Paolo dovrebbe bastare per gli ecclesiastici: egli, infatti, rispettando la ‘natura’ di ‘istruzione’ propria della “Torah” le riconosce nell’economia della Salvezza la funzione ontologica di ‘pedagogo’; l’uso invece che egli fa del termine ‘legge’ è assolutamente analogico, come quando, nella Lettera ai Romani, scrive:

«io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra» (Rm 7, 21-23).


8. Il problema dell’auctoritas

8.1 Auctoritas e volontà

Lo snodo portante della concezione ‘volontarista’ del Diritto accolta dal Rinascimento e trionfata nel XX secolo –per quanto già pienamente radicata in Hume– è costituito senza dubbi dall’autorità: è questa infatti che genera il præceptum su cui si basano poi norme e Diritto; è l’auctoritas che pone Dio –o la divinità (illuministica)– nella caratteristica posizione di forza e primazia da cui promana l’irresistibile imperatività della sua volontà espressa nel Diritto divino. Lo schema logico che regge tale concezione è assolutamente elementare: dalla voluntas (absoluta) della suprema auctoritas –Dio– deriva il præceptum e da questo la norma (che vincola sub culpa), la cui massima espressione è lo Ius (che vincola anche sub pœna); non per nulla, infatti, il quadro originale della prospettiva indicata poi come Giusnaturalismo prevedeva uno Ius divinum naturale ed uno Ius divinum positivum in cui la ‘variante’ non era però il divinum rispetto al naturale –come avvenne poi in pieno Illuminismo a-teista–, ma il naturale rispetto al positivum… poiché –allora– non si dubitava minimamente della presupposta ‘divinità’ dello Ius quo tale.


Il presupposto inconfessato ed im-percepito di questa visione, che durerà incondizionato fino a Kelsen ed oltre, è la ‘personalizzazione’ dell’autorità: a partire dal Rinascimento –infatti– l’autorità è una ‘persona’ e non più una ‘funzione’ di perfezionamento sociale come nell’antichità!

È per questa via che si giunge al postulato kelseniano “kein Imperativ ohne Imperator” maturato dal primo ‘teorema’ del Normativismo positivista “non veritas sed auctoritas facit legem”. Il c.d. principio d’autorità, d’altra parte, era già stato ben metabolizzato dalla cultura europea tardo medioevale da cui presero le mosse –criticamente– Illuminismo e Modernità, non senza il decisivo apporto della Scolastica che aveva fatto proprio della volontà di Dio uno dei pilastri della stessa realtà. Per quanto avversato ed irriso sotto il profilo gnoseologico razionale –e della Scienza nascente–, tale principio si era tuttavia guadagnato una vera primazia a livello socio-culturale all’interno della mentalità rinascimentale da cui si trasfuse –mutando– alle concezioni ‘politiche’ del c.d. ancien régime. Giova anche, in questo contesto, non trascurare l’apporto ‘spirituale’ decisivo fornito alla più generale percezione concettuale e linguistica europea moderna dal movimento riformato, con la sua ‘attenzione’ all’arbitrio/volontà di Dio che ‘liberamente’ decide per la giustificazione degli ‘eletti’.


L’errore fu sistematico e strutturale, oltre che assolutamente trasparente –cioè non-visibile– anche alle maggiori menti giuridiche lungo i secoli; ne è testimone ‘non sospetto’ lo stravolgimento di interi Istituti giuridici come la ‘rappresentanza’ delle c.d. persone morali, alle quali dottrina canonistica e Legislatore hanno finito per negare l’esistenza di una voluntas proprio in considerazione di un’erronea concezione dell’auctoritas, ritenuta in esse carente. La teoria giuridica dell’assenza di volontà nelle persone morali ‘proposta’ da Pio Ciprotti a partire dal Can. 100 §3 del Codice pio-benedettino è uno degli epiloghi più tragici di questo errore strategico che non ha saputo distinguere natura e portata di voluntas ed auctoritas.


8.2 Dall’auctoritas funzione all’auctoritas persona

È alla ipostatizzazione (ypostasis = persona) dell’auctoritas che occorre guardare con chiarezza per scorgere il profondo corto-circuito logico, concettuale e linguistico da cui ha preso le mosse lo stravolgimento del concetto –moderno– di Diritto che ne ha fatto un’espressione normativa invece che regolamentare: una voluntas anziché un ratio, un præceptum anziché una veritas, una lex invece di un ordo.

Secondo il significato giuridico romanistico originale l’auctoritas è l’apporto necessario perchè un atto ‘personale’ acquisti valore ‘pubblico’ e quindi esigibilità/tutela generale. L’auctor (colui che auget) non è il ‘creatore’ della realtà in oggetto ma colui che ne ‘integra’ il rilievo giuridico per renderla efficace a livello generale/pubblico: ciò che ‘manca’ non è la volontà ma il suo rilievo pubblico. Il vero ruolo dell’auctor (integratore) è la formalizzazione della volontà individuale in vista della sua rilevanza ufficiale; com’era per l’agire di donne e minori. L’auctor per eccellenza è il curatore o il tutore: colui che interviene a favore del ‘pupillo’ o della donna emancipata per far sì che la loro volontà (presente ed effettiva) acquisti rilievo giuridico pieno, al pari di quella del maschio maggiorenne libero. L’auctor, dunque è ‘persona’, soggetto che agisce, mentre l’auctoritas è soltanto una ‘funzione’, una semplice ‘azione’, un requisito formale integrativo.

Lo stesso valeva (solo) dall’epoca del Principato per l’augustus –l’imperator (sic!)– che ‘integrava’ con la propria attività (auctoritas) l’operato del Senato romano conferendo portata di Leges ai Senatus consulti, già riconosciuti ‘autonomamente’ quali fonti del Diritto –accanto, nell’epoca del Dominato, alle Constitutiones imperiali–.


La svolta volontarista rinascimentale costituì il passo decisivo verso la concezione ‘personale’ dell’auctoritas; essa ebbe vari aspetti: da quello filosofico di Suarez a quello politico e giuridico di Jean Bodin (1529-1596) attraverso l’idea di ‘sovranità’. Fu il giurista francese, infatti, a spianare la strada alla ipostatizzazione della sovranità e dello Stato stesso –di cui fu emblematica espressione Luigi XIV (1638-1715) col suo celebre “l’État, c’est moi”– favorendo l’identificazione dell’auctoritas con la persona del sovrano. L’idea di sovranità perpetua ed assoluta, legata alla persona del sovrano legibus solutus, costituì un passo determinante nella comune percezione del concetto di auctoritas favorendone la trasformazione da funzionale (augere) a costitutiva (præcipere), fino alla sua –romantica– identificazione con l’Imperator di Kelsen che, per quanto figura ‘ideale’, conserva pur sempre tratti ‘personali’.


In modo non diverso, comunque, erano andate le cose anche nell’ambito ‘teologico’-morale in cui l’auctoritas s’identificava ormai –tranquillamente– con la volontà del ‘superiore’:

«ut igitur Lex sensu proprio et stricto exsistat, debet esse:

I. voluntas superioris efficax seu absoluta obligandi –alioquin esset consilium, quod sola Lege latioris sensus comprehenditur […];

II. voluntas superioris intimata seu promulgata – nam quamdiu manet voluntas superioris in eius mente inclusa, impotens est et incapax ad dirigendos subditos»;


trasformandosi direttamente in potestas iurisdictionis: «nam Legem ferre est actus superioritatis et iurisdictionis; quare ille solum, qui communitatis regendæ potestatem habet, universæ communitati normam, qua dirigatur, imponere potest».


Quanto tale deriva ‘ipostatica’ abbia concretamente condizionato non solo il linguaggio ma anche le ordinarie categorie concettuali, fin’anche quelle ‘tecniche’ del mondo giuridico, è palesato dal comune linguaggio utilizzato anche in ambito canonico; il CIC 83, infatti, usa il termine auctoritas ben oltre duecento volte proprio nell’accezione ‘personale’ di “superiore”, “governante”. Il fenomeno si ripete, non di meno, negli altri Ordinamenti giuridici contemporanei, oltre che nei linguaggi della Sociologia e della Politica.


8.3 La Legge come regula et mensura in S. Tommaso

Com’è accaduto spesso purtroppo durante la storia, buona parte dei –nostri– problemi concettuali continuano a derivare da un errato approccio alla dottrina tomistica ripresentata senza rispetto alcuno delle minime esigenze ermeneutiche a livello concettuale e linguistico. Il problema emerge nella sua gravità focalizzando l’attenzione all’uso del termine “Lex” fatto da Tommaso ed in seguito largamente frainteso e strumentalizzato, soprattutto a livello canonistico. 

La citatissima Quæstio 90 della I-II della Summa, infatti, prima di giungere alla celebre ‘conclusione’ (alla fine dell’art. 4) secondo cui la Legge può esser sommariamente definita come ‘una sorta’ (quædam) di ordinatio rationis afferma con chiarezza nel corpo dello stesso articolo la specifica natura ‘regolamentare’ della Legge stessa, proprio secondo l’ipotesi sin qui esposta: «…Lex quædam regula est et mensura actuum».

Il primo elemento da prendere in considerazione per porre nella giusta luce e portata la tematica è la collocazione del tema all’interno della Summa: si tratta di un ‘blocco’ unitario (Qq. 90-108) che affronta la tematica della ‘Legge’ in tutte le sue componenti di rilievo per completare la trattazione di stampo (teo)antropologico e morale circa l’agire umano, dopo aver trattato delle virtù (Qq. 55-70) e dei vizi e peccati (Qq. 71-89) e prima di trattare della grazia (Qq. 109-113) e del merito (Q. 114) in chiusura della I-II.

Le diciannove Quæstiones intendono così offrire la panoramica completa di quanto ordinariamente viene indicato con ‘Legge’ dal punto di vista teologico-morale, all’interno di una prospettiva che non potrebbe procedere che per via analogica, partendo –inevitabilmente– da quel princeps analogatum che è proprio la ‘Legge’ propriamente intesa in ambito umano; ‘Legge’ che si identifica necessariamente con quella c.d. ‘civile’.

«Ciò che vien definito è la Legge in se stessa, come nozione analogica, che conviene in diverso modo, secondo un’uguaglianza proporzionale, alle diverse specie di Legge. Primieramente e di per sé questa nozione si applica alla Legge umana positiva (Legge civile), da cui il Santo Dottore è partito per la sua definizione; proporzionalmente però vale anche per la Legge naturale ed eterna».


La Q. 90 “De essentia Legis”, affronta il princeps analogatum intendendo fornirne con chiarezza la nozione e gli elementi costitutivi: razionalità, finalità, causa, efficacia. È così che fin dalle prime righe troneggia la coppia di termini/concetti “regula et mensura” che dominerà l’intera Quæstio rimandando ogni cosa alla ‘ragione’ cui, unicamente, compete regolare e misurare: «rationi enim est ordinare ad finem».

Proprio in questa prospettiva, per altro, si contesta espressamente l’indirizzo volontaristico della Legge poiché, se è pur vero che «…ad Legem pertinet præcipere et prohibere», già alla Q. 71 si era dimostrato che «imperare est rationis […] Ergo Lex est aliquid rationis». L’elemento volontaristico è poi affrontato direttamente proprio sulla stessa base cui pretenderà riferirsi più tardi H. Kelsen: la citazione dal Digesto secondo cui «Quod placuit principi, legis habet vigorem» (D. I, 4, 1); ad essa Tommaso risponde senza esitazioni:

«…ad ratio habet vim movendi a voluntate, ut supra dictum est: ex hoc enim quod aliquis vult finem, ratio imperat de his quæ sunt ad finem. Sed voluntas de his quæ imperantur, ad hoc quod Legis rationem habeat, oportet quod sit aliqua ratione regulata. Et hoc modo intelligitur quod voluntas principis habet vigorem Legis: alioquin voluntas principis magis esset iniquitas quam Lex».


Complementare ed in qualche modo integrativo del binomio “regula et mensura” risulta il termine/concetto di “ordo/natio/are” intorno a cui Tommaso fa ruotare tutto quanto riguarda la ‘Legge’: «rationis enim est ordinare ad finem, qui est primum principium in agendi, secundum Philosophum. In unoquoque autem genere id quod est principium, est mensura et regula illius generis.». La perifrasi “ordo/natio/are ad” (2 volte in) ricorre ben 23 volte nel corso dell’argomentazione prima di sfociare nella nota definizione di “ordinatio rationis” (ventiquattresima ricorrenza). È proprio questa ‘ordinazione’ della realtà ad un preciso fine che abbiamo già indicato come ‘predittività’: possibilità, cioè, di attendersi un determinato risultato o effetto dall’applicazione della regula.


Proprio dalla concezione prettamente operativa (regula et mensura) e finalistica (ordinatio ad) della Legge Tommaso deriva la necessità costitutiva della sua promulgazione perché possa ‘applicarsi’ a coloro che da essa devono essere guidati: «talis autem applicatio fit per hoc quod in notitiam eorum deducitur». In tal modo la promulgazione della Legge ne diventa costitutiva non per esigenze di autorità o di volontà imperativa, ma per una motivazione esclusivamente ‘gnoseologica’: come si potrebbe infatti osservare un ordinamento sconosciuto? L’intervento promulgativo –di quella che più tardi sarà chiamata ‘autorità’– ha così per Tommaso una funzione puramente formale e solo ‘dichiarativa’ della Legge finalizzata alla sua piena conoscenza; elemento necessario per una realtà de ratione –ma anche assolutamente contingente– qual è la Legge.

Sotto questo profilo è poi di grande interesse –sorprendentemente per noi post moderni– cogliere in Tommaso il chiaro riferimento all’auctoritas in connessione alla cura, secondo le corrette origini giuridico-romanistiche dell’auctoritas stessa: promulgatore della Legge, infatti, non è l’auctoritas ma «qui curam habet».

Ben diversa sarà la prospettiva –anche canonica– che andrà maturando nei secoli successivi fino a fare della cura una vera dominatio e della promulgazione una intimatio:

«norma proin authentice vel auctoritative intellectui notificanda est; i.e. requiritur ordinationis divinæ intimatio seu promulgatio. […]

Ab eo qui curam habet communitatis, sive titulo dominantis, quem Deus habet; sive titulo repræsentantis multitudinem disponendam ad finem, qui inest in Principe humano».


8.4 Auctoritas e Legislatori

Della natura e funzione originarie dell’auctoritas come ‘perfezionamento’ formale di un atto dispositivo (negozio o norma giuridica) e del suo valore di ‘conoscenza certa’ (autentica, ufficiale) rimane traccia ancor oggi nella maggioranza degli Ordinamenti giuridici attraverso la differenziazione istituzionale (spesso costituzionalizzata) tra Legislatore materiale, il Parlamento, e Legislatore formale, il Capo dello Stato, la cui funzione risulta –solo– ‘integrativa’ dell’opera del Legislatore materiale, finalizzata alla certificazione dell’esistenza della ‘norma’ stessa. Lo stesso Codice di Diritto canonico vigente è chiaro in merito, il Can. 12 afferma infatti: «Lex exsistit cum promulgatur».


Nell’ambito delle fonti di produzione della Norma giuridica non esiste –in linea di principio– nessun ‘apporto’ sostanziale da parte del c.d. Legislatore formale: il suo intervento è puramente funzionale alla concreta conoscibilità della ‘norma giuridica’ per il semplice fatto che una ‘norma’ non conosciuta non può essere applicata; allo stesso tempo è assolutamente necessario conoscere ‘se’ e ‘quando’ l’operato del Legislatore materiale entri in vigore, in modo da poterne esigere l’applicabilità e la tutela: nessun testo normativo giuridico prende infatti vigore con la sola conclusione delle votazioni parlamentari che lo riguardano. È di estremo interesse sotto questo profilo quanto operò nell’aprile 1990 il Re Baldovino II del Belgio per la promulgazione della Legge sull’aborto approvata dal Parlamento ma contraria alla sua coscienza morale di Legislatore formale: il Re si fece temporaneamente (due giorni) ‘sospendere’ dalle proprie funzioni in modo tale che un altro Organo istituzionale provvedesse a dotare della necessaria auctoritas il provvedimento legislativo a lui moralmente inaccettabile.

Che l’auctoritas nella propria forma ipostatizzata di Legislatore formale non sia, né possa essere, reale ‘fonte’ e ‘causa’ del Diritto è comprovato anche dall’esistenza –non solo di principio– della Consuetudine quale forma ‘normativa’ di valore legislativo che ha retto la vita europea per oltre un millennio e continua a farlo tutt’oggi –nonostante i Codici– in specifici ambiti.

Gli stessi Ordinamenti giuridici di Common Law funzionano prescindendo sostanzialmente dagli apporti di una auctoritas ipostatica, riconoscendo valore ‘normativo’ alle Sentenze delle maggiori Corti giudicanti secondo i principi del ‘precedente’ giurisprudenziale concepito come semplice “dichiarazione del Diritto” nel caso particolare dell’azione in oggetto: ratio ed ordo, dunque, invece di Lex.


9. Il Diritto come Ordo

Il percorso sin qui articolato permette così di cogliere quale base comune per i concetti di ‘norma’, ‘regola’, ‘legge’ e Diritto gli elementi della predittività, della regolarità/costanza, della stabilità… ponendo decisamente in ombra, invece, volontà, precettività, imperatività che risultano a tutti gli effetti come elementi spuri, indotti tardivamente da una cattiva concezione della lex.

Gli apporti logico, epistemologico, sociologico, morale, liturgico e giuridico internazionalistico di questa giornata permetteranno durante i lavori di mettere meglio a fuoco la peculiare portata di quanto sin qui suggerito solo in modo argomentatamente dubitativo.


A queste riflessioni introduttive compete ora soltanto qualche accenno al tema, comunque portante, del Diritto e della sua peculiare ‘natura’ proprio in relazione agli altri concetti sin qui trattati.

L’aiuto nel nostro percorso è offerto dall’evoluzione stessa del fenomeno giuridico occidentale che richiede, tuttavia, di essere correttamente compreso alla luce della grande frattura codificatoria che la politica degli Stati c.d. moderni ha causato nel concetto stesso di giuridicità, identificando il Diritto con la (propria) Legge positiva, stravolgendo così l’analogatum princeps cui ognuno oggi fa inconsapevolmente ricorso. Gli studi del Prof. Paolo Grossi in questo campo sono irrinunciabili per evidenziare –al contrario– la natura specificamente ed originariamente ‘ordinamentale’ del Diritto: “ordinamento osservato”, secondo l’autore fiorentino. L’ormai celebre ‘apologo della fila’ ne rende splendidamente ragione superando d’un fiato ogni concezione ontologista, autoritaria o sacrale, invece che funzionale del Diritto stesso. In questa linea –semplice quanto efficace– è possibile rileggere le maggiori espressioni storiche del fenomeno giuridico pre-codiciale.

a) Il Diritto romano fino al Principato fu saldamente dottrinale, opera di studiosi e giureconsulti e non di un Legislatore; lo stesso Diritto giustinianeo, in realtà non fece altro che ‘fissare’ questo status quæstionis in un equilibrio sostanziale tra volontà sovrana del Principe (espressa nelle Constitutiones e negli Edicta) e la perizia tecnico-scientifica degli studiosi (espressa nei Digesta e nelle Institutiones).

b) Lo Ius commune medioevale è il risultato di un fine bilanciamento applicativo e pratico tra gli Iura imperialia (di natura quasi esclusivamente tributaria) e l’immenso mondo dello Ius proprium di natura statutaria e, pertanto, convenzionale tra le diverse forze sociali che animavano il Comune e la società del tempo.

c) Il Diritto consuetudinario europeo continentale di origine germanica ha trovato vigore per circa un millennio senza neppur venire scritto; le diverse iniziative (soprattutto rinascimentali) di sua ‘raccolta’ e pubblicazione anche per volontà dei diversi regnanti non persero questa natura profondamente endogena ed anti-autoritaria, avendo tali raccolte solo finalità ricognitive.

d) Lo sviluppo della tradizione giuridica anglosassone basata quasi esclusivamente sulla gerarchia delle Sentenze delle diverse Corti giudicanti non ha per nulla indebolito il sistema giuridico inglese permettendogli, anzi, di governare una pluralità di culture e luoghi senza sentire necessità di cambiare il modello c.d. di Common Law neppure con l’affermarsi della Modernità.

e) La contemporaneità internazionale ci mostra il progressivo affermarsi di forme giuridiche tutt’altro che positivistiche ed autoritarie: dal c.d. Diritto comunitario europeo (e fenomeni analoghi), al più radicato Diritto internazionale (esclusivamente convenzionale), al proficiente Diritto commerciale internazionale quotidianamente promosso dalla globalizzazione economica in modo completamente autonomo rispetto a qualsiasi autorità statuale o politica.

Come di tutta evidenza, il nesso ontologico o fondativo tra Diritto ed autorità (nella prospettiva rinascimentale divenuta poi kelseniana) risulta del tutto indimostrato ed indimostrabile; la stessa attività legislativa delle democrazie contemporanee lo prova in abbondanza.


A completamento e conferma delle considerazioni sin qui articolate si pone anche l’apporto linguistico con la sua sorprendente coerenza: tutte le radici verbali medioevali (post-romanistiche) vanno infatti nell’unica linea del ‘rectum’, abbandonando in modo deciso le primitive influenze sacrali dello ‘ius’ e del ‘fas’ riscontrabili nel linguaggio latino ‘originario’. Di fatto i termini utilizzati nelle lingue neo-latine e sassoni: diritto, recht, right, derecho, droit, rimandano al rectum e pertanto all’ordo, alla ratio (alla veritas) e sono assolutamente coerenti con la linea proposta da S. Tommaso con la sua ordinatio rationis.


Da tutto ciò è possibile indurre come il vero problema per gli ecclesiastici in genere (ed anche buona parte dei canonisti) risulti essere l’assunzione acritica –ma radicale e radicata– del concetto positivista-autoritativo moderno di Legge e, quindi, di Diritto quale modello tipologico per ogni successiva concettualizzazione: il Diritto come precetto imposto dalla (persona dell’) autorità. Proprio tale assunzione concettuale acritica utilizzata per ‘leggere’ ed interpretare i testi di S. Tommaso o del Magistero più antico o della Scolastica più recente rende del tutto inattendibile qualsiasi risultato concettuale e teoretico se ne voglia trarre, alterando completamente l’intero orizzonte di riferimento e falsando qualsiasi prospettiva e ‘conclusione’ possibile.


10. Ius naturale e Ius divino

Un percorso che giunga a sostenere la natura ‘regolamentare’ anziché ‘normativa’ del Diritto non può evitare l’immediata accusa di scardinare concetti ancor oggi irrinunciabili quali quello di Ius naturale e Ius divinum, concetti, anzi, che proprio oggi si mostrano tanto più necessari a fondamento della giuridicità umana laddove, soprattutto, sia ormai tramontata la percezione e concezione cristiana o comunque religioso-teista del mondo e della vita, umana in primis.


A ben vedere, invece, è proprio il ridimensionamento anti-autoritativo degli Iura naturale et divinum la vera possibilità contemporanea di ricuperarne l’assoluta ‘organicità’ e ‘strutturalità’ per la concezione del reale, secondo principi di ‘ragione’ e non di fede soltanto. Ciò che, infatti, costituisce la maggior debolezza –e la sostanziale inaccettabilità odierna– di questi due concetti come giunti sino a noi è proprio la loro completa ‘estraneità’ rispetto al reale; se, infatti, lo Ius è una quæstio imperii, la sua estrinsecità rispetto al reale risulta ontologica. Uno Ius [divinum] naturale concepito essenzialmente come ‘volontà di Dio’ non potrà che esser costantemente e decisamente –oltre che ideologicamente– avversato e combattuto da parte di chi voglia sostenere l’indirizzo ‘secolare’ dell’attività politica e legislativa… così pure da parte di filosofi ed intellettuali ‘laici’. Questo è purtroppo l’esito di un ricorso affrettato –e qualunquista– alle ‘povere’ categorie giuridiche per tematizzare elementi così fondamentali per il senso stesso dell’esistente. L’utilizzo incauto e non-critico del linguaggio giuridico in senso analogico ha finito, infatti, per creare veri ‘monumenti’ concettuali laddove, in verità, si doveva –forse– scendere in miniera per seguire le vene nascoste del ‘senso’ e cogliere le sorgenti delle falde che alimentano il significato della realtà. L’identificazione della ratio con la ‘norma’ e di questa con un Diritto che è in realtà (dura) Lex non poteva condurre ad esiti più fragili ed aleatori.

La vera possibilità per il Diritto, ogni Diritto… anche quello che ontologicamente non lo è affatto(!) sta solo nel ricupero della sua dimensione ‘ordinamentale’: è la ratio la vera ‘sede’ dello Ius, non la voluntas! Se e quando la regula vitæ corrisponderà all’ordo/ratio mundi, cose, persone e loro relazioni saranno ciò che ‘sono’ senza dover più nulla aggiungere (augere) dall’esterno attraverso una qualche forma di autorità.


Discorso ‘analogo’ vale per lo Ius divinum [positivum] che ha inondato molta Canonistica impaludandola: se ciò che Dio stesso ha posto perché ‘così sia’, costituisce a tutti gli effetti l’ordo stesso, la ratio della realtà (naturale o ecclesiale) a nulla serve un ricorso pseudo-autoritativo alla categoria dello Ius: molto meglio la veritas… che convince volontà ed intelletto, senza contrapporre fede e ragione, né pretendere che s’imponga ‘per fede’ ciò che non supera il vaglio di una retta ragione.


11. Il Diritto tra volontà e verità

In una concezione, dunque, che ponga al centro dell’agire umano la verità sarà proprio l’ordo la corretta prospettiva ermeneutica e fondativa da attribuire al Diritto, senza pensare poi di poter o dover contrapporre verità e giustizia. Nella prospettiva dell’ordo, infatti, la voluntas –e la conseguente fides– non risulta più decisiva, basta il logos –e la conseguente ratio– per inquadrare ogni elemento attribuendogli il giusto valore, anche operativo e comportamentale. In questo modo cade definitivamente il principio di Hume (la fallacia naturalistica) poiché proprio dalla stessa realtà delle cose deriva la loro vincolatività –dimensione etica– e non, invece, dalla volontà di qualcuno, fosse pure Dio stesso che, in qualche modo, le ‘accresce’ dall’esterno in modo precettivo (come l’Imperator di Kelsen).

Questa prospettiva permetterebbe inoltre di ricuperare i contenuti imprescindibili del Diritto naturale e di quello divino, senza tuttavia usarne il vocabolario –improprio– e le concettualizzazioni –equivoche–, ma soprattutto sganciando l’irrinunciabile vincolatività della norma dalla volontà, anche divina, che ne costituirebbe il fondamento ultimo… motivo per cui si usa impropriamente il termine ‘Diritto’.

La ‘regola’ si porrebbe allora quale istanza intermedia –razionale ed ordinatoria– tra l’ordo realis e l’ordo agendi, permettendone l’efficace giunzione contenutistica ed interpretativa.


In quest’ottica di valorizzazione del fondamento ontologico della realtà e della relazionalità umana da cui sgorga tutto il Diritto, anche canonico, risulta senza dubbio utile ed arricchente per i canonisti considerare anche l’apporto biblico in fatto di normatività. Due sono i cardini di questo approccio: il libro del Deuteronomio ed il pensiero paolino circa la Legge mosaica.

Nel libro del Deuteronomio –secondo la tradizione giudaica– Mosè ripropone (deuteros) in modo organico la ‘Legge’ (nomos) ricevuta da Dio per il popolo a custodia dell’Alleanza sinaitica. Proprio ‘questa’ Legge, presentata come opera diretta di Dio e specificamente formulata in veri e propri ‘codici’ normativi, appare tuttavia generalmente priva di fondamenti semplicemente ‘autoritativi’ o volontaristici, dimostrando di fondarsi efficacemente e di reggersi in un approccio veritativo-esistenziale: lo stato delle cose, la relazione con Dio, la memoria storica.

Già al Cap. 6 tale prospettiva risulta addirittura programmatica:

«quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date? Tu risponderai a tuo figlio: eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente» (Dt 6, 20-21).


In modo specifico il Cap. 24 –pur all’interno del c.d. Codice deuteronomico (Dt 12-26)– ne è una delle espressioni più evidenti attraverso il tipo di motivazioni che offre a diverse sue norme: le due pietre e la mola della macina sono come la vita stessa (Dt 24, 6); lo straniero, l’orfano, la vedova sono nella stessa condizione esistenziale sperimentata da Israele nella schiavitù egiziana (Dt 24, 17-18); le spigolature ed i racimoli devono alimentare il povero ed il forestiero, come Israele ne fu alimentato durante la schiavitù (Dt 24, 19-22). Molte delle norme di Deuteronomio hanno un espresso fondamento di natura esistenziale: Israele deve comportarsi secondo la ‘verità’ ed il significato ‘vitale’ delle diverse situazioni concrete che lui stesso ha sperimentato. Lo stesso riferimento ad una ‘giustizia’ di natura ed ordine diverso risulta sostanzialmente assente al di fuori di queste coordinate di base.

Anche il primo Comandamento della ‘tavola’ deuteronomica è fondato sulla stessa logica: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me» (Dt 5, 6-7), radicando il monoteismo cultuale ebraico nell’esperienza esistenziale della salvezza concretamente sperimentata ed ignorando di fatto tanto istanze metafisiche che volontariste ed autoritative che solo ben più tardi e per altra ‘via’ rispetto a quella giudaica originale saranno presentate ed utilizzate in chiave deduttiva a partire dall’essere stesso di Dio quale suprema autorità cosmica.


Non meno fecondo risulta il portato della riflessione paolina sulla ‘Legge’, riflessione che si pone proprio in linea diretta con gli elementi problematici sin qui rilevati. Nella Lettera ai Romani, Paolo, assume una posizione di grande lucidità e chiarezza quando afferma che «fino alla Legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè» (Rm 5, 13-14a). In questo modo risultano chiari alcuni elementi del tutto risolutivi per la nostra tematica: a) il peccato, poiché precede la Legge, non dipende da essa, b) la morte deriva ed agisce in ragione del peccato come tale, c) la Legge serve solo per l’imputabilità del peccato in ragione della coscienza ‘conoscente’.

In altri termini: il peccato non è affatto trasgressione della Legge (mosaica) che Dio stesso ha dato al suo popolo al Sinai, quella Legge che le categorie ecclesiastiche classiche hanno progressivamente qualificato come ‘Diritto divino’ (naturale e/o positivo); il peccato infatti ha una propria consistenza ‘autonoma’ rispetto alla Legge e, pur configurandosi come “trasgressione”, è tale, tuttavia, non in riferimento alla Legge –assente fino a Mosè(!)–.

La funzione della Legge, in tal modo, si esplica in ambito prettamente cognitivo, con funzione soltanto ‘dichiarativa’: la Legge che Dio dà attraverso Mosè serve a ri-conoscere il peccato, inducendo così l’imputabilità proprio in funzione della conoscenza ormai acquisita… esattamente come il termometro che permette di rilevare e ‘qualificare’ la febbre già esistente in ragione di vere cause ben diverse dalla temperatura corporea stessa –che è solo un sintomo–. Infatti: «la Legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta» (Rm 5, 20). La Legge, pertanto, esercitando la propria funzione cognitiva aiuta l’uomo a cogliere e valorizzare l’ordo realis sotteso alla sua stessa esistenza; quell’ordo da cui dipendono intrinsecamente e strutturalmente bene e male e la cui trasgressione genera il peccato. Certo, dopo la Legge il peccato si configura anche come trasgressione della Legge e per questo viene –anche– imputato, ma la sua essenza è indipendente dalla Legge!

Il Cap. 7 della stessa Lettera ai Romani continua sulla medesima linea sottolineando ulteriormente la ‘natura’ cognitiva della Legge e la sua funzione:

«però io non ho conosciuto il peccato se non per la Legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la Legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la Legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la Legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. Così la Legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento. Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento» (Rm 7, 7b-13).


Crolla in questo modo –e definitivamente– tutto l’impianto moralistico costruito sulla Legge come ‘comando’ divino diretto, permettendo finalmente di riconoscere come l’obbligazione morale derivi dalla dimensione etica anziché da quella giuridica, per sua natura radicalmente diversa.


12. Conclusione

L’esito che si potrà raggiungere mettendo a fuoco con maggior precisione il significato e la portata di termini che, come ‘norma’, ‘regola’, ‘legge’, popolano ed ‘esprimono’ ordinariamente l’ambito giuridico, ma che –in realtà– non trovano in esso la propria unica referenzialità concettuale –almeno odierna–, appare di tutto interesse per una più adeguata comprensione e gestione della realtà stessa del vivere giuridico ecclesiale.

La involontarietà della legge scientifica, la cogenza dei principi di relazione internazionale, la natura ordinatoria delle prescrizioni liturgiche, l’imperatività della legge morale, la imponderabilità delle regolarità statistiche, offrono oggi nuovi ed ulteriori elementi di analisi, concettualizzazione e sintesi per una rinnovata Canonistica che desideri essere più consapevole di sé e dei propri compiti teoretici ed operativi.


Diventa allora questa, concludendo, la prospettiva su cui vale oggi la pena concentrare tanto gli sforzi più strettamente concettuali che quelli tecnici della Canonistica: la messa a fuoco di una concezione –e di una Teoria generale– del Diritto canonico in grado di cogliere, concettualizzare e gestire correttamente il ‘senso’, la ratio, di quanto la Chiesa indica giuridicamente quale concreta ed attuale ‘modalità operativa’ (regola) perché la missione evangelizzatrice affidata da Cristo agli Apostoli e Discepoli porti frutti di vera santità in chi ha accolto il Vangelo e venga estesa efficacemente ad ogni uomo.

Sarà così possibile parlare di vero ‘Diritto’ nella Chiesa e della Chiesa, sarà possibile ‘valutare’ la rispondenza a verità delle situazioni previste dal Legislatore e delle condizioni di vita dei singoli Christifideles a cui le stesse vanno applicate, sarà possibile dispensare da una disposizione canonica senza contraddire il Valore che ne sta alla base né contrapponendogli un qualche presunto ‘diritto fondamentale’, sarà possibile anche applicare con rigore le singole disposizioni giuridiche senza cadere nel vuoto formalismo che fa del solo precetto l’unico elemento d’interpretazione della realtà.




in: APOLLINARIS, LXXXI (2008), 671-718.