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Quali istanze istituzionali pone oggi la pastorale al modo in cui comprendere e vivere il cammino di iniziazione cristiana? Prospettiva canonistica



L’inserimento del diritto canonico in una dinamica interdisciplinare che vede presenti la teologia, la pastorale e la catechetica, permette di evidenziarne alcuni elementi strutturali che difficilmente riescono ad emergere in altri contesti contribuendo così a rendere fragile il rapporto della canonistica con le altre discipline ecclesiali ed ostacolandone la conseguente recezione da parte delle stesse e dei loro operatori.

L’occasione di affrontare una tematica comune –come l’iniziazione cristiana– è proficua per mettere in risalto le tipicità dei diversi approcci, mostrandone gli elementi specifici ma soprattutto quelli complementari.

In questa prospettiva diventa necessario che l’apporto specificamente canonistico si profili prima di tutto, o forse essenzialmente, in modo metodologico, chiedendo e permettendo allo stesso tempo di identificare con precisione la specifica prospettiva canonistica rispetto a quelle teologica, pastorale, catechetica ed alle altre discipline teologiche in genere. Il frutto che ne potremo trarre sarà così in qualche modo ‘strutturale’ e non limitato ad un singolo tema, che potrebbe in qualche modo favorire semplificazioni o giovarsi di specifiche convergenze contenutistiche non fruibili in altre occasioni.


1. Questioni di metodo

Il primo passo da compiere per inquadrare correttamente la prospettiva odierna consiste nell’individuare il fine specifico dell’approccio canonistico in quanto ‘giuridico’; solo se e quando ciò sarà chiaro si potrà procedere oltre in vista del suo conseguimento. Il passaggio è decisivo su più livelli tanto teoretici, che sistematici, che pratici.

In questa linea ‘identificativa’ (epistemologica) –proprio in prospettiva interdisciplinare– occorre prendere atto preliminarmente, ma anche pregiudizialmente, di due elementi che caratterizzano il diritto rispetto alla teologia ed alle scienze sacre in generale:

a) il diritto –anche canonico– non è una ‘scienza’ ma un ‘fenomeno’, un’esperienza,

b) il diritto –proprio perché ‘fenomeno’– non è neppure una ‘cosa’ (res) ma un’attività… un modo di relazionarsi.

Questo comporta che il ‘fenomeno-diritto’ possa essere –e di fatto sia– ‘oggetto materiale’ di studio di diverse scienze e discipline (antropologia, etnologia, sociologia, logica, giurisprudenza, canonistica, teologia, morale, etica, ecc.) e che, allo stesso tempo, possa avere –e di fatto abbia– diverse articolazioni operative: è chiaro, infatti, che l’attività giuridica nomogenetica (del legislatore) è del tutto differente da quella ‘applicativa’ di chi governa e di chi giudica e, a maggior ragione, da quella dottrinale o più ampiamente ‘scientifica’.

La circostanza interdisciplinare in cui si muovono queste riflessioni impone, di fatto, l’attenzione a una soltanto delle ‘articolazioni operative’ del diritto: quella legislativa, mentre non sarebbe adeguato in questa sede un coinvolgimento della scienza canonistica in quanto ‘studio tecnico’ delle disposizioni normative vigenti o ‘teorizzazione sistematica’ dell’ordinamento canonico come tale. Tale approccio, infatti, dovrebbe avere per ‘oggetto’ l’analisi della normativa canonica vigente (latina ed orientale) sui tre sacramenti in oggetto e sulla loro connessione, ma non andrebbe oltre il rilevamento delle diverse difficoltà già ben visibili da più parti nel rapporto con la concreta realtà pastorale.

L’apporto del canonista al confronto interdisciplinare non sarà pertanto quello sistematico-teoretico ma quello specificamente normativo: non si tratterà perciò del punto di vista della scienza canonistica come tale (concettualizzazioni e sistematica) ma di quello della normatività canonica nella sua specifica attitudine a fissare norme giuridiche ecclesiali partendo dai posita et desiderata della teologia e della pastorale, generando così il diritto canonico vigente in ogni epoca/luogo.

Ne deriva specificamente per la presente tematica la consapevolezza che i quattro approcci (teologico, pastorale, catechetico e canonistico) al tema della “iniziazione cristiana” non sono ‘equivalenti’, come quattro possibili punti di vista sullo stesso oggetto materiale ma, in realtà, si presentano già differenziati e complementari in base ad ‘oggetti materiali’ ben differenti:

a) il contenuto-valore soteriologico dell’iniziazione cristiana secondo la Rivelazione biblica, la Tradizione ed il magistero ecclesiale studiati nelle specifiche ‘fonti’ (teologia positiva) ed elaborati sistematicamente (teologia sistematica),

b) la traduzione operativa di questo contenuto-valore soteriologico nella concreta attività pastorale (pastorale) in vista della sua maggior efficacia possibile per la vita dei singoli fedeli e della comunità di fede nel suo insieme (catechetica),

c) la regolamentazione generale del concreto modus operandi affinché tale efficacia risulti apprezzabile ed apprezzata non solo individualmente (in coscienza e spirito) ma anche ecclesialmente come elemento e strumento di crescita della vita ecclesiale (normatività canonica).


Che cosa, quindi, potrà –e dovrà– essere chiesto al diritto canonico in questa prospettiva?

L’alternativa si pone tra due possibilità –certamente non equivalenti– che rispondono sostanzialmente a due domande: il diritto serve a “dare risposte a questioni” (teoretiche) o a “risolvere problemi” (pratici)? In base all’opzione operata già a questo primo livello si deciderà strutturalmente ‘che cosa’ sarà individuato come ‘diritto’ e quali saranno i risultati concreti cui aspirare ricorrendo ad esso.

L’esperienza di tutti, e la storia del fenomeno giuridico lungo i millenni, non lasciano dubbi in merito: non solo il diritto serve soltanto a risolvere problemi, ma anche la tipologia dei problemi risolvibili giuridicamente non è infinita. Il diritto in quanto normatività (aspetto legislativo), infatti, può risolvere soltanto problemi relazionali di natura generale… quelli, cioè, che riguardano potenzialmente tutti nelle proprie relazioni con tutti gli altri, nelle quali cioè ciascuno non incontra il ‘tu’ ma semplicemente un ‘altro’, uno dei tanti ‘altri’ …poiché ius est in tertium; di fatto

«se l’amore è la forma più propria e più diretta di pratica del reciproco riconoscimento in una situazione come quella dell’amicizia, dove i rapporti tra le persone sono “corti” e di perfetta pariteticità, la giustizia lo è in una situazione come quella sociale, dove i rapporti sono “lunghi” e non prevedono la corrispondenza bilaterale. L’ipotesi appare plausibile anche perché, come ricorda Ricoeur, “l’amore rende singolo, mentre la giustizia universalizza”. Inoltre, proprio nel passaggio dall’amore alla giustizia si colloca quella “estensione dei rapporti interumani a tutti coloro che il faccia a faccia tra l’“io” e il “tu” lascia al di fuori al titolo di terzi”».


Posto il ‘che cosa’ fa il diritto, è necessario anche aver chiaro ‘come’ lo faccia; la risposta è semplice ma non banale: il diritto nella sua componente normativa risolve problemi relazionali generali in modo preventivo, concreto ed impersonale, curandosi più dell’equilibrio relazionale generale che della ‘condizione attuale’ di ogni e ciascun soggetto; condizione che rileverà nella fase applicativa del diritto (l’esercizio del governo) più che in quella ‘costitutiva’ (la creazione delle norme), senza indugiare qui sulla certezza che il diritto come tale sorge sempre da concreti problemi di relazione, trovando la propria vera scaturigine nell’attività decisionale della “iuris dictio”. In realtà ciò che una norma giuridica –codificata– sembra ‘prevedere’ è già accaduto ed ha generato (più) interventi decisori in materia; l’alternativa a questa visione è il positivismo autoritario o l’idealismo mistificatorio.


Stando così le cose, lo specifico della fase nomogenetica non è rispondere alla domanda “quid theologiæ in re ipsa?” quanto piuttosto a quella “quomodo hac re theologica in generalibus?”

Ciò, infatti, di cui si occupa il diritto attraverso le proprie specifiche categorie di ‘validità’ e ‘legittimità’ non è altro che distinguere e fissare un primo livello ‘costitutivo’ –diremmo ontologico– della realtà ed uno più circostanziale che permetta di ‘inserire’ nel giusto contesto ecclesiale gli elementi costitutivi così individuati; teologia e pastorale (nelle sue varie declinazioni) sono le principali referenti per i due generi di operazione da condurre: fondativo-contenutistico il primo, operativo-prospettico il secondo.

Ciò che ne consegue a livello della natura stessa della normatività canonica non è tanto il compito di sostenere la virtù e la performance di fede o di vita cristiana, ma di garantire il ‘minimo’ indubitabile perché tanto la comunità di fede che il singolo fedele possano riconoscersi ed esser riconosciuti come tali, e vivere di conseguenza.


2. L’evento tipologico della giuridicità ecclesiale

La correttezza di questo approccio è riscontrabile non solo per via teoretica attraverso le idee fin qui proposte, ma anche, in qualche modo, ‘fondativa’ ed ‘originaria’ partendo dalle fonti del diritto canonico stesso; quanto sin qui illustrato corrisponde infatti perfettamente all’evento ‘tipico’ (nel senso patristico di typos) della normatività canonica: il c.d. Concilio di Gerusalemme narrato in At 15 da cui scaturì la prima vera norma canonica.


In effetti al c.d. Concilio di Gerusalemme si pose nel modo più radicale possibile proprio la nostra stessa questione circa la iniziazione cristiana e le sue modalità e conseguenze: “come diventare cristiani” e “come comportarsi da tali”? Che cosa, poi, è davvero costitutivo, e quindi irrinunciabile, per essere cristiani? 

Allora come oggi il centro del problema non stava nella fase ‘iniziale’ (il battesimo) ma in quella ‘esistenziale’ (l’Eucaristia). I cristiani ‘iniziati’ diversamente alla nuova fede secondo il prevalere dell’indirizzo ellenistico (antiocheno) o di quello giudaizzante (gerosolimitano/palestinese) finivano infatti per trovarsi divisi nella partecipazione all’Eucaristia: circoncisi da una parte e non-circoncisi dall’altra (a causa del divieto ebraico di comunione di mensa coi pagani)… come se esistessero due comunità cristiane ma, molto di più, col crescente dubbio circa l’autentica identità cristiana dell’altra comunità di discepoli: come possono essere davvero ‘di Cristo’ coloro che si fanno circoncidere tanto in vista che dopo il battesimo? Come, per contro, possono essere vero popolo di Dio dei non-circoncisi? Chi, dunque, è davvero ‘cristiano’?

La connotazione specificamente ‘pastorale’ del problema è di tutta evidenza anche perché attraversa e dilania quotidianamente le diverse comunità cristiane. Non tutti però ne colgono la reale portata ‘dogmatica’ più strettamente teologica. I toni forti di Paolo nella Lettera ai Galati ed il suo dover difendere l’autenticità ed autorità del proprio ‘essere Apostolo’, il barcollare di Pietro in merito alla condotta da tenersi (Gal 2), le pretese dei c.d. giudaizzanti di provenienza ed autorevolezza gerosolimitana e la loro delegittimazione dell’opera missionaria paolina, sono solo gli elementi più palesi della reale portata della questione; questione che non può essere risolta da parte di singoli (Apostoli), ciascuno in base ai propri presupposti soltanto.

L’assise di Gerusalemme mette a stretto confronto le due istanze metodologiche già evocate: la teologica e la pastorale, rappresentate da Paolo e Pietro; il confronto però finisce per inaugurare una ‘terza via’: quella ‘normativo-istituzionale’ (che sarebbe un vero anacronismo definire già come ‘giuridica’), proposta da Giacomo e tipologica per il futuro: giusto ‘mezzo’ tra gli estremi di partenza.

La soluzione della vicenda è il primo vero ‘canone’ della disciplina ecclesiale: visto il fondamento teologico per cui la salvezza viene solo dalla fede in Cristo e considerate le sue conseguenze sulla vita della comunità di fede, si decide che in futuro la circoncisione sia irrilevante e che la mensa eucaristica sia una sola per tutti i rinati in Cristo; in tal modo viene legittimata anche l’evangelizzazione portata avanti da Paolo e la Chiesa ottiene unità intorno al kerigma evangelico ed alla cena del Signore.


Quanto accaduto in quella fase della vita della comunità post-apostolica pone in immediata evidenza la struttura, prima ancora che la dinamica, dell’azione ecclesiale; una struttura che non lascia molti dubbi circa la propria articolazione.

- Alla base di tutto si pone il ‘fatto’ dell’annuncio del Vangelo: è questo che suscita la fede ed apre al dono della salvezza, già efficace per la fede stessa, ma chiamato a crescere ed a radicarsi esistenzialmente con la vita sacramentaria all’interno della comunità di fede e di salvezza (la Chiesa, appunto); l’esperienza di Pietro con la famiglia di Cornelio (At 10) è tipologica in merito, allo stesso modo che l’esperienza di Paolo, così come anche l’origine della stessa comunità cristiana di Gerusalemme sorta intorno ad una semplice domanda-risposta:

«“Che cosa dobbiamo fare, fratelli?” E Pietro disse: “Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro”. Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone» (At 2, 37b-41). 


È questo il ‘livello’ che oggi chiameremmo comunemente ‘pastorale’: il livello dell’agito con/per fede.

- I diversi modi di ‘agire’, tuttavia, e le diverse circostanze in cui lo si fà creano situazioni anche molto differenti tra loro, oltre che potenzialmente conflittuali in specifici casi di ‘convergenza’ come la doppia articolazione giudeo-cristiana e pagano-cristiana della comunità antiochena e delle altre dell’Asia minore. Nella piena grecità (Corinto), come anche a Gerusalemme, il problema di fatto non si poneva, in ragione della netta prevalenza di uno specifico modello circostanziale.

- Proprio il concreto conflitto di riconoscimento reciproco instauratosi all’interno delle maggiori comunità cristiane asiatiche ha fatto emergere la ‘domanda’ teoretica circa la ‘verità’ teologica realmente in gioco: la vera provenienza della salvezza. La conflittualità della prassi (pastorale) fa emergere così la domanda teologica circa il suo fondamento –diremmo oggi– dogmatico; l’episodio di Antiochia riferito da Paolo in Gal 2, 11-16, è chiaro: Paolo si oppose a Pietro a «viso aperto perché evidentemente aveva torto»! Quello che Paolo stigmatizza non è uno ‘sbaglio’, una svista, una scorrettezza, ma un “errore” dal punto di vista teologico!

- L’assise gerosolimitana deve quindi innanzitutto prendere atto che la ‘semplice’ adesione di fede al kerigma evangelico, se risulta sufficiente in modo ‘soggettivo’ ad introdurre nello spazio della salvezza escatologica cristiana –poiché la salvezza si ottiene soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo (Gal 2, 16)–, non mostra però la stessa efficacia sotto il profilo pratico ed ‘oggettivo’ –meglio sarebbe dire: istituzionale– che richiede una condivisa e pacifica accettazione da parte dell’intera comunità credente. L’essere con-discepoli dell’unico Maestro, infatti, l’essere ‘fratelli’ in Cristo Gesù, non si contenta né del solo dato soggettivo (la fede professata dal singolo), né solo di quello oggettivo/istituzionale (la sua adesione alla comunità ecclesiale), ma richiede anche una recezione ed una ulteriore consapevolezza ‘in’ e ‘da parte di’ ciascuno dei credenti che costituiscono la comunità di fede e salvezza.

- La focalizzazione teologica, necessaria in sé quanto concretamente solo successiva ai fatti problematici in questione, porta in evidenza –ancora per via fattuale– un primo elemento ‘teoretico’ di valore diremmo oggi ‘dogmatico’: la non decisività della circoncisione –e della conseguente vita spirituale ebraica– per accedere alla salvezza cristiana. Sarà questo il primo ‘criterio’ in base a cui verranno riviste e ‘giudicate’ le diverse ‘prassi’ ecclesiali, tanto di quel tempo che dell’intera vita ecclesiale di ogni tempo e luogo …sino ad oggi.

- La necessità, dopo la decisione che risolve il problema, di ritornare alla ‘prassi’ ecclesiale, questa volta in modo unitario, impone un passaggio in qualche modo ‘tecnico’ per dare corpo alla nuova consapevolezza dogmatica così maturata: la formalizzazione e ‘pubblicizzazione’ di una precisa disposizione comportamentale. È il proto-canone… è l’inizio dell’attività normativa della Chiesa! La decisione viene scritta ed inviata alle Chiese extra-palestinesi attraverso legittimi emissari affinché costituisca un’acquisizione certa ed indubitabile per la Chiesa intera, criterio di verità dogmatica su cui verificare e modellare le differenti prassi missionarie e pastorali (At 15, 23ss).


L’agire ecclesiale appare così come un ‘pendolo’ continuo tra pastorale e teologia, in un ciclo che ha come prima fase (semionda negativa) la problematica differenza tra i diversi modelli di azione pastorale –passaggio dalla prassi pastorale alla teologia– e come seconda fase (semionda positiva) la soluzione ‘unitaria’ indicata attraverso la norma canonica –passaggio dalla teologia alla prassi pastorale–.


3. Il metodo ‘normativo’

La concreta scelta operativa che emerge dal racconto di At 15 costituisce, come già anticipato, uno dei principali modelli d’azione cui la Chiesa attribuirà nei secoli valore e portata differenti, ma pur sempre decisivi: la via normativo-istituzionale dei sacri canones ai quali verrà affidato nel tempo il difficile ma necessario compito di mantenere l’unità della pratica credente e della comunione ecclesiale nel costante bilanciamento (il pendolo) tra ortoprassi ed ortodossia. Strumento privilegiato di questo rapporto è –e sarà– il diritto canonico che, attraverso le proprie norme, offrirà la comune base operativa per una prassi pastorale almeno comunionale, se non proprio unitaria ed univoca, che garantisca la tutela di quanto il depositum fidei andrà progressivamente fissando come non più rinunciabile, tanto attraverso i Canoni conciliari che le altre forme di magistero ecclesiale ordinario.


In questa prospettiva la natura e funzione del diritto canonico potrebbe esser paragonata a quella della grammatica rispetto al linguaggio; pur essendo questo che precede –e genera– quella, è però compito della prima ‘garantire’ la correttezza e coerenza del secondo. La grammatica non può pretendere di ‘contenere’ tutta la complessità del linguaggio, ma neppure il linguaggio può prescindere dalla grammatica se vuole conservare inalterate ed efficaci le proprie caratteristiche e finalità comunicative. Allo stesso modo si pone la dinamica tra diritto canonico e prassi pastorale: la prassi guida, il diritto consolida, l’una crea, l’altro garantisce nella consapevolezza, ovviamente, della funzione strettamente tecnica della grammatica/diritto rispetto a quella concretamente esistenziale del linguaggio/prassi.


Il ricorso allo strumento giuridico-canonico –nella sua funzione ‘grammaticale’– rende però necessario esplicitare quell’insieme di caratteristiche e tecniche che individuano la costruzione delle norme giuridiche: la c.d. nomogenetica, i cui dettati andranno osservati per poter ‘creare’ le norme giuridico-canoniche che maggiormente possano rispondere alle doppie esigenze di pastorale e teologia.

L’attuazione di un corretto iter nomogenetico di stampo codiciale, com’è attualmente quello canonico, richiede tuttavia che vengano soddisfatti alcuni presupposti strutturali delle norme giuridiche ‘moderne’: generalità, esteriorità, preventività, minimalismo, garanzia/certezza, a cui il diritto canonico aggiunge la relazionalità istituzionale. È a questi principii che dev’essere ricondotto qualunque elemento che teologia e pastorale abbiano individuato come ‘costitutivo’ o ‘necessario’ o ‘virtuoso’ per la definizione stessa di iniziazione cristiana –presente e futura– e per il suo concreto esercizio.

- La prima caratteristica delle norme canoniche di stampo codiciale è la generalità, da non confondersi con l’universalità –concetto di ben altra portata, adatto alla cogenza inderogabile delle norme etiche–. La generalità delle norme giuridiche significa che esse valgono “ut in pluribus”, come insegnava S. Tommaso; cioè nella maggioranza dei casi e per tutti quei casi che non siano talmente specifici da porsi al di fuori della ‘normalità’ (esistenziale e statistica)… come i dati estremi a livello statistico, che non vengono considerati poiché fuori campo (off range) e pertanto non significativi per definire la ‘normalità’.

- Ciò a cui il diritto rivolge poi le sue attenzioni è sempre caratterizzato dalla esteriorità: la possibilità, cioè, di vedere dall’esterno, di cogliere con immediatezza, gli elementi presi in considerazione (sesso, età, uso di ragione, pratica religiosa, status giuridico, condizioni di vita, residenza… ecc.). Gli elementi che rilevano per il diritto non possono essere conoscibili solo per interrogazione diretta degli interessati, come la coscienza; deve bensì trattarsi di ‘atti’ e ‘fatti’, non di intenzioni o propositi. Si tratta di ‘azioni’ poste o da porsi o da evitarsi ed il cui compimento sia, di per sé, oggettivamente riscontrabile da parte di qualcun altro rispetto a chi agisce.

- Altra caratteristica della norma giuridica codiciale è la sua preventività: si stabilisce in anticipo quali siano gli elementi rilevanti per la norma in modo tale che quanto concretamente si pone nella realtà possa/debba esser ricondotto alla previsione della norma stessa. La norma giuridica moderna dà indicazioni sul come operare nel futuro, al verificarsi di situazioni/condizioni già previamente prese in esame e ‘risolte’ attraverso la norma stessa ed in qualche modo fissate quali species facti: la c.d. fattispecie, cui possano venir ricondotte le diverse azioni poste in essere o concretamente realizzabili. In questa prospettiva la normatività codiciale scalza definitivamente ogni possibile ‘casuistica’ attraverso l’adozione della fattispecie (preventiva e generale).

- Specifico delle norme giuridiche –e loro somma croce nel rapporto con teologia e pastorale– è anche il loro minimalismo: quella caratteristica, cioè, secondo cui le norme non chiedono mai la performance, la prestazione straordinaria, lo sforzo estremo, o la realizzazione virtuosa. Quanto le norme giuridiche prescrivono deve essere alla normale portata di tutti, anzi ancora di più per i maggiormente deboli ed in difficoltà. La norma giuridica accoglie sempre come base minima il ‘limite inferiore’ di ciascuna situazione, anche da un punto di vista semplicemente morale; la norma giuridica non fissa la soglia d’uscita, ma quella d’entrata. Ciò che la norma giunge a ‘fissare’ è in realtà il minimo irrinunciabile: ciò che non può ulteriormente essere ‘dispensato’ a pena di decadimento della realtà stessa che, in tal modo, non sarebbe più riconoscibile.

- Tra gli esiti cui la norma giuridica tende sempre in modo peculiare e specifico si colloca la garanzia/certezza del buon esito di quanto operato secondo diritto. Ciò che il diritto intende offrire alla comunità cui si rivolge è un risultato certo, qualcosa su cui si possa fare affidamento per il futuro, qualcosa che non abbia continuo bisogno di essere ri-definito, o ri-dimostrato; qualcosa che possa essere considerato a ragione come un ‘dato di fatto’ indubitabile per la vita della comunità e da cui la comunità stessa possa partire per creare il proprio futuro; ciò che accade ut in pluribus con la previsione di legge e ut in singulis con l’istituto della res iudicata.

- Ulteriore caratteristica –del tutto specifica del diritto canonico– è la relazionalità istituzionale, intesa come necessaria corrispondenza tra ciò che s’intende fare, si fà, e ciò di cui la comunità credente si rende conto o prende atto all’interno della propria vita. Ciò deriva dal fatto che nessuno dei ‘beni’ posti nelle mani della Chiesa (can. 213) appartiene in qualche modo a nessun singolo fedele, ma rimane sempre ‘ecclesiale’ nel senso più profondo del termine, tanto che per i sacramenti si parla –appunto– di ‘amministrazione’ da parte dei sacri ministri, ai quali incombe una precisa responsabilità nell’accertare le ‘condizioni’ del richiedente. Ciò che nella Chiesa si opera è operato dalla Chiesa, o in suo nome e conto… ed è con la Chiesa che ciascun singolo entra in relazione attraverso i suoi ministri e pastori. A differenza degli Stati e delle altre società umane, infatti, la Chiesa non sorge dal basso e non si presenta come unione/armonizzazione di interessi individuali; in essa, al contrario, ogni fedele aderisce ad una chiamata personale per divenire parte di un cammino comunitario di salvezza che ha in Cristo la propria origine e meta ed a cui il singolo fedele decide liberamente di aderire e collaborare, proprio modo et propria parte.


4. Problematica canonico-pastorale attuale

Dopo aver collocato in via teoretica la posizione e funzione della norma canonica nella mediazione tra teologia e prassi pastorale (seconda fase del pendolo) e dopo aver anche preso atto delle principali caratteristiche tecniche della normatività giuridico-canonica, risulta senza dubbio interessante verificare la consistenza di tale logica funzionale attraverso un confronto col reale status quæstionis in cui si trova oggi l’iniziazione cristiana all’interno della vita ecclesiale del mondo occidentale.


Il vero problema che emerge a più riprese nelle diverse riflessioni e pratiche pastorali in tema d’iniziazione cristiana è quello della –reale– vita cristiana, richiesta quale necessaria premessa, ‘propria’ per il catecumeno adulto o ‘mediata’ per coloro che presentano un bambino. Come, tuttavia, ‘misurare’ una variabile di questa natura e portata? In base a cosa ‘valutarla’ e secondo quali criteri? Quali ‘conseguenze’ attribuire ai diversi ‘risultati’ che scaturiscono dalle differenti situazioni e circostanze reali di vita? Chi, in altri termini, va correttamente e motivatamente considerato come ‘esistenzialmente cristiano’ perché l’iniziazione lo renda effettivamente tale, catecumeno adulto o infante che sia?

Gli esempi che la storia ci porta sono tanti, anche se non sempre pacifici né adeguati, soprattutto ai diversi cambiamenti socio-religiosi che la cristianità ha conosciuto.

- Il Concilio Lateranense IV (nel 1215) aveva fissato il minimo della ‘pratica’ cristiana nella confessione e comunione annuale (sotto pena di espulsione dalla chiesa e negazione di sepoltura cristiana), rimasto tutt’oggi la soglia oggettiva d’ammissione ad una generica ‘cristianità’, certo senza lode per lo zelo profuso (non si è infatti innanzi ad un c.d. praticante), ma neppure con l’infamia di chi concretamente vive uti Deus non daretur; la concezione soteriologica e sacramentaria del Concilio di Trento aveva confermato e rafforzato questa linea, tanto da portarla a fissazione nei successivi Codici di diritto canonico fino ad oggi (Cfr. cann. 906, 859, CIC 17; 989 e 920 §1, CIC 83), pur già deprivata delle originarie sanzioni.

- La normativa canonica, la prassi pastorale ed il magistero ecclesiale stratificatesi lungo i secoli, tuttavia, hanno arricchito tale prospettiva introducendo ulteriori elementi in qualche modo ‘attitudinari’ da prendere in considerazione al fine di delineare l’effettivo status di cristianità esistenziale: [a] partecipazione festiva alla S. Messa (can. 1247), [b] comportamenti gravemente lesivi della vita cristiana ed umana (per interpretazione ‘riduttiva’ dei cann. 874 §1, 3-4° e 915), [c] esclusione di stati di vita contrari alla santità del matrimonio.


Ed è proprio questo ciò che ancor oggi costituisce la ‘base comune’ delle disposizioni canoniche che regolano l’iniziazione cristiana di adulti e fanciulli (personalmente per i primi, mediatamente per i secondi) …con un evidentissimo spostamento di queste esigenze di cristianità esistenziale dai genitori ai padrini per quanto riguarda i fanciulli… mentre per i catecumeni adulti si tratta di condizioni previe e complementari al cammino iniziatico stesso, suscitando tutta una serie di evidenti problemi per i casi, ormai piuttosto tipici, di convivenza pre-matrimoniale o extra-matrimoniale dell’adulto tanto battezzando che cresimando. Com’è, infatti, concretamente gestibile questo stato di vita oggettivamente contrario alla santità del matrimonio?

Per contro, ciò che il Codice pone come unica effettiva ‘condizione’ per la valida amministrazione del battesimo è la “retta intenzione” (can. 861 §2), mentre per la liceità del battesimo di un infante si riduce ‘soltanto’ al consenso dei genitori (can. 868 §1, 1°) insieme alla fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica (ivi, 2°); in pericolo di morte, poi, non esiste nessuna ‘condizione’ di liceità (ivi, §2); per l’adulto unica ‘condizione’ è la sua sola volontà, nell’osservanza delle norme riguardanti il catecumenato.

Il tema della cristianità esistenziale quale ‘condizione’ di accesso all’iniziazione cristiana è reso tuttavia maggiormente complesso –per non dire equivoco– dall’assunzione in alcuni magisteri episcopali di una duplice appartenenza ecclesiale: quella (solo) battesimale e quella (anche) eucaristica …in una prospettiva che, nei fatti, cortocircuita ogni genere di richiesta di conformità esistenziale al Vangelo: in fondo basta (forse) non aver rinnegato formalmente il proprio battesimo!

Ciò, però, di cui si è lungamente parlato in questa sede –già dallo scorso anno– e, molto di più, ciò che i libri liturgici e catechistici ed i diversi documenti magisteriali e pastorali indicano ed esigono in relazione all’iniziazione cristiana risulta essere ben altro, non sempre immediatamente esprimibile in norme giuridiche, né in convincenti prassi pastorali.


Il quadro teoretico e pratico che ne emerge è di grande complessità e non può essere affrontato a compartimenti stagni, ma richiede una forte integrazione tra [a] fondamenti teoretici (la teologia), [b] loro reale applicazione esistenziale (la prassi pastorale) e [c] loro concreta esigibilità pratica per attuarli con ragionevolezza (il diritto canonico).

Di seguito solo alcuni accenni e stimoli circa i problemi istituzionali oggi emergenti tra diritto canonico, teoria e prassi della iniziazione cristiana in Italia.

- Famiglia. Si tratta, probabilmente, dello snodo fondamentale della tematica ed al contempo dell’anello più debole –quando non addirittura assente– della catena dell’iniziazione cristiana dei fanciulli al giorno d’oggi, in una situazione socio-religiosa in cui la catechesi è stata completamente ‘assunta’ da parte delle parrocchie in piena e totale sostituzione delle famiglie che, molto spesso, non valicano altra soglia che quella della ‘richiesta’ dei sacramenti per i loro figli. È sintomatico che molti progetti pastorali tesi alla revisione della pratica iniziatica cristiana infantile si rivolgano proprio alle famiglie come tali invece che ai fanciulli.

La situazione presente pone seri interrogativi sul ruolo reale della famiglia per l’iniziazione cristiana degli infanti, fanciulli e ragazzi; di fatto è questa che chiede i sacramenti e s’impegna attivamente per la preparazione, oppure il suo ruolo reale è concretamente inutile perché l’intero ‘pacchetto iniziatico’ è offerto direttamente dalla parrocchia, purché la famiglia non si opponga? In questa prospettiva, quindi, il battesimo degli infanti/fanciulli avviene ‘nella’ e ‘per la’ fede dei genitori o della Chiesa?

Che cosa, pertanto, è chiesto –o può essere legittimamente chiesto– ai genitori per il battesimo dei fanciulli? Una semplice ‘professione di fede’, anche implicita come emergerebbe a sufficienza –secondo alcuni– dalla stessa richiesta del battesimo? Oppure un’esistenza conforme al Vangelo? O, ancora, una semplice ‘non-avversione’ alla fede stessa? Deve, poi, trattarsi di ‘vera’ fede cristiana o è sufficiente un generico senso religioso ‘naturale’? Cosa e come fare nei casi, ormai non infrequenti, in cui la richiesta di Battesimo dell’infante avvenga da parte di genitori non battezzati (o di altra religione)?

Che senso assume, però, in questa prospettiva la professione di fede battesimale richiesta a genitori e padrini durante la celebrazione e quella chiesta ai ragazzi prima della confermazione? Ancora: quale ‘intenzione’ è richiesta per il sacramento, e da parte di chi?

Nel rapporto con la famiglia si pone anche il necessario ‘bilanciamento’ col ruolo della comunità cristiana che interviene in modo molto forte sulla ‘seconda parte’ del cammino d’iniziazione (nella fanciullezza) ma che spesso rimane mortificato nella preparazione e celebrazione del battesimo, vissuto ancora come ‘cosa di famiglia’, col rischio anche di duplicare la liturgia battesimale nello stesso giorno in ragione di differenti necessità familiari.

- Padrini: uno dei problemi maggiormente ‘visibili’. La questione si pone in modo stringente a causa della loro necessità crescente quali reali figure di accompagnamento –dei ragazzi soprattutto– nella fede e vita cristiana (cristianità esistenziale) in una società in cui la vita familiare spesso non è più neppure ‘compatibile’ con quella cristiana (p. es.: convivenze pre/extra-matrimoniali); tale impossibilità ‘legale’ per molti genitori di ‘condividere’ coi loro figli la comunione eucaristica ha già portato zelanti parroci ad istituire anche il ‘padrino di prima comunione’ perché almeno qualcuno della famiglia ‘testimoni’ ai fanciulli l’importanza esistenziale del sacramento stesso.

Dall’altra parte emerge una crescente difficoltà ad individuare nella cerchia parentale ed amicale delle famiglie persone che abbiano almeno i ‘requisiti’ minimi previsti dal can. 874 per questa funzione. Insieme a ciò, il ruolo è ritenuto ormai talmente ‘acquisito’ a livello sociale, e spesso praticamente irrinunciabile, che si giunge fino a ‘ricevere’ la propria confermazione solo per poter fare da padrino a chi –forse fin dalla nascita– era stato ‘assegnato’ come figlioccio.

Ancora: la necessità del padrino nel battesimo degli infanti potrebbe dipendere dalla cristianità esistenziale della famiglia? In che modo valutarla? Si potrebbe ipotizzare una figura di padrino istituzionale? Un sorta di ‘ministero’ parrocchiale… come il ‘nuovo’ catechista battesimale –o nella sua stessa persona–? Come rapportare questo padrino con quello della (futura) confermazione? Quali specifiche andrebbero poi assunte rispetto al catechista tradizionale dell’iniziazione cristiana?

- iniziazione cristiana come tale. La problematica certamente di maggior rilievo riguarda la concettualizzazione e consistenza reale dell’iniziazione di fanciulli e ragazzi, non tanto in relazione al corretto o maggiormente adeguato ‘ordine’ in cui ricevere i tre –in realtà quattro (con la ‘premettenda’ penitenza)– sacramenti iniziatici, quanto piuttosto in relazione alla sua stessa identificazione ed unitarietà. Di fatto attualmente per la pienezza dello status canonico di christifidelis nella Chiesa latina si chiedono solo battesimo e confermazione (come appare dai requisiti per l’ammissione al noviziato religioso: can. 645 §1 o per la recezione dell’ordine sacro: can. 1050, 3°), mentre nulla si dice dell’Eucaristia –e della premettenda riconciliazione– che si danno semplicemente per scontate, quasi appartenessero ad un altro percorso in qualche modo parallelo: quello ‘devozionale’ che non tocca lo status di cristianità. D’altra parte i requisiti per l’ammissione alla comunione eucaristica sono piuttosto esigui (can. 913) e la celebrazione eucaristica stessa non pare assumere significato né importanza alcuna se non tra i ‘doveri’ –facilmente (auto)dispensabili– della vita cristiana. In quest’ottica rimangono anche completamente da risolvere i problemi pratici della unitarietà dell’iniziazione cristiana stessa e della sua articolazione, soprattutto in rapporto alla corretta successione tra Eucaristia e confermazione e, più in profondità, alla loro connessione sul piano sacramentale  e teologico.

Alla concettualizzazione dell’iniziazione cristiana è da ricondurre anche il tema della catechesi, a riguardo della quale non si può non evidenziare una certa –forte– tensione tra la sua funzione di requisito previo per gli adulti ed i fanciulli (con l’esagerazione del catecumenato dei fanciulli) e la mistagogia post-battesimale dei battezzati nell’infanzia. La tematica continua a riproporsi con forza nella tensione tra i modelli pastorali di stampo ‘dottrinale’ e quelli di natura più ‘esistenziale’; nei primi la conoscenza intellettuale dei contenuti dottrinali è condizione sufficiente per l’ammissione ai sacramenti anche attraverso corsi di ‘dottrina’ della durata di qualche settimana, in una logica in cui “chi sa cosa sia un sacramento” può ‘riceverlo’; nei secondi si punta, invece, ad un’integrazione plausibile e permanente tra i contenuti della fede celebrati (o da celebrasi) nei sacramenti e la vita stessa nella sua quotidianità, attraverso la maturazione ed assunzione di uno stile di vita evangelico; tempi, modi e condizioni dei due percorsi sono evidentemente anche molto diversi, al punto da generare non pochi problemi, p. es., tra parrocchie viciniori che adottano differenti modelli, con le connesse ricadute pastorali da parte delle famiglie che ‘misurano’ attentamente dove sia ‘più conveniente’ ricevere ciascun sacramento.

La corretta identificazione dell’iniziazione cristiana attiene anche alla maggior parte dei problemi connessi al ministero del catechista, alla sua consistenza, alla sua identificazione… attivando, recentemente, le problematiche connesse ai rapporti tra i nuovi catechisti battesimali, indirizzati alle famiglie, ed i tradizionali catechisti, indirizzati ai fanciulli; per non toccare il c.d. dopo-cresima e le annesse problematiche di pastorale giovanile per coloro che –finalmente– sono stati pienamente iniziati alla vita cristiana.


Ai tre ‘blocchi’ tematici sin qui illustrati (famiglia, padrini, iniziazione) si aggiungono altri elementi problematici di una certa eterogeneità ma non meno reali tanto sotto il profilo teoretico, che pratico… che istituzionale/giuridico.

- Iniziazione cristiana dei conviventi, casomai con prole: il loro stato di vita è palesemente contrario alla morale cristiana, ma risulta anche difficilmente gestibile in vista dei sacramenti dell’iniziazione in quanto catecumenato e convivenza more uxorio non sono moralmente compatibili. Conviene forse farli prima sposare in modo canonicamente valido (matrimonio civile –naturale– per due non battezzati; matrimonio canonico ‘misto’ per un solo battezzato) e procedere all’iniziazione solo in seguito? In questa prospettiva, tuttavia, quale significato assume il matrimonio celebrato ‘solo’ per sanare moralmente uno stato di vita evangelicamente non-compatibile? Questo problema teologico e pastorale non è certo secondo a molti altri. 

Altra problematica ben più diffusa è quella che si presenta quando –nonostante il decreto generale CEI– si (il parroco!) voglia premettere la confermazione al matrimonio dei conviventi, casomai con prole; in questo caso lo ‘stato di grazia sacramentale’ necessario alla celebrazione della confermazione viene infranto dalla convivenza more uxorio, offrendo poche alternative davvero praticabili rispetto alla ricezione della confermazione il giorno precedente il matrimonio… tanto la notte prima del matrimonio è tradizione che i nubendi dormano a casa ‘propria’. Qualunque altra soluzione di semplice ‘foro interno’ (quale l’astensione) non eliminerebbe lo scandalo dei fedeli che, davanti ad una normale vita familiare, non possono presumere la ‘continenza’ dei conviventi… cadendo così nell’errore (circa i sacramenti e le loro ‘condizioni’ di recezione) e nell’indifferentismo (morale).

- Status di ‘neofita’: con l’iniziazione cristiana degli adulti prende concretamente corpo questo nuovo status canonico che non dispone ancora di una vera consistenza e regolamentazione pratica. La problematica riguarda –per certi versi– la cresima quasi-simultanea di padrino e figlioccio, ma in modo molto più consistente l’assunzione di ministeri ecclesiali, tanto di fatto (catechista) che istituiti (ministro straordinario della comunione), da parte di neo-battezzati/cresimati. Problematiche di ragionevole importanza si pongono inoltre a riguardo dell’ingresso in noviziato o in seminario (impedimento semplice all’ordinazione: can. 1042, 3°) da parte di c.d. convertiti, eventualità meno che remota nei movimenti ecclesiali ed in presenza di forme di ‘nuova evangelizzazione’.

- Tipicità dell’iniziazione cristiana. La questione si pone nell’eleggere quale rito –e conseguente teologia di fondazione e prassi pastorale– sia quello da considerarsi ‘originante’ tra il rito dell’iniziazione cristiana degli adulti (RICA) ed il rito del battesimo dei bambini. Qual è la ‘vera’ iniziazione cristiana, quella ‘esemplare’, tipologica? Quale, per contro, la sua derivazione ed adattamento pastorale?

Continua a risultare quantomeno bizzarro considerare tipologica l’iniziazione cristiana degli adulti e continuare a praticare un’iniziazione cristiana dei fanciulli basata su presupposti di fatto assolutamente differenti; senza voler considerare che la concreta prassi pastorale fa risultare ‘normale’ l’iniziazione dei fanciulli e straordinaria quella degli adulti! In questa prospettiva, quanto vale effettivamente sotto il profilo pastorale l’età dei 7 anni quale discriminante tra i due riti? In cosa –pastoralmente parlando– un bambino di 8 anni è diverso, anche sotto il profilo della consapevolezza e pratica della fede, rispetto ai suoi compagni di classe che –semplicemente– per aver ricevuto il battesimo da neonati seguono un altro percorso iniziatico? Avrebbe senso riscrivere il rito battesimale dei bambini in vista della nuova consapevolezza e realtà?


5. Prospettiva canonistica

Al termine di questo articolato percorso ‘a cavallo’ tra istanze tanto differenti quali teologia, pastorale, catechetica e diritto canonico, non si può eludere una domanda naturale quanto fondante: cosa ha da proporre il diritto canonico? Che cosa ‘può’ proporre di autenticamente suo ed efficacemente condivisibile?


La risposta non appare né difficile né imbarazzante: il diritto canonico possiede qualcosa di ‘proprio’ che può entrare efficacemente in gioco all’interno di una situazione di questa complessità: è la dinamica –tipicamente canonica– tra validità e liceità che proprio nei sacramenti trova un particolarissimo e specifico campo d’applicazione.

Si tratta di assumere questi due elementi tipicamente giuridici quali ‘simboli’ rispettivamente della dimensione teologica e di quella pastorale, in modo tale che la ‘validità’ realizzi (renda effettivamente presente) la reale dimensione teologica dei sacramenti e della loro interconnessione, mentre la ‘legittimità’ realizzi la corretta dimensione pastorale ed esistenziale della loro celebrazione.

Se la cosa è facilmente intuibile e realizzabile per la validità, in quanto questo ne è stato il significato e valore costante lungo i secoli, per la legittimità si rende necessaria una vera e propria radicale reinterpretazione che la veda non più come la semplice rispondenza formale alle prescrizioni canoniche (chissà poi in base a quali motivi?) ma alla loro profonda ratio pastorale. La legittimità, in tal senso, deve –e può– essere riletta in chiave fondativa sotto il profilo pastorale; ciò che il diritto canonico richiede ad legitimitatem non è altro che l’espressione dei requisiti pastorali minimi perché il sacramento non solo ‘esista’ dogmaticamente (validità) e possa produrre frutti di grazia (efficacia), ma anche risulti correttamente collocato all’interno della ben più ampia azione pastorale ecclesiale che mira alla realizzazione e valorizzazione della cristianità esistenziale: la vita cristiana adulta.


Un passo di questo tipo può ricevere un efficace accompagnamento dall’assunzione di una sufficiente consapevolezza dei reali motivi che indussero lungo i secoli all’introduzione delle norme di liceità sacramentale, motivi definitivamente caduti col Vaticano II ma che nulla tolgono ad una possibile ‘conversione’ funzionale della maggior parte delle stesse norme giuridico-pastorali.

In questa prospettiva è ormai acquisito come la tridentina attribuzione al parroco ed alla chiesa parrocchiale di molte funzioni sacramentarie rispondesse a scopi diversi –non tutti prettamente pastorali–: dal controllo della popolazione contro il diffondersi di malcostume, immoralità, eresie e scismi, fino alla corretta gestione beneficiale all’interno della quale i c.d. diritti di stola –bianca in questo caso– concorrevano all’implementazione del beneficio parrocchiale. L’imposizione di un proprius pastor da cui ricevere i sacramenti ed al quale versare le decime o le offerte, rispondeva pienamente a questo doppio sistema che faceva del radicamento territoriale e della connessione personale il proprio punto di forza; rivolgersi ad altro chierico significava e comportava sottrarsi al legittimo controllo religioso-morale, oltre che privare il proprio parroco di una legittima fonte di sostentamento economico. Di qui la maggior parte delle norme sulla legittima ricezione/amministrazione dei sacramenti, soprattutto quelli connessi allo status canonico: iniziazione cristiana e matrimonio che, tra l’altro, richiedevano anche l’apposita registrazione. Traccia di una dimensione più ‘pastorale’ è rinvenibile, invece, nella precedente struttura plebana della pastorale stessa in cui i sacramenti dell’iniziazione cristiana competevano ex lege alla pieve, unica depositaria del fonte battesimale e custode dei sacri olii.

Il radicale cambio d’impostazione operato dal Concilio Vaticano II col passaggio da una prospettiva soteriologico-sacramentaria ad una esistenziale-ecclesiologica (insieme all’abolizione del sistema beneficiale di sostentamento del clero) potrebbe oggi attribuire valenza espressamente pastorale alle norme di legittimità, spostando la referenza dal parroco (persona fisica) alla parrocchia (entità comunitaria). In questa prospettiva, del tutto coerente con la natura stessa della parrocchia presentata dal can. 515, ‘sede’ e referente della celebrazione dei sacramenti diventerebbe la stessa comunità parrocchiale in quanto vero ‘soggetto’ di vita cristiana e di evangelizzazione; si offrirebbe in tal modo piena ‘titolarità’ alle iniziative catechetico-pastorali che mirano maggiormente alla integrazione comunitaria ed esistenziale del fedele (e/o della sua famiglia) che non al sacramento fruito ‘in’ e ‘per’ se stesso all’interno di un rapporto privatistico col ministro di culto. Di fatto è la comunità cristiana come tale che celebra ed accresce attraverso i sacramenti la propria fede: il singolo fedele partecipa a questa dinamica con la propria vita accogliendo e vivendo la salvezza affidata alla Chiesa attraverso la parola di Dio ed i sacramenti (can. 213).

In questa prospettiva risulta gravemente scorretto ridurre la Chiesa al solo suo ministro (parroco) ed identificare questi con la comunità cristiana a servizio della quale svolge il proprio ministero (parrocchia); un’iniziazione cristiana di questo tipo permetterebbe di gestire soltanto lo status canonico del fedele, non certo di introdurlo nella vita della comunità di fede in Cristo! …Ciò che di fatto è avvenuto nei secoli trascorsi.


La riconduzione in chiave esistenziale e comunitaria della legittimità sacramentale è già oggi una possibilità praticabile e praticata non senza una certa efficacia; ciò di cui, invece, si sente la forte carenza è una teologia sacramentaria davvero esistenziale e non legata soltanto ad aspetti puramente ‘dogmatici’ come quella tridentina che continua a fondare la maggior parte delle questioni di ‘validità’ in tema di sacramenti.


6. Esiti e prospettive

6.1 Visione pastorale

La maggior parte dei discorsi, tanto canonistici (dottrinali) che pastorali, attraverso cui si è articolata la nostra riflessione sulla iniziazione cristiana ha posto in luce, sotto differenti e complementari prospettive, come il vero (s)nodo di tutta la questione sia, in fondo, la fede richiesta/necessaria per l’iniziazione stessa e la pedagogia ad essa relativa. Ne è prova e garanzia la struttura irrinunciabilmente catecumenale dell’iniziazione cristiana stessa, vista come percorso pedagogico in chiave esistenziale; percorso di evangelizzazione della vita, personale e comunitaria, volto a generare alla fede, affinché fede e vita s’incontrino in una vera e propria accoglienza e scelta reciproca.

L’indubitabile tipicità catecumenale (adulta) richiede così che la fede presente/richiesta/necessaria non sia solo quella –dogmatica– della Chiesa (espressa dal ministro sacro per la validità dei sacramenti) ma, molto maggiormente, quella –esistenziale– della persona stessa (o chi per lei nel caso degli infanti), poiché ‘condizione’ di possibilità del battesimo –e di ogni altro sacramento– è proprio la professione della (propria) fede.

È il Vaticano II che, lasciando l’ontologismo sacramentale tridentino fondato sul rapporto grazia-sacramenti –pur necessario nella querelle soteriologica coi riformatori–, ha spostato l’attenzione al livello concretamente esistenziale, accentuando l’attenzione al rapporto fede-sacramenti e chiarendo in modo deciso che i sacramenti

«non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati sacramenti della fede. Conferiscono appunto la grazia, ma la loro celebrazione dispone anche molto bene i fedeli a ricevere la stessa grazia con frutto, ad onorare Dio in modo debito e ad esercitare la carità. È quindi di grande importanza che i fedeli comprendano facilmente i segni dei sacramenti, e si accostino con somma diligenza a quei sacramenti che sono stati istituiti per nutrire la vita cristiana».


La (nuova) circostanza non-polemica né prettamente anti-ereticale, d’altra parte, favoriva –finalmente– una prospettiva più ampia ed in qualche modo sistematica, come quella propositivo-pastorale, rispetto a quella cautelativo-dogmatica di cinque secoli prima; in tale ottica non potevano non risaltare proprio gli elementi ‘fondanti’ la vita cristiana (la fede), rispetto a quelli in qualche modo ad essa più ‘funzionali’ (i sacramenti). Mentre infatti nella riforma protestante il problema non era –affatto– la fede, ma le sue concrete espressioni ‘esteriori’ (sacramenti in primis), alla metà del XX secolo il problema era (e rimane anche oggi) proprio la fede come tale, in un mondo flagellato dal materialismo e dall’irreligiosità. In questa –nuova– prospettiva a fianco delle tematiche –necessariamente parziali– della teologia dogmatica (validità e grazia), emergono e s’impongono quelle più generali e profonde della pastorale in quanto realizzazione della stessa identità e finalità della Chiesa: l’annuncio della fede e la vita di fede, secondo il mandato del suo Fondatore: «andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20a). Ciò che Lumen Gentium 17 ha ben espresso col sottolineare la ‘natura missionaria della Chiesa’.

Ne nasce una necessaria retrocessione ad un livello più profondo, tanto delle preoccupazioni che delle ‘attività’ ecclesiali, ponendo maggiore attenzione alla dimensione ‘missionaria’ del ministero ecclesiale nell’ottica dell’incontro, della relazione esistenziale, dell’accoglienza, della gradualità educativa, che devono guidare l’incontro con la ‘nuova’ fede cristiana e proporla come plausibile scelta esistenziale: è questa la vera e sostanziale iniziazione cristiana del nostro tempo. È questo, d’altra parte, il concetto di catecumenato cui oggi ci si riferisce ed al quale tendono le diverse realizzazioni e sperimentazioni in materia di iniziazione cristiana: un vero percorso che porti a vivere da cristiani nella comunità cristiana che trova nel mondo la ‘sede naturale’ nel tempo del proprio pellegrinaggio terreno.


Si è tuttavia anche messo in luce il ‘rischio’ che un tal modo d’impostare le cose comporti di fatto la negazione del diritto dei fedeli ai sacramenti; la tematica non va ignorata, anche a causa di una certa prospettiva canonistica che predilige il ragionamento in termini di diritti e doveri spettanti a ciascuno all’interno della Chiesa. L’obiezione, in realtà, non tiene conto che si tratta semplicemente di ‘modi di dire’ e ‘formule tecniche’ non realmente supportate a livello di dogmatica né canonistica né, tanto meno, teologica: non risulta infatti sostenibile che i sacramenti siano approcciabili sotto il profilo teologico (dogmatico) nella logica dei diritti soggettivi (facoltà o spettanze assolute) dei singoli fedeli; cadrebbe la bimillenaria consapevolezza che i sacramenti sono semplicemente ‘amministrati’ dalla Chiesa che ne stabilisce modalità, effetti e condizioni, in quanto semplice depositaria e mai ‘padrona’.

La questione perde poi ogni tipo di referenzialità se si considera che proprio e specificamente l’iniziazione cristiana non può certo essere considerata ‘diritto’ di nessuno; tanto più che chi viene ammesso al catecumenato ha solo uno “speciale rapporto” con la Chiesa, ma non è ancora ‘soggetto’ ecclesiale… mentre –addirittura– i c.d. simpatizzanti (i timorati di Dio di ebraica memoria) non giungono neppure al minimo di tale ‘soglia istituzionale’, pur godendo certamente di piena ‘soggettività esistenziale’ per la Chiesa che si rivolge loro per proporre il Vangelo e la sua salvezza.

Di fatto l’esemplarità e tipicità del catecumenato (adulto) per l’iniziazione di infanti e fanciulli nulla tolgono alla inderogabilità delle considerazioni sulla necessaria fede, del tutto sostanziale per celebrare i sacramenti, in quanto ‘presupposta’… richiesta, cioè, a priori quale soglia –ontologica– di accesso e non ‘concessa’ ex lege quale præsumptio iuris cui possa opporsi (solo) prova contraria in facto.


6.2 Visione canonistica

La ricaduta delle diverse considerazioni emerse sugli elementi specificamente canonistici appare piuttosto puntuale in due direzioni di fatto complementari: a) l’esigenza di strutturare adeguatamente l’attuale fase ‘sperimentale’, b) l’apporto strutturale dei tecnici del diritto.

- Le diverse prospettive ‘sperimentali’ sollecitate/attuate tanto a livello di conferenza episcopale nazionale che delle singole Chiese particolari (italiane) chiedono senza dubbio una maggior formalizzazione che sappia superare tanto le ‘morte’ che le ‘rapide’ delle diverse situazioni pastorali, conferendo autorevolezza operativa agli indirizzi intrapresi. Il richiamo è al diritto particolare attraverso cui i singoli Vescovi –ed i sinodi diocesani– dovrebbero offrire alle proprie Diocesi non solo/tanto orientamenti o stimoli ‘pastorali’, ma vere e proprie ‘grammatiche’ operative, per evitare che un falso senso pastorale continui a sollecitare (ed autorizzare) –come avvenne nell’immediato dopo-Concilio– qualunque tipo di presa di posizione ed operatività, rendendo disorganico, confuso e fuorviante il ‘nuovo inizio’ ormai inevitabile in tutte le –pur diverse– situazioni che la Chiesa in Italia presenta oggi.

- La seconda ricaduta riguarda il concreto operare dei canonisti all’interno delle c.d. strutture diocesane di progettazione ed elaborazione pastorale: il loro intervento –quand’anche venga richiesto– risulta sempre ‘estraneo’ a tutto l’iter valutativo e decisionale …si ricorre –molto eventualmente– a loro soltanto per dare l’ultimo aggiustamento stilistico a testi già concepiti e redatti in altre sedi, ignorando come la funzione ‘grammaticale’ del diritto canonico sia ben più importante in sede valutativa e decisionale che non in quella pre-tipografica. È come se si avesse paura –certamente imbarazzo– a fare e dare delle norme, quasi si trattasse di una componente periferica ed in qualche modo ‘inautentica’ del governo ecclesiale. Tali norme, al contrario, risulterebbero doppiamente utili: [a] in fase valutativa e decisionale, secondo le caratteristiche della nomogenetica canonica e per lo spiccato senso pratico dei canonisti, [b] per fissare linguaggi e standard comuni di riferimento perché la necessaria discrezionalità pastorale non giunga mai a contraddire la verità profonda dell’agire ministeriale e sacramentale.


7 Conclusione

A conclusione del percorso sin qui intrapreso pare di poter evidenziare due problemi come decisivi: la reale consistenza della vita cristiana, e la volontà ‘politica’ del governo pastorale.

a) Circa la vita cristiana, occorre chiarire (per via teologica) e decidere (per via pastorale) se e quanto sia in gioco –con essa– la vera identità del cristianesimo. La vita cristiana, infatti, è ciò a cui l’iniziazione cristiana deve effettivamente abilitare, stimolare ed indurre, oppure tutto si riduce ad acquisire un semplice status attraverso l’iniziazione stessa?

b) Di conseguenza, il vero problema attuale non risulta affatto essere ‘canonico’ quanto piuttosto ‘politico’: la questione non è, cioè, di mezzi e strumenti tecnici quali sono le norme giuridico-canoniche, quanto piuttosto di volontà ‘politica’ di fissare o meno delle precise ‘soglie’ –con relativa tutela–, oppure di lasciar correre del tutto contentandosi della mera celebrazione (passiva) di qualche sacramento.


L’esempio del Concilio Lateranense IV resta di piena significatività: nel 1215 si aveva la chiara consapevolezza che il cristianesimo non è uno stato di fatto acquisito una volta per tutte, ma una pratica di vita, per quanto minimale; di conseguenza senza confessione e comunione annuale non si era riconosciuti appartenenti alla comunità cristiana… si era nello status dei pubblici peccatori e dei senza-Dio a cui è vietato l’ingresso in chiesa e negata la sepoltura cristiana …in una condizione di sostanziale scomunica per negligenza nei confronti della vita cristiana stessa.

È a questo livello di ‘grammatica’ della vita cristiana che può agire il diritto canonico ‘se’ e ‘quando’, in ben altra sede, si decida di dare almeno minima importanza ad una vita cristiana ‘reale’ –poiché minimamente vissuta– anziché solo ‘virtuale’ –perché derivante dalla (possibile) efficacia dei sacramenti–; in caso diverso le norme canoniche si riducono soltanto ad un goffo galateo sacramentale, disprezzato dai teologi e sfuggito dai pastoralisti poiché del tutto inutile a conseguire risultati di cui, però, non si ha neppure l’idea.



in: GIDDC, Iniziazione cristiana: Confermazione ed Eucaristia, coll. Quaderni della Mendola, n. 17, Glossa, Milano, 2009, pp. 107-130.