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Corresponsabilità e Diritto: il Diritto amministrativo

INTRODUZIONE

Presentare il Diritto amministrativo canonico in chiave di ‘corresponsabilità’ può apparire una sfida ben ardua; una sfida che tuttavia potrebbe essere accettata se, più che uno specifico ‘punto di vista’ su di un ambito ben definito e circoscritto della vita ecclesiale –il Diritto amministrativo canonico appunto–, si trattasse di offrire una prospettiva teoretica generale che inquadri tale ambito funzionale all’interno della visione stessa di Chiesa, derivante dal Magistero del Concilio Vaticano II e recepita dal CIC 83.

In quest’ottica la sfida potrebbe consistere proprio nel proporre un Diritto amministrativo canonico fondato nella prospettiva della ‘responsabilità ecclesiale’ quale fulcro di un’efficace azione ecclesiale.

In tal modo, trattandosi –solo– di una ‘proposta’, si potrebbe anche godere l’agio di un certo sbilanciamento verso un impianto generale ancora in fieri, sollevandosi dalle necessità tipiche della sistematica (da ‘trattato’), non possibile in questo genere di sedi.


PREMESSA

Mentre non paiono ancora trascorsi i tempi per un sostanziale ‘riconoscimento’ del Diritto amministrativo canonico come ‘materia’ autonoma –al pari del Diritto matrimoniale, processuale o patrimoniale–, sono, invece, ormai chiare un certo numero di problematiche concettuali e strutturali che spingono a tentare lo sviluppo di risposte adeguate e non più procrastinabili, per non rischiare che si generino inerzie, soprattutto teoretiche, che risulterà poi oltremodo difficile sia riconoscere che correggere.

Si evidenziano qui quattro esigenze fondamentali:

1) conferire una visione sistematica unitaria all’intera pratica amministrativa nella Chiesa;

2) offrire un’impostazione ‘positiva’ della materia e delle tematiche correlate;

3) attuare una rivisitazione del Processo amministrativo canonico;

4) proporre un’appropriata metodica di studio e lavoro.


A. Visione sistematica unitaria

Il primo passo da compiere riguarda l’unitarietà del Diritto amministrativo canonico in una prospettiva che sia in grado di superare la presunta opposizione tra quelle che si presentano a tutti gli effetti come due ‘fasi’ della pratica del Diritto amministrativo stesso: quella fisiologica e quella patologica.

Ciò comporta lo spostamento dell’attenzione dagli atti amministrativi in se stessi (approccio analitico/formale) e dal modo di contenerne le conseguenze negative per qualche soggetto (approccio contenzioso) alla concreta attività ecclesiale che gli stessi fedeli attuano nelle complesse dinamiche del loro vivere ed agire all’interno della comunità cristiana.

In tal modo il Diritto amministrativo canonico non riguarderebbe più soltanto l’azione di governo esercitata da chi possiede potestà (esecutiva) nella Chiesa, ma l’intera relazionalità cui ciascun fedele partecipa tanto in ragione del proprio status di battezzato che in forza del suo concreto impegno/ruolo ecclesiale, insieme a tutto ciò che intervenga a modificare in modo pubblicamente rilevabile e rilevante la portata della sua appartenenza/azione ecclesiale.

Si tratterebbe, in altri termini, di porre al centro della riflessione teoretica e sistematica l’efficacia stessa dell’agire ecclesiale.


B. Impostazione ‘positiva’ della materia

Un Diritto amministrativo canonico interessato all’efficacia dell’agire ecclesiale dei fedeli conferirebbe una visione ‘positiva’ alla materia: una visione, cioè, capace di muoversi in vista di un ‘risultato ecclesiale’ da raggiungersi in modo stabile e stabilizzante la vita ecclesiale stessa, conferendo maggiore importanza al buon rapporto tra Istituzione e fedeli invece che ad una –improbabile (?)– ‘tutela’ di diritti soggettivi di singoli, la cui enfatizzazione in chiave tutoria rischia di offrire un’immagine negativa del Diritto amministrativo canonico facendone –in fondo– uno strumento di rivalsa e contestazione, sbilanciando i diversi ragionamenti e le questioni su base rivendicatoria e conflittuale, finendo per porre al centro –anche involontariamente– il contenzioso amministrativo.

Per contro, un approccio positivo pone la maggior attenzione alla fase ‘costruttiva’ dell’agire ecclesiale sottolineandone la natura e le caratteristiche portanti, così da fissare l’attenzione non su ‘diritti’ (che sono e rimangono ‘cose’) ma sulle persone che entrano concretamente in gioco e che –comunque– scelgono di assumere valutazioni, decisioni, conseguenze, dell’agire proprio e di altri fratelli nella fede e nell’appartenenza ecclesiale. Si riconoscerà così il primato assoluto dell’aspetto fisiologico del vissuto ecclesiale rispetto a quello patologico, riservando ai due aspetti le giuste proporzioni e senza cedere alla tentazione di sottoporre a giudizio di legittimità ogni elemento della vita ecclesiale, trasformando così il vissuto della comunità cristiana in una sorta di equilibrismo –tattico o strategico– che non mira a costruire qualcosa di comune ma a perseguire ‘interessi’ di parte… anche ben al di là del Vangelo stesso.


C. Rivisitazione del Processo amministrativo

L’impostazione unitaria e positiva del Diritto amministrativo canonico comporterebbe anche la ricomprensione di ciò che molti ritengono il suo strumento principe: il Processo amministrativo, quale ‘chiave di volta’ dell’intero Ordinamento giuridico. Si potrebbe così distinguere chiaramente anche a livello terminologico tra Processo, Procedura e Procedimento, quali differenti modalità operative nelle diverse articolazioni e ‘fasi’ dell’agire giuridico ecclesiale.

Il Procedimento amministrativo designerebbe così le fasi operative dell’agire giuridico ordinario (vita e governo ecclesiale); la Procedura amministrativa identificherebbe le fasi operative della “verifica istituzionale dell’efficacia dell’agire giuridico ecclesiale” (patologia dell’agire giuridico), prospettando una visione positiva –anche– del c.d. Ricorso amministrativo; il Processo amministrativo costituirebbe la fase contenziosa vera e propria in cui all’autorità esecutiva –agente nella Procedura– si sostituisce quella giudiziale, mentre la stessa autorità esecutiva diventa ‘parte convenuta’ nel contenzioso.


D. Metodica di studio e lavoro

Porre l’attenzione sull’efficacia dell’agire giuridico ecclesiale in chiave ‘positiva’ comporta inevitabilmente anche la messa a punto di una concreta ed efficace metodologia che accompagni e sorregga l’agire sia dei fedeli che delle Istituzioni ecclesiali in vista del fine comune che realizzi lo stesso ‘essere Chiesa’; tassello sino ad oggi mancante non solo alla didattica ma, molto maggiormente, alla stessa sistematica amministrativistica.

Un metodo siffatto, corrispondentemente alla propria intenzionalità, dovrà presentarsi come ‘costruttivo’, capace cioè di delineare e costruire le tappe dell’agire giuridico ecclesiale –concretamente, gli atti giuridici– attraverso singoli passaggi organici e progressivi, ciascuno dei quali rispondente a specifiche premesse, motivazioni e requisiti, in vista di un esito finale effettivamente adeguato alla realtà ecclesiale e personale concreta cui si riferisce e realmente ad essa applicabile per produrre risultati ‘pastorali’ stabili (efficacia).


1. ELEMENTI COSTITUZIONALI

1.1. Missione e Chiesa

Il primo approccio al tema “Diritto amministrativo canonico” non può che essere di natura ‘costituzionale’ (costitutiva): esplicitare cioè la natura e la finalità della compagine ecclesiale per poter poi derivarne i principi portanti dell’intera materia e confrontare con essi gli elementi che emergeranno nella sua illustrazione.


Insegnava già Aristotele che la natura delle cose che divengono è il loro ‘fine’; sarà pertanto necessario evidenziare quale sia il ‘fine’ specifico della Chiesa per derivare correttamente da ciò –e non da altri presupposti non espliciti e non adeguatamente fondati– anche la sua irrinunciabile ‘natura’.

L’indicazione magisteriale è inequivocabile: la Chiesa esiste per annunciare il Vangelo che è Gesù Cristo, come espresso in “Lumen Gentium” (n. 17) e ben ribadito in via ‘operativa’ dal Decreto “Ad Gentes” (n. 5).

Anche la “Evangelii nuntiandi” di Paolo VI nel 1975 afferma con sicurezza:

«è con gioia e conforto che noi abbiamo inteso, al termine della grande assemblea dell’ottobre 1974, queste parole luminose: “vogliamo nuovamente confermare che il mandato di evangelizzare tutti gli uomini costituisce la missione essenziale della Chiesa”, compito e missione che i vasti e profondi mutamenti della società attuale non rendono meno urgenti. Evangelizzare, infatti, è la Grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare».


Di fatto, già a partire dal Nuovo Testamento si è visto che tra coloro che accolgono la predicazione evangelica nasce una comunione che si accresce attraverso la vita sacramentale: Battesimo come “introduzione” in questa comunione, Eucaristia come vincolo sacramentale di comunione, Penitenza come restaurazione della comunione perduta, ecc. Tale comunione, tuttavia, non è finalizzata a se stessa: la Chiesa, infatti, è una comunione di fede che si concretizza ben presto in comunione di carità e di annuncio: una comunione “aperta” all’umanità intera ed alla storia, come testimoniato dagli “Atti degli Apostoli”; senza una reale comunione tra coloro che vivono l’annuncio evangelico esso non sarebbe credibile: «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35).

La Chiesa, però, non sorge spontaneamente dal basso, per l’iniziativa degli ascoltatori di Cristo: i suoi discepoli, alla stregua di un circolo culturale o di una scuola di pensiero; è Cristo, invece, che ha conferito agli Apostoli un preciso ‘mandato’: «andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20).

Da tale finalità sgorga la Chiesa di Cristo che, come Cristo stesso, è “mandata” al/nel mondo per annunciare la salvezza ed anticiparne già nella storia i frutti; in tal modo

«la Chiesa è una realtà spirituale e uno dei suoi scopi principali consiste nel testimoniare il Vangelo al mondo. Ma questa testimonianza deve essere per forza comunitaria».


Euangelion” significa “buon annuncio”. Il Vangelo trova la propria consistenza solo nell’essere annunciato: se il Vangelo non si annuncia, muore. Il Vangelo è Parola di salvezza che deve essere annunciata all’umanità; tacerlo è negarlo. Non si può vivere il Vangelo senza annunciarlo, né annunciarlo senza viverlo! Il primo compito (munus) della Chiesa è l’annuncio evangelico! La struttura ontologica della Chiesa, pertanto, è ‘missionaria, rivolta cioè all’annuncio del kerigma di salvezza; gli Apostoli, prima che maestri, sono annunciatori e testimoni. La Chiesa, così, nasce dalla missione e per la missione. Senza missione non ci sarebbe la Chiesa: lo Spirito infatti è donato dal Risorto per la testimonianza e l’annuncio della fede in lui (Cfr. At 1, 8);

«la Chiesa, in quanto popolo della nuova Alleanza conclusa in Cristo, ha per scopo e compito originali, quasi come propria ragione d’essere, il proseguimento della missione di Cristo. Questo mandato, in base ai testi della Scrittura, viene riconosciuto dalla Chiesa come tradizionalmente triplice: magisteriale, sacerdotale e pastorale. La Chiesa deve essere “la colonna e la sede della verità” (1Tm 3,15)».


1.2 La Chiesa Popolo di Dio, società o/e comunità

Il Vaticano II, ricuperando in modo più pieno le dimensioni misterico-sacramentale, istituzionale e comunitaria che hanno sempre caratterizzato la concezione ecclesiale cattolica, ha utilizzato con certezza la categoria –biblica– di “Popolo di Dio”, ponendo quale modello di aggregazione istituzionale non più la societas del Card. Bellarmino o dello Ius publicum ecclesiasticum, ma la communitas, non meno capace di tutelare tanto la ‘visibilità’ della Chiesa che la sua strutturazione gerarchica.


Il Popolo di Dio è profetico, sacerdotale e regale ad immagine del suo Signore; alla sua base sta il sacerdozio comune dei fedeli cui è ordinata l’esistenza stessa e l’esercizio del sacerdozio ministeriale della gerarchia ecclesiastica; questo stesso sacerdozio comune trova nella vita consacrata una particolarissima forma di espressione dell’universale vocazione alla santità del Popolo di Dio (Cfr. LG - Cap. V). Tale Popolo di Dio, radunato dalla Parola ed edificato dai Sacramenti, corrisponde efficacemente alla natura missionaria della Chiesa stessa, inviata ad annunciare la Parola di salvezza ad ogni uomo. Si tratta di una visione ecclesiale “unitaria” sotto il profilo strutturale, che supera il presupposto grazianeo della distinzione/contrapposizione tra chierici e laici che aveva –estrinsecamente– condizionato così a lungo le concezioni ecclesiali e spirituali cattoliche; in tal modo la sintesi conciliare presenta

«la Chiesa a partire dal suo fondamento trinitario, e la inscrive nel quadro di una visione complessiva dell’economia e della storia della salvezza, come “sacramento della salvezza”. Il ruolo strutturante (ma non esclusivo) dato al tema della Chiesa-Popolo di Dio permette di superare la “gerarcologia”, e di mettere in rilievo la dimensione storica ed escatologica della Chiesa».


La nuova prospettiva rende finalmente visibile un elemento di portata davvero ‘costituzionale’ ormai irrinunciabile per fondare e delineare un Diritto amministrativo specificamente ‘canonico’: la differenza irriducibile tra i due modelli aggregativo-istituzionali di societas e communitas. È la differenza strutturale e funzionale tra “appartenenza necessaria” (tipica di una ‘società’) ed “appartenenza volontaria” (tipica di una ‘comunità’), tra appartenenza ed adesione, dove l’estrinsecità o la volontarietà del proprio “essere-parte-di” costituisce l’elemento imprescindibile e qualificante nel delineare la ‘posizione’ e la ‘condizione’ di ciascuno, sia rispetto agli altri che alla ‘struttura’ istituzionale, ed alla qualità dei rapporti di cui si partecipa.


1.2.1 Appartenenza ed adesione

Il caso più tipico di appartenenza necessaria è quello della società politico-statuale (che trova la sua forma più tipica nella cittadinanza) in quanto legata necessariamente a rapporti che s’impongono ai soggetti ab extrinseco. Tale legame non è in sé oggetto di opzione per i singoli, lasciando loro soltanto la possibilità (eventuale) di decidere ‘dove’ risiedere, ma non certo il ‘se’ appartenere. Sotto questo profilo bisogna prima di tutto considerare che

«[gli Stati] determinano la sfera dei propri cittadini principalmente in base a criteri del tutto indipendenti dalla volontà degli individui. […] In effetti, i criteri fondamentali per l’attribuzione della cittadinanza sono quelli per nascita, cioè lo Ius sanguinis e lo Ius soli, entrambi automatici».


La cittadinanza, poi, si esprime in modo totalizzante: l’atteggiamento statuale, infatti, non è ordinariamente disposto ad ammettere che esistano soggetti svincolati da qualsiasi ‘soggezione’, proprio a causa della pretesa di ciascuno Stato –e di tutti gli Stati– di poter/dover integrare pienamente i ‘propri’ sudditi.


Per contro, un’aggregazione di stampo comunitario si caratterizza per la sua ‘ulteriorità’ rispetto alla singola persona: offre cioè un ‘di più’ che il singolo apprezza e sceglie liberamente di porre in atto; in questo caso la base aggregativa non è di carattere ‘fenomenico’ (territorio, etnia, cultura, economia, politica) ma ideale, elettivo: c’è qualcosa che la persona coglie come meritevole della sua attenzione ed a cui dedica qualcosa di sé; mentre l’appartenenza è un fatto, l’adesione è un atto: una scelta e, quindi, un impegno personale. Presupposto irrinunciabile dell’adesione comunitaria è proprio la ‘personalità’ del legame di ciascun soggetto, il quale –solo– è in grado di validare la propria adesione ad una relazionalità che risulta a tutti gli effetti oggetto di libera opzione …in sé non-dovuta, né coercibile da parte di terzi (come accade, invece, nella societas).


1.2.2 Operatività sociale e comunitaria

L’estrema diversità tra appartenenza ed adesione giustifica in modo sostanziale anche le differenze dei rispettivi principi strutturali e funzionali oltre, in modo ancor più specifico, il rilievo riconosciuto al singolo soggetto e la qualità del suo prender parte alla costruzione del c.d. bene comune, elemento costitutivo di qualsiasi tipologia e forma di aggregazione pluripersonale, non esclusa quella propria della Chiesa.

In quest’ottica il primo elemento da considerare è la differente intenzionalità (lo scopo ispiratore) che caratterizza una società (appartenenza necessaria) rispetto ad una comunità (adesione volontaria).


Scopo di una società è il conseguimento del bene comune materiale (fenomenico, empirico, sociale) della maggior parte possibile dei ‘sudditi’ i quali chiedono all’Istituzione pubblica di esser tutelati nei propri ‘interessi’ e messi (e mantenuti) nella possibilità di perseguire quanto ciascuno ritiene legittimamente espressivo della sua individualità e personalità, all’interno di quell’orizzonte del tutto specifico che è la fruizione dei beni materiali necessari a questo fine. Beni materiali la cui disponibilità –tutt’altro che illimitata ed agevole– diventa causa frequente di conflitto tra diversi individui o gruppi sociali. In tale prospettiva il ‘bene comune’ basta a se stesso e non ha –di solito– altri referenti che il consenso popolare. Pertanto ciò che caratterizza la prospettiva ‘societaria’ (politica e giuridica) è sostanzialmente l’individuazione, la messa a punto, la promozione e la tutela della base minima –strutturale e funzionale, ideale ed operativa– da cui l’attività umana di ogni singolo possa svilupparsi nella ricchezza delle proprie potenzialità.


Di contro, scopo di una comunità (adesione volontaria) è il perseguimento consapevole e deliberato di realizzazioni comuni che vadano oltre quanto già normalmente disponibile a ciascun individuo. In questa prospettiva, mentre la ‘logica societaria’ mira al consolidamento di un bene comuneprevio ai singoli– quella comunitaria mira invece al perseguimento di un futuro comuneulteriore ai singoli– cui nessuno potrebbe giungere senza il coinvolgimento di energie e risorse non disponibili che per libera scelta di condivisione personale ed a cui tutti e ciascuno abbiano finalizzato le proprie risorse ed energie in vista di una ‘realizzazione comune’ che motivi ed indirizzi lo stesso sforzo strutturale e funzionale della comunità.

Venendo alla Chiesa, va assunto irrinunciabilmente come la sua finalità, poiché espressamente indirizzata a custodire il depositum della fede ed insegnare a tutti gli uomini di tutti i tempi «ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 20), non sia assolutamente riducibile alla semplice gestione di un potere sociale (governo). L’intenzionalità missionaria ecclesiale pone infatti l’accento non tanto sul ‘governo’ (pur necessario nella realtà ecclesiale in quanto Istituzione) quanto sulla necessità che la comunità di fede custodisca santamente, scruti più intimamente, annunzi ed esponga fedelmente –e viva coerentemente– ciò che Cristo le ha affidato (Cfr. Can. 747 §1; LG 25, DV 10). Proprio sull’intenzionalità ricade, d’altra parte, lo stesso concetto sostanziale di ‘ordinamento’, quale indirizzo strumentale del vivere ed agire sociale in vista di uno specifico fine… con la possibilità teorica di tanti differenti ordinamenti (giuridici) quante siano le differenti finalità perseguite.


1.2.3 Stati, Chiesa e loro governo

Mentre, dunque, nelle società politico-statuali l’istanza di governo risulta strutturante lo stesso vivere sociale e la gestione del potere non sembra rinunciabile quale strumento privilegiato per il perseguimento del bene comune, nella Chiesa, al contrario, la funzione di governo risulta assolutamente accessoria e strumentale: un vero ‘compito’ (munus/officium) cui non ci si può sottrarre, mentre “insegnamento” e “santificazione” appaiono maggiormente come ‘doni’ (munus/ministerium) direttamente affidati dal Cristo perché ogni uomo –accogliendoli– giunga alla salvezza. Di conseguenza, il diverso principio aggregativo (necessario o volontario), la diversa struttura (società o comunità) e la diversa finalizzazione del modello politico-statuale rispetto a quello ecclesiale, non permettono di applicare alle due realtà un approccio parallelo o anche solo analogico; a maggior ragione non può darsi analogia in fatto di natura e funzionalità del governo che, almeno nel mondo occidentale, è ormai concepito nell’ottica della titolarità popolare (democrazia), riducendosi alla questione della legittimazione dell’esercizio del potere, gestita su base popolare-elettiva. È questo –probabilmente– il senso della famosa affermazione di Paolo VI secondo cui il Diritto canonico sarebbe «Ius sacrum, prorsus distinctum a Iure civili».


Lo stesso non può dirsi della Chiesa, in cui non esiste neppure un vero potere nella disponibilità degli uomini …anche perché la funzione costitutiva ecclesiale è l’annuncio evangelico e la conseguente santificazione dei credenti, scopi cui tutti e ciascuno sono ugualmente chiamati a corrispondere in relazione alla ‘propria’ tipologia (status) di partecipazione ecclesiale. In base a ciò l’azione di tutti e ciascuno, all’interno di un cammino libero e consapevole di realizzazione della comune missione, assumono nella Chiesa una fisionomia del tutto propria poiché 

«il Vangelo ed il suo annuncio sono stati affidati da Cristo non a tanti singoli ma alla Chiesa come tale […]. Il mandato missionario è un dono/compito “comunitario” e come tale dev’essere svolto dall’interno della Comunità di fede. Non per nulla nella Chiesa si parla di “ministerium”: un servizio svolto dal singolo all’intero corpo ecclesiale, ma anche affidato da questo stesso corpo ecclesiale al singolo che lo esercita in modo personale per quanto non “privatistico”».


In tal modo, non solo il ‘bene comune’ cui aspira la società politico-statuale non ha nulla di simile al dono della Parola di Dio e dei Sacramenti affidati dal Cristo alla sua Chiesa perché ogni uomo possa goderne in pienezza, ma anche la rivendicazione socio-politica della ‘propria parte’ di beni non è paragonabile al ‘diritto’ dei fedeli di ricevere i beni spirituali trasmessi da Cristo alla Chiesa (Can. 213) –che, tuttavia, costituisce per loro anche uno specifico ‘dovere’–. Allo stesso modo la corresponsabilità cui i fedeli sono chiamati nei confronti della propria santificazione e dell’annuncio evangelico (finalità che coincidono per la Chiesa tutta e per i singoli fedeli), non ha termini di paragone nella società politico-statuale: in essa infatti ciò a cui tendono i singoli cittadini e ciò a cui tende lo Stato sono realtà assolutamente differenti. Per di più sotto il profilo strutturale nello Stato, normalmente, partecipazione e corresponsabilità si manifestano e concretizzano nel mandato temporaneamente affidato ai pubblici amministratori sulla base di programmi di governo che incontrino gli interessi –anche ideali– degli elettori, mentre nella Chiesa il ministero pastorale è affidato per partecipazione sacramentale –permanente– al ministero salvifico di Cristo stesso … senza che, però, ne possa derivare una sostanziale qualificazione/contrapposizione dei fedeli in governanti e sudditi, come Paolo VI ebbe modo d’indicare espressamente.


La differente intenzionalità delle società politico-statuali rispetto alla comunità ecclesiale risulta decisiva anche per vagliare gli elementi strutturali e funzionali che caratterizzano il loro governo –senza possibilità di parallelismi–: nelle prime, infatti, si tratta di ‘concordare’ tra soggetti estrinsecamente legati ad una comune sorte materiale tanto il “che cosa” che il “come” perseguire; nella seconda il “che cosa” è dato in modo definitivo (per quanto da comprendere ed interiorizzare sempre più profondamente) nella missio, mentre rimane da individuare soltanto il “come” di una sua efficace realizzazione nei singoli ‘aderenti’, nella comunità di salvezza ed in chi ancora non conosce l’annuncio evangelico.


1.2.4 Governo ecclesiale come discernimento

La prospettiva sin qui articolata finisce per evidenziare come il governo ecclesiale sia –sostanzialmente– discernimento. Se, infatti, chi nella comunità di fede esercita potestà di governo compie in realtà un servizio (munus/ministerium), il suo compito è proprio quello del concreto discernimento operativo: comprendere, cioè, che cosa lo Spirito solleciti oggi alla comunità cristiana nelle sue diverse manifestazioni soprattutto istituzionali, su quali strade intraprendere i nuovi sviluppi dell’annuncio evangelico e come rendere tutto ciò concretamente possibile nella quotidianità del vissuto ecclesiale attraverso l’indirizzo ed il coordinamento delle risorse spirituali, morali, personali e materiali di cui la Chiesa (universale e particolare) dispone nelle diverse situazioni.

Di fatto un ‘governo’ [a] che non sia frutto di rappresentanze, né di parti (com’è quello politico), [b] una guida che sia in realtà una ‘custodia’ del depositum ricevuto, [c] un fine che sia la disponibilità per ogni uomo dell’incontro con la salvezza escatologica e non solo il perseguimento di uno scopo condiviso, non possono che esprimersi attraverso il discernimento dei “segni dei tempi”: ciò che lo Spirito richiede (oggi) alle Chiese. Un tale discernimento significa, allora, interrogarsi ed interrogare su quali strumenti operativi concreti (quali risorse strumentali e personali) utilizzare per un’efficace evangelizzazione/santificazione; ciò nella Chiesa non può che attuarsi nel confronto libero ed aperto a partire dalla stessa fede, che lo Spirito ha diffuso nei cuori di tutti i battezzati. Questo infatti è quanto accade nei grandi momenti di ‘autenticità’ ecclesiale –Concili e Sinodi–, laddove chi ha il compito di dire l’ultima parola sul “come” oggi il Vangelo ci provochi ad una vita più santa e ad un suo annunzio più autentico, non può farlo senza aver condiviso la stessa fede dei fratelli, la loro stessa ansia missionaria, la verità del loro vissuto spirituale.


1.3 Governo ecclesiale e corresponsabilità

Il fine missionario che aggrega e sostiene la Chiesa, insieme al discernimento come modalità operativa del governo ecclesiale, evidenziano il principio stesso di tale governo nella corresponsabilità, intimamente fondata nella ratio stessa dell’appartenenza ecclesiale: il comune Battesimo, la comune missione evangelizzatrice.


In questa prospettiva ciò che caratterizza la corresponsabilità è prima di tutto il prevalere della responsabilità di ciascuno rispetto all’operato comune: nella corresponsabilità, infatti, ciascuno partecipa (e rispondere) ‘del’ e ‘dal’ proprio punto di vista istituzionale, dal munus/ministerium, cioè, che esercita per il bene comune; in tale dinamica ciascuno rimane ‘se stesso’ –almeno sotto il profilo funzionale–, deve, cioè, esercitare il proprio ‘ruolo’ specifico, approcciare le tematiche e le questioni secondo l’ottica peculiare dello status/ministerium occupato all’interno della Chiesa e per il bene di tutti. Nella corresponsabilità ciascuno deve assumersi tutte le proprie responsabilità tanto positive che negative, tanto consensuali che dissenzienti, tanto condivise che solitarie: ciò corrisponde –d’altra parte– alla natura non-collegiale ma gerarchica della potestas regiminis ecclesiale. Collaborazione, cooperazione, partecipazione, consultazione, sono le categorie utilizzate dal Codice per indicare (anche con differenze specifiche) le varie modulazioni della corresponsabilità; proprio questi elementi configurano strutturalmente e funzionalmente gli Organismi consultivi di vario ordine e grado previsti e normati dai Codici, al di là delle loro disomogenee denominazioni.

È in quest’ottica che va assunta e valorizzata la costitutiva non-paritarietà della struttura consultiva ecclesiale,  articolata sempre in modo bipolare asimmetrico: un Superiore gerarchico ed il ‘suo’ Consiglio; non di meno anche le capacità operative dei due soggetti risultano asimmetriche poiché, laddove il Consiglio debba concedere il proprio consenso, questo non ha comunque forza impositiva nei confronti del Superiore che potrebbe anche non attuare quanto deciso dal Consiglio stesso che, in tal modo, palesa la propria funzione soltanto tutoria nei confronti dell’agire del Superiore, cui può solo –ma efficacemente– imporre un veto operativo, quale forma estrema di ‘discernimento’.

La consultazione ecclesiale si palesa così come specifica concretizzazione di corresponsabilità: chi deve (e può) decidere si mette in ascolto del parere (consilium) di persone autorevoli per saggezza ed integrità morale o per conoscenze specifiche, in modo da operare con opportuno discernimento, per poter decidere “omnibus perpensis adiunctis”. Personalmente… ma non di testa propria.


2. LA GIURIDICITÀ ECCLESIALE

2.1 Natura della giuridicità

Il secondo elemento da prendere in considerazione per delineare adeguatamente la natura e funzionalità del Diritto amministrativo canonico è l’idea stessa di giuridicità ecclesiale, che dovrebbe ottenere identità propria ed essere finalmente sottratta alla minorità analogica rispetto alla giuridicità statuale-civilistica, spesso incongruamente identificata coi soli regimi giuridici di civil law… quasi che il restante mondo giuridico non possa essere considerato ‘Diritto’ in senso proprio. Solo questa radicale riconcettualizzazione della giuridicità permetterà di delineare un vero Diritto amministrativo canonico, evitando di doverlo necessariamente identificare con le norme connesse all’attività di una –ipotetica– “Amministrazione pubblica ecclesiastica”. D’altra parte, un Popolo di Dio strutturato su base comunitaria-elettiva –identitaria– dev’essere in grado di esprimere autonomamente la propria giuridicità… tanto più che oggi ben difficilmente si mette in questione la primarietà del suo Ordinamento giuridico. Se tale primarietà ed originarietà, infatti, non riguardano semplicemente un’indipendenza autoritativa (superiorem non recognoscens) ma anche gli elementi costitutivi stessi dell’Ordinamento –come avviene per l’Ordinamento internazionale– risulta non solo del tutto legittimo, ma addirittura pienamente necessario por mano alla individuazione di tali fondamenti.


Data per acquisita –come risultato dalla prima e della terza “Giornata Canonistica Interdisciplinare”– la natura ‘funzionale’ e ‘strumentale’ del Diritto quale ‘prodotto umano’ di natura tecnico-relazionale, destinato a supportare l’organico relazionarsi di diversi soggetti, in un clima di reciprocità, all’interno di specifici ‘spazi vitali’ ed operativi (contesto sociale istituzionalizzato), ne scaturisce una concezione del Diritto non come una ‘cosa’ (res) ma come una ‘modalità relazionale’ (relatio): “ordinamento [relazionale] osservato” –secondo la concezione di P. Grossi– in una prospettiva che tende a ricondurre il Diritto all’Ordinamento giuridico come tale, piuttosto che a qualcuna delle sue componenti (come la Legge o l’autorità). Di fatto, è nel vivere ‘sociale’ che si crea –in modo pressoché spontaneo ed ‘autentico’– il Diritto: laddove l’“altro” che si pone davanti a ciascun ‘soggetto’ non ha di per sé nessun rapporto costitutivo con lui, come sarebbe, invece, per i rapporti inter-personali sulla base della relazione io-tu (famiglia, amicizia): Ius est in tertium.

In tal modo la giuridicità consiste essenzialmente nella capacità d’influenzare le relazioni tra soggetti appartenenti allo stesso corpo socio-istituzionale mutandone in qualunque modo la situazione relazionale precedente, così che la nuova posizione relazionale di almeno uno dei soggetti (oggetti) implicati sia almeno e cumulativamente: [a] pubblicamente riconoscibile, [b] relazionalmente rilevante e [c] istituzionalmente sanzionabile per chiunque degli altri soggetti appartenenti a quel contesto socio-istituzionale. Non esistono pertanto ‘cose’ (res) giuridiche in sé, né altre che di principio non possano essere tali, ma ogni contesto sociale istituzionalizzato avrà i propri oggetti ed eventi (atti e fatti) giuridici anche radicalmente differenti da un Ordinamento all’altro.


Se dunque, una comunità istituzionalizzata e le relazioni formali ad essa interne, risultano gli elementi che individuano la giuridicità in senso stretto, la bimillenaria vita ecclesiale presenta tutte le caratteristiche necessarie per essere fonte autonoma di una giuridicità che risponda alle ‘sue’ specifiche coordinate relazionali ed istituzionali con piena ‘capacità’ e ‘legittimità’ di qualificare giuridicamente atti e fatti che le sue dinamiche interne indichino come specificamente rilevanti: com’è il caso dei Sacramenti o degli stati di vita.


2.2 Giuridicità ecclesiale

Sulla scorta di quest’individuazione della giuridicità non si potrà rifiutare la possibile e necessaria qualificazione giuridica di un certo numero di oggetti ed eventi tipici della vita della comunità cristiana; oggetti ed eventi spesso di natura spirituale (Grazia, salvezza, santità) e trascendente (Spirito santo, Dio) che di per sé non si rendono presenti alla Chiesa già qualificati come ‘giuridici’, ma che la Chiesa stessa ha qualificato come tali proprio in ragione della loro ‘portata’ “pubblicamente riconoscibile, relazionalmente rilevante ed istituzionalmente sanzionabile” nella e per la vita stessa della comunità cristiana. È stata infatti la Chiesa, assistita e condotta dallo Spirito santo, ad individuare e fissare i ‘punti di non-ritorno’ della propria identità dottrinale e funzionale: Dogma e Diritto! Nessun altro avrebbe potuto farlo legittimamente ed efficacemente, tanto più dall’esterno. Proprio la direzione decisamente istituzionalizzante e comunionale intrapresa dalla Chiesa delle origini ha posto le basi per una pressoché immediata –e connaturale– attività di qualificazione e formalizzazione istituzionale e (poi) giuridica degli elementi più rilevanti del suo vivere ed attuare.


Al centro dell’interesse canonistico amministrativo si pone pertanto la necessità di qualificare gli eventi il cui essersi verificati o meno comporta oggettive conseguenze per la vita ecclesiale (oltre che morale e spirituale) dei fedeli, soprattutto in vista dell’esercizio delle tre funzioni che la Missio Ecclesiæ comporta: annunciare/insegnare, santificare, reggere/governare. In modo del tutto specifico sono implicati gli eventi che attengono al mutamento dello status canonico (Matrimonio, Ordinazione, Professione religiosa…), senza tuttavia escludere specifiche attività poste in essere da soggetti che godono all’interno dell’Ordinamento di particolari funzioni o incarichi (chierici, Vescovi, Giudici, Superiori religiosi…).


2.2.1 Natura pubblicistica dell’Ordinamento canonico

In questa prospettiva è anche necessario tener presenti alcune caratteristiche strutturali e costitutive dell’Ordinamento canonico, quali in primis la sua sostanziale natura pubblicistica che lo differenzia in modo sensibile dalla generalità degli Ordinamenti statuali. Di fatto, ciò che la Chiesa –fin dalle proprie origini neo-testamentarie– ha regolamentato istituzionalmente fino all’attuale piena giuridicità è solo ciò che riguarda la sua identità di “comunità dei discepoli di Cristo” e –subordinatamente– il rapporto dei fedeli con la comunità stessa; quanto, invece, riguarda i fedeli “in paribus [rebus]” ed “inter pares” al di fuori della missio Ecclesiæ –che comprende la loro santificazione, anche individuale– non ha rilievo normativo per l’Ordinamento giuridico ecclesiale. Quanto ciò risponda a verità è di tutta evidenza sia nella materia sacramentale, che nell’ambito del munus docendi, mentre il problema non si pone neppure in fatto di struttura e governo della Chiesa; allo stesso modo che il taglio pubblicistico del Diritto patrimoniale, penale e processuale canonici non può essere discusso. Ciò di cui s’interessa la normativa canonica –da non identificarsi con l’intera funzionalità ordinamentale– ha per oggetto le modalità di rapporto tra la Chiesa come tale nella sua articolazione comunionale e gerarchica ed i singoli fedeli –o gruppi di fedeli–, dando così corpo a norme che riguardano i rapporti interni tra i diversi Organi/Organismi della Chiesa universale e particolare oppure i rapporti ‘ecclesiali’ tra i fedeli (singoli o associati) ed i medesimi Organi/Organismi ecclesiali.


In secondo luogo va considerato come il paradigma ‘comunitario’ –ulteriore rispetto a ciascun individuo– non possa basarsi sul ‘diritto/interesse’ dei singoli ai pochi beni materiali disponibili per l’umanità, ma sull’offerta della salvezza attraverso l’accoglienza e la condivisione del dono universale ed inesauribile della Grazia di Dio. Che i Sacramenti siano allo stesso tempo ‘diritto’ (Can. 213) e ‘dovere’ (Cann. 920 §1, 989) per i fedeli e che la loro ‘amministrazione’ (così è tradizionalmente detta) sia soggetta alla verifica di presupposti e condizioni da parte dei ministri (Can. 843 § 1) è inequivocabile e non ne permette alcuna lettura privatistica/individualistica… allo stesso modo che i c.d. diritti fondamentali dei fedeli (Cann. 208-223) esprimono più una questione ontologica (naturale o ecclesiale) che non di stretta giuridicità, dovendo proprio per questo autolimitarsi entro la communio (Can. 209 §1) e sottostare alla moderazione gerarchica (Can. 223 §2). Non è, pertanto, possibile impostare la vita ecclesiale (e cultuale) in termini di ‘diritto/facoltà’ del singolo fedele cui corrisponda –ex Lege– uno specifico ‘dovere’ da parte di un ministro sacro, in quanto, sia ministro che fedele, sono in realtà sottoposti a due differenti modulazioni dello stesso dovere di attingere in modo fruttuoso al tesoro di Grazia consegnato da Cristo alla sua Chiesa (Can. 213). In tal modo il ‘personale’ non ha alcuna ‘autonomia’ rispetto all’‘istituzionale’, né il sacerdozio comune risulta indipendente da quello ministeriale, costituito al suo servizio.

Di fatto ciò che il Diritto canonico interviene a normare sono soltanto le modalità specifiche secondo cui chi nella Chiesa ha responsabilità e/o potestà (l’Istituzione nelle sue varie articolazioni ed espressioni) deve predisporre, organizzare e custodire l’annuncio, la testimonianza e l’esperienza vitale del Vangelo all’interno della legittima successione apostolica che custodisce l’una fides e l’unum depositum consegnati da Cristo ai suoi discepoli. In coerenza a questa linea fondativa si pone quanto espresso nel primo principio per la revisione codiciale che, se manda al nuovo Codice di «definire e tutelare i diritti e gli obblighi di ciascun fedele verso gli altri e verso la società ecclesiastica», non trascura di specificare immediatamente come questo debba avvenire –se non soltanto, almeno specificamente e principalmente– «in quanto si riferiscono al culto di Dio e alla salvezza delle anime», indicazione non certo trascurabile nell’individuare la tipologia e ‘qualità’ di tali diritti/doveri giuridicamente individuati e tutelati nel Codice latino.


2.2.2 Prospettiva istituzional-personalista

Ne emerge una struttura –e conseguente concezione– dell’Ordinamento canonico basata sulla costante inter-relazione tra Istituzione e persona, rivolta non agli ‘interessi/utilità’ di ‘qualcuno’, ma all’individuazione del ‘soggetto’ che agisce in determinate e specifiche circostanze ed attività di rilievo istituzionale-giuridico: a) la Chiesa come tale, anche attraverso una delle sue ‘figure’ gerarchiche (o persone-Organo di tale gerarchia), oppure b) la persona del singolo fedele (o un gruppo di fedeli) in quanto destinataria di un’opportunità salvifica gratuitamente messale a disposizione attraverso la Chiesa stessa, al di là di una eventuale responsabilità immediata e diretta della gerarchia.

Una tal concezione del Diritto canonico non centrato sui fedeli ma sbilanciato in chiave comunitario-istituzionale non riduce però l’assoluta centralità del loro ruolo e della loro condizione ecclesiale; infatti, anche se il rilievo assoluto accordato nella Chiesa alla singola persona non appare come oggetto diretto della normativa canonica come tale, questo rilievo s’impone tuttavia tanto al Diritto canonico che alla stessa vita ecclesiale attraverso il ‘valore’ ontologico e fondativo riconosciuto –per via teologico-dogmatica e quindi costituzionale– alla persona stessa: proprio tale valore, anzi, risulta spesso addirittura derogatorio rispetto al ‘sistema legale’. Quando infatti l’osservanza della norma canonica generale può ostacolare il cammino spirituale di un singolo fedele, allora il pastore può –o addirittura deve– attivarsi per rimuovere gli ostacoli di ‘natura umana’ che possano risultare di detrimento alla salvezza eterna o alla santità di vita o anche solo al bonum spiritualis del singolo fedele (dispensatio).


È per questo che i fedeli devono poter conoscere –attraverso il Diritto [amministrativo] canonico– l’esistenza ed il funzionamento delle Istituzioni ecclesiali al loro servizio, delle opportunità specifiche di cui fruire (Associazioni, vita consacrata, ecc.), degli strumenti di santificazione a loro disposizione (Sacramenti), dei ministri cui legittimamente chiedere, della loro specifica vocazione (chierici, consacrati, sposi cristiani, ministri…), delle possibili collaborazioni più dirette al perseguimento degli scopi ecclesiali (Ministeri ed Uffici), della corretta gestione dei beni strumentali di cui i fedeli stessi hanno dotato la Chiesa (Diritto patrimoniale canonico), delle legittime modalità attraverso cui ‘verificare’ e tutelare il proprio status canonico (Processi), senza disattendere la reale possibilità per ciascun fedele di esigere che la Chiesa stessa –e più ancora le sue Istituzioni ed i suoi pastori– si mantengano fedeli al compito (munus/ministerium) loro affidato e lo compiano con reale frutto per i fedeli stessi.


3. IL DIRITTO AMMINISTRATIVO CANONICO

3.1 Nascita del concetto

Posto in questi termini il contesto di riferimento dell’agire giuridico ecclesiale, puntualizzati gli elementi e le caratteristiche che lo individuano più specificamente rispetto agli altri Ordinamenti giuridici, è finalmente possibile individuare quali fattori ed elementi entrino in modo proprio a delineare la Materia denominata “Diritto amministrativo canonico”.


Non pare inutile ricordare qui che, secondo quanto comunemente recepito –ed insegnato– nei decenni passati:

«di un Diritto amministrativo, come ramo a sé stante dell’Ordinamento della Chiesa, non si parlava neppure, fino ad oltre la metà degli anni Sessanta (e tanto meno esso esisteva come Disciplina di autonomo insegnamento nelle varie Facoltà di Diritto canonico); che se ne iniziò a discutere e a scrivere con l’Istituzione, da parte della Cost. Ap. di Paolo VI Regimini Ecclesiæ Universæ del 15 agosto 1967, della Sectio altera della Segnatura apostolica (art. 106-107), e con la successiva approvazione (25 marzo 1968), da parte dello stesso Pontefice, delle Normæ speciales ad experimentum servandæ, regolanti l’attività dell’anzidetto Tribunale».


Una tale iniziativa, tuttavia, non fu decisiva per l’individuazione e messa a punto di un vero e proprio Diritto amministrativo canonico, che rimase poco più di una concettualizzazione dottrinale, senza nessuna sistematica fino al “Trattato di Diritto amministrativo canonico” del Prof. E. Labandeira, successivo di vent’anni. Per la maggior parte degli autori che si interessarono alla materia si trattò, infatti, di scrivere intorno alla sola ‘Procedura’ del c.d. contenzioso amministrativo, cui la Giurisprudenza aveva già dedicato qualche attenzione; la Legislazione e la dottrina canonica, d’altra parte, avevano sempre fatto un uso assai limitato del termine “amministrazione/amministrativo” in riferimento alla struttura e funzionalità istituzionale della Chiesa, preferendo indicare quanto concerne la ‘potestà esecutiva’ con svariate denominazioni o perifrasi che, se riescono ad evitare un’impressione di ‘burocrazia’ e ‘statalismo’, rischiano tuttavia di celare la necessità di una corretta funzionalità dell’Ordinamento canonico come tale.


Una linea teoretica di sviluppo, però, era già stata offerta da F.J. Urrutia all’inizio degli anni ’60 riconoscendo come tutto il Diritto positivo ecclesiale (non solo quello codiciale) che regola la funzione di governo della Chiesa sia sostanzialmente Diritto amministrativo, anche se non pare possibile parlare di una vera “Amministrazione” nella Chiesa secondo il modello statuale –che possiede una ‘pubblica Amministrazione’ proprio in riferimento all’azione degli Organismi che costituiscono la stessa struttura e funzionalità dello Stato–.

A tal proposito appare efficace anche la distinzione –dello stesso autore– tra una ‘Amministrazione-Organo’ (quella statale) ed una ‘Amministrazione-attività’ (quella ecclesiale), definibile come l’utilizzo da parte della competente gerarchia degli strumenti reali –naturali e soprannaturali– e personali con cui la Chiesa agisce in ordine al conseguimento dei suoi fini, e conformemente ai principi costituzionali e dottrinali che la condizionano. Non di meno è necessario notare anche come nel Diritto canonico il termine “amministrativo” sia stato a lungo utilizzato quasi esclusivamente in ambito processuale per indicare le Procedure extra-giudiziali nelle quali si agisce per via di potestà esecutiva invece che giudiziale.


3.2 Individuazione del Diritto amministrativo canonico

Nella stessa linea di Urrutia, anche Labandeira giunse a concludere che:

«la maggior parte delle norme canoniche sono di Diritto amministrativo: così come le norme che regolano i mezzi personali di cui si serve la Chiesa per realizzare i suoi fini (persone, uffici ed organizzazione), l’attività intraecclesiale, i munera docendi e sanctificandi (i più caratteristici mezzi di santificazione), i beni temporali e le norme relative ai servizi, quelle disciplinari ed anche quelle penali».


Significativamente, dalle stesse idee non si discosta neppure la Costituzione Apostolica di promulgazione del CIC 83 la quale indica, come peculiari del Codice, quattro finalità che ben corrispondono a quanto illustrato:

1) rendere visibile la struttura gerarchica ed organica della Chiesa,

2) provvedere all’adeguata organizzazione dell’esercizio delle funzioni ad essa affidate da Cristo, specialmente in riguardo alla sacra potestà e all’amministrazione dei Sacramenti,

3) regolare i rapporti scambievoli tra i fedeli secondo giustizia e carità,

4) rafforzare le iniziative comuni per una vita cristiana più perfetta perché la Chiesa sia ogni giorno più adatta ad assolvere la propria missione di salvezza nel mondo.


Ciò evidenzia come l’identità e la consistenza del Diritto amministrativo canonico siano proprio da individuarsi nel rilievo istituzionale dell’agire dei fedeli e nella referenza potestativa delle Istituzioni ecclesiali (personali o no) nei confronti dei fedeli stessi (singoli o no). Acquistano così rilevanza tipicamente ‘canonica’ anche elementi ed Istituti giuridici –espressamente ‘amministrativistici’–, a prima vista piuttosto distanti dagli ambiti teologici e pastorali dei Libri II, III e IV, quali le Norme generali, o il Diritto patrimoniale, penale e processuale, interessati a tutelare, secondo precisa formalizzazione giuridica, la corretta ed equa preparazione, la gestione e l’eventuale ‘patologia’ delle diverse situazioni canoniche riguardanti:

a) i fedeli in generale nel loro rapporto con la Chiesa, e la Chiesa in rapporto ai singoli fedeli,

b) lo status canonico dei fedeli e quanto concerne la loro possibilità di conseguire i frutti di salvezza annessi all’annuncio del Vangelo ed ai mezzi di santificazione che il Cristo ha consegnato alla sua Chiesa,

c) la corretta modalità di esercizio del munus regendi da parte della gerarchia ecclesiastica che al proprio ministerium deve offrire risposte adeguate (Cfr. Cann. 213; 221; 223) osservando per prima le prescrizioni del Diritto (Can. 209 §2; 223).


In questo modo il Diritto canonico opera una vera ‘strutturazione’ dell’organismo ecclesiale e delle sue funzioni e relazioni, imponendo anche precise gerarchie e condizioni operative che risaltano per la loro non-parità relazionale, visto che ad alcuni soggetti si riconosce la natura di Organi dell’Ordinamento e, conseguentemente, l’autoritarietà d’azione o ‘potestà’. Ciò rende possibile l’individuazione –sotto il profilo strettamente giuridico– di un vero Diritto amministrativo canonico, poiché ne sussistono i presupposti costitutivi:

1- individuazione di più ‘poteri’ all’interno dell’Ordinamento (legislativo, esecutivo, giudiziale) e divisione di attribuzione di questi poteri, seppure questo avvenga nella Chiesa principalmente attraverso l’esercizio vicario di tali funzioni mentre la pienezza della potestà rimane unica e personale;

2- vigenza sostanziale del ‘principio di legalità’ e conseguente primato della Legge e soggezione dell’esercizio delle diverse potestà alla Legge stessa, per quanto ciò non sia assoluto in ambito canonico, dovendo prevalere comunque il bene spirituale anche del singolo, rispetto agli altri valori individuati e tutelati dall’Ordinamento stesso, fatto salvo il ‘bene comune’;

3- esistenza di modalità di rapporto tra i diversi soggetti giuridici secondo regole e mezzi diversi dal Diritto dei privati, di fatto inesistente nei Codici canonici.


Ciò, tuttavia, non deve indurre il timore che la funzionalità o la Procedura vadano a scapito della dimensione  teologica o pastorale, mai messi in discussione visto che il Diritto permane al servizio di un fine che lo deve necessariamente condizionare. Non di meno, anche se la Pastorale rimane la prima finalità ecclesiale –per la santificazione dei fedeli– la Chiesa non può che comportarsi in modo ‘umano’ e il suo stesso fine soprannaturale resterà necessariamente condizionato da questo modo (umano), come ben dimostra la complessa attività sacramentaria.


La validità e plausibilità di quanto sin qui prospettato trova conferma nella sua conciliabilità col principio comunionale che informa la Chiesa del Vaticano II; in quest’ottica, anzi, si potrebbe addirittura leggere il Diritto amministrativo canonico come la giusta risposta strumentale alla necessità di agire sempre per l’edificazione della Chiesa e mai a suo detrimento, facendo del Diritto amministrativo canonico il primo e più efficace strumento –umano– di conservazione della communio. Per di più, proprio la communio –intesa come corresponsabilità (cum-munus)– potrebbe esprimersi pienamente nella plasticità del Diritto amministrativo, il quale cerca in ogni circostanza ‘come’ meglio agire perché l’Istituzione ecclesiale non sia una ‘gabbia’ che rinchiude, ma una ‘struttura’ che ‘supporta’ l’azione dello Spirito nella Chiesa e nel mondo.


3.3 Lo studio del Diritto amministrativo canonico

Il Diritto amministrativo canonico si presenta così come uno specifico approccio ‘tecnico’ alla vita ecclesiale a complemento della Pastorale: ciò che la cura della comunità di fede cerca di attuare nella concretezza di ogni circostanza di tempo e di luogo, il Diritto amministrativo canonico cerca di ‘fissarlo’ nelle proprie coordinate funzionali di base, perché l’estro, l’entusiasmo, la dedizione, la consapevolezza, di qualcuno non diventino motivo d’inautenticità e di rottura nella comunità di fede, ma risorse per il bene comune.

Di conseguenza il Diritto amministrativo canonico –come ‘materia’ canonistica– diventa l’insieme delle norme che guidano la corretta modalità di esercizio del proprio ruolo ecclesiale (personale o istituzionale); mentre la Disciplina accademica denominata “Diritto amministrativo canonico” si concretizza nella Teoria sistematica dell’efficacia dell’agire giuridico ecclesiale.

L’unitarietà di tale approccio permette di ‘contenere’ sia il ‘momento costruttivo’ della corretta azione dei fedeli –e dei Superiori ecclesiali–, quanto quello ‘patologico’, in vista della possibile correzione degli interventi inefficaci, in un’ottica che rimane comunque di perseguimento dello stesso fine ecclesiale. È così possibile anche riconoscere la giusta collocazione di tutti i soggetti che intervengono nelle diverse questioni, offrendo una panoramica completa delle funzioni, dei ruoli e dei compiti di ciascuno all’interno dell’Ordinamento giuridico canonico, evitando quell’impressione di contraddittorietà tra i diversi ruoli ed ambiti dell’Ordinamento di cui spesso cadono vittime coloro che si accostano –senza sufficienti avvertenze– al Diritto amministrativo canonico.


È questo il peculiare approccio teoretico, sistematico e pratico, offerto dal “Piano degli studi” canonistici della Pontificia Università Lateranense, che contempla due Corsi di Diritto amministrativo canonico ‘teoretico’, uno di Prassi amministrativa ed uno di Prassi giudiziale, oltre ad orientare nella stessa direzione la maggior parte della proposta formativa.


4. IL METODO

Il vero problema del Diritto amministrativo canonico –come, per altro, anche della stessa Canonistica– però è il metodo: è questo, infatti, il ‘cuore’ della scientificità; la sua importanza è tale che solo chi riuscirà a proporre un metodo realmente efficace dal punto di vista operativo potrà credere di aver trovato la strada giusta nell’individuazione e teorizzazione del Diritto amministrativo canonico …l’esperienza ha già dimostrato come le sistematizzazioni teoretiche –da sole– non bastino.

Si tratta, concretamente, di mettere a punto una metodica operativa che guidi alla corretta individuazione, articolazione, sistematizzazione e realizzazione dell’agire giuridico dei fedeli, a seconda dello status e dei munera/officia esercitati nella Chiesa, affinché quanto appartiene alla corretta vita ecclesiale le sia dato con ragionevole certezza ed affidabilità nel vissuto quotidiano di ciascun fedele e comunità di fede (= efficacia pastorale). Tale metodica operativa, tuttavia, dev’essere anche in grado di far fronte con altrettanta precisione all’eventuale ‘mancata-efficacia’ (patologia) che dovesse caratterizzare –per i motivi più diversi– tale agire.

La concreta operatività che s’intende perseguire suggerisce di adottare –come ‘metodo’– quanto prospettato da B. Lonergan: «uno schema normativo di operazioni ricorrenti e connesse tra di loro che danno risultati cumulativi e progressivi»; non si tratta, però, di una sorta di ‘calcolatrice’ a cui basti passare dei dati per ottenerne un risultato certo ed inconfutabile, ma piuttosto di un aiuto perché dopo aver capito di quali azioni ecclesiali si tratta (qualificazione giuridico-canonica) sia possibile anche giudicare e decidere quale esito assegnar loro… tanto più se si tratta di persone (della loro vita e della loro dimensione spirituale) e non di cose soltanto.


La metodica operativa che risponde efficacemente alle necessità –unitarie, positive ed operative– del Diritto amministrativo canonico sin qui illustrate potrebbe venir definita ‘costruttiva’ ed articolarsi in due fasi:

1) l’applicazione di alcune ‘tecnicheanalitiche,

2) l’applicazione di alcuni ‘criterivalutativi provenienti dalla c.d. prassi.


4.1 Le Tecniche analitiche

Se il ‘metodo’ consiste nell’applicazione rigorosa ed incrementale di procedimenti che offrano risultati progressivi e cumulativi, allora è necessario: [a] possedere realmente ‘procedimenti’ in grado di produrre ‘risultati’ da ri-sottoporre ad altri procedimenti per ottenerne nuovi risultati e [b] individuare la corretta successione applicativa degli stessi procedimenti in modo tale che si possano trarre da successive ‘elaborazioni’ elementi in qualche modo ‘conclusivi’ e ‘verificati’ …come la realizzazione di una ricetta di pasticceria, per la quale non basta la disponibilità dei singoli ingredienti ma conta anche l’ordine e la modalità di lavorazione.

Tali ‘procedimenti’ nel metodo costruttivo sono riconducibili anzitutto a tre ‘tecniche’ da applicarsi in rigorosa successione: analisi qualitativa, sintassi relazionale, strutturazione procedimentale.


4.1.1 L’Analisi qualitativa

Si tratta di eseguire una lettura approfondita e sistematica di tutti gli ‘elementi’ che entrano in gioco: atti, soggetti, oggetti e norme, in modo da poterli identificare con precisione ed attribuir loro le corrette caratteristiche funzionali ed operative indicate dalle norme dell’Ordinamento.


- Per atti s’intendono quelle ‘azioni’ poste –o da porsi– dalle persone (fisiche o giuridiche) all’interno dello svolgersi della vita ecclesiale che intervengono a modificare assetti ed equilibri relazionali istituzionalmente rilevanti, condizionando così il vissuto ecclesiale;

- per soggetti s’intendono coloro che agiscono: le persone (fisiche o giuridiche), gli Organismi ed Uffici, coloro, cioè, che –sia a titolo personale che di pubblico Ufficio– intervengono nelle diverse vicende compiendo o subendo azioni di vario tipo;

- per oggetti s’intendono le ‘cose’ (res) che entrano nella considerazione dell’agire dei soggetti; può trattarsi tanto di cose ‘materiali’, che ‘immateriali’, che assolutamente ‘spirituali’;

- per norme s’intendono le disposizioni di qualunque natura, estensione, tipologia e portata concretamente vigenti all’interno dell’Ordinamento giuridico canonico a riguardo degli atti, soggetti ed oggetti cui ci si riferisca.


L’Analisi qualitativa degli atti porterà alla loro specifica identificazione, necessaria per individuare: [a] la ‘materia’ giuridica interessata, [b] i soggetti e [c] gli oggetti coinvolti (o da coinvolgere), [d] le norme che riguardino concretamente quei soggetti ed oggetti in quella data situazione. Si tratta di quattro precise ‘fasi’ da applicarsi in successione rigida: atti, soggetti, oggetti, norme; l’applicazione di ogni analisi opererà sulla realtà una ‘selezione’ di elementi di rilievo giuridico da ‘trasmettere’ all’analisi successiva restringendo progressivamente il campo di studio per giungere alla perfetta messa a fuoco di tutti gli elementi in gioco. Lo strumento privilegiato dell’analisi qualitativa di soggetti ed oggetti è la perfetta delineazione del loro status giuridico canonico; solo così si potranno individuare anche le norme da applicarsi …nella loro corretta gerarchia funzionale.


4.1.2 La Sintassi relazionale

Si tratta della esplicitazione –eventualmente anche grafica– dei rapporti giuridici e delle relazioni operative che intercorrono tra i diversi soggetti ed oggetti cui fanno capo le differenti ‘azioni’, rispondendo alle domande “chi può/deve fare (o ha fatto)?”, “come?” e “che cosa?”; i molteplici elementi che articolano la vicenda devono pertanto essere scomposti fino ad avere davanti a sé quale oggetto di analisi e verifica: i soggetti (chi), le loro azioni (come), gli oggetti (che cosa).

Poiché è la corretta relazione ad normam Iuris che rende giuridicamente efficaci le interazioni tra soggetti ed oggetti configurando l’efficace atto giuridico ecclesiale (fisiologia), in caso contrario la concreta inefficacia dell’atto (patologia) dovrà esser fatta risaltare proprio nella non corretta relazionalità tra soggetti ed oggetti –e norme– in esso implicati; in vista della ‘correzione’ di tali relazionalità.


4.1.3 La strutturazione procedimentale

Una volta esplicitate ‘identità’ (atti, soggetti ed oggetti) e ‘portata’ (norme) degli elementi che strutturano l’atto giuridico ecclesiale, è necessario articolare il corretto iter procedimentale da seguire affinché tale atto possa ottenere piena efficacia nel vissuto ecclesiale.

Si tratta di delineare quali ‘azioni’ concrete porre in atto –ed in quale successione– per ottenere il risultato prefissato, tenendo conto che il concreto vivere ecclesiale-comunitario non si accontenta della pura ‘effettività’, ma chiede che si agisca all’interno di una ‘cornice istituzionale’ che tuteli, almeno in linea di principio, tutti i diversi elementi che entrano in gioco, dandone pacifica certezza ai contemporanei e lasciandone traccia sufficiente per i posteri che, spesso, dovranno poter trarre informazioni preziose per gestire, un domani, le ricadute di scelte ed azioni le cui conseguenze rimangano nel tempo.


4.1.4 Il metodo ri-costruttivo

L’iter sin qui indicato in ottica costruttiva vale anche per cercare le ‘cause’ della eventuale inefficacia degli stessi atti; si dovrà tuttavia applicare una diversa successione delle tecniche analitiche invertendo le prime due per partire dalla ‘sintassi relazionale’.

Di fatto davanti ad un atto giuridico manifestatosi inefficace occorre dapprima rendersi conto di come stiano le cose (chi ha fatto, che cosa, come), solo in seguito si potranno analizzare minutamente azioni, soggetti ed oggetti (status), norme, per cogliere in che cosa qualcuno/qualcosa si sia discostato dalle proprie caratteristiche/prerogative/attribuzioni causando in tal modo l’inefficacia riscontrata. La strutturazione procedimentale rimarrà comunque l’ultima analisi da eseguire verificandone le –eventuali– incongruenze rispetto al corretto iter che sarebbe stato necessario seguire.


4.2 I criteri valutativi di prassi amministrativa

La prassi consolidata dei Dicasteri della Curia romana (e non solo) suggerisce di adottare anche quattro ‘criteri valutativi’ che intervengono generalmente a strutturare la ri-costruzione (patologia) degli atti giuridici ecclesiali: si tratta di ‘punti di vista’ trasversali e cumulativi che permettono d’individuare e verificare l’adeguatezza degli ‘elementi’ in gioco: sono le ‘valutazioni’ [a] in Iure, [b] in facto, [c] in decernendo, [d] in procedendo.


4.2.1 Valutazione in Iure

Si tratta della c.d. sussunzione con cui si ‘pongono gli eventi alla luce del Diritto’ (“dare nomen Iuris”), non essendo mai ipotizzabile una connessione ‘in presa diretta’ tra eventi e norme; è la ricerca delle c.d. fattispecie, in risposta alla domanda sul “quid Iuris” degli eventi stessi. Senza questo passaggio sarebbe impossibile giungere a qualsiasi conclusione di corretta portata giuridica, mentre un errore a questo livello avrebbe immediate conseguenze sulla valutazione in decernendo, compromettendo radicalmente i ‘contenuti’ dell’atto in oggetto. È a questo livello che s’individua quale branca del Diritto sia coinvolta e quali siano le norme da applicarsi al caso/situazione. Sono generalmente fonte di grande utilità eventuali apporti tratti dalla Giurisprudenza amministrativa canonica, soprattutto della Curia romana.


4.2.2 Valutazione in facto

Individuate le fattispecie coinvolte, bisogna ‘scomporre’ gli eventi o le situazioni riportando ciascun elemento dell’agire al corrispondente elemento normativo per ‘commisurarne’ la rispondenza, l’adeguatezza e la portata e prepararsi ad emettere il giudizio di merito. Entrano ora in considerazione anche le ‘circostanze’ di persone, luoghi o cose, che caratterizzano, circoscrivono e modellano ciascun ‘caso’ facendone un quid unicum ed imponendo la necessità di attribuire a ciascun ‘elemento’ un appropriato valore giuridico.

Occorre tuttavia tener conto che in ambito amministrativo non sempre esiste un ‘evento’ vero e proprio da analizzare; quando infatti ci si riferisca –p. es.– alla creazione di un Decreto di provvisione non esistono ‘eventi’ veri e propri ma una semplice necessità concretamente (e giuridicamente) rilevante cui tuttavia occorre applicare comunque una valutazione in facto su tutto quanto riguarda soggetti, uffici, circostanze, presupposti ecc. interessati.


4.2.3 Valutazione in decernendo

Questa fase consiste nel valutare la ‘portata’ (assoluta e/o relativa) dei fatti/atti in questione rispetto alle norme che vengano loro applicate; si valuta e decide della gravità, necessità o utilità degli atti posti o da porre; si valutano allo stesso tempo le ragionevoli e prevedibili conseguenze delle scelte che si dovrebbero/vorrebbero adottare; si sceglie il Procedimento concreto (o la Procedura) da applicare… ma, soprattutto, si decide –motivatamente– se procedere oppure no.

È a questo livello che si delineano anche le questioni relative alla responsabilità di chi pone atti giuridici nella Chiesa; l’inevitabile discrezionalità ed apprezzamento personale degli eventi e delle circostanze potrebbe aver ricadute di espressa portata giuridica (responsabilità) specificamente ‘valutati’ dall’Ordinamento a carico dei loro autori. Tacere o intervenire, pazientare o agire, dissimulare o trascurare, creano scenari ben differenti in capo a chi avrebbe determinate responsabilità in riferimento, soprattutto, alle scelte operative da compiersi.


4.2.4 Valutazione in procedendo

Le norme implicate dalle fattispecie prese in considerazione per l’agire giuridico stabiliscono spesso il Procedimento –almeno sommario– da seguire per il conseguimento dei risultati giuridici prefissati; rilevano in particolare le formalità legate ai modi e tempi di notifica degli Atti, alle consultazioni di Consigli per ottenerne i necessari pareri o consensi. Proprio la non osservanza del corretto iter preparatorio ed applicativo delle decisioni è sovente causa di questioni circa la stessa sostanza degli Atti, la cui ‘irritualità’ spesso è solo il sintomo più evidente della ‘debolezza’ strutturale e contenutistica degli atti che risultano in-efficaci.


4.3 La patologia amministrativa

La finalità/natura missionaria della compagine ecclesiale, il suo principio aggregativo comunitario, il suo governo come corresponsabilità e discernimento, il bilanciamento tra l’istanza istituzionale e quella personalistica, offrono la possibilità d’impostare in modo radicalmente nuovo, per quanto non meno efficace, la gestione della c.d. patologia dell’agire giuridico ecclesiale.

Si tratta, in effetti, di riconoscere nell’in-efficacia dell’agire giuridico ecclesiale non tanto, né principalmente, la violazione di norme oggettive o di diritti soggettivi –di cui chiedere tutela e/o soddisfacimento– quanto piuttosto di prendere atto della non corrispondenza tra atto/agire giuridico e realtà concreta, dovuta ad una non sufficiente considerazione di tutti e ciascuno gli elementi (soggetti, oggetti, circostanze) coinvolti. Nella Chiesa –comunità di fede– un tal genere di problematiche non può essere immediatamente indirizzato nell’alveo contenzioso, favorendo la contrapposizione di ‘diritti’ ed ‘interessi’ anziché la risposta possibile alle concrete necessità delle persone (singole) o dell’Istituzione come tale nel perseguimento dello scopo/meta comune.

È in questa prospettiva che i pochissimi elementi di Procedura amministrativa offerti dai Codici muovono con decisione –ad un primo livello– nella linea dell’autotutela e della conciliazione, mirando ad ottenere –attraverso un adeguato confronto formalizzato– una realizzazione efficace della volontà/istanza originaria, tanto del fedele che dell’Istituzione: così accade nella fase della c.d. Remonstratio. Lo stesso Ricorso gerarchico –secondo livello d’intervento– non esce da questa sostanziale impostazione appellandosi, semplicemente, ad autorità superiore ma competente nel merito per materia e giurisdizione.

Sarà soltanto il terzo livello, quello espressamente giudiziale, ad assumere le coordinate del vero contenzioso, quando ci si rivolgerà al Giudice (terzo per antonomasia) chiedendogli di riconoscere e definire il reale status quæstionis della situazione, pronunciando il Diritto tra le parti secondo quanto strettamente disposto dalla Legge. Tale intervento del “Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica” riguarderà la sola legittimità d’azione delle parti e non il merito della vicenda, in modo che la sua chiusura definitiva non appaia come espresso ‘giudizio’ nei confronti del Vescovo (o Superiore ecclesiastico in genere) e delle sue motivazioni, ma soltanto il ristabilimento del necessario equilibrio ecclesiale.


L’espletamento delle prime due fasi della Procedura (Remonstratio e Ricorso gerarchico) può convenientemente essere inquadrato come verifica a posteriori dell’inefficacia dell’atto/agire giuridico proprio attraverso il coinvolgimento anche formale di un soggetto intensamente coinvolto (spesso il destinatario) e precedentemente trascurato nelle proprie ragioni; gli apporti del metodo costruttivo anche in queste fasi appaiono decisivi per delineare correttamente tutti gli elementi coinvolti e le loro reciproche relazioni, permettendo la ri-costruzione dell’atto/agire giuridico in questione per una reale efficacia di quanto posto in essere.

La doppia applicabilità del ‘metodo costruttivo/ri-costruttivo’ così delineato permette ai due ‘rami’ dell’attività amministrativa canonica di trovarsi in continuità e corrispondenza tanto nella ordinaria ‘delineazione/costruzione’ di efficaci atti giuridici ecclesiali, che nella loro straordinaria ‘ri-costruzione’ in caso di inefficacia/patologia, offrendo unitarietà all’attività amministrativa canonica, che finisce così per concentrarsi su di un unico ‘oggetto’: l’atto (in)efficace; in tal senso anche gli stessi operatori ‘tecnici’ possono acquisire una corretta mentalità che li tuteli sia da una visione ingiustificatamente ‘contenziosa’ che da una semplicemente ‘prassistica’ della loro attività.


Se la sfida sia stata efficacemente affrontata, e con quale esisto, lo deciderà la riflessione dei prossimi anni …insieme alla preziosa benevolenza di chi vorrà dar fiducia a quanto qui illustrato e proposto.



in: APOLLINARIS, LXXXII (2009), 227-264.