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US DIVINUM: INADEGUATEZZA DI UNA FORMULA TESTUALE

L’intenzione ed il senso della presente ‘comunicazione’ all’interno della riflessione sullo “Ius divinum profondissima inadeguatezza della formula testuale “Diritto divino” sotto il profilo semantico –insieme alla relativa concettualizzazione–; nulla s’intende eccepire, invece, circa la dimensione contenutistica cui si è inteso rinviare sino ad ora utilizzando –impropriamente– tale formula. 

La questione semantica-concettuale si pone oggi con un forte rilievo soprattutto nel mancato/nte incontro con la cultura contemporanea, sempre più incapace di guardare alla sostanza delle cose e troppo spesso arrestata sulla soglia dei problemi a causa di un linguaggio parziale divenuto ormai incomprensibile, poiché non più condiviso nelle proprie linee portanti. In quest’ottica, l’uso di termini/concetti quali “diritto”, “divino” (ed anche “naturale”), generano una quantità tale di reazioni di diffidenza, scetticismo e contrarietà, che si rende ormai necessario convincersi della loro inadeguatezza ed infruibilità al fine di tutelare, invece, ciò che s’intenderebbe evocare attraverso tali formule. Anche l’assoluto silenzio del Vaticano II su questa formula non può lasciare indifferenti. 

Né si ritenga di poter continuare a trattare la questione da un punto di vista puramente ‘convenzionale’ come accade nell’ambio scientifico fisico-naturalistico, dove è la prospettiva nominalistica a farla da signora; già nel 1944, infatti, K. Popper aveva ribadito come nelle Scienze antropologiche ed umanistiche sia necessario adottare una prospettiva terminologica ‘essenzialistica’ che mantenga in stretta connessione la componente semantica e quella concettuale, pena l’impossibilità di capire cosa siano le cose Il percorso critico che s’intende offrire per illustrare efficacemente la tesi proposta avrà uno sviluppo cronologico regressivo (dall’oggi all’antichità) in modo da permettere di comprendere come i termini/concetti via via adottati abbiano condizionato lo ‘sviluppo’ della materia attraverso vere e proprie rotture dei paradigmi giunti sino ad esse, finendo per imporre concettualizzazioni spesso estrinseche ispetto al reale contenuto sino ad allora veicolato.

1. Diritto divino nella contemporaneità
Il primo passo da compiere in questa prospettiva è la presa di coscienza di cosa significhi immediatamente per noi, oggi, il termine/concetto “Diritto”. Già qui la precomprensione di ciascuno interviene in modo assolutamente parzializzante e, quindi, generatore di ambiguità concettuale: per il giurista europeo continentale e mediterraneo è impossibile sottrarsi all’idea ottocentesca di Diritto imposta dalla c.d. codificazione: il civil Law; per il giurista anglosassone, invece, lo stesso termine “Diritto” evoca un contesto ben differente, oltre che più assestato nel tempo, il c.d. rule of Law tipico dei sistemi di common Law. L’europeo continentale parla – indistintamente – di Diritto e diritti, l’anglosassone distingue tra Law e Rights.

Lo svilupparsi delle esperienze istituzionali trans-nazionali apre poi altri ambiti quali il c.d. Diritto comunitario (europeo) ed il Diritto internazionale; ad essi vanno aggiunte le esperienze differenziate dei c. d. Diritti delle religioni (o confessionali), in via di crescente prestigio ed interesse scientifico a causa del progredente pluralismo culturale soprattutto europeo4.

Che cosa sia, dunque, oggi “Diritto”, in un contesto inter-ordinamentale, inter-culturale ed inter-religioso non è certo cosa semplice da definire. Ciò comporta immediatamente che la formula “Diritto divino” non possa essere neppure concepita nella generica e generale contemporaneità a causa – almeno – della concreta indefinibilità della res che s’intende qualificare con la specifica della ‘divinità’.

Correttezza vorrebbe, pertanto, che si circostanziasse l’ambito ordinamentale – e culturale – di pertinenza in cui tale formulazione possa ricevere significato (il suo ‘dominio’ di esistenza): si tratta essenzialmente degli ordinamenti religiosi, quello canonico in primis che, tra l’altro, utilizza proprio tale formulazione testuale in modo espresso – per quanto molto cautamente5 – nei propri testi normativi. All’interno degli ordinamenti non-religiosi/confessionali, infatti, non si vede cosa possa significare la qualifica di ‘divino’ connessa ad una realtà che [a] nei regimi di civil Law risponde ad una concezione del Diritto come norma positiva autoritativamente promulgata dal legislatore formale, [b] nelle convenzioni e trattati internazionali sorge per condivisione di comuni vedute e risposte ad esigenze diffuse o per compromessi improcrastinabili; forse qualcosa potrebbe apprezzarsi nei regimi di common Law in cui il Diritto è espresso ‘per principi’ attraverso le sentenze delle Corti superiori, ma ciò rimane poco più che ‘evocativo’ e, di fatto, inconcludente ed infruibile nella prospettiva del “Diritto divino”.

La puntualizzazione cui si è giunti non risolve tuttavia il problema poiché la contestualizzazione ordinamentale – e culturale – ci pone ancora davanti alla domanda quid sit Ius in Iure canonico? In altri termini: la plausibilità della formula “Diritto divino” all’interno del Diritto canonico non risulta soltanto dall’accezione di ‘divinità’ indipendentemente dalla concettualizzazione del termine “Diritto”.

Diventa così naturale volgere la propria attenzione alle presentazioni sistematiche del Diritto canonico per ottenerne indicazioni e luce. L’esito di tale ricerca appare tuttavia deludente in quanto non si trova da nessuna parte una reale definizione di Diritto – come neppure di Diritto canonico – ma solo sue illustrazioni secondo una logica piuttosto standardizzata: il Diritto canonico si compone di due tipologie/qualità: il Diritto umano (mere ecclesiasticum) e quello divino, a sua volta ripartito in ‘naturale’ e ‘positivo/rivelato’.

La ricerca, dunque, per questa via giunge al proprio capolinea senza possibilità di procedere oltre, se non reinserendosi nel quadro non-parzializzato da cui si era partiti ed in cui la concezione di Diritto era rimasta il problema da risolvere.

 

2. Diritto divino nel secondo millennio cristiano

L’orizzonte di contemporaneità su esposto non è tuttavia il riferimento ‘naturale’ della maggior parte dei canonisti, né ecclesiastici né statuali (‘laici’ si sarebbe detto nel secolo scorso in Italia) i quali sogliono invece riferirsi a due distinte concezioni, rispettivamente: quella scolastica di referenza scolastico-suareziana e quella moderna di origine groziana.

 

2. 1. Grozio e Suarez

Il riferimento a Grozio (1583-1645) è probabilmente uno dei capisaldi della tematica così come recepita ancor oggi acriticamente dalla maggioranza dei giuristi; lo stesso tema di questo Convegno se ne mostra palesemente tributario, nonostante il tentativo di confinarne la trattazione all’interno della – sola – vita della Chiesa.

Snodo portante della dottrina del giurista protestante olandese è la distinzione, all’interno del Diritto non meramente umano, tra Diritto naturale e Diritto divino, distinti tra loro in base alla necessità o meno dell’intervento – diretto – di Dio. Secondo Grozio, infatti, il Diritto naturale è quello che varrebbe etsi Deus non daretur, mentre il Diritto divino non può che provenire dall’intervento diretto della divinità attraverso la Rivelazione biblica.

Una tale impostazione presuppone ed induce una strutturale alternatività – e, di fatto, contrapposizione – tra Diritto naturale e Diritto divino: un’opposizione che finisce per negare ogni contiguità e continuità tra le due categorie, separandone anche fondamenti e metodo: natura e ragione da una parte, Rivelazione e fede dall’altra. In tal modo l’ombra sottile del fondamentalismo fideistico protestante s’insinua come un bisturi che recide ed isola ciò che attiene direttamente a Dio attraverso la sola fides e ciò che rimane del semplice dominio di questo mondo (dannato) attraverso un’idea di “natura” non certo tributaria della cultura giudeo-ellenistico-cristiana.

È così che il padre del “Diritto naturale” moderno si rende orfano del Dio creatore per adrogarsi a quello soltanto redentore, ponendo le basi di una concezione giuridica che in tre secoli avrebbe finito per delegittimare tanto la categoria del Diritto naturale che quella del Diritto divino, pesantemente schiacciati dal Positivismo giuridico ottocentesco e dalle sue derive autoritarie e volontariste che, attraverso gli epigoni dell’Idealismo, avrebbero portato alle scelleratezze dei c. d. Stati etici nella prima metà del XX secolo.

Fu questo il vero problema che attirò le attenzioni della c. d. Scuola canonistica di Monaco fino a spingere E. Corecco a cercare in ogni dove –fino alla ordinatio fidei– qualche possibilità per ricucire lo strappo groziano6.

Di fatto la posizione groziana aveva rinnegato quella ormai ‘classica’ giunta fino a lui, per quanto in modo piuttosto confuso, e che F. Suárez (1548-1617), inaugurando la c. d. seconda Scolastica, aveva fissato con lucidità nella distinzione7 tra Diritto divino naturale e Diritto divino rivelato/positi-vo. Il doctor eximius, lungi dalla necessità – tutta protestante – di contrapporre creazione e redenzione, le aveva recepite come espressioni di un’unica opera divina coerente ed efficace che si dispiega lungo la storia. In tale prospettiva ciò che guidava l’agire umano poteva senza dubbio essere ricondotto a due grandi categorie: lo Ius humanum e lo Ius divinum in piena sinergia e coerenza con la cultura europea medioevale cattolicamente ispirata che di lì a poco sarebbe entrata in profondissima crisi.

Si noti come l’espressione Ius divinum in questo contesto culturale e teoretico sia di tutt’altra portata e consistenza concettuale rispetto a quanto avrebbe operato U. Grozio pochi anni dopo.

 

2.2. Tommaso

Quanto, tuttavia, efficacemente fissato da Suárez nell’unico genere “Diritto divino” (articolato nelle specie di naturale e rivelato) era frutto di un lungo travaglio cui avevano contribuito forse più i teologi che i giuristi nei secoli precedenti.

Fu infatti grazie all’apporto di S. Tommaso (1225-1274) che s’iniziò a ben distinguere tra Diritto divino e Diritto naturale sulla base di principi e considerazioni tutt’altro che giuridiche: «egli conosce evidentemente le prime frasi del Decretum che sembrano identificare i due. Egli ne trae un’obiezione, poiché la Legge naturale è la stessa presso tutti, mentre “tutti non obbediscono al Vangelo”. Tommaso risponde precisando il senso del testo di Graziano:

tutto ciò che si trova nella Legge e nel Vangelo non è di Legge naturale, poiché si trovano in essa delle cose che sono “supra naturam”. Ma le prescrizioni della Legge naturale “plenarie ibi traduntur”. C’è del resto un senso nel quale chiamare il Ius divinum “naturale”, poiché se certi articoli gli appartengono per pura positività della volontà divina, altri ne fanno parte “per naturam” in ragione della loro materia»8.

Per comprendere la decisività dell’intervento chiarificatore di S. Tommaso è bene ricordare come in antecedenza Stefano di Tournai (1128-1203), forse discepolo dello stesso Graziano, nel Proemio alla propria Summa aveva affermato addirittura che lo stesso Diritto canonico, che si trova legato alla volontà di Dio a più di un titolo (e tale volontà è chiaramente manifestata nella S. Scrittura) poteva esser qualificato come divinum, in quanto concernente le res divinæ9. Che l’indirizzo intrapreso – corretto poi da Tommaso – fosse di tutta devianza rispetto alla corretta concettualizzazione della tematica è palese.

 

2.3. Graziano

Il riferimento a Graziano su questo tema è imprescindibile, anche se il suo apporto reale alla tematica è molto inferiore a quanto normalmente ritenuto. Il tema dello Ius divinum, infatti, non risulta sufficientemente chiaro al maestro bolognese che nella explicatio terminorum con cui apre il Decretum (le prime XXII Distinctiones) non si cura affatto di darne né una definizione, né una illustrazione e neppure di elencarlo tra le formule e concetti ritenuti importanti per introdurre una tale opera10.

Di fatto Graziano, nel suo individuare i diversi generi di Diritto da presentare icasticamente agli studenti, nulla dice dello Ius divinum, mentre si riferisce spesso allo Ius naturale che riconduce direttamente – e ripetutamente – alle S. Scritture, riprendendo la tradizione giunta sino a lui: «Humanum genus duobus regitur, naturali vidilicet iure et moribus. Ius naturale est quod in lege et evangelio continetur, quo quisque iubetur alii facere quod sibi vult fieri» (D. I d. a. c. 1),

«Omnes leges aut divinœ sunt, aut humanæ. Divinæ natura, humanæ moribus constant» (D. I c. 1),

«Ius autem aut naturale est, aut civile, aut gentium» (D. I c. 6).

Come appare chiaramente – ed in modo incompatibile con l’esito di Grozio – “divino” e “naturale” sembrano corrispondersi reciprocamente tendendo ad identificarsi; si evidenzia così in Graziano una sostanziale confusione, senza accenni di possibili sviluppi chiarificatori. Il maestro, d’altra parte, non pare cogliere l’incongruità della sua posizione poiché per lui, come in genere per gli uomini del suo tempo, tutto deriva dalla volontà di Dio e la corrispondenza diretta ragione-natura – così decisiva a partire dalla Modernità (protestante) – non ha nessun rilievo. Tale posizione viene strutturatas e ‘stabilizzata’ dai glossatori e decretisti dei secoli successivi che non trovano, comunque, altro esito che l’identificazione tra Ius naturale e Ius divinum in ragione del loro comune procedere da Dio “summa natura” (Uguccione da Pisa)11.

Considerando l’utilizzo di Graziano quale ‘fonte’ per la canonistica successiva12 – non senza stravolgimento per la sua opera –13, diventa quindi necessario attribuirgli solo le caratteristiche e funzioni proprie di una ‘fonte’ e non, invece, quelle di una ‘dottrina’, più o meno compiutamente, organizzata e sviluppata; diventa così di grande significatività l’esame delle ricorrenze testuali della formula esplicita “Ius divinum” nel Decretum Gratiani. La ricerca testuale offerta dalla sua pubblicazione on-line secondo l’edizione del Friedberg del 187914 –per quanto solo ‘statistica’– evidenzia che le ricorrenze della formula sono soltanto sette15, concentrate in quattro soli capita:

- D. VIII, C. I (3 ricorrenze): «Iure divino omnia sunt communia omnibus: iure vero constitutionis hoc meum, illud alterius est»16;

- C. XXIII, Q. VII, C. 1 (2 ricorrenze): «Res terrenæ non nisi divino vel humano iure tenentur»;

- C. XII, Q. II, C. LXXII (1 ricorrenza): «Qui beneficium ab Ecclesia accepit, eius professionem nomine precariæ faciat»;

- C. XVI, Q. I, C. LXVIII (1 ricorrenza): «Liberum est clericis monachis decimas concedere».

È tuttavia l’analisi testuale e contenutistica ad offrire il rilievo di maggior significato: in tutte le sette ricorrenze la materia de qua è di carattere patrimoniale, con espresso rimando alla necessità di gestire tale materia secondo le norme ‘umane’ che regolano la proprietà e gli altri diritti reali; ne deriva con immediatezza la conferma dell’assoluta ‘precarietà’ concettuale della formula in Graziano e la sua totale infruibilità in termini sistematici e ‘dogmatici’.

 

3. Diritto divino nel primo millennio cristiano

3.1. S. Agostino

Concretamente la posizione grazianea si fonda sull’assunzione – parecchio acritica – della posizione attribuita a S. Agostino il quale, secondo la miglior dottrina, avrebbe avuto il merito di aver “introdotto” il termine Ius divinum proprio in rapporto alla S. Scrittura: «Divinum Ius in [sacris] Scripturis habemus»17, consegnando così ai posteri un ‘punto di vista’ che avrebbe fatto storia, divenendo un appoggio sicuro per i canonisti dal XII sec. in poi. Il punto è, a proposito di tale testo, che l’affermazione agostiniana sul Diritto divino in realtà non è ‘sua’ ma da lui colta sulle labbra dei suoi oppositori: gli eretici donatisti. Sono essi, infatti, che rivendicano diritti di pro-

prietà ecclesiastica (ville e poderi) in nome di un ‘presunto’ Diritto divino. A tal proposito è necessario osservare che si tratta di una questione non dottrinale in cui il Diritto divino intervenga in recto, ma di una questione patrimoniale in cui la posizione di S. Agostino è a tutto favore del c. d. Diritto umano che gestisce la proprietà dei beni materiali in base alle Leggi imperiali romane. Va anche osservato che l’espressione “Diritto divino” si trova connessa e contrapposta al Diritto umano (sostenuto da S. Agostino), configurando così la posizione classica della tematica in cui il Diritto divino – ma anche (l’equivalente) Diritto naturale – non appare da solo a qualificare direttamente – in modo ‘ontologico’ – qualcosa, ma in contrapposizione col Diritto umano... a sua ‘diminuzione’, contestazione e ridimensionamento delle pretese18. Non è un caso che i canonisti si pongano concretamente il problema teoretico dello Ius divinum proprio riferendosi alla Teoria della plenitudo potestatis pontificia che trova in esso il proprio – unico – argine19.

Di fatto gli eretici donatisti coi quali polemizza S. Agostino rivendicavano la proprietà di beni materiali donati alla Chiesa nella persona del Vescovo Faustino appellandosi al Diritto divino contro le Leggi romane sulla proprietà ecclesiastica (cattolica) difese, invece, da S. Agostino. In questa prospettiva appare con chiarezza come la posizione de Iure divino sia proprio quella contrastata da S. Agostino che rivendica solo alla ‘vera’ Chiesa la piena, valida e legittima proprietà di ville e terreni in base al Diritto imperiale (umano) e contro la presunta portata di quello divino sostenuto dagli eretici donatisti.

Agostino, tuttavia, non esita neppure a confrontarsi con l’istanza ereticale addotta, ed affronta di petto la tematica del Diritto divino oppostagli, mostrando chiaramente come non si tratti di qualcosa di ‘giuridico’ quanto, invece, ‘teologico’: «ma, tu dici, si tratta di Diritto divino. Leggiamo allora il Vangelo, e vediamo fin dove la Chiesa cattolica appartiene a Cristo»20; da qui il santo dottore ricava la corretta identificazione della vera Chiesa: quella cattolica e non quella donatista, eretica. D’altra parte, se qualcosa si può chiedere alle S. Scritture circa la materia contesa, non si potrà che porger loro una domanda ‘teologica’: quale sia la vera Chiesa! Nulla di diverso, nulla di più. La titolarità dei beni patrimoniali sarà conseguenza della corretta identificazione dei suoi veri assegnatari. Di fatto oggi sarebbe bizzarro pensare che si possa chiedere al Vangelo di risolvere de Iure divino una contesa sui ‘titoli’ di proprietà.

 

3.2. Il Nuovo testamento

Senza dubbio interessante nel percorso ricostruttivo che stiamo seguendo risulta la posizione del NT che, seppure mediatamente, fa emergere una situazione di sicuro impatto ‘dogmatico’ già propria del Giudaismo intertestamentario, conoscendo una pluralità di testimonianze circa la debolezza dell’idea di una diretta paternità divina della Legge mosaica.

 

3.2.1. Scritti apostolici Si tratta della progressiva coscienza maturata già all’interno del

Giudaismo circa la non-piena riconducibilità a Dio stesso – neppure – della Legge mosaica come tale. Si passa infatti dalla concezione più antica della Legge scritta da Dio stesso col proprio “dito”21 a quella di cui è testimone il protomartire Stefano nel suo discorso a Gerusalemme in cui degli ‘angeli’ e non Dio stesso l’avrebbero consegnata a Mosè (At 7, 38. 53). La diffusione e solidità di questa posizione giudaica è confermata da altri due agiografi neotestamentari: S. Paolo nella Lettera ai Galati (Gal 3, 6) e l’autore della Lettera agli Ebrei (Eb 2, 2): tre diversi autori non identificabili in un unico pensiero22. L’evoluzione indicata, inoltre, riguarda non solo il referente di Mosè: angeli invece di Dio stesso, ma anche lo ‘strumento’ della consegna: Ebrei parla di “parola”, mentre Esodo aveva le “tavole di pietra”. Il testo chiave, però, risulta essere Gal 3, 6 in cui: «ispirandosi a certe tradizioni giudaiche, Paolo dichiara che la Legge è stata “istituita per opera di angeli” (cfr. At 7, 38. 53; Eb 2, 2); l’espressione, ambigua, può presentare gli angeli come intermediari al servizio di Dio per la trasmissione della Legge o come autori della Legge. Il movimento del pensiero favorisce qui questo secondo senso: la Legge non è stata istituita da Dio, ma dagli angeli»23, opinione testimoniata – fuori dall’ambito cristiano – anche dallo storico G. Flavio nelle sue “Antichità giudaiche”24. La stessa posizione è attestata nel giudaico “Libro dei Giubilei” del II sec. a. C.25

Quello che si nota all’interno dello stesso Giudaismo e, proprio per questo merita maggiore attenzione, è il doppio movimento di centramento sulla Legge, caratteristico del periodo esilico e post-esilico e della diaspora ellenistica, ed il contemporaneo (correlato?) allontanamento della Legge dalla sua ‘fonte’ diretta in Dio stesso. Tanto maggiore è il peso che la Legge acquista, fino a configurare il movimento farisaico (distaccato dall’economia templare) e quello esseno (Qumran), tanto minore risulta il suo legame ‘diretto’ a Dio stesso, tutelato nella sua assoluta trascendenza dall’intromissione di diversi elementi di mediazione tra Lui ed i destinatari/cultori della Legge. Il fenomeno è senza dubbio di grande rilievo, poiché la portata delle concezioni giudaiche sulla mediazione (interposizione) angelica aumenta quanto più cresce l’attaccamento alla Legge stessa; logica ordinaria – invece – vorrebbe l’esatto contrario: che, cioè, col crescere della præstantia Legis la si appoggiasse sempre più saldamente sull’azione diretta della divinità, in un processo di sacralizzazione della Legge stessa. Proprio quanto è dato constatare, invece, a riguardo delle logiche del Diritto divino cui stiamo dedicando la nostra attenzione.

Ci si trova dunque con tutta evidenza dinnanzi ad una lectio difficilior che permette di prendere sul serio quanto testimoniato disgiuntamente da più fonti tanto giudaiche che neo-testamentarie; in tale prospettiva non sarebbe di nessuna decisività per l’importanza della Legge la sua diretta ed immediata derivazione divina!

 

3.2.2. Vangeli Pur non trattando specificamente la questione, lo stesso Gesù, nella sua

predicazione, distingue spesso tra “opera di Dio” e “tradizioni degli uomini”. Una distinzione che diventa anche stretta contrapposizione tra le “vostre tradizioni” e la “volontà di Dio”, tanto connessa alla creazione che alla liberazione dalla schiavitù egizia ...delineando autorevolmente in nuce – se così qualcuno volesse – la stessa distinzione tra Diritto divino naturale e Diritto divino rivelato/positivo.

Divorzio, purità rituale, consacrazione patrimoniale (korban), sono veri e propri Istituti giuridici della legislazione giudaica che Gesù pone sotto esame critico, fino alla irrevocabile bocciatura: “tradizioni umane” tramandate in aperto contrasto col “comandamento di Dio”!

 

4. Diritto divino prima/fuori del Cristianesimo

Pur avendo già ripercorso a ritroso circa due millenni di formulazioni testuali e concettualizzazioni in tema di Diritto divino, la trattazione non può ancora arrestarsi appagata dai propri risultati, poiché l’armamentarium a nostra disposizione permette di spingersi più indietro ancora: per almeno un altro millennio, raggiungendo le stesse scaturigini della semantica giuridica.

 

4. 1. Concetto romano antico di ‘Ius’ La fase più antica ed in qualche modo fontale della terminologia in oggetto è emblematica nella sua significatività intrinseca: dire “Ius divinum” nell’antichità romana sarebbe stata una vera tautologia o un non sens, poiché già lo stesso concetto di Ius era espressione di ‘divinità’; l’esercizio della Iurisdictio era infatti riservato ai sacerdotes-pontifices. L’evoluzione della pratica giuridica è comunque costante (e parallela in diversi Ordinamenti giuridici) nel testimoniarne una progressiva ‘laicizzazione’ dal iudicium al processum; il percorso romanistico è ben noto e non chiede specifiche ulteriori.

In prospettiva semantica e concettuale va posta attenzione all’origine attribuita al termine “Ius” come riferimento – per quanto nebuloso – ad un intervento divino che stabilisce il Diritto pronunciandolo: Ius dicere.

A ben vedere la realtà sottesa a tale riferimento non si riferisce affatto alla presenza di una normativa divina sconosciuta agli uomini e che solo i sacerdotes-pontifices possono attingere caso per caso consultando la divinità sul Diritto come tale. Ciò a cui si riferisce tale dinamica è infatti ben diverso, trattandosi unicamente della pronuncia hic et nunc dello Ius inter (hæc) partes: si trattava, in realtà, di un’ordalia: un giudizio, una sentenza divina che attribuisse ad uno dei contendenti la definitiva posizione di favore, certa ed indubitabile poiché divinamente espressa e garantita.

Lo Ius attinto dai sacerdoti non era la regola nascosta che regge l’universo – il Diritto come essenza trascendente sconosciuto agli uomini ma mutuabile nel rapporto con la divinità –, ma la dichiarazione (decretum/iudicium/sententia) del concreto e puntuale successo di un contendente sull’altro: un vero ‘arbitrato’ divino. Si trattava di un’attività ordalica (giudizio di dio) di natura divinatoria (per mezzo di formule, riti ed altro per interrogare la divinità) attraverso la quale chiedere al dio il responsum circa la verità delle affermazioni delle parti convenute in iudicio. In tale contesto alla divinità non si chiedeva affatto di dare o svelare ‘norme’ appartenenti ad un livello ‘superiore’ di giustizia o equità; alla divinità si chiedeva – molto più semplicemente – d’indicare quale dei contendenti avesse ragione. La divinità rispondeva in vario modo (e lo si chiedeva in vario modo) indicando uno dei due contendenti: quello dei due che avesse affermato la verità circa i fatti in questione; niente di più! In tali fasi dell’esperienza giuridica antica non sono presenti vere e proprie Leggi, né una struttura di ‘governo’ che le applichi.

A tale fase succede quella in cui s’inaugura un’elementare attività giurisdizionale che si svolge per actiones a fronte della mancanza di un vero Ius – generale e preventivo –; è proprio ed esattamente – e solo – a questa fase che dev’essere ricondotta l’affermazione di Javoleno secondo cui «omnis definitio

in Iure civili periculosa est: parum est enim ut non subverti possit»26. In tale fase

della vita giuridica romana, infatti, non esisteva un vero Ius tematizzato e sistematico tale da potersi applicare, ma solo la possibilità di chiedere al Prætor che venisse concessa un’actio per veder tutelati i propri interessi: non si parlava ancora di ‘diritti’ (soggettivi), che sorgeranno solo dalla Modernità. Lo svolgimento dell’actio per sacramentum è emblematico: i contendenti si sfidavano – inizialmente davanti alla divinità – col giuramento.

In tutto ciò non c’era nulla che assomigliasse in qualche modo al Diritto secondo la nostra attuale concezione, ma soltanto un pronunciamento definitivo che chiudeva la questione: un responsum, una sententia, un decretum...

Solo molto più tardi, con l’affermarsi dell’autoritatività del governo pubblico (Principato e Dominato) si affermerà anche una vera funzione legislativa (a priori) a fianco di quella giurisdizionale (a posteriori).

Di fatto il nostro ‘Ius divinum’ nella romanità avrebbe meglio corrisposto al concetto di ‘fas’ nel senso di ‘volontà divina’; non tuttavia nell’accezione volontarista-autoritativa di stampo moderno kelseniano, ma in quella intensionale: l’intendimento, il pensiero della divinità... proprio come l’intese lo stesso Graziano sulla scia di Isidoro di Siviglia: «§. 1. Fas lex divina est: ius lex humana» (D. I c.1), in cui fas e Ius finiscono per indicare concetti e realtà non solo diversi ma anche contrapposti27.

 

4.2. Altre forme ‘originarie’ di Ius La modalità riferita per le fasi più antiche del Diritto romano non si limi-

ta a questo soltanto ma trova espressa testimonianza anche nel mondo ebraico antico nell’attribuzione al ministero sacerdotale di ‘dichiarare’ la sententia Dei attraverso il ricorso alle ‘sorti’, utilizzando strumenti di divinazione quali ’Urìm e Tummìm assegnati ai sacerdoti ebraici: è a loro che si ricorreva per conoscere il ‘responso’ divino; di Mosè che rivestiva Aronne con gli abiti da sommo sacerdote si dice che «gli mise anche il pettorale, e nel pettorale pose gli ’Urìm e i Tummìm» (Lv 8, 8)28 quale dotazione ministeriale.

’Urìm e Tummìm «designano una tecnica divinatoria tratta da successive estrazioni a sorte, a partire da due sassolini o bastoncini, o altro oggetto simile. Il primo portava la prima lettera dell’alfabeto, l’alef, iniziale di ’urìm, e il secondo l’ultima, la taw, iniziale di tummìm»29 – un antico ‘testa o croce’–. Si trattava di una risposta ottenuta progressivamente attraverso successivi ‘sì’ e ‘no’, dal più generale al più particolare, fino a designare univocamente – per esclusione – un unico elemento; la procedura è ben illustrata in 1Sam 14, 41-42.

Nel giudizio ‘arbitrale’ antico un tale procedimento sostituiva l’assenza tanto di una vera tecnica processuale che delle Leggi poste alla sua base secondo cui pronunciare la sentenza. Con lo stabilizzarsi della monarchia in Israele il suo uso pare decadere progressivamente: «se ne fa menzione una sola volta dopo il regno di Davide»30, anche in considerazione del fatto che 19                primo compito del re ebraico era proprio l’amministrazione della giustizia31.

Altre forme divinatorie di giudizio sono riportate nell’AT: la sfida del Monte Carmelo tra il profeta Elia ed i quattrocentocinquanta profeti di Baal e quattrocento di Asera (1Re 18, 20-40) ne è testimonianza, anche letteraria, di grande impatto ed autorevolezza.

La modalità divinatoria di sentenziare è rimasta ampiamente diffusa tra i popoli barbarici europei fino al Medioevo, esprimendosi sia nella vera e propria ordalia che nel combattimento giudiziario.

L’ordalia o “giudizio di Dio” consisteva nel passaggio sui carboni ardenti, o altre ‘prove’ del genere, cui si ricorreva spesso per decidere chi avesse affermato il vero e chi il falso; la letteratura dell’epoca abbonda di esempi e testimonianze soprattutto per casi assolutamente indecidibili quali l’eresia o il tradimento: in tal caso l’accusato veniva sottoposto ad una prova ordalica il cui superamento positivo lo scagionava da qualunque accusa.

Il combattimento giudiziario, detto anche processo per combattimento, tro-

vava larga applicazione presso le popolazioni germaniche: Franchi, Turingi, Frisoni, Sassoni e Longobardi, che lo ammettevano anche per Legge32; anche se la Legge Salica del VI secolo ne proibì l’uso, esistono testimonianze dei tempi di Carlo Magno del suo frequente utilizzo e della sua sostanziale ammissibilità. La diffusione del combattimento giudiziario, particolarmente adatto all’indole di quei popoli, era rafforzata dalla convinzione (cristiana?) che, essendo Dio la verità e la giustizia, Egli non avrebbe permesso che nel duello prevalesse l’ingiusto – dimensione ordalica –33.

 È interessante notare come tale ‘tecnica’ di decisione abbia rappresentato spesso nel Medioevo l’extrema ratio decidendi dopo l’inutile ricorso a successivi giudizi condotti in base allo Ius riconosciuto come vigente; lo testimonia efficacemente il celebre “giudizio di Garfagnolo” del 1098 ordinato dalla Contessa Matilde di Canossa per definire una contesa pluridecennale cui giudici e ‘legisti’ non avevano potuto dare soluzione34. L’avversione ecclesia

stica e canonica a tali prassi risulta costante: «Rodolfo Niger che insegnava a Parigi [...] dice che la rinascita del Diritto romano e della relativa scienza era ispirata in senso antigermanico, [...] perché la Chiesa era contraria al parvus ritus iudiciorum germanico, ossia al duello, al giuramento. [...] Si sa in effetti che la prassi giudiziaria italiana, specialmente nei territori più influenzati dalla Chiesa, tendeva sin dall’XI secolo non solo ad adottare il sistema probatorio romano, ma in generale a riqualificare il processo applicandogli regole giustinianee»35.

L’impossibilità in tali contesti – trans-culturali – di pensare ad una qualsiasi tematizzazione e consistenza di uno Ius divinum differente dalla pura solutio causæ è palese ed aiuta a rendersi conto dell’assoluta inadeguatezza sia della formulazione testuale che del concetto sotteso già fin dagli albori della giuridicità, senza neppure il bisogno di giungere alla frattura groziana per coglierne l’incongruità.

 

5. Considerazioni concettuali

Per poter fruire efficacemente dei risultati del discorso sin qui articolato, è necessario riconoscere che il problema è innanzitutto metodologico-cognitivo nel seguire il corretto iter secondo cui la conoscenza umana passa dalla percezione alla tematizzazione alla concettualizzazione alla denominazione.

L’importanza di tale iter è decisiva in quanto è la struttura stessa della comunicazione umana a dettarne le regole, finendo per toccare anche profondamente gli stessi contenuti cognitivi36. Di fatto gli uomini comunicano attraverso le parole –i termini– secondo una logica basata sulla –presunta– condivisione dei loro significati; in tale attività i termini sono ‘segni’ che rimandano a significati ma non s’identificano coi significati stessi. Ne consegue che nella comunicazione ‘passa’ solo ciò che in qualche modo è già presente alla conoscenza del soggetto ricevente ed ogni ‘novità’ tende sempre ad essere acquisita come semplice ‘variante’ (o nuova ‘connessione’) dei concetti/termini già posseduti; i termini stessi saranno, a loro volta, lo strumento di scambio dei concetti sottintesi (quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur).

È inevitabile, allora, dover verificare la corretta corrispondenza tra la formulazione semantica “Diritto divino” e la sua reale concettualizzazione, in modo da rendersi conto se il concetto che s’intende (pretende) esprimere sia di fatto adeguato ai termini utilizzati (essenzialismo metodologico).

 

5.1. Apporti teologici

Dopo il percorso storico sin qui proposto ci si concentrerà ora su alcune autorevoli considerazioni proprio in materia di Ius divinum, cercando di verificarne l’attuale portata contenutistica nella riflessione teologica... visto quanto sia debole la sua consistenza giuridica.

Scriveva già vent’anni orsono il teologo Y. Congar: «il faut d’abord s’entendre sur “Droit divin”. Est de Droit divin ce que nous connaissons institué par Dieu (per le Christ) selon la témoignage des Ecritures canoniques. On y ajoute aussi le témoignage oral des Apôtres s’il nous était accessible, amis il ne l’est pas de façon assurée»37; «l’espressione Ius divinum è ambigua. Ciò che essa designa in tal modo è stato raramente espresso in proposizioni giuridiche. S’è trattato il più delle volte, sia di realtà istituite da Dio, almeno nel

loro principio (esempio: il ministero pastorale apostolico), sia di una volon3       tà di Dio riconosciuta dalla Chiesa, sia d’un mandato ricevuto da Cristo»38.

Nella propria riflessione sul tema Congar non aveva mancato neppure di osservare come: «il Vaticano II non parli mai di Ius divinum, mentre il Codex [pio-benedettino] e certi schemi delle Commissioni preparatorie del Concilio ne facevano uso. Il Concilio dice “ex divina institutione; Christus instituit; divinitus institutum”. In questo il Concilio, come in tanti altri domini, è ritornato ad una tradizione più antica dove il termine institutio aveva il senso attivo dell’atto del fondatore, nel nostro caso Dio o il Cristo»39.

Non solo: ma in tutti i Concili ecumenici la formula Ius divinum fu utilizzata solo otto volte40, preferendosi spesso un equivalente teologico – estremamente più preciso sotto il profilo giuridico (che così evidentemente non è evocato) – nella formula “ex divina institutione”, utilizzata tanto dal Vaticano I che II. Ciò nonostante il problema del riconoscimento del “grado” di pregnanza delle diverse formule rimane aperto poiché institutio Christi, a Christo institutum, quod Christus instituit, statuente Domino, auctore Domino, divinitus institutum, disponente Domino, non sono certo collocabili secondo una scala gerarchica e continuano a richiedere, caso per caso, una precisa contestualizzazione letterale, logica, storica, teologica e pre-canonica41; oltre la possibilità –sempre raccomandabile– di precisare l’espressione utilizzata, come fece

ripetutamente il Concilio Vaticano I nella Costituzione “Pastor Æternus” attraverso gli avverbi: «inmediate et directe»42.

Osservava in merito T. Jiménez Urresti (canonista e teologo) come non esista espressione teologica così equivoca ed “elastica”, utilizzata da teologi,  canonisti e Magistero in modo vario e sorprendete43: «gli autori divergono sul l’origine di “Ius divinum”: chiamano Ius divinum (naturale) il Diritto naturale, e Ius divinum (positivum) il formalmente e direttamente rivelato. Circa il contenuto, alcuni chiamano Ius divinum tutta la norma rivelata, quale il Decalogo; altri, solo tutta la norma rivelata di comportamento ecclesiale sociale

o/e istituzionale, quale la seconda tavola del Decalogo; altri soltanto ciò che è strutturale ecclesiale istituito da Cristo, quale la norma del Battesimo (Gv 3, 5); altri anche ciò che fu istituito dall’autorità della Chiesa primitiva, guidata dallo Spirito ed ancora costitutiva di Rivelazione; altri anche dall’autorità postapostolica suprema-universale, che è potestà divina vicaria di Cristo nell’esercizio guidato dallo Spirito (quest’ultimo dovrebbe dirsi pure di ogni norma ed atto singolo legittimo di ogni autorità ecclesiale legittima in ragione della sua potestà “divina vicaria”, soprattutto secondo la tesi che tutta la potestà nella Chiesa è “divina vicaria”, senza che nessuna potestà sia propria).

L’uso, anche del Magistero, della formula “ius divinum” e di tutte le equivalenti è equivoco»44.

Il parere di K. Rahner in proposito pare conclusivo: «lasciamo agli esegeti, ai cultori di Teologia biblica, agli esperti di storia dei dogmi e di storia del Diritto ecclesiastico il giudicare se con questo concetto vien loro reso un buon servizio, quando sulla base della convinzione cattolica, che vede una continuità essenziale tra la Chiesa cattolica attuale e l’istituzione creata da Gesù e la Chiesa primitiva, cercano di dimostrare anche sul piano storico come la Chiesa odierna sia sostanzialmente già contenuta nella comunità di Gesù sempre viva anche dopo la sua ascensione al cielo, e precisamente come la forma esemplare vincolante su cui noi dobbiamo ricalcare l’attuale Comunità dei Fedeli. Se essi ritengono di non aver bisogno di questo concetto, se le cose vanno “anche più lisce” nel dimostrare la doverosa e impegnativa continuità sussistente tra la Chiesa cattolica odierna e la Chiesa primitiva, nel trovare una prova che pure –si noti bene– secondo la Teologia fondamentale, va portata per via storica e non limitandosi solo a dedurla dal presupposto della fede esistente nella Chiesa cattolica a questo riguardo, allora il concetto da noi sviluppato può anche venir reputato una sottigliezza superflua»45.

 

5.2. Apporti canonistici

Sulla scia di quanto già segnalato da Y. Congar per il Vaticano II, è interessante notare anche come la formula “Diritto divino”, pur presente nel Codice del 1983, vi compaia però solo 8 volte46 ed in generale opposizione al Diritto umano o ‘civile’, palesandone una portata non fondativa sotto il profilo giuridico quanto piuttosto “tutoria” di un’integrità assiologica sicuramente extra-giuridica cui non è possibile derogare.

Non di meno, il lungo e travagliato cammino della revisione codiciale seguita al Concilio portò anche la stessa “Pontificia Commissio Codicis Iuris Canonici Recognoscendo” ad esprimersi direttamente in questa materia47 in relazione ai ‘contenuti’ dell’elaboranda “Lex Ecclesiæ Fundamentalis”, in una prospettiva metodologica e contenutistica non certo paragonabile ad altre discussioni dei diversi Cœtus studiorum, né alla dottrina dominante:

«4. Utrum præscripta Legis divinæ tantum an etiam præscripta Iuris ecclesiastici continere debeat, discussum est.

Duplex proposita est sententia:

a) de sententia aliquorum, Lex Fundamentalis ea sola præscripta enuntiare debet quæ sunt Legis divinæ, et magis indagandum est quænam ad Legem divinam pertineant quænam non;

b) de sententia aliorum, Lex Fundamentalis ultra præscripta Legis divinæ, continere debet dispositiones quæ traditione, præsertim si antiqua est, receptæ sunt: historica evolutio, quæ in Ecclesiæ structura locum habuit, negligi nequit.

Post disceptationem, conclusio unanimiter recepta est, secundum quam Lex Fundamentalis certo præscripta Legis divinæ continere debet quæ ad structuram Ecclesiæ pertinent, sed ad hæc sola præscripta coarctari non potest, quia structuram Ecclesiæ præbere debet uti est, inspecta etiam traditione et historica evolutione, legitime stabilita. Admissa est hæc conclusio, eo vel magis quod haud raro difficile, immo vel impossibile, determinare cum certitudine est quænam sint Legis divinæ quænam institutionis ecclesiasticæ præcepta»48.

 

5.3. Altri apporti contenutistici Qui giunti, non si può ignorare come alla radice del concetto “forte” di Ius divinum giunto fino a noi, stia una precisa ed esplicita concezione estrinsecista del rapporto Dio-realtà tipicamente protestante: quello espresso ed ‘introdotto’ da U. Grozio. In tale prospettiva il divinum, tanto nella forma della salvezza che in quella dell’autorità – e della conoscenza – si aggiunge al reale dall’esterno. La visione dualista che anima il Protestantesimo sotto il profilo soteriologico (due Chiese, due Imperi ecc.) nasconde in realtà un ben più profondo dualismo nella concezione stessa del reale che esploderà nel kantismo.

 

Proprio in quest’ottica va notato come un tal genere di approccio al reale esprima una chiara concezione non-cognitiva: tutta la realtà, “naturale” e “divina”, si coglie solo con la fede che “aggiunge” ab extrinseco quanto la ragione non può cogliere49; in questo modo il divinum si presenta come voluntas/auctoritas che dall’esterno “completa” la realtà (creata ma) “dannata”. Anche un atteggiamento implicitamente nominalista (comunque non estraneo a chi troppo vuol dedurre in modo formale) ha avuto la propria parte attiva in questa visione non-cognitiva e fideista del reale, impedendo l’univocità di predicazione degli attributi. La stessa analogia – impiegata non correttamente – ha finito per mantenere costanti le formule testuali di sempre, risignificandole tuttavia radicalmente secondo l’utilità del momento, ma impedendo che venissero colti i cambiamenti concettuali intervenuti nel frattempo; il confine, infatti, tra somiglianza e polisemia è spesso parecchio labile.

 

6. Criticità complementari

Il tema sin qui sviluppato non può evitare di confrontarsi con alcuni elementi critici già parzialmente menzionati che, per quanto non espressamente canonistici, tuttavia appartengono incontestabilmente alla ‘storia’ della formula testuale “Diritto divino” – eventualmente naturale – ed ai significati connessi; primo tra tutti lo strutturale antagonismo concettuale del Diritto divino rispetto al Diritto umano.

 

6.1. Diritto divino e diritto umano

Il riferimento all’Antigone è chiaro50. Le “Leggi degli dei” si oppongono radicalmente a quelle degli uomini: le contestano nella loro pretesa assolutezza, ne sconfessano l’inderogabilità; impongono ai legislatori e governanti umani di superiorem recognoscere. L’ordine e l’interesse collettivo della società umana – propugnati da Creonte – non possono imporre il sacrificio di nessuna vita umana, né punire l’inosservanza di Leggi palesemente ingiuste, quali il divieto di sepoltura del fratello, in questo caso.

 

Nella stessa linea si colloca la posizione cattolica classica a partire già da S. Agostino e ripresa da Tommaso: una Legge ingiusta non è neppure Legge... tanto meno potrà essere Diritto51!

«Unde inquantum habet de iustitia, intantum habet de virtute Legis. In rebus autem humanis dicitur esse aliquid iustum ex eo quod est rectum secundum regulam rationis. Rationis autem prima regula est Lex naturæ, ut ex supradictis [q. 91, a. 2, ad 2] patet. Unde omnis Lex humanitus posita intantum habet de ratione Legis, inquantum a Lege naturæ derivatur. Si vero in aliquo a Lege naturali discordet, iam non erit Lex, sed Legis corruptio»52.

 

Con evidenza Diritto divino ed umano non si collocano sullo stesso piano: riguardano l’unico agire delle stesse persone ma in prospettive radicalmente diverse; etico-fondativa la prima, meramente funzionale la seconda.

Esattamente in quest’ottica si era posta la questione fin dagli inizi, al punto che, come ben visto in Graziano, non pareva esistere sostanziale differenza tra Diritto divino e Diritto naturale, salvo riconoscere la ‘divinità’ del Diritto naturale stesso ed affiancarlo con quanto “contenuto nel Vangelo” (secondo S. Tommaso): il Diritto divino rivelato/positivo.

Dal XII secolo, tuttavia, la progressiva affermazione della cultura giuridica e delle attività e dottrine connesse, diede corso ad una serie di ‘variazioni’ concettuali e semantiche tali che, «le scuole dei legisti essendosi staccate da quelle canonistiche in cui si era verificato il primo ritorno a Giustiniano, il Diritto naturale ha dovuto cambiare faccia e assumere quella che gli disegnava il Digesto. La sua vecchia identificazione con il Diritto divino continuerà talvolta a riecheggiare fievolmente nelle aule civilistiche, ma solo perché l’eco ne veniva da quelle dei decretisti seguaci di Graziano»53.

Si colloca, ancora, in questo contesto di ‘resistenza’ del singolo soggetto (o di specifiche comunità) verso le pretese dell’organismo societario o statale anche la tematica dei c.d. diritti umani/fondamentali cui oggi si attribuisce tanta importanza54. L’ambiguità del termine non ne nasconde la radicale diversità dai c.d. diritti soggettivi che i singoli Ordinamenti riconoscono (o no) ai propri (ed altrui) cittadini. Al di là dell’accettabilità o meno dei fondamenti giusnaturalistici posti alla loro radice teoretica a partire dal Rinascimento-Modernità, la loro concettualizzazione risulta indubitabilmente ‘tutoria’ ed anti-legalistica; fondata su altri elementi e principi rispetto a quelli delle società di riferimento (Diritto umano-positivo).

Non risulta da meno la prospettiva, recentemente espressa, di chi addirittura arriva ad identificare – di fatto – il Diritto divino con i diritti umani. In un recentissimo articolo, infatti, C. Comotti dopo aver osservato che secondo il Magistero pontificio più recente: «la fonte ultima dei diritti umani, “universali, inviolabili, inalienabili”, non si colloca dunque nella mera volontà dei consociati, nella realtà dello Stato, nei poteri pubblici, ma nell’uomo stesso e in Dio suo Creatore. Conseguentemente, essi esprimono “norme inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore [...]. Sono infatti norme che precedono qualsiasi legge umana: come tali, non ammettono interventi in deroga da parte di nessuno”»55, continua affermando che: «dal punto di vista canonistico, siffatta individuazione del fondamento dei diritti umani obbliga a ritenerli vigenti anche nell’Ordinamento della Chiesa, nel quale ogni disposto di produzione ecclesiastica che si ponga in contrasto con il Diritto divino (naturale o positivo) deve ritenersi radicalmente “incostituzionale” ed addirittura privo di efficacia giuridica»56.

L’identificazione è palese e certamente non poco problematica, né la tradizione canonistica pare abbia mai intrapreso un tal genere di direzione.

 

6.2. Diritto naturale

Non si può neppure trascurare, a proposito dell’antica identificazione/coestensione del Diritto divino e di quello naturale – fino a Graziano –, che secondo gli antichi Romani il Diritto naturale riguardava anche gli animali! Scriveva infatti Ulpiano (+ 228 d.C.) nelle proprie Istituzioni: «il Diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli animali: infatti questo Diritto non è proprio del genere umano, ma è comune a tutti gli animali che nascono in terra, in mare, ed anche agli uccelli. Da qui deriva l’unione del maschio e della femmina, che noi chiamiamo matrimonio; da qui la procreazione dei figli; da qui l’educazione: vediamo infatti che pure tutti gli altri animali, anche le fiere, sono valutati in base alla perizia che abbiano in questo diritto»57.

Che la cosa risulti a noi, oggi, piuttosto bizzarra e certamente inaccettabile è la miglior prova della incongruità strutturale delle formulazioni testuali che hanno partecipato, e continuano a partecipare, alla tematica del Diritto divino, ritenendo o pretendendo di offrire apporti significativi in merito.

L’apporto della giuridicità romana in materia è comunque ben maggiore e permette di ritrovare nel primo dei maestri di Diritto della romanità, il Gaio, padre delle Institutiones, elementi di tutto interesse quali la “naturalis ratio” alla quale il giurista romano riconduceva una serie di realtà ed Istituti giuridici, primo tra tutti lo Ius gentium. Scriveva in merito G. Lombardi: «s’è molto parlato del significato della naturalis ratio gaiana. A me sembra sia chiaro, attraverso e molteplici e vari richiami, che tale deve intendersi nel pensiero di Gaio la logica sprigionantesi dalla realtà obiettiva delle cose. Il mondo è quello che è: lo si prende come un dato di fatto, punto base di partenza. Ha un ordine, il mondo, nel suo essere. Questo ordine, in quanto è, ha una sua logica. Questa logica fa sì che presso tutti i popoli i rapporti elementari si configurino con taluni contorni costanti che danno luogo, nella costruzione della realtà giuridica, a norme e istituti anch’essi costanti.

Nulla di singolare, che in questa visione del Ius gentium, dal punto di vista della sua fonte, Gaio sia portato a volte a parlare di Ius naturale in luogo di Ius gentium. [...] Gaio li identifica, quanto al contenuto, perché a lui, giurista, non interessa un ideale che resti puramente nel campo della astrazione: parlerà di ius gentium, quando vorrà mettere a fuoco l’aspetto statico del vigere ovunque; parlerà di ius naturale, quando –con riferimento alla medesima realtà, di norme e di istituti– vorrà mettere a fuoco l’aspetto dinamico del derivare dalla naturalis ratio»58.

Non si può ignorare neppure come lo Ius naturale, filtrato ‘cristianamente’ da Giustiniano, diventi esso stesso “divina quadam providentia constitutum”59.

 

7. Conclusione

A conclusione del percorso sin qui proposto in chiave semantica e concettuale appare senza dubbio chiaro che oggi non esistono più né i presupposti né le condizioni per l’utilizzo della formula testuale “Diritto divino” e le sue

deboli e cangianti concettualizzazioni, connesse di volta in volta dalle differenti circostanze culturali.

Esistono, invece, e continuano ad esistere ed a rafforzarsi le motivazioni per urgere il contenuto reale di questa istanza di ‘resistenza’ ontologica ed etica allo strapotere del desiderio umano di manipolare ogni minuscolo elemento della realtà a lui soggetta – o affidata –, anche dal punto di vista teologico, come avviene nel Diritto canonico.

Il vero nodo è la corretta recezione degli elementi del tema: le norme giuridiche e gli Ordinamenti posti dagli uomini non possono contraddire la naturalis ratio delle cose, né gli elementi costitutivi pre-giuridici che reggono molte norme ed Istituti. La realtà pre-esiste al Diritto, che cerca soltanto di regolamentarla in modo generale ed a vantaggio del maggior numero possibile di soggetti; è però tale realtà a costituire il necessario metro di misura, e più ancora, l’elemento radicale di senso delle norme giuridiche che intendono regolamentarne il funzionamento.

Coi teologi del secolo scorso siamo d’accordo nel limitare – e cessare – l’uso di una categoria così inefficace, mentre col canonista T. Jiménez Urresti riteniamo che sia molto più efficace parlare di “imperativo teologico”, la cui chiarezza concettuale non dovrebbe permettere troppo facili trasformismi semantici e concettuali.



in: J.I. ARRIETA (ed.), Ius divinum, Venezia, 2010, pp. 465-488.