Tra gli elementi da tenere in specifica considerazione quando si tratti di ‘giudizialità’ canonica si pone la funzione prevalentemente cognitiva (=di accertamento) che caratterizza in modo sostanziale il Processo canonico nelle sue varie tipologie (dichiarativo, condannatorio, penale…). Alla base, infatti, del governo ecclesiale (esecutivo e giudiziale) non si trovano essenzialmente elementi riguardanti i diversi ‘soggetti’ in quanto individui (privati) in rapporto alla società o alle (sempre poche) risorse materiali disponibili, quanto, invece, lo ‘stato’ di persone o cose che, in sé o per le specifiche finalità loro assegnate, possa legittimamente risultare ‘dubbio’ (o anche sconosciuto/indefinito) all’interno della comunità ecclesiale, condizionandone in tal modo la piena attività o fruizione all’interno della più ampia vita e missione della Chiesa. Essa infatti interviene giudizialmente su materie e cose che riguardano quasi esclusivamente aspetti della vita dei fedeli connessi al loro esser parte (più o meno attiva) della compagine ecclesiale. Lo stesso vale delle ‘cose’ connesse al conseguimento degli scopi e finalità canonici (Culto, sostentamento dei ministri, pastorale, carità). Laddove poi, straordinariamente, la Chiesa accetti di pronunciarsi su altre materie o soggetti, lo fa più per –invocata– autorevolezza (morale) che non per autorità vera e propria (=Giurisdizione/Potestà), come potrebbe verificarsi nel caso di verificare l’esistenza/consistenza di c.d. Matrimoni naturali o simili o questioni di proprietà di beni, eredità, filiazioni, ecc. e, pertanto, non espressamente normato dall’Ordinamento canonico come tale ma, pur tuttavia, di qualche rilievo per una reale vita cristiana.
Le questioni riguardanti lo status delle persone e delle cose all’interno della vita ecclesiale, d’altra parte, non potrebbero avere altra trattazione che quella verificativa-dichiarativa (cfr. Can. 1400). Non di meno anche per il delicatissimo ambito ‘penale’ canonico ciò che risulta essere il principale oggetto d’Indagine (=conoscenza) non è tanto il ‘fatto’ in sé (come accade negli Ordinamenti statuali ‘allertati’ anche dalla sola “notizia di reato” di cui occorre ‘scoprire’ il colpevole) ma la sua concreta imputabilità “grave ed esterna” (cfr. Can. 1321 §1) in capo al suo autore (noto). Ed anche quando a muoversi non sia una ‘parte’ (=singolo soggetto interessato: persona fisica o giuridica) ma un Pubblico Ministero, com’è il Promotore di giustizia, ciò avviene sempre per ‘certificare’ (=rendere certo) l’effettività o l’imputabilità di un atto le cui ricadute sulla vita ecclesiale non possono essere trascurate né per il suo autore (nei confronti del quale la Chiesa potrebbe tuttavia agire anche soltanto attraverso il c.d. foro interno) né per la comunità investita da troppo gravi disordini spirituali, dottrinali o morali, che potrebbero comprometterla in quanto comunità di salvezza.
È in ragione di questa strutturale funzione cognitiva (=di accertamento o verificativa) del Processo canonico che risaltano sia il ‘protagonismo’ del Giudice ecclesiastico che la sua centralità nella vicenda processuale. Protagonismo che ne giustifica ed induce l’atteggiamento, il comportamento, l’operatività, sia nei confronti delle parti (private e pubbliche) che della stessa Causa sottoposta alla sua conoscenza e giudizio. Il ruolo del Giudice canonico è ‘attivo’: è lui che, una volta ‘coinvolto’ attraverso il Libello, ‘assume’ e ‘gestisce’ l’iniziativa processuale dandole il necessario impulso affinché si giunga ad una conoscenza veritiera dei fatti e delle situazioni da essi derivanti, in modo da ‘dichiararli’ nella loro fondatezza e portata, traendone le conseguenze per le parti in Causa, all’interno dell’orizzonte più ampio della vita ecclesiale. In questo delicato compito di “conoscere la Causa”, l’attività più specifica assegnata al Giudice canonico risulta senza dubbio quella espressamente ‘valutativa’: è il Giudice infatti che verifica l’ammissibilità e l’utilità delle Prove prodotte (Can. 1517) in Giudizio ed il modo di valutarle, sebbene la Legge processuale stabilisca una ‘gerarchia’ tra le Prove stesse ed indichi quale sia, o possa essere, lo specifico valore da attribuire a ciascuna di esse (=Prova piena o parziale). L’oggetto di valutazione e giudizio (e decisione) ‘nella’ e ‘da parte della’ Chiesa, non risulta, pertanto, la persona come tale ma sue (singole) ‘azioni’ che possano pregiudicarne la ‘pacifica’ –o efficace– appartenenza ecclesiale o, più semplicemente, uno specifico status canonico che la ponga in particolare ‘rilievo’ rispetto alla vita ed all’attività degli altri Christifideles (coniugato, chierico, religioso). Proprio tale status di persone e cose costituisce l’oggetto fondamentale del Giudizio canonico, delineando rapporti del tutto particolari tra Istituzione ecclesiale e persona del fedele.
3.2.2.2 Conoscenza e certezza morale nel giudizio canonico
Le caratteristiche già evidenziate circa la complessità del valutare-giudicare-decidere già dal punto di vista antropologico (prima che concettuale), unitamente alla specifica dimensione cognitiva del Processo canonico, conferiscono uno speciale valore all’indicazione del Can. 1608 §1 che richiede al Giudice canonico di agire con “certezza morale” in qualsiasi Sentenza egli debba pronunciare.
Si tratta di una formula in qualche modo ‘tecnica’ per escludere in modo espresso la semplice ‘probabilità’ o una –peggiore– ‘prevalenza’ di sole ragioni/interessi. Ciò espressamente per il fatto che il pronunciamento giudiziale canonico dev’essere un pronunciamento di ‘conoscenza’ (=cognizione) e non di semplice ‘opinione’ (=convinzione).
La materia prevalente (ma anche la finalità in ragione di cui –eventualmente– ci si interessi pure di altri elementi in sé non specificamente ecclesiali) di cui si occupa il Processo canonico è, infatti, di ordine sostanzialmente spirituale –lo ‘stato’ delle persone– in riferimento alla possibilità o necessità (alle volte) che i fedeli manifestino –o di cui debbano essere resi partecipi (o privati)– di poter meglio giovarsi dei ‘beni’ che costituiscono l’oggetto della missione ecclesiale stessa (cfr. Can. 213) della quale hanno scelto di essere partecipi con/per la propria vita.
In tale prospettiva l’esistenza o meno di requisiti, condizioni, vincoli, circostanze, doveri, prerogative di vario genere, profila ‘situazioni esistenziali’ (globali) di grande delicatezza, cui non si possono ‘opporre’ semplicemente delle ‘ragioni’ o degli ‘interessi’, in quanto l’elemento sempre comunque in gioco è la persona del fedele come tale, vista nel suo rapporto con la salvezza evangelica di cui la Chiesa sa di essere semplice –per quanto autorevole– ministra, oltre che custode.
Opinioni, convincimenti, credenze (meno che mai: interessi)… non possono pertanto commisurarsi con l’irrinunciabilità di tale ‘nucleo sostanziale/ontologico’ (=la persona) che, come più volte ribadito già da S. Paolo, è stato valutato ‘degno’ del sangue di Cristo stesso in croce (1Cor 8, 11). Solo la certezza morale –credente– possiede i requisiti cognitivi minimi –ma anche sufficienti– per poter intervenire (in realtà: solo pronunciarsi) ‘intorno’ a tale nucleo esistenziale e spirituale.
All’interno di questo quadro teoretico e concettuale non pare ormai più rinunciabile la sottolineatura della profonda differenza che intercorre tra tale ‘certezza morale’ che il Giudice ecclesiastico deve essersi formata in vista della Decisione da pronunciare ed un non-equivalente ‘giudizio morale’ che spesso –ecclesiasticamente– si sarebbe tentati (e storicamente si è creduto) di dover esprimere circa i fatti –ma non di meno le stesse persone– dedotti in Giudizio …tanto più trattandosi della valida celebrazione di Sacramenti. Di fatto anche il linguaggio comune non risulta favorevole a questa consapevolezza ed alla sua comunicazione, dal momento che non dimostra alcuna attenzione alla dichiarazione circa i fatti oggetto di conoscenza-valutazione-giudizio-decisione ma finisce per concentrarsi sulla ‘qualificazione’ di “colpevole” in capo a chi li abbia posti in essere. Una qualificazione che, secondo l’opinione pubblica, è (e deve essere) proprio un giudizio morale di reprobità e riprovazione della persona come tale.
Come e quanto ciò abbia caratterizzato spesso l’agire dei Giudici ecclesiastici (e lo stesso sistema processuale canonico) non è difficilmente dimostrabile; basti semplicemente ricordare come nel Processo di nullità matrimoniale del Codice pio-benedettino l’oggetto sostanziale del Giudizio canonico finiva per essere la ‘colpa’ (in capo ad almeno una delle parti) di aver celebrato un Sacramento nullo. Di fatto il vecchio Processo canonico matrimoniale era una questione principalmente di coscienza poiché verteva sulla validità presuntamente morale del Sacramento. Quanto un tale ‘presupposto’ coinvolgesse nell’attività valutativa anche elementi di specifica accettabilità morale, a volte addirittura prima e più di quelli espressamente giuridici, è facilmente riscontrabile dalla pregressa dottrina in materia. Il nuovo Processo di nullità matrimoniale, al contrario, si sbilancia con maggior decisione sulla ‘recognitio facti’ per verificare ex-post se il Sacramento in quanto tale ci sia davvero stato oppure no. In ciò continuano certamente ad avere una fondamentale importanza gli atteggiamenti tenuti/assunti dalle parti all’interno della vicenda (sacramentale) sottoposta a Giudizio. Non tanto però nell’ottica espressamente ‘morale’ quanto, invece, nella concreta espressione e relazionalità intersoggettiva. Incapacità e ‘simulazioni’ (ed in generale i vizi del consenso) sono ben evidenti in questa prospettiva, esprimendo elementi affatto diversi da quelli –classicamente– richiesti per compiere peccato grave, quali sono: la piena avvertenza ed il deliberato consenso…
3.2.2.3 Motivazione della Decisione
Tra gli elementi concettuali delineati a livello introduttorio si è accennato solo fugacemente alla ‘motivazione’, per quanto in maggior connessione alla componente psicologica del decidere che non a quella ‘giuridica’.
L’ambito giuridico ‘occidentale’ tuttavia ha dimostrato, soprattutto nell’ultimo secolo, una profonda attenzione a tale ‘elemento’ del processo decisionale posto in essere a livello ‘istituzionale’ (Tribunale e Governo), al punto da farne un fattore in continua crescita …divenuto ormai pregiudiziale. In una società orizzontale/egualitaria (=non gerarchica), fatta ormai di soli ‘pari’, nulla può oggi essere/rimanere immotivato, soprattutto una ‘negazione’ o un ‘onere’ che ‘riducano’ le potenzialità ed aspirazioni individuali. È così che oggi le ‘norme’ processuali del mondo giuridico occidentale condividono il sostanziale ‘assioma’ secondo cui tutte le Decisioni (giudiziali/arie) devono essere ‘motivate’; l’assenza di motivazione rende –variamente– nulla la Sentenza e –parimenti– espone ad impugnativa il Decreto, mostrando così la costitutività sostanziale della motivazione rispetto alla Decisione.
La questione pare andare di pari passo con la ‘laicizzazione/desacralizzazione’ dell’attività Ius-dicente: quando, cioè, lo Ius dicere non è più appannaggio (anche indiretto, come nella Legis actio sacramento) della divinità –e dei suoi ‘referenti’– ma diventa ‘azione’ pienamente umana (=socialmente paritaria), l’uomo stesso esige di poterla ‘verificare’ e ‘controllare’ prima-di/per poterla accettare quale efficace soluzione pacifica e pacificante di quanto abbia perturbato a livello socio-relazionale la sua esistenza (=Ius). Alla –evidente– insindacabilità del responso divino ‘originario’, accettato per fede/convinzione, succede –e si contrappone– pertanto la necessaria sindacabilità di quello umano per il quale si esigono, prima ancora di specifiche strutture di verifica (quali sono le Istanze superiori o ulteriori), elementi almeno di ‘fondatezza’ quali risultano dalla motivazione. Lo Ius secolarizzato, divenuto ormai attività pienamente umana (sociale-istituzionale), deve corrispondere a ciò che maggiormente esprime e facilita l’umano consenso: la ragionevolezza. La ratio, quindi, e non più la fides diventa il fondamento dell’accettabilità della Decisione che ‘incide’ sulla vita personale e sociale/comunitaria: solo la ‘motivazione cognitiva’ può, allora, rendere comunicabile e recepibile il giudizio-decisione perché sia assunto ed attuato.
Tale impostazione tuttavia non è universalmente condivisa a livello giuridico, in quanto in alcuni Ordinamenti dell’estremo Oriente (Cina in particolare) la Decisione giudiziale –anche umana– rimane ‘oracolare’: pura proclamazione che, in quanto tale, dev’essere accettata ed applicata; non di meno ciò continua ad accadere anche nei sistemi giudiziari di forte connotazione ‘sacrale’ –com’è quello islamico– in cui la Sentenza deriva la propria ‘forza’ dalla ‘volontà superiore’ che ne ha posto le basi attraverso la Legge religiosa.
La questione non si pone, invece, per il Diritto canonico che, nonostante sentenzi all’interno di un contesto anche formalmente religioso (cfr. Cann. 1609; 1612 §1), ha adottato ben presto il principio della ragionevolezza della Decisione giudiziale/aria espressa attraverso la motivazione. L’aspro confronto durante tutto il Medio Evo tra la propensione germanica per il duello giudiziale (ordalia) e quella canonica per il ‘confronto’ tra le ragioni delle parti (Processo giudiziale/ario) testimonia proprio questa radicale pre-comprensione canonica. Tanto più ora, nell’orizzonte ecclesiale/canonico fortemente rimodulato dalla Ecclesiologia conciliare: in essa il Popolo di Dio rimane sì ‘gerarchicamente’ strutturato ma tale elemento teologico non presuppone né comporta –più– una immediata ‘sacralizzazione’ dell’agire istituzionale/autoritativo che renda absoluti i fedeli che agiscono in nome della Chiesa stessa. Il ‘ricupero’, anzi, della dimensione più strettamente comunitaria della vita ecclesiale ha richiesto una nuova struttura di consiliarità intorno a coloro che in essa hanno responsabilità di governo, ponendo l’accento maggiormente sui presupposti (teologici, spirituali e pastorali) che non sulla concretezza delle modalità di azione. In tal modo anche nell’Ordinamento canonico la motivazione riveste oggi un ruolo costitutivo, almeno dal punto di vista istituzionale.
D’altra parte, la natura maggioritariamente dichiarativa di fatti che sostanzia il Processo canonico non potrebbe esplicarsi in altro modo: è, infatti, la ricostruzione dei ‘fatti’ a costituire la reale risposta alla domanda giudiziale “an constet” di cui l’“affirmative” o il “negative” non sono che l’estrema formalizzazione sintetica, anche formalmente distinta dalla sua motivazione.
Allo stesso tempo anche la struttura formale della Sentenza canonica è intenzionalmente diretta a perseguire la stessa finalità, dovendosi esporre –tanto in Iure che in facto (cfr. Can. 1611, 3°)– le diverse ragioni (cfr. Can. 1612 §3) ed i diversi elementi in base a cui ciò di cui il Giudice è venuto a conoscenza ed ha valutato la Causa sono stati giudicati ‘adatti’ ad assumere la decisione (=Sentenza) concretamente adottata.
La portata conciliativa e non oppositiva della Sentenza canonica, non di meno, non potrebbe trovare altre forme/modi di espressione e valorizzazione: in un ‘sistema’ organico di relazioni di condivisione e comune adesione allo stesso ideale esistenziale (communio/communitas) ciò che sana l’eventuale lacerazione comunitaria (Ius) non può essere che un elemento/fattore ri-costruttivo della relazionalità interrotta/compromessa. Ciò avviene in primis ‘condividendo’ i ‘perché’ (motivazioni) delle Decisioni assunte a tale scopo. Solo così, infatti, la Decisione può costituire la base anche per un nuovo futuro-comune e non limitarsi ad estinguere ex-auctoritate una questione ormai passata. La questione risalta ancora maggiormente quando ciò riguardi, come nella quasi totalità dei casi (=nullità matrimoniale), il ‘reintegro’ dello status canonico-sacramentale precedente, permettendo nuovamente ai fedeli di partecipare in pienezza alla vita di Grazia ed alla missione ecclesiale.
3.2.2.4 Conoscere per giudicare
Proprio l’ampiezza di elementi considerati in relazione ad un giudicare-decidere in ambito istituzionale, potenzialmente molto ampio nelle proprie ‘dimensioni’ poiché non strettamente dipendente dalla meticolosità della Legge, sollecita una specifica attenzione nei confronti delle forme processuali di stampo codiciale (Civil Law e Diritto canonico), aiutando a porre in luce non tanto i necessari e palesi riferimenti alla Legge ma gli elementi che si riferiscono alla conoscenza, necessaria per applicare la Legge. Ciò in quanto –almeno strutturalmente– nei sistemi ‘codiciali’ la valutazione dei fatti, in qualche modo, è già stata fatta previamente dal Legislatore (attraverso le diverse species facti) e ad essa deve attenersi anche il giudizio; proprio questo, però, inclina a spostare l’attenzione dei Giudici necessariamente sulla conoscenza (previa), in quanto sarà solo questa a fornire gli elementi da ‘stimare’ secondo la Legge, attraverso la c.d. sussunzione. Viene così in risalto l’importanza della parte prettamente investigativa del ‘Processo giudiziale codificato’ cui i vari Codici di Procedura civile o penale ‘offrono’ il loro supporto, in modo spesso puntigliosissimo, finalizzato a ‘guidare’ e dirigere la stessa fase ‘conoscitiva’ assegnata, a seconda dei casi/tipologie, anche ad altro Magistrato (Pubblico Ministero in Italia, Promotore di giustizia nell’Ordinamento canonico) perché provveda proprio a porre le basi cognitive minime da cui prenderà poi corpo la vera e propria Istruttoria giudiziale svolta da chi dovrà pronunciare la Sentenza, o da suo delegato (Giudice istruttore). La stessa ‘ammissibilità’ della Causa diventa, così, a sua volta oggetto di primaria e specifica valutazione-giudizio-decisione (fumus boni Iuris, canonicamente; ‘rinvio a Giudizio’ nell’Ordinamento italiano) prima ancora di essere ‘assunta’ direttamente dall’Organo giudicante. Ciò permette di evidenziare come, ad ogni buon effetto, la maggior parte dell’attività giudiziaria ordinariamente svolta in qualsiasi Tribunale non vada attribuita né alla fase specificamente di giudizio, né a quella di decisione propriamente tali, quanto piuttosto –con assoluta prevalenza– alla fase conoscitiva c.d. istruttoria. È infatti ai Giudici istruttori che incombe la maggior parte dell’attività ‘processuale’, volta proprio ad ‘istruire’ la Causa raccogliendo ed organizzando in modo ordinato e consequenziale (anche se spesso solo ipotetico) tutto il materiale utile a “conoscere la Causa”, secondo la terminologia ancora in uso nell’Ordinamento canonico.
3.3 Decidere per governare
Molti degli elementi sin qui evidenziati a riguardo del decidere-giudicare in ambito giudiziale/ario non perdono nulla della propria consistenza più profonda quando vengano accostati in riferimento ad un altro ambito di vita istituzionale qual è quello c.d. esecutivo tipico dell’attività di governo. Non è infatti improprio affermare anche per esso la costitutività della ‘motivazione cognitiva’ in quanto si tratta pur sempre di giudizio e decisione ‘pubblica’, attuata in modo istituzionale per/con finalità istituzionali, che riguarda e coinvolge destinatari diversi dal decidente, mutandone la ‘collocazione’ giuridica (status/ufficio/ministero) e, pertanto, anche esistenziale.
3.3.1 La decisione di governo nella Chiesa
Di fatto anche la Decisione di governo segue lo stesso iter/processus di qualunque altra decisione umana poiché comporta sempre una valutazione di fatti e circostanze, tanto ‘oggettivi’ che ‘personali’, un giudizio previo che, una volta approntato ed espresso, chiede di essere come ‘inserito’ nella realtà sociale/societaria affinché se ne traggano opportune/adeguate conseguenze, quelle, nel caso specifico, rispondenti alla volontà dell’Autorità di governo, in ragione del munus/ministerium ad essa stessa (allo stesso modo) affidato.
Questo, tuttavia, ‘inaugura’ una prospettiva in qualche modo ulteriore a quelle già considerate per l’attività giudiziale/aria: la finalità della Decisione stessa che, come tale, non potrebbe appartenere alle Decisioni giudiziali/arie che si configurano normalmente come risposta specifica a domanda ‘chiusa’ (=petitum), avendo già al proprio interno la loro finalità. Mentre, infatti, tali Decisioni sono rivolte, di per sé, al passato, quelle di governo sono naturalmente indirizzate al futuro; mentre, ancora, le prime guardano al passato onde ristabilirne ‘uno’ specifico momento/status, le seconde guardano ad un futuro ancora inesistente ma che deve, tuttavia, essere predisposto e reso attivo. Pur all’interno di una prospettiva così profondamente diversa, tuttavia, non sembrano mutare in modo sostanziale le dinamiche sin qui evidenziate; anche le decisioni di governo, infatti, devono poggiare su di una solida base cognitiva, per quanto rivolta più alla conoscenza di circostanze e persone anche reciprocamente non-connesse (in vista della loro futura connessione, come accade, p.es., per l’affidamento di un ufficio pubblico o ecclesiastico) che non a quella di un passato in cui tali circostanze e soggetti siano già venuti in relazione e, specificamente, in quella dedotta in Giudizio. Anche in questo caso ci si troverà dinnanzi ad una nuova situazione di fatto, diversa da quella ‘corrente’, non importa se ‘originaria’ (in quanto sorga per la prima volta) o ‘ricorrente’ (in quanto ripristino di uno specifico passato).
Non di meno la stessa dimensione valutativa appare diversa tra ‘passato’ e ‘futuro’; nel primo caso i ‘fatti’ e le ‘circostanze’ –già attuatisi– vengono valutati in reciproca connessione al fine di ricostruire veritativamente quanto realmente accaduto per trarne le ‘dovute’ conseguenze, nel secondo caso, per contro, la valutazione si esprime in modo sostanzialmente ‘potenziale’, cercando cioè di soppesare quanto ciò che già ‘esiste’ possa/debba/riesca a condizionare quanto non esista ancora… Per attuare questo tipo/genere di valutazione risulta del tutto necessario conoscere e considerare la ‘finalità’ della decisione stessa (dimensione intenzionale o teleologica) poiché la realtà conosciuta dovrà esser valutata ‘in vista’ di quella ipotizzata (=potenziale). Il giudizio di governo che ne conseguirà avrà così caratteristiche del tutto differenti rispetto a quello tipico del Giudice.
A questo si aggiunga la considerazione che, di fatto, la ‘realtà’ su cui si esercita il governo –anche ecclesiale– esiste indipendentemente dalla persona che deve provvedervi, la quale non è pienamente identificabile col ‘ruolo’ istituzionale ricoperto poiché mai nessuna decisione potrà essere assunta in modo ‘impersonale’ da un semplice ‘funzionario’; tanto meno nella Chiesa. Va infatti considerato come l’Ufficio ecclesiastico (o pubblico) conferisca solo le potestà istituzionali (giuridiche) per poter intervenire sulla vita altrui in modo autoritativo, senza tuttavia trascurare come la Decisione possa essere presa solo dalla specifica persona che ‘occupa’ quel ruolo, innescando così la dinamica della conoscenza-valutazione-giudizio-decisione normalmente evocata in ambito ‘esecutivo’ come discrezionalità, ben diversa dall’arbitrio.
Per meglio delineare le ‘peculiarità’ di quest’attività decisoria è anche necessario rilevare come, data la costitutiva struttura gerarchica della Chiesa nella quale si tende a procedere in modo elettivo (=per libera cooptazione) e non collegiale (=attraverso votazione), la maggior parte delle Decisioni di governo ecclesiale siano ‘libere’ per l’Autorità che le assume, la quale –al di là di eventuali ‘consultazioni’ predeterminate dal Diritto– agisce in piena autonomia …salvo specificità che ricadano sul Diritto comune per ‘altre’ vie rispetto a quelle espressamente ‘ecclesiologiche’. In tale prospettiva non sono senza specifico rilievo i ‘campi’ affidati all’attività esecutiva di governo ecclesiale ed alle sue Decisioni: [a] ordinamento della ‘portio Populi Dei’ facente capo alla singola circoscrizione ecclesiastica, [b] provvisione della sua cura pastorale, [c] vigilanza sull’esercizio di tale cura. Tre attività intrinsecamente connesse, ma allo stesso tempo estremamente differenti tanto nei singoli presupposti, che nelle finalità specifiche. Tre finalità che comportano, non di meno, anche modalità specifiche di individuazione e conseguimento tanto dei singoli ‘esiti/risultati’ da perseguire (interventi ‘ordinatori’) che degli specifici –ed individuali/personali– interventi provvisionali, pastorali o disciplinari.
È in quest’orizzonte che si collocano i diversi processi decisionali spettanti all’Autorità ecclesiale e da essa posti nei confronti della vita sia di una moltitudine di fedeli (la circoscrizione ecclesiastica) che di alcune persone soltanto (generalmente chierici, o comunque ministri). La ‘libertà’ di principio di tali interventi non li rende tuttavia espressione della mera volontà individuale del decidente ma, al contrario, ne mette in risalto la specifica ‘attribuzione’ e responsabilità in capo alla sua persona …non solo/tanto per la reale possibilità di dover rispondere di eventuali ‘danni’ derivanti dal suo agire (cfr. Can. 128) ma, molto maggiormente, per la espressa prescrizione dei Cann. 50 e 51 che impongono, nell’adottare una Decisione a riguardo di ‘singoli’, [a] di ricercare prima le notizie e le prove necessarie, [b] per quanto possibile ascoltare coloro i cui diritti possono essere lesi [c] esporre, almeno sommariamente, le motivazioni della Decisione stessa.
Conoscenza, valutazione, giudizio continuano così a palesarsi come gli elementi cardine di qualunque Decisione di governo ecclesiale, in modo né solo ‘alternativo’ né semplicemente ‘complementare’ alla dimensione teologico-spirituale costitutiva di tale delicatissima e preziosa attività nella Chiesa.
La motivazione del Provvedimento appare come la ‘sintesi’ degli elementi cognitivi, valutativi e finalistici (teleologico-intenzionali) che lo sostengono e che potranno sollecitarne ed esigerne –salvo onerosità personali immotivate (cfr. Can. 1733)– la stabile esecuzione all’interno e nell’interesse della comunità ecclesiale.
3.3.2 L’autotutela amministrativa come supplemento di conoscenza
Nell’ottica del conoscere per valutare e quindi giudicare e decidere in campo di governo ecclesiale si pone anche la possibilità/necessità di rileggere gli strumenti previsti dall’Ordinamento canonico per sanare le situazioni in cui la Decisione di governo si mostri inadatta ad essere accolta ed attuata da parte del suo destinatario: quanto normalmente viene indicato come rimostranza (Remonstratio) verso la Decisione assunta dall’Autorità ecclesiale (cfr. Can. 1733).
Nell’ottica del conoscere-valutare-giudicare-decidere sin qui proposta, tale specifica situazione ecclesiale può essere letta, piuttosto che in chiave –immediatamente– contenziosa –come avviene di solito– , in chiave di vera e propria autotutela da parte dell’Autorità di governo ecclesiale; autotutela che si realizza attraverso il volontario apporto conoscitivo-valutativo del destinatario della Decisione stessa che interviene attraverso un’istanza di ‘verifica a posteriori’ dell’efficacia della Decisione assunta ma ricusata.
L’ottica è innovativa poiché si tratta di non considerare più l’atto di governo come ‘perfetto’ (cioè completo ed adatto a conseguire i propri scopi) con la sua sola emanazione e notifica ad normam Iuris –come avviene per una Decisione giudiziale/aria–, ma anche attraverso l’eventuale –successivo– apporto volontario (poiché non specificamente richiesto) del suo destinatario. Per quanto ciò appaia difforme rispetto alla teoria sostanziale dell’atto amministrativo canonico come espressa dalla dottrina (e recepita dal Legislatore canonico), il suo fondamento risulta non di meno di planare evidenza nella necessità –anche legale– che la Decisione di governo ecclesiale sia ad ogni buon conto e fine ‘adeguatamente motivata’ così da risultare condivisibile ed ottenere l’accoglienza ed esecuzione da parte del suo destinatario (cfr. Can. 51). Se ciò, invece, non accadesse primo ictu si potrebbe intervenire in un secondo momento (entro dieci giorni dalla Notifica) per conferire all’atto decisorio le caratteristiche di condivisibilità necessarie alla sua reale efficacia, senza che ciò attivi necessariamente le ‘logiche’ e dinamiche proprie dell’opposizione all’atto di governo come tale e del conseguente contenzioso col suo autore.
L’intervento, infatti, del destinatario che –dopo la Notifica– ‘offre’ nuovi/ulteriori elementi di conoscenza e valutazione di fatti e circostanze in precedenza non adeguatamente considerate dal decidente permette di rivedere l’atto stesso conferendogli in seconda battuta l’efficacia prima carente senza che, in tal modo, si attivi un contrasto istituzionale né l’atto come tale sia posto in vera discussione. L’Autorità di governo ecclesiale che sapesse riconoscere nei nuovi elementi conoscitivi e valutativi fornitigli dal destinatario dell’atto la necessità di operare un diverso giudizio sulla realtà sottoposta alla sua decisione potrebbe così mutare giudizio e relativa decisione al fine di non incorrere in un vero e proprio ‘errore’ (di valutazione e giudizio); ciò corrisponde pienamente al concetto di autotutela che la dottrina amministrativistica civile più matura ha saputo mettere a fuoco nell’ultimo secolo.
È proprio la consapevolezza della complessità del conoscere-valutare-giudicare-decidere che –quasi– impone questo approccio alla teorizzazione dell’atto amministrativo singolare come tale, ampliandone la concezione al fine di meglio salvaguardarne l’efficacia che, costituendone in effetti la finalità, ne rappresenta praticamente l’essenza stessa. Un atto di governo, infatti, che non potesse sortire il proprio risultato non sarebbe sostanzialmente tale!
3.4 Giudicare e decidere con prudenza
Quanto sin qui espresso innesca, non di meno, un altro ambito di riflessione strettamente connesso al giudicare-decidere: quello della necessaria prudenza con cui il decidente deve comunque fare i conti al momento d’intraprendere le diverse valutazioni e scelte da operare. Ciò non vale solo per l’Autorità di governo, che procede normalmente in modo ‘discrezionale’, ma anche per il Giudice che, anche quando chiamato a decidere in dipendenza dalla Legge (la quale –solitamente– ha già previsto anche le conseguenze dei fatti portati in Giudizio) mantiene però –e deve esercitare– una propria discrezionalità circa la loro ‘quantificazione’ e ricaduta sulle parti e la comunità (sociale o religiosa).
Dal punto di vista concettuale, l’evidente sbilanciamento/propensione verso il ‘futuro’ che caratterizza la prudenza risulta così completare la prospettiva sin qui proposta a riguardo della conoscenza, saldamente connessa –invece– al ‘passato’, rimarcando ancora una volta lo stretto legame dei processi decisionali giuridici con la concretezza ed effettività della vita. Una ‘decisione giuridica’, d’altra parte, non è facilmente assimilabile a qualunque altra decisione ‘esistenziale’; essa, infatti, entra nella vita di singoli e comunità raggiungendone a volte anche gli ‘strati’ più intimi …e ciò dall’‘esterno’, poiché –in Diritto– il decidente ed i destinatari non si identificano (praticamente) mai.
L’entrata in gioco del ‘futuro’ permette, a questo punto, di riconoscere in esso l’elemento di più specifica caratterizzazione del decidere, rispetto alle ‘attività’ ad esso previe. Mentre, infatti, il giudicare riguarda maggiormente il passato, potendosi presentare come un problema essenzialmente di ‘conoscenza’ (di ‘fatti’ già conclusi), il decidere deve fare maggior riferimento all’esito del percorso: l’azione che ne conseguirà e le sue ricadute sull’effettivamente vivibile. Proprio questa ‘attenzione previa’ al futuro ed alle conseguenze su di esso dell’agire personale risulta essere parte assolutamente ‘propria’ dell’attività giuridica in ogni suo aspetto, chiedendo che l’assunzione di una Decisione giuridica preveda, commisuri ed imponga la propria ricaduta nel futuro non solo conseguentemente a quanto conosciuto-valutato-giudicato, ma anche tenendo conto di quanto essa stessa produrrà di nuovo nella realtà esistenziale degli interessati. In proposito, è percezione piuttosto comune lo scetticismo diffuso verso norme di Legge –e più ancora Sentenze– che impongono conseguenze (=sanzioni) di fatto inapplicabili in conseguenza di determinati Reati, giacché: è del tutto inutile comminare più ergastoli (o anche condanne a morte) alla stessa persona, così come assommare sul suo capo troppe decine di anni (=secoli) di reclusione …oppure anche il non far scontare la pena oltre una certa età. Indubbiamente principii giuridici e norme legali esigono la ‘propria parte’, così come ‘altri’ principi e valori (quelli etici); non di meno, tuttavia, la concreta non-effettività del deciso rischia di denunciare l’inutilità di tutto l’apparto giuridico come tale, almeno nei sistemi giuridici maggiormente formalistici (=civil Law).
Ecco perché è alla prudenza che il Giudice deve fare riferimento per emettere una Sentenza che abbia una reale efficacia sul vissuto/vivibile umano; una Sentenza, infatti, che risultasse concretamente inapplicabile per qualsiasi motivo (fisico, morale, culturale, sociale, ecc.) perderebbe anche la propria stessa ‘consistenza’, al di là ed indipendentemente da qualsiasi sua ‘motivazione’ tanto sostanziale che legale. In modo non certo minore ciò si applica anche alle Decisioni di governo la cui im-prudenza rischia non solo di renderle inefficaci in se stesse ma, molto maggiormente, di creare nuovi conflitti che turbano e destabilizzano il buon ordine sociale o comunitario, contraddicendo così alla radice la stessa funzione di governo. Proprio tale approccio ‘prudenziale’ ha sempre caratterizzato l’agire dell’Autorità canonica, spesso ‘a cavallo’ tra intervento disciplinare o penale, potendo fruire per correggere gli abusi tanto di una ‘via’ giudiziale che extra-giudiziale (=amministrativa, oggi) …oltre che di un foro interno ed uno esterno, in modo da assicurare la maggior efficacia reale ai propri interventi.
‘Prudenza’, però, comporta ancora una volta valutare-giudicare-decidere, senza che la maggior attenzione posta in vista del futuro, anziché del passato, muti sostanzialmente le ‘dinamiche’ dell’intero processo decisionale.
Non sia inutile osservare in merito come lo ‘studio’ dell’attività giuridica, svolta da sempre in maggior parte nei Tribunali (o istituzioni equivalenti) –le Sentenze, in massima parte–, sia stato qualificato tecnicamente proprio come “prudenza”: Iuris-prudentia, mentre il resto del pensare umano si è generalmente caratterizzato come ‘logia’.
4. GIURISDIZIONE E POTESTÀ: QUALE FONDAMENTO?
4.1 Giudicare e decidere senza autorità
Il lungo percorso sin qui articolato pare aver messo in sufficiente rilievo –per quanto in modo indiretto (e non espressamente intenzionale)– come, in fondo, tutto quanto riguarda le ‘dinamiche’ proprie del conoscere-valutare-giudicare-decidere che si attua all’interno degli Ordinamenti giuridici ‘occidentali’ (tra cui quello canonico) possa reggersi –e di fatto si regga– in modo sostanzialmente ‘autonomo’, ‘auto-portante’, ‘auto-poietico’, rispetto agli Ordinamenti stessi, rispondendo a livello di strutture e dinamiche fondamentali e portanti solo a se stesso ed alle proprie intrinseche necessità che, come pluralmente illustrato, non hanno alcun bisogno di ricevere dall’esterno la loro ‘legittimazione’. Auctoritas, Potestas, Iurisdictio, appaiono, così, poco più che ‘figure concettuali sintetiche’, di grande utilità per semplificare la ‘presentazione’ e gestione teoretica dell’intero ambito e coordinarne alcune espressioni/dinamiche ed applicazioni concrete, ma non –ontologicamente– necessarie al funzionamento dello Ius come tale.
A ben vedere, infatti, il loro maggior ruolo si pone più nella Esecuzione della Decisione/Sentenza (la sua effettiva ‘applicazione’ alla realtà sociale) che non nella sua ‘costruzione’ e formulazione, evidenziando come la loro necessaria ricaduta sociale/comunitaria non possa, di solito, trascurare una qualche forma di ‘istituzionalità’ attraverso la quale l’intera società/comunità –o una sua parte esistenzialmente significativa– prenda atto e soprattutto ‘urga’ le conseguenze della Decisione stessa: la nozione di giuridicità/Diritto già esplicitata in altra sede è pienamente rispondente proprio a questa prospettiva. Di fatto –p.es.– il necessario ‘deposito’ del Lodo arbitrale, con cui –eventualmente– si sia decisa una questione applicando il Diritto ‘interno’ ad un altro Ordinamento giuridico, è di tutta evidenza in merito poiché conferisce esecutività a ‘giudizi-decisioni’ che autonomamente non potrebbero esigerla nell’Ordinamento che dovrebbe, invece, riceverla.
Per di più: se il dicere-Ius è attività ‘personale’ che non abbisogna per il proprio ‘esserci’ ed attuarsi di nulla di estrinseco rispetto a chi lo pone in essere (=le parti ed il tertius), allora il ruolo dell’Istituzione appare chiaramente come di ‘sola’ unificazione e garanzia degli intenti e delle azioni di ciascuno: lo ‘spazio esistenziale condiviso’ all’interno del quale ciascuno può cercare e ricevere ciò che è ‘per-tutti’ e dare il proprio apporto ‘a-tutti’. È questa in effetti la vera forza/natura dell’Istituzione dal punto di vista sociologico ed antropologico (non politico o giuridico, che ne sono solo parziali e non-univoche derivazioni funzionali): la sua ‘esistenza’ autonoma rispetto non all’umanità come tale ma alle singole persone che di volta in volta ad essa si riferiscono.
A maggior ragione nella Chiesa la quale opera per un fine ben specifico (=la missione affidatale da Cristo), secondo modalità specifiche (=spirituali), attraverso la custodia e condivisione di un “depositum fidei” su cui non possiede alcuna disponibilità sostanziale. Non di meno, in essa la concreta assenza di un reale sistema esecutivo delle Decisioni ne rimanda di fatto la piena efficacia all’auto-assoggettamento (volontario e consapevole) alle stesse da parte dei fedeli cui sono destinate.
Ne consegue per la Teoria generale di Diritto (anche canonico), e più specificamente per un’adeguata ‘identificazione’ dello Ius, una chiara riaffermazione del ruolo irrinunciabile e costitutivo della conoscenza rispetto alla volontà; non di meno la propedeuticità del giudicare rispetto al decidere pone in maggior risalto gli elementi valutativi rispetto a quelli ottativi, così come il decidere, con la sua necessaria pre-assunzione di un futuro concretamente possibile, deve rispondere a requisiti di responsabilità e prudenza difficilmente estranei a quanto già entrato in gioco all’interno dell’intero ‘processo’ decisionale.
Giurisdizione, quindi, come sostanziale ‘conoscenza-giudizio-decisione’?
L’ipotesi non solo non è improbabile… ma anche restituirebbe lo Ius all’umanità, smettendo di farne sia [a] uno strumento di potere –come la cultura giuridica moderna ha invece realizzato– che [b] quel ‘commercio’ d’interessi che non sa più vedere la persona come tale ma solo –eventuali– ‘diritti’ (a volte, forse, neppure davvero ‘suoi’) a cui è stata progressivamente ridotta.
4.2 L’autorità di giudicare e decidere
Quest’ultima prospettiva che vede nascere la c.d. Giurisdizione/Potestà (sociale/comunitaria) in modo pressoché autonomo (poiché socio-antropologico) rispetto alla necessaria pre-esistenza degli Ordinamenti giuridici che in qualche modo la ‘fondino’ e la legittimino, riconoscendo sostanzialmente alla sola attività del dicere-Ius le caratteristiche necessarie e sufficienti alla vera ‘creazione’ dello stesso Diritto è riscontrabile anche oggi (in modo confuso ma indubbiamente efficace) nelle attività proprie (ed in quelle connesse) della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Proprio da tale Organismo, infatti, e dalla sua attività si sta già prospettando il sorgere di una Giurisdizione vera e propria cui gli Stati europei finiranno per trovarsi assoggettati anche contro la loro espressa volontà individuale di ‘permettere’ che ciò avvenga, p.es., attraverso un ‘conferimento’ ad essa di ‘Potestà’ tradizionalmente ritenute ‘proprie’ ed inalienabili di ciascuno Stato (post-rinascimentale).
Ciò che, infatti, sta avvenendo attraverso l’azione della C.E.D.U. è proprio l’instaurarsi di una vera referenzialità sovra-soggettiva (in un ambito in cui i soggetti unici sono –di per sé– gli Stati aderenti all’U.E. e firmatari del Trattato di Roma istituente la stessa Corte) che esercita comunque un influsso di ‘valutazione-giudizio’ sul comportamento degli Stati in un certo numero di materie ‘decise’, tra l’altro, non dai loro Governi ma dai cittadini come tali col proprio rivolgersi a tale Organismo perché pronunci ‘il Diritto’ in tali materie, le più disparate.
Quanto tale situazione finirà per pesare sui singoli Stati in quanto –pretesamente– ‘uniche’ fonti del proprio Diritto (come dal Rinascimento si è sempre voluto sostenere col proprio “superiorem non recognoscens”) non può essere ulteriormente ignorato. Sarà ben difficile, infatti, che gli altri Stati aderenti all’Unione [a] tollerino a lungo le ‘difformità’ normative di qualche singolo Stato membro che la C.E.D.U. abbia ripetutamente evidenziato/contestato oppure [b] non provvedano a ‘trasferire’ in sede europea la fissazione dei parametri ‘comuni’ di riferimento per un numero sempre maggiore di materie a fondamento ‘giurisprudenziale’ comunitario o anche [c] non impongano l’osservanza/adozione di tali ‘esiti’ agli Stati che progressivamente richiedano di entrare a far parte dell’Unione o ad essa si avvicinino, negando così di fatto il presupposto tutto solo moderno che vede nell’esercizio della Potestà legislativa l’apice ed il distintivo dell’indipendenza ed autonomia di uno Stato.
Questo fenomeno, tuttavia, per quanto in modo certamente contraddittorio con le proprie stesse origini e ‘fonti’, sta già ‘illustrando’ –ma anche ‘realizzando’– in diretta il nucleo portante della fisiologia più profonda del sorgere autopoietico della c.d. Giurisdizione ‘laica’. Non di meno è qui il caso di ricordare soltanto come da tutta l’Antichità fino al Medio Evo il vero cuore della Giurisdizione (regale ed imperiale, e quindi ‘personale’ e non ‘statuale’) non fosse affatto la potestà legislativa ma proprio quella giudiziaria.
Anche gli apporti della dottrina del Realismo giuridico (contemporaneo) delle scuole scandinava e nord-americana, in fondo, vanno esattamente nella stessa direzione: il Diritto –‘reale’– è quello pronunciato dai Giudici (la “Law in action” di R. Pound). La prassi forense ‘continentale’, non di meno, non ignora né contraddice tale realtà quando –sempre più spesso– si appoggia alla Giurisprudenza (applicativa ed interpretativa) anziché al testo di Legge (puramente prescrittivo/dichiarativo), generando anche vere e proprie ‘fattispecie’ che la ‘Legge’ formale (forse) giungerà a recepire solo a distanza di decenni, come –p.es.– per il c.d. danno esistenziale.
4.3 Una formalizzazione ‘regressiva’
Il percorso sin qui intrapreso, unitamente al riferimento alla Giurisprudenza della C.E.D.U., pongono un ‘problema’ di sicuro interesse proprio nell’ottica della conoscenza-valutazione-giudizio-decisione; un problema che tocca con immediatezza il Diritto processuale canonico, almeno nelle occasioni in cui debba interfacciarsi con gli Ordinamenti ‘assoggettati’ alla C.E.D.U. stessa. Si tratta, come rilevabile da un articolo di recente pubblicazione, dei presupposti stessi del Diritto processuale contemporaneo.
Due i casus belli da considerare: le Sentenze ‘italiane’ su due casi radicalmente diversi ma di comune origine canonica: a) nullità matrimoniale per impedimento di parentela (causa Pellegrini), b) non rinnovo della docenza universitaria per via amministrativa (causa Lombardi Vallauri).
Al di là della complessità strutturale e procedurale dei due casi, innescatisi per via indiretta attraverso la Giurisdizione (amministrativa) italiana –visto che la S. Sede non partecipa della Convenzione di Roma del 1950– ciò che conta è quanto emerge nella sostanza: le due Decisioni canoniche, poiché carenti del contraddittorio processuale, secondo la C.E.D.U. non avrebbero dovuto esser ‘riconosciute’ dall’Ordinamento italiano che, di conseguenza, è stato ‘condannato’.
La ricaduta di tali Sentenze “c. Italia” sul tema conoscere-valutare-giudicare-decidere che qui ci occupa è radicale poiché esclude di fatto (e si pretende anche ‘di Diritto’!) la strutturalità della dimensione ‘conoscitiva’, trasferendo la sostanzialità del procedimento giudiziale/ario a carico del solo dibattimento processuale… anche quando esso non serva affatto, data la palese sufficienza di una semplice ‘ricognizione’ dei fatti in oggetto (come nel caso del vincolo di parentela). In questo lo stacco col sostanzialismo dell’Ordinamento canonico è considerevole e pare destinato a crescere.
Ciò che, tuttavia, emerge in questi casi non è tanto un semplice elemento di ‘incoerenza’ o ‘difficile conciliabilità’ teoretico-pratica tra Ordinamenti giuridici differenti, quanto piuttosto una radicale differenza di pre-supposti degli Ordinamenti stessi e, più ancora, del loro modo di Ius-dicere. Differenza sommariamente esprimibile in due posizioni base:
a) posizione canonica: poiché la natura del Processo canonico è sostanzialmente ‘cognitiva’ e si rivolge al raggiungimento ‘a posteriori’ della verità dei fatti e delle circostanze in modo da poter ‘dichiarare’ tale status quo ante rispetto alla disputa/contestazione dedotta davanti al Giudice, nel caso in cui tale conoscenza sia stata conseguita (o sia conseguibile) in modo certo, p.es., attraverso un Processo documentale (=massimo grado di certezza) non si richiede nessun intervento ‘esterno’ a quello del Giudice che, interrogato “an sit/constet” risponde “affirmative aut negative”;
b) posizione statuale: poiché il Processo statuale mira sostanzialmente –almeno negli ultimi decenni– alla dichiarazione di ‘colpevolezza/dolo/reato’ o ‘innocenza’ di una delle parti, non si può prescindere da una vera e propria accusa (per quanto anche solo ‘rituale’) destinata a mostrare tale ‘condizione’ personale affinché il Giudice –eventualmente– la dichiari e la persegua.
La distanza tra le due posizioni, per di più, si sta progressivamente ampliando poiché i vari processi di ‘laicizzazione’ (de-confessionalizzazione, de-moralizzazione, de-eticizzazione) della cultura e dei necessari riferimenti di valutazione e giudizio personali dello stesso Giudice sembrano non lasciare alternativa ad una semplice e restrittiva (e parzialissima!) ‘valutazione’ intra-processuale delle posizioni degli intervenienti (le parti) in modo da giudicare e decidere –solo– in ragione di quanto sia effettivamente stato espresso nel corso del Processo. In tal modo, per non dover attingere alla ‘propria’ eticità (ovviamente mai ‘oggettiva’), il Giudice (‘relativista’) deve necessariamente ‘assistere’ al contraddittorio delle parti, valutando e giudicando quale in esso soccomba e quale prevalga: nulla di più.
L’identificazione di un ‘giusto Processo’ con la sola possibilità di ‘difendersi’ o difendere la propria posizione/pretesa processuale, come preteso dalla C.E.D.U., pare comportare (e preludere a) la piena rinuncia a qualunque elemento cognitivo-valutativo dell’attività giurisdizionale e di governo con privilegio di un giudizio che, non paradossalmente, diventa sempre più soggettivista ed ‘estemporaneo’.
PAOLO GHERRI
in: Apollinaris, LXXXIV (2011), 27-88.
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