Decidere e giudicare nella Chiesa



INTRODUZIONE
I termini “decidere” e “giudicare” utilizzati nel titolo di questa “Sesta Giornata canonistica interdisciplinare” possono far pensare dal punto di vista giuridico a due attività non solo differenti ma in qualche modo contrapposte o in reciproca dialettica. In effetti su questo ‘equivoco’ si gioca –consapevolmente– una parte della forza evocativa del titolo stesso delle due giornate di studio che vorrebbe attirare l’attenzione tanto degli addetti all’attività giudiziale nella Chiesa (attratti dal “giudicare”) che degli addetti all’attività di governo o amministrativa (tendenzialmente più familiarizzati col “decidere”). In realtà, però, anche in ambito giuridico, “giudicare” e “decidere” non sono due attività disgiunte/alternative, come genericamente può apparire a prima vista, ma le tappe finali di uno stesso percorso che, a seconda della ‘sede’ giuridica (o anche solo ‘istituzionale’) in cui viene posto, assume specificità diverse (giudiziarietà o esecutività) ma in realtà non trova effettive differenze sostanziali nella propria articolazione di base da parte del soggetto (anche pluri-personale) che deve compiere quell’azione: il giudicante-decidente, Tribunale, Consiglio, Autorità che sia… Non di meno, anche i sostantivi “giudizio” e “decisione” pongono importanti problemi a livello di comprensione ordinaria, sembrando indicare –ancora una volta– realtà diverse ed in qualche modo reciprocamente incomparabili per quanto, invece, funzionalmente subordinate, poiché una ‘decisione’ non fondata in un ‘giudizio’ adeguato rischia di ridursi a semplice ‘opzione’… ciò che, però, in ambito istituzionale/giuridico andrebbe ben oltre la discrezione assumendo i connotati dell’arbitrio. Si aggiunga a ciò il fatto che “giudizio” e “decisione” non sono immuni da referenzialità strutturali ai temi della volontà ed autorità (come anche già rilevato indirettamente nella Terza Giornata canonistica) a cui si collegherebbero –e di fatto così è stato per secoli(!)– quelli della Giurisdizione e del potere/Potestà, che però nella Chiesa devono ottenere uno ‘statuto concettuale’ tanto più chiaro e trasparente quanto unicamente s’indirizzino ad essere meri strumenti operativi per l’efficace conseguimento della sua missione di salvezza. Altri elementi ‘tematici’ complementari allo stesso ‘statuto concettuale’ sono rinvenibili negli apporti della Quarta Giornata canonistica. La specificità di questa “Giornata canonistica interdisciplinare” si pone pertanto nel proseguire con decisione la necessaria ‘explicatio terminorum’ già intrapresa nel tempo quale ‘peculiarità’ dell’iniziativa in vista soprattutto dell’ampliamento e consolidamento dello ‘statuto concettuale’ di base delle Istituzioni ecclesiali cui la Canonistica contemporanea deve indirizzarsi per continuare ad offrire alla Chiesa il proprio specifico e qualificato servizio, non riducibile –di principio– alla sola conoscenza del dettato/testo normativo/legale.
Il maggior impegno teoretico da affrontare nella riflessione su “decidere e giudicare nella Chiesa” consisterà, pertanto, nella necessaria separazione e distinzione non solo tra il c.d. linguaggio ordinario/naturale e quello tecnico, ma ancor di più: tra differenti linguaggi tecnici, quali sono senza dubbio [a] quello gnoseologico, [b] quello coscienziale, [c] quello psicologico, [d] quello giuridico, tutti contemporaneamente implicati nelle stesse dinamiche, delle stesse azioni, delle stesse persone, comportando –ancora una volta– il necessario riferimento all’unico vero ‘soggetto’ di ogni attività intra-storica: la persona. La complessa ‘struttura’ –e l’irrinunciabile unitarietà– dell’agente personale continuano così a comportare un approccio interdisciplinare ed uno scambio che, solo se veramente ‘paritari’, potranno risultare davvero fecondi per la crescita di consapevolezza anche degli operatori dell’uno come dell’altro ambito (processuale o amministrativo) del Diritto, non solo canonico, cui questa iniziativa si rivolge espressamente. La centralità della persona quale riferimento e ‘misura’ dell’agire istituzionale sollecita, non di meno, il progredire della riflessione fondamentale propria della “visione istituzional-personalista” tanto del fenomeno giuridico in sé e per sé che di quello canonico in modo del tutto specifico.

1. I TERMINI DELLA QUESTIONE
1.1 Decidere, decisione
Dal punto di vista concettuale/filosofico, la decisione è stata messa a tema ‘autonomamente’ soprattutto a partire dalla Filosofia ottocentesca (dopo essere stata tradizionalmente considerata nell’ambito di una più ampia teoria dell’agire umano); in entrambe le prospettive, tuttavia, si è stati inclini a connetterla alla volontà, come passaggio previo all’azione: desiderio => decisione => azione.
«In un’accezione tradizionale, la decisione può essere intesa come il secondo momento dell’atto volitivo: quello che –stando alla ricostruzione scolastica– segue la deliberazione e precede l’esecuzione. Si tratta del momento che, come suggerisce l’etimo latino, “tronca” il momento deliberativo; e che è anche detto, con altro traslato, risoluzione. La decisione riassume sinteticamente la posizione dello spirito umano di fronte alle varie forze presenti alla coscienza, e implica appunto una dichiarazione di preferenza. L’idea o il motivo prevalente, tale perché scelto dalla volontà, determina l’azione».
Lo stesso interessamento esistenzialista del secolo scorso (Heidegger, Jaspers, Caturelli, Tiberghien), ha posto in forte rilievo la componente ‘riflessiva’ del decidere di sé –coinvolgendo il tema della libertà– continuando a prescindere completamente dalla componente cognitiva. Non di meno, anche il tema delle ‘motivazioni’ è stato ordinariamente affrontato solo in termini di ‘libertà’, rimanendo in ambito prevalentemente volitivo e trascurando la portata cognitiva della ‘motivazione’. L’avvento delle Discipline psicologiche –con Freud (1856-1939)–, d’altra parte, aveva già incentivato lo spostamento dell’ambito motivazionale sul versante ‘emotivo’, finendo inevitabilmente per annullare la componente cognitiva della motivazione. L’embargo della conoscenza in riferimento alla decisione pare essersi interrotto solo di recente con la sua considerazione nella prospettiva del “problem solving” (=la soluzione di problemi, visti come scostamenti tra la situazioni di fatto date e ciò che il decisore ritiene desiderabile) indotta dagli studi sull’intelligenza artificiale. Vengono così in risalto le competenze di cui il decisore è portatore e «che lo inducono a vedere il problema e a concepire le alternative in un certo modo» …e con esse –finalmente– la conoscenza, richiamata anche dal bisogno di ‘informazioni’ di cui strutturalmente i ‘processi decisionali’ automatizzati necessitano. Questo, d’altro canto, ha però riconfermato l’insufficienza del solo apporto ‘informativo’ di fronte al forte peso giocato dal ‘fattore psicologico’: in particolare l’avversione/propensione al rischio. Non si può tuttavia ignorare come, in ambito giuridico, le cose assumano coordinate differenti: un approccio volitivo-emotivo, infatti, non è in grado di dar ragione della forte richiesta di motivazioni (condivisibili-accettabili) che così spesso si coglie nel vissuto reale davanti ad ogni ‘decisione’ che riguardi o coinvolga la vita delle persone. In tali casi, infatti, ciò che si richiede non è l’esplicitazione dei ‘gusti’ del decidente, o dei suoi desideri o propositi, ma delle sue ‘ragioni’, degli elementi cioè –anche ‘concreti’– la cui conoscenza ha indotto la decisione in oggetto. Tanto maggiormente tali ‘elementi’ saranno conosciuti e conoscibili (=ragioni), tanto maggiormente cresceranno le probabilità di condivisione/accettazione anche delle loro ‘naturali’ conseguenze (=decisione).
Occorre considerare inoltre come in campo giuridico, mentre di per sé non rilevano i ‘sentimenti’ e le ‘emozioni’ (de internis non iudicat Prætor), abbiano invece grande valore sia l’ignoranza che l’errore, proprio come vizi della conoscenza che incidono sulla volontà giuridicamente necessaria/rilevante affinché si abbiano “atti giuridici” validi: non si può ‘volere’ ciò che non si conosce o non si conosce in modo corretto! Un atto di volontà (=decisione) posto per/con difetto di adeguata conoscenza (=ignoranza o errore) è claudicante, aprendo qualche volta all’invalidità (ex tunc) e, molto più spesso, alla rescindibilità (ex nunc) di quanto incongruamente ‘deciso’, poiché –in fondo– non pienamente ed intenzionalmente ‘voluto’.
È necessario considerare anche, soprattutto per i giuristi (e lo specifico taglio delle presenti riflessioni), la differenza sostanziale tra la decisione per se stessi (di cui s’interessa principalmente la Psicologia) e quella per altri, come sono sempre quelle di governo e quelle giudiziali/arie. Anche a questo livello l’elemento cognitivo rileva specificamente ed in modo strutturale, poiché chi decide di altri (terzi) non può che farlo in base ad una ‘disponibilità’ degli elementi cognitivi necessari alla decisione stessa, che solitamente non gli è, però, connaturata. Chi, infatti, decide di se stesso (e per se stesso) dovrebbe ‘sapere’ e ‘conoscere’ quanto lo riguarda, chi, invece, deve decidere di altri (e ‘per’ loro) facilmente incontra proprio la difficoltà dell’adeguata conoscenza che, quindi, deve essere considerata come ‘parte’ integrante/strutturale della questione, senza che elementi diversi come la Potestà/Giurisdizione o l’autorità possano in qualche modo soccorrere ab extrinseco tale assenza. Proprio come accade in ambito di governo ed in Tribunale a chi debba decidere di fatti che ‘non conosce’.
Su tale decisione, poi, ricade anche la responsabilità in quanto rivolta al futuro dell’azione da compiere: un futuro che non è ab-solutus, prendendo consistenza autonomamente, ma ‘in conseguenza’ (almeno parziale) di quanto precedentemente deciso da chi aveva tale compito, tanto più se in modo ‘istituzionale’, com’è per l’attività di governo e quella giudiziale/aria.
1.2 Giudicare, giudizio
Anche a riguardo della nozione di giudizio, la questione della sua identificazione e definizione dal punto di vista concettuale/filosofico sembra porsi manifestamente in termini molto diversi da quelli cui il giurista è istintivamente portato, soprattutto dal punto di vista cognitivo.
1.2.1 Giudizi esistenziali L’approccio filosofico primario, infatti, pone in netta evidenza (e preminenza) la componente cognitiva del giudizio quella, cioè, che da Aristotele a Kant alla Logica moderna e contemporanea ha collocato il giudizio all’interno degli ‘strumenti’ della conoscenza, facendone il principale responsabile delle affermazioni cognitive. In tal modo il giudizio (di ‘esistenza’) viene colto non nella sua necessaria connessione e finalizzazione all’azione umana come tale, ma soltanto come strumento della conoscenza, promuovendone una concezione sostanzialmente ‘formale’. Ciò comporta però una radicale svalutazione della sua portata ‘esistenziale’ ed ‘operativa’ cui, per contro, tendono a rifarsi tanto l’approccio estetico che quelli morale e giuridico. Un tale giudizio si ‘limita’ così ad essere mero ‘strumento’ della sola ‘ragione’: una sorta di ‘moto/attività’ ad essa interno, che contribuisce –soltanto– al suo esercizio ma senza varcarne le soglie. Tale giudizio –di mera esistenza– in questo modo ‘struttura’ ed ‘esprime’ la conoscenza, prestandosi quale semplice strumento per la costruzione degli asserti –detti anche (significativamente!) “giudizi (esistenziali)”– attraverso i quali la conoscenza umana progredisce in modo ‘predicativo/proposizionale’. In tal modo, al di là di ogni successiva articolazione funzionale in differenti tipologie di giudizio, si enfatizza una visione del giudizio come affermazione di ‘verità predicativa’ circa la consistenza o meno del rapporto enunciato tra ‘soggetto’ e ‘predicato’, in una concezione puramente vero-funzionale che non può vantare alcun rapporto con la realtà (a cui tende, invece, la c.d. verità aletica) né con la vita, limitandosi –appunto– alla sola ‘verità’ dell’enunciato, della quale –non di meno– un giudizio di tal sorta non pare in grado di rendere adeguata ragione.
La storia del pensiero occidentale, di fatto incardinata (per questa tematica) su Aristotele e Kant, mostra però una sorta di strabismo/schizofrenia concettuale quando, nella concretezza di una riflessione più ampia, si trova a dover re-introdurre, per altra via, la dimensione/portata/funzione ‘pratica’ del giudizio, assolutamente necessario per un sensato discorrere sull’attività umana concreta. Ecco, allora, ri-apparire i giudizi ‘pratici’ espressamente indirizzati all’azione: è la ragion pratica che –storicamente– integra Etica, Morale e Diritto …fino alla più recente Politica. La quantità e qualità delle affermazioni via via poste in tale ambito, tuttavia, per quanto spesso in se stesse valevoli e condivisibili, non supera affatto il problema dello scarto tra ‘puro’ e ‘pratico’, universalità e contingenza, essenze ed enti (come variamente monumentalizzati sia negli aristotelismi che nei kantismi) continuando a mantenere il giudizio come semplice ‘tappa’ interna alle dinamiche cognitive …tanto ‘pure’ che ‘pratiche’, continuando ad alimentare le problematiche fondamentali sul rapporto tra le due dimensioni/parti della realtà: noumenica e fenomenica (secondo il vocabolario kantiano, di fatto ormai ampiamente recepito e metabolizzato). L’evidente esistenza ed irriducibilità (tra i giudizi pratici) di giudizi estetici e giudizi morali non fa altro che parcellizzare ancora maggiormente lo stesso concetto di giudizio, limitandone sempre più la portata e la consistenza, col moltiplicarne le ‘specie’.
1.2.2 Giudizi ‘comparativi’ Ciò però che non emerge in questa prospettiva (costituendone invero l’intrinseca debolezza e la difficile accettabilità teoretica e fondativa) è la portata dell’indispensabile elemento ‘pre-giudiziale’, quello, cioè, previo al giudizio di verità/congruità, tanto ‘puro’ che ‘pratico’: il ‘pre-supposto’ (assioma, dogma…). Di fatto, anche le più acute riflessioni sui ‘tipi’ di giudizio e sulla loro consistenza non mettono (mai?) in luce le ‘modalità’ del giudizio… la sua ‘struttura interna’: in primis la sua irrinunciabile struttura comparativa. Di fatto: non esiste giudizio alcuno dove non si abbia comparazione! Né si dà ‘vero’ giudizio tra elementi della stessa ‘specie’. Costitutiva del giudizio è, infatti, la possibilità/capacità di ‘conversione’ ad un’unica ratio di elementi, valori, fattori, costitutivamente differenti e –di per sé– incomparabili: proprio quello che –il ‘metafisico’(!)– Hume rifiutava. Diversamente non si avrebbe ‘giudizio’ ma semplice ‘calcolo’: come tanto desiderava (non meno metafisicamente) Leibniz!
Di fatto, ogni giudizio necessita di ‘presupposti’ già saldamente posseduti: conoscenze previe, poiché ciò che non si ‘conosce’ già, non potrà mai essere ritenuto elemento di comparazione (attiva o passiva). Il giudizio di verità, o congruità, o necessità, o utilità, deve infatti pronunciarsi sempre per via ‘comparativa’ rispetto a qualcosa che faccia da ‘referente referenziato’ (l’unità di misura, il ‘princeps analogatum’ che, proprio perché magis cognitum, permette una almeno minima comparazione, fosse anche solo ‘analogica’). Sotto questo profilo va considerato anche come sia del tutto illusorio pensare al giudizio come alla ‘bilancia’ attraverso la quale si possa realizzare tale comparazione. In realtà, infatti, l’attività del giudicare (=dare/esprimere giudizi) non s’identifica affatto con la bilancia in se stessa, ma sta ‘fuori’ della bilancia, collocandosi espressamente nella scelta del giusto ‘contrappeso’ affinché la bilancia evidenzi il raggiungimento o meno dell’equilibrio degli elementi da comparare. Proprio la bilancia rende bene l’idea del vero giudicare come ricerca del giusto equilibrio (=bilanciamento) tra fattori assolutamente diversi e disomogenei, colti però, –in casu sub determinata specie: il ‘peso’ per la bilancia (anziché la dimensione, la capacità, la temperatura, ecc.). Il ‘famoso’ kilogrammo di piume che ‘pesa’ quanto un kilogrammo di piombo! Il giudizio è sempre un’operazione che si attua non per similitudine (come l’analogia) ma per equivalenza …e la equi-valenza è sempre tale solo in riferimento ad una ‘valenza’ specifica e predeterminata prima ed al di fuori del suo strumento di ‘verifica’. La bilancia, in fondo, non “pesa” ma evidenzia l’equivalenza dei “pesi”.
1.3 Valutare, valutazione
Quanto –così– emerso in riferimento al giudizio come ponderazione e comparazione, pone in risalto l’elemento espressamente valutativo che, di fatto, ne costituisce il vero ‘cuore’, l’essenza irrinunciabile. Prendendo atto che la voce “valutazione” è assente nelle ordinarie ‘referenze’ concettuali di stampo filosofico, la sua concettualizzazione si rende maggiormente necessaria, per quanto più difficoltosa, proprio sotto il profilo concettuale (explicatio terminorum) che fa da raccordo di base alle presenti riflessioni.
Non pare discutibile la connessione semantica tra “valutare”, “valutazione”, “valore”, tanto nel senso di riconoscere che di attribuire valore a qualcosa. Si tratta senza dubbio di un’attività espressamente e prettamente ‘umana’ nel senso più profondo del termine, in quanto riferentesi ad un’attività di complessità notevole che, non solo nessuna ‘macchina’ potrebbe attuare, ma –più profondamente– ciascuno attua in modo del tutto ‘personale’ …e spesso anche discontinuo e non uniforme. Proprio l’estrema personalità di questa ‘operazione’ ha reso necessaria la messa a punto (sempre solo a livello di ‘criteri’) anche di una specifica Disciplina scientifica denominata “Estimo” il cui scopo consiste proprio nella corretta gestione di tale attività valutativa –o estimatoria, che dir si voglia–. Gli ambiti commerciale ed artistico possono dare una pur semplice idea di cosa significhi/comporti tal genere di attività, evidenziando con certezza la sua radicale irriducibilità a qualsiasi forma di ‘calcolo’ ed automatismo deterministici. La stessa irriducibilità del binomio valore-costo, di cui ciascuno ha esperienza pressoché quotidiana, testimonia la portata del problema anche solo a livello economico/commerciale, soprattutto quando gli ‘oggetti’ da valutare presentino caratteristiche di tutta specialità (tecnica o economica) oppure ‘dimensioni’ (mercato finanziario) o ‘requisiti’ fuori della portata delle singole persone. Non per nulla sono ormai di prassi comune le ‘perizie giurate’ oppure il ricorso alle c.d. ‘agenzie di rating’ attraverso cui i sistemi economici tentano di formalizzare in qualche modo qualcuno, almeno, degli elementi principali che concorrono alla necessaria ‘valutazione’ di molte componenti della nostra quotidianità, attribuendo il difficile compito estimatorio ‘ad altri’ in qualche modo esterni agli ‘oggetti’ di cui si tratta, nell’intento di conseguire una ‘oggettività’ di valutazione che superi la ‘soggettività’ di chi è ‘parte in causa’. Salvo dover considerare –ex post– anche l’inevitabile condizionamento che gli stessi ‘valutatori’ ricevono dall’essere loro stessi ‘parte del sistema’ valutativo.
Il problema non solo è non-deterministico, ma si pone spesso come anche extra-logico rifiutando così di piegarsi a qualunque ‘strumento’ intellettuale che l’umanità sia riuscita a concepire e porre in atto. Tanto più che –come progressivamente risulta dagli studi neuropsichiatrici– sono proprio ‘zone’ diverse del cervello umano ad essere chiamate ad operare già in ragione degli ‘oggetti’ considerati e non solo delle loro (im/)possibili correlazioni (mentali).
In questo contesto (correlato al giudizio) andrebbe anche tenuto presente il fatto che la valutazione è, di per sé, mono-referenziale: si gioca, cioè, elemento per elemento, oggetto per oggetto, circostanza per circostanza. L’attività estimatoria propriamente detta, infatti, poiché ha come proprio obiettivo la ‘valutazione’ di singole ‘realtà’ (per quanto sempre all’interno di determinati ‘contesti’, comunque ‘complessi’) si realizza però per ciascun ‘oggetto’ separatamente (indipendentemente dalla sua articolatezza e complessità). Ciò acquista un maggior risalto se si consideri come, invece, il giudicare costituisca un’attività espressamente pluri-referenziale in quanto trova la propria consistenza e specificità proprio nel rapportare-tra-loro più ‘realtà’ distinte, spesso anche portatrici di ‘valutazioni’ diverse, disorganiche e disarmoniche; quando non anche contraddittorie.
Nessuna ‘operazione’ (=calcolo) dunque, né ‘tecnica’ (=procedimento) in senso proprio, alla base della valutazione che terminerà in un giudizio su cui si baserà una decisione… senza tuttavia che questo precluda nei fatti tanto la valutazione che il giudizio che la decisione di cui le nostre vite sono quotidianamente ricolme. Quale referenzialità, dunque, occorre cercare e mettere in luce perché tutto ciò sia effettivamente ‘reale’ ed ‘umano’? Come dare fondamento e consistenza a tanta complessità? Si è già accennato alla conoscenza, di cui ciascun soggetto è portatore. Sarà essa la principale fonte di ‘referenze’ cui attingere nel riconoscere o attribuire (a seconda dei casi/oggetti) la necessaria/inevitabile valutazione a quanto entri nell’interesse del momento. È così, d’altra parte, che funzionano espressamente le attività ‘formative’ di coloro che saranno professionalmente chiamati ad esprimere ‘valutazioni’: ci si esercita su decine e decine di ‘oggetti’ di cui si conoscono perfettamente le caratteristiche individuative e percettive effettivamente rilevanti in modo da acquisire un ‘bagaglio di conoscenze’ ed un’esperienza tali da poter offrire un attendibile riferimento o parametro d’individuazione delle componenti maggiormente significative e della loro corretta valorizzazione. Maggiore è l’esperienza di cui si dispone, maggiori saranno di fatto le conoscenze cui potersi riferire per esprimere valutazioni corrette e plausibili …all’interno di un circolo virtuoso il cui ‘innesco’ e ‘volano’ rimane la conoscenza di cui ciascun soggetto è portatore, tanto consapevolmente che no. La controprova in re ipsa è data dai casi di amnesia, in cui è di tutta evidenza che proprio la perdita delle conoscenze precedentemente possedute produce una incapacità valutativa anche totale, poiché il soggetto si trova privato del terminus a quo (il magis cognitum) cui rapportare l’esperienza attuale.
Ciò apre, inevitabilmente, un ‘nuovo fronte’ nella riflessione concettuale su giudizio e decisione implicando, oltre al tema della conoscenza sin qui evocato, anche quello –complesso– delle ‘motivazioni’, cui si accennerà più oltre.
1.4 Giudicare e decidere
La necessaria relazione/dipendenza del decidere dal giudicare sin qui evidenziata permette così di porre in luce una componente assolutamente strutturale dell’esperienza giuridica occidentale (cui il Diritto della Chiesa appartiene a pieno titolo), spesso né vista né sospettata da parte dei giuristi, nella sua costante presenza all’interno di ciascun Ordinamento giuridico, tanto storico, che vigente. Si tratta proprio e allo stesso tempo della irriducibilità e –parziale– indistinzione e separabilità delle tre azioni di base di ogni attività che porti ad una ‘soluzione’ concreta da adottare: valutare-giudicare-decidere. Tre ‘momenti/fasi’ della stessa ‘attività’ che da secoli si cerca di ‘individuare’ con precisione e ‘separare’ e ‘garantire’ attraverso le più diverse formalizzazioni, in modo da poter (presumere di) prenderne/mantenerne in qualche modo il controllo. Una ‘attività’ però che, proprio perché assolutamente personale (propria, cioè, e peculiare di ogni e ciascun ‘soggetto’), continua a sottrarsi ad ogni possibile standardizzazione della sua sostanza più profonda. Conoscere, valutare, giudicare e decidere, infatti, coinvolgono la persona –tutta la persona– come tale, la esprimono e la implicano in modo irrinunciabile, al punto che nessuno può concretamente ‘farlo’ per qualcun altro. Quando anche, in effetti, si accettasse di ‘lasciar fare ad altri’ in realtà non si tratterebbe che di ‘assumere’ il risultato dell’altrui attività decisionale come valido anche per se stessi, ma non si potrebbe in alcun modo ‘far proprio’ il processo decisionale attuato da un’altra persona. Semplicemente si ‘condividerebbe’ la sua decisione. Unico ‘rimedio’ in qualche modo strutturale che si è potuto tentare di mettere in atto per attuare/garantire questo ‘controllo’ è stato la molteplicità e la ridondanza dei ‘Giudici’ e dei ‘Giudizi’, richiedendo sia Giudici collegiali che diversi gradi di Istanza che conformità delle Sentenze, ecc. L’assicurazione/garanzia, cioè, del risultato della ‘attività’ (di valutare-giudicare-decidere) messa in atto da un Giudice, attraverso la sua –almeno– ‘compatibilità’ con quella operata da altri. Allo stesso tempo emerge sempre maggiormente in tale ‘attività’ la determinanza del conoscere al fine di attuare adeguatamente il proprio valutare-giudicare-decidere. La conoscenza …e non ‘la Legge’, come in molti credono convintamente, è il vero motore di questa ‘attività’. Non è la ‘norma’ infatti, né la/una voluntas o auctoritas/Potestas/Iurisdictio a costituire il fulcro del ‘pronunciamento’ potestativo giuridico ma un insieme di elementi che coinvolgono ed interrogano profondamente la persona del decidente, prima ancora che il destinatario della Decisione.
In questa prospettiva occorre, pertanto, riconoscere che nessuna vera decisione viene mai assunta senza un previo giudizio, indicando così la giusta relazione tra le due attività: [prima] giudizio, [poi] decisione, senza che l’elemento terminologico immediato possa sconfessare la realtà secondo cui anche quella ‘giudiziale’ (la Sentenza) è una “decisione” vera e propria, non meno –di per sé– di un Decreto o di un Precetto o altro atto di potestà esecutiva di governo.
2. L’ORIZZONTE
Dopo aver (metodicamente) provveduto sin qui a “spareggiare le carte in tavola” attraverso la recognitio critica del sostanziale ambito di riferimento della tematica (pars denstruens della ricerca), mettendone in luce almeno alcuni dei ‘veri’ elementi portanti –al di là della loro comune percezione (soprattutto ‘giuridica’), è ora necessario ‘dichiarare’ l’obiettivo –il target– della riflessione in atto; obiettivo unitario ma complesso poiché articolato a più livelli. In effetti, termini, concetti, semantiche (dal punto di vista filosofico) non meno che procedimenti, norme ed Istituti giuridici (da quello giuridico) non riescono ad esaurire in tutto il suo spessore la tematica proposta: c’è infatti un pre-supposto che, per quanto remoto, non può essere lasciato in ombra poiché sarebbe proprio esso a ‘fare ombra’ su qualunque accenno o ipotesi di ‘risposta’ che la riflessione potrebbe offrire. Si tratta, niente meno, che della domanda di fondo dell’intera Modernità (europeo-continentale) da cui hanno preso origine la maggior parte delle sue espressioni –soprattutto negative– non solo per il pensiero cristiano-cattolico ma per lo stesso pensiero in sé e per sé.
2.1 La domanda
Referente sostanziale della questione/materia è Immanuel Kant (1724-1804) con la sua ‘necessaria’ –a suo modo d’intendere– separazione tra [a] percezione/rappresentazione della realtà e [b] sua consistenza ontologica: il ‘fenomeno’ (il reale per noi) e il ‘noumeno’ (il reale in sé), e tutte le conseguenti forme e tappe dell’incomunicabilità strutturale tra ‘soggetto’ e ‘oggetto’. “Ragion pura” e “ragion pratica” –ereditate (di fatto!) da un profondo passato ultramillenario– continueranno a spartirsi le misere spoglie di una realtà ormai ridotta a soli ‘ingredienti’ (le ‘essenze’ oggetto della ‘ragion pura’, e suoi aventi parte anche nelle generazioni pregresse) e ‘procedimenti’ (tutto quanto da –quasi– sempre indicato come ‘pratico’), senza nessuna possibilità di gustare la ‘fragranza’ di quanto davvero sperimentato nel fatto/atto (nella ‘meraviglia’) di vivere. Come se si volesse sostituire un mastro pasticcere con ‘qualcuno’ che legga una ricetta stando seduto in dispensa, tra uova, burro, latte e sacchetti di farina, zucchero e cacao!
È il grande problema del ‘nostro’ possibile accesso alla realtà: problema che sarebbe tuttavia inutile voler affrontare dal punto di vista ‘ontologico’ (come, invece, fecero gli idealisti ‘tedeschi’) quando non se ne fossero dapprima poste –e confermate– le sicure basi gnoseologiche in riferimento all’effettiva portata e consistenza del ‘pensato’ umano. Problema gnoseologico, dunque, e non ontologico, problema che, se risolto a favore dell’efficacia della conoscenza umana –che anche le Scienze moderne e la derivata Tecnologia confermano inoppugnabilmente– non può che riconoscere/accogliere un reale ‘punto di contatto’ –un transitus/medium– tra le ‘due sponde’ irriducibili della soggettività e dell’oggettività. Esattamente quanto può essere individuato in modo corretto nell’attività –tipicamente ed esclusivamente umana e personale– dell’“esprimere giudizi”! Ciò comporta due ‘corollari’ di portata –almeno giuridica– non trascurabile: vengono meno tanto [a] il riduzionismo del “calculemus” leibniziano che [b] il dualismo della fallacia naturalistica di Hume.
Le due posizioni (la prima delle quali costituisce soltanto un ‘consapevole’ miraggio, costantemente inseguito attraverso i secoli) nascondono in realtà lo stesso pre-supposto/anelito: l’assenza dell’apporto umano (personale) nel ‘rapporto’ con la realtà …senza, per altro, indicare ‘chi’ dovrebbe a quel punto ‘rapportarsi’ con tale realtà. Entrambe, infatti, attendono/pretendono/cercano la soluzione dall’esterno: una soluzione che, però, non potrà mai venir data né a Leibniz, a causa dell’irriducibile complessità del reale –cui il soggetto sempre appartiene …ed ‘attivamente’–, né a Hume, con la sua pretesa –non meno deterministica– di assimilare la necessità deontica a quella ontica affinché, proprio per questa via, essa stessa s’imponga al soggetto ‘modalmente’: come il cieco impulso ad una inconsapevole macchina. Non di meno va relegato tra le cianfrusaglie della soffitta il ‘geniale’ –quanto ingenuo– tentativo cartesiano di individuare ‘dove’ e ‘cosa’ avrebbe potuto/dovuto permettere –ancora fisicisticamente– tale interconnessione: la “ghiandola pineale” in quanto unico elemento di ‘asimmetria’ del cervello umano (allora conosciuto); la bizzarria della proposta non la declassa tuttavia alla banalità totale dal punto di vista concettuale in quanto, almeno, Cartesio aveva provato a cercare ‘qualcosa’ che appartenesse non alla ‘natura’ in sé o alla ‘ragione’ soltanto, ma all’uomo concreto: un passaggio non scontato per la vestale del “cogito”!
2.2 Un’ipotesi di soluzione
Pur non potendosi trattare che di qualche ‘sollecitazione’, gli elementi sin qui rilevati ed i fattori messi in luce paiono già sufficienti per indicare la direzione in cui cercare una possibile soluzione: si tratta, rinunciando ad ogni estrinsecismo, di porre al centro la persona, il soggetto agente, colui che –unico– pone in essere le azioni di giudicare e decidere …fino ad ‘agire’ nel senso più forte e concreto del termine. È questo, d’altra parte, l’ambito cui anche ‘classicamente’ ci si è riferiti per tutta la riflessione c.d. ‘pratica’, costantemente riconosciuta come, almeno, inevitabile, anche nelle ‘fasi’ maggiormente metafisiche delle riflessione occidentale. Porre al centro la persona, l’agente, significa, però, rimodulare il linguaggio –ed i relativi concetti e significati– passando da una prospettiva ‘statica’, com’è quella basata sulle essenze, ad una prospettiva ‘dinamica’, connessa, invece, all’azione. Sarà così necessario rinunciare –per quanto realmente possibile– ai ‘sostantivi’ (tutti astratti e, perciò, falsamente ‘univoci’ e, soprattutto, ‘reali’) per riconoscere il primato dei ‘verbi’ indicanti ‘azione’); non più, quindi: (‘la’) valutazione, (‘la’) motivazione, (‘il’) giudizio, (‘la’) decisione, ma: valutare, motivare, giudicare, decidere, ponendo nelle mani della persona come tale il compito e la responsabilità di ‘farlo’, agendo in tal modo/senso. E, non di meno, riconoscendo solo a lei tale capacità e possibilità. Cosa sarebbero, infatti, decisione e giudizio in un mondo delle ‘essenze’ in cui nulla si muove e nulla accade? Decidere e giudicare, al contrario, ‘si fanno’. Appartengono necessariamente alla dimensione dell’esistenza e dell’azione: singolare e personale (non universale, né di un –generico/aspecifico– ente). E proprio nell’esistenza e nell’azione l’uomo ha la necessità, spesso inderogabile ed inevitabile, di dover giudicare e decidere …e di doverlo fare proprio per ‘unire’, ‘congiungere’, ciò che nella realtà (percepita) appare –invece– diviso e separato …o tale è diventato. Si evidenzia così come sia la persona come tale a porsi quale ‘ponte’ tra le due ‘sponde’ della realtà: quella oggettiva (che le si pone di fronte) e quella soggettiva (che ‘è’ lei stessa), tenendole ‘connesse’, almeno in alcuni snodi irrinunciabili …come una vera e propria ‘cerniera’. Ciò, tuttavia, sempre ‘agendo’: compiendo cioè quelle ‘operazioni’ che, uniche, possono offrirle il necessario risultato.
2.3 Una luce sul cammino
Quanto sin qui detto sembra trovare una buona base teoretica di riferimento nella riflessione (e nell’opera) del Gesuita canadese B. Lonergan (1904-1984) il quale, nella sua teoria gnoseologica, pone il giudicare ed il decidere quali tappe qualificanti dello stesso processo del conoscere che vede appunto nella persona la propria ‘sede’ e referenza più autentica. Secondo Lonergan, infatti, ogni conoscenza (meglio: azione di conoscere) si articola sempre attraverso quattro azioni cicliche: osservare, capire (=avere Insight), giudicare, decidere, che ciascuno deve compiere, non essendo riconducibili (kantianamente) alla ‘opera’(?) di ‘una/la’ ragione (pura o pratica), ma della persona stessa, che diventa così la (unica) vera protagonista del rapporto con la realtà. In questo, anzi, Lonergan non parla affatto di ‘ragione’: la dea sette-ottocentesca cui l’umanità aveva fatto voto (e scempio!) di sé… accettando di sacrificarle ogni altra componente/espressione della persona; dovendosi considerare anche come –per di più– l’autogoal anti-razionalistico sia venuto addirittura non dal pensiero ‘cattolico’ ma da quello del ‘sospetto’ razionalista/determinista di Freud, con la sua consegna dell’uomo –anche– all’inconscio ed ai suoi ‘istinti’ indomiti.
Giudicare e decidere sono, invece, per Lonergan le due ‘tappe’ qualificate e qualificanti del conoscere (attivo) umano; tappe che si percorrono –solo– dopo aver ‘colto’ (attraverso l’Insight) il vero ‘cuore’ delle realtà a cui ci si sia accostati criticamente osservando con attenzione ciò che l’esperienza pro-pone (ob-jetta) a ciascun soggetto come effettivo ‘contatto sensibile’ con quella realtà cui lui stesso appartiene.
2.3.1 Giudicare in Lonergan Secondo Lonergan l’intellezione delle realtà di cui si sia fatta esperienza genera “domande per intelligenza” che mettono in luce l’esistenza di “qualcosa da comprendere”; le molteplici possibili risposte a queste domande vanno però vagliate per trattenere quelle che rispondano al ‘vero’ (almeno probabile): sono le “domande per riflessione” alle quali si risponde in modo affermativo o negativo, integrandole o meno alla propria conoscenza. L’offrire risposte affermative o negative, l’essere d’accordo o in disaccordo, l’assentire o dissentire, sono frutto del giudicare. In tal modo il giudizio è l’ultimo atto in una serie che inizia dalle ‘presentazioni’ della realtà emergenti dall’osservazione critica ed avanza attraverso comprensione e formulazione (operate dall’intellezione) per raggiungere poi la riflessione (che si opera nel giudizio) e, di conseguenza, l’affermazione o negazione. Il contenuto peculiare del giudizio: il “sì” o “no”, costituisce così un parziale incremento ‘finale’ nel processo conoscitivo. Il giudizio, poi, in quanto accoglienza o rifiuto di una ‘comprensione’ della realtà, costituisce e genera un “impegno personale”, e comporta l’“assumersi una responsabilità” connessa alla comprensione della realtà cui si è aderito:
«perché alla domanda per riflessione si può rispondere non solo con sì o no, ma anche con “non lo so”; si può rispondere in modo assertorio o modale, con certezza o solo probabilità; infine, la domanda in quanto presentata può essere accantonata, possono essere introdotte distinzioni e possono essere formulate nuove domande. La varietà di possibili risposte rende piena ragione delle sventure e debolezze della persona che risponde e col medesimo colpo chiude la porta a possibili scuse per gli errori. Un giudizio è responsabilità di colui che giudica. E un impegno personale».
Ciò che, tuttavia, interessa maggiormente Lonergan a riguardo del giudizio non è tanto la sua ‘logica’ o dinamica interna, quanto il suo legame strutturale con l’intero agire umano: l’aspetto contestuale del giudizio. Per quanto, infatti, singoli giudizi conducano a singoli passi nelle ricerche verso la loro conclusione, nondimeno i singoli passi sono connessi l’uno con l’altro in un modo altamente complesso poiché mai distaccato dai ‘contesti’ esperienziali ed esistenziali di ciascuno. L’aspetto contestuale del giudizio appare così in tre maniere:
«c’è la relazione del presente al passato. Perciò, i giudizi passati rimangono con noi. Essi formano un orientamento abituale, presente e operativo, ma solo da dietro le quinte. Essi governano la direzione dell’attenzione, valutano le intellezioni, guidano le formulazioni e influenzano l’accettazione o il rigetto di nuovi giudizi. Le intellezioni precedenti rimangono con noi. Esse facilitano l’accadimento di fresche intellezioni, esercitano la loro influenza sulle nuove formulazioni, forniscono presupposti che sono alla base di nuovi giudizi o negli stessi campi di ricerca, o in campi connessi, o in quelli meramente analoghi. Di qui, quando un nuovo giudizio è fatto, c’è in noi un contesto abituale di intellezioni e altri giudizi, ed esso è pronto a elucidare il giudizio appena compiuto, a completarlo, a bilanciarlo, a trarre distinzioni, ad aggiungere qualificazioni, a fornire difesa, a offrire evidenza o prova, a tentare persuasione.  In secondo luogo, ci sono le relazioni entro il presente. I giudizi esistenti possono essere trovati in conflitto e, così, liberano il processo dialettico. Ancora, quand’anche non fossero in conflitto, essi possono non essere completamente indipendenti l’uno dall’altro e, così, stimolano lo sforzo logico per la coerenza organizzata.  In terzo luogo, ci sono le relazioni del presente al futuro. Le domande a cui rispondiamo sono poche in confronto con le domande che attendono una risposta. Il conoscere è una struttura dinamica. Se ogni giudizio è un incremento totale che consiste di molte parti, nondimeno esso è solo un minuscolo contributo nei confronti dell’intero della conoscenza».
Questo, tuttavia, non è il ‘tutto’ del giudizio come tale; esiste infatti un’altra consapevolezza necessaria da acquisire intorno ai nostri ‘giudizi’: essi, pur cumulativi –e cumulabili–, rimangono infatti sempre ‘puntuali’, parziali, incompleti, aperti all’ulteriorità della conoscenza indotta dalla continua e variegata esperienza del vivere.
«Noi, infatti, non possiamo fare se non un giudizio alla volta, e un singolo giudizio non può portare tutto quello che noi conosciamo alla luce piena del conoscere effettivo. […] Tutto quello che conosciamo è in qualche modo con noi; è presente e operativo nel nostro conoscere; ma si cela dietro le quinte e rivela se stesso soltanto nell’esattezza con cui ogni più piccolo incremento al nostro conoscere è effettuato. L’occupazione della mente umana in questa vita sembra essere non la contemplazione di ciò che conosciamo, ma l’inesorabile dedizione al compito di aggiungere incrementi a una conoscenza meramente abituale».
Esprimere un giudizio, quindi, non comporta immediatamente la risoluzione delle questioni, dei dubbi, delle ipotesi… ma soltanto il ‘fissare’ gli ‘elementi’ strutturali per la soluzione finale; elementi chiari e quanto più possibile certi ma non ancora esaustivi della complessità cui si deve far fronte tanto per la conoscenza che per la successiva azione.
2.3.2 Decidere in Lonergan Cuore della fase ‘risolutoria’ (tanto della conoscenza che dell’azione) è la decisione: è soltanto essa che pone fine, all’interno di ciascun ‘ciclo’ gnoseologico, al cumulo inarrestabile dei giudizi, fissando di tappa in tappa il punto della situazione ed indicando la direzione operativa da seguire per il futuro. Essa è un “atto di volere” che «possiede le alternative interne di acconsentire o di rifiutare» –quando si tratti della conoscenza– e quelle ‘esterne’ di scegliere tra più “corsi di azione” differenti considerati simultaneamente ed in alternativa reciproca, assumendone responsabilmente uno e scartando tutti gli altri. La sua peculiarità, tuttavia, non appare che confrontandola col giudizio, cui si connette ed integra.
«La decisione, allora, assomiglia al giudizio dal momento che entrambi selezionano un membro di una coppia di elementi contraddittori; come il giudizio o afferma o nega, così la decisione o acconsente o rifiuta. Ancora, sia la decisione sia il giudizio si interessano dell’attualità; il giudizio, però, si interessa di completare la conoscenza, da parte di una persona, di un’attualità che già esiste, mentre la decisione si interessa di conferire attualità a un corso di azione che altrimenti non esisterà. Infine, sia la decisione sia il giudizio sono razionali, poiché entrambi trattano oggetti appresi con l’intellezione ed entrambi accadono a causa di un riflessivo afferrare le ragioni.  Comunque, c’è una differenza radicale tra la razionalità del giudizio e la razionalità della decisione. Il giudizio è un atto della coscienza razionale, ma la decisione è atto dell’auto-coscienza razionale. La razionalità del giudizio emerge nel dispiegarsi del distaccato e disinteressato desiderio di conoscere nel processo verso la conoscenza dell’universo dell’essere. La razionalità della decisione emerge, invece, nella richiesta del soggetto razionalmente cosciente per la coerenza tra il suo conoscere e il suo decidere e fare».
La decisione, pertanto, non è legata solo alla razionalità ma si radica ultimamente nella coscienza, non però del “corso d’azione” prospettato in quanto semplice ‘oggetto gnoseologico’ o dei motivi della sua possibile/raccomandabile scelta, ma dell’azione stessa da porre in atto e delle sue conseguenze, sempre solo ‘valutabili’ e mai davvero ‘conoscibili’ a priori. Ciò che la sbilancia sul futuro, a differenza del giudizio sempre conseguente al passato. Di più. La decisione in quanto espressione della volontà e della coscienza potrebbe anche sottrarsi alle esigenze della razionalità cui, invece, i giudizi corretti non sfuggono. Infatti:
«io non posso impedire che domande per riflessione sorgano; una volta che sorgono, io non posso mettere da parte la richiesta della mia razionalità che io assentisca se, e solo se, io affermi il virtualmente incondizionato; e, una volta che io giudichi che devo agire in una determinata maniera, che non posso sia essere ragionevole sia agire altrimenti, allora la mia ragionevolezza è collegata all’atto da un legame di necessità. Tale è il significato dell’obbligazione».
Non di meno, però, «rimane il fatto che io posso mancare di soddisfare le mie obbligazioni conosciute, che il ferreo legame di necessità può risultare essere un fascetta di paglia», poiché mentre «la razionalità che impone un’obbligazione non è condizionata internamente da un atto di volontà», al contrario quella «che adempie a un’obbligazione è condizionata internamente dall’accadimento di un atto ragionevole di volontà». Di fatti:
«il soggetto razionale, in quanto adempie a un’obbligazione, non è solo un conoscente, ma anche un facente, e la sua razionalità non consiste meramente nell’escludere l’interferenza col processo cognitivo, ma anche nell’estendere la razionalità del suo conoscere nel campo del fare. Quella estensione, però, non accade semplicemente conoscendo le proprie obbligazioni. Accade proprio dal momento che uno vuole far fronte alle proprie obbligazioni».
Lonergan introduce qui, allora, quello che costituisce il vero elemento differenziale rispetto alla modernità (tedesca): l’auto-coscienza del decidente, distinta dalla semplice coscienza del conoscente, superando d’impeto tutte le attribuzioni dello ‘spirito’ (=Geist) e centrando senza esitazioni l’azione nel singolo soggetto ‘personale’;
«la coscienza razionale viene trasformata in auto-coscienza razionale. Ciò che nel contesto della coscienza razionale è una necessità razionale, nel contesto dell’auto-coscienza razionale diviene un’esigenza razionale. […] È l’aggiunta dell’ulteriore esigenza costitutiva di un atto di volontà che (1) segna lo spostamento dalla coscienza razionale all’auto-coscienza razionale e (2) cambia ciò che è necessità razionale nel campo del conoscere in esigenza razionale nel più ampio campo sia del conoscere che del fare».
Innegabile che una tale ‘dipendenza’ della decisione personale de futuro dalla volontà in præsenti l’assoggetti però ad una radicale contingenza:
«infatti, le intellezioni che rivelano possibili corsi di azione rivelano anche che essi non sono necessità, ma mere possibilità, bisognose di valutazione riflessiva. La valutazione riflessiva, a sua volta, porta alla luce non ciò che deve essere così, ma meramente ciò che, per tali e tali ragioni, può essere scelto o rigettato. In ultimo, anche quando la valutazione riflessiva rivela che solo un corso di azione è ragionevole, nondimeno c’è bisogno della ragionevolezza del volere attuale; e, come la ragionevolezza degli atti umani di volontà non è una dotazione naturale, ma una conquista personale sempre incerta, c’è una terza e finale contingenza per l’attualità dei corsi di azione. In particolare, si noterebbe la fallacia in ogni argomento dal conoscere determinato al volere determinato».
Ciò che rilancia in pienezza l’assoluta ed irrinunciabile ‘personalità’ della decisione che sempre occorrerà tenere in considerazione in ogni ambito dell’agire, soprattutto giuridico.
2.4 Un ulteriore presupposto fondativo
Non si può ignorare come la concezione lonerganiana della conoscenza e dei suoi processi ‘interni’ sia stata efficacemente preceduta (e come introdotta) in Europa dalla riflessione c.d. fenomenologica, proposta da E. Husserl (1859-1938) alle soglie del XX sec. e perseguita e perfezionata da molti e valenti autori della prima metà del Novecento (tra cui, in primis, E. Stein, 1891-1942), fino ad un vero e proprio culmine nel pensiero filosofico, teologico e spirituale di K. Wojtyla (1920-2005). Lo sviluppo di tale Fenomenologia è avvenuto in modo pressoché parallelo (e spesso ‘integrante’) con altre innovative istanze filosofiche del Novecento quali: Ermeneutica, Esistenzialismo, Personalismo, ponendo sempre al centro la persona ed il suo ‘agire’ soprattutto per quanto ne riguarda le ‘modalità interiori’. La questione portante per Husserl fu infatti mettere a punto
«una Fenomenologia della coscienza di contro ad una Scienza naturale della coscienza. […] cosa che potremmo esprimere dicendo che la Psicologia ha a che fare con la “coscienza empirica”, con la coscienza colta nell’atteggiamento empirico, intesa come qualcosa che esiste nella connessione della natura; di contro, la Fenomenologia tratta della “pura” coscienza, vale a dire della coscienza colta nell’atteggiamento fenomenologico».
Non si può ignorare come, in effetti, si sia trattato di una vera rivoluzione copernicana rispetto al precedente pensiero ‘continentale’: la Fenomenologia che si articola e studia nel Novecento non è più, infatti, quella de ‘lo’ spirito (das Geist) di hegeliana forma e memoria (quanto diverso in ciò dalla kantiana ‘ragione’?) ma quella della ‘persona’ come tale nel suo continuo ‘essere-divenire’ modellato da una coscienza non più ridotta/riducibile al –solo– cartesiano “cogito”. Ciò evidenzia come la tematica fenomenologico-coscienziale rivesta una portata assolutamente di prim’ordine in relazione soprattutto alla dinamica del valutare-giudicare-decidere intorno a cui si ‘condensano’ le maggiori peculiarità dell’umano e del personale, in qualunque ‘momento’ della sua attività. Detto in altri termini: ‘cosa’ avviene –e ‘come’ ciò avviene– nella persona che valuta-giudica-decide? Ancora: ‘cosa/come’ cambia quest’attività quando destinatario del valutare-giudicare-decidere non sia la persona stessa (il decidente) ma un altro? Un ‘altro’ generico, anonimo, sconosciuto, oppure un ‘altro’ specifico, personale, amato/odiato? Come, non tanto le ‘funzioni’ celebrali (di cui tratta la Neuro-psichiatria contemporanea), ma la coscienza di sé e della realtà intervengono in tale processo? Che cosa ciò comporta in sede di premesse e presupposti e che cosa implica in fatto di conseguenze ed esiti del valutare-giudicare-decidere?
All’interno di un orizzonte di questa ampiezza e portata diventa inevitabile considerare come ciò che l’attività giuridica e molte delle sue teorizzazioni hanno spesso ridotto a ‘forme’, ‘sostanze’, ‘nature’, ‘fattispecie’, ecc. non possa ricevere credibilità –e ‘sostenibilià’ alcuna– se si tralascia e trascura la persona. Oppure se si fa di essa soltanto un semplice esecutore o fruitore di uno Ius (pre-esistente e ‘congenito’) da cercare e scoprire …ed a cui ‘sottomettersi’ come ad un trascendentale dell’umano, una sua ‘possibilità’ di essere. Al contrario: solo la coscienza del proprio ed altrui vivere può ‘animare’ questo ‘mondo’ facendone un habitat davvero adatto alla persona come tale ed alle relazioni senza delle quali ci si ritrova ad essere soltanto ‘individui’ …per quanto giuridicamente dotati.
2.5 La componente psicologica
Conoscere, valutare, giudicare, decidere, sono attività non solo espressamente ‘umane’ ma assolutamente ‘personali’: solo la persona –ed ogni/ciascuna persona– è in grado di ‘svolgere’ tali attività e, non di meno, in ‘modi’ e soprattutto con ‘esiti’ spesso molto diversi anche di volta in volta, non solo in tempi diversi (p.es., a distanza di anni) ma anche in luoghi diversi (circostanze ambientali o socio-affettive). Ciò comporta la necessità di dedicare alla persona come tale una speciale attenzione che sappia (di dover) andare ben al di là di qualunque formalizzazione di queste ‘attività’ che non sono e non restano mai confinate alla sola ‘ragione’ (vigile e critica) ma coinvolgono aspetti percettivi ed affettivi spesso anche dalle radici inconsce (senza che ciò ne faccia necessariamente delle psicopatologie). Senza dare qui spazio alla possibile/necessaria dialettica tra ‘sapere’ e ‘credere’ (conoscenza e convinzione), tipica della Logica epistemica, vanno invece poste in risalto le dinamiche più proprie della consapevolezza cui ogni attività personale è connessa: proprio ciò che manca ad ogni ‘processore’ semplicemente logico …e che nessuna ‘logica neuronale’, per quanto complessa, articolata e ‘realistica’, potrà eguagliare o sostituire. Porre al centro la persona consapevole significa, per la Psicologia, delimitare innanzitutto le proprie competenze di analisi riconoscendole collocate al solo livello ‘descrittivo’ (dell’agire individuale) e non ‘essenziale’ (=della ‘natura’ umana come tale). L’approccio psicologico, infatti, s’indirizza essenzialmente all’individuazione ed allo studio delle preferenze individuali di ciascun ‘singolo’ (livello c.d. idiosincratico) piuttosto che alla ricerca di ‘leggi generali’ del comportamento o alla formulazione di teorie comprensive dell’agire umano come tale (livello c.d. nomotetico). La Psicologia, per parte sua, non entra nello statuto ontologico del processo di valutare-giudicare-decidere ma nella sua declinazione di fatto, ponendo –non di meno– la questione interdisciplinare dell’invenimento delle possibili mediazioni fra il dato di fatto (=è così perché succede così) e il dato di necessità (=succede così perché è così).
Che cosa dunque ‘accada’ nella persona –ed alla persona– che conosce, valuta, giudica, decide, è qualcosa che non si può ridurre a schematismi teorici (generali), per quanto articolati e complessi; si tratta invece di assumerne la dimensione e portata ‘immanente’ e ‘relativa’ ad ogni singola(re) esperienza esistenziale/personale. Da essa sgorgano intuizioni che connettono tra loro conoscenza ed affettività, pianificazione di sé e identità di sé, presente (parzialmente noto) e futuro (solo supposto), in dipendenza/relazione da un passato –pure– solo parzialmente percepito (parte consciamente e parte no). Tutti elementi che, intrecciandosi fra loro, possono rafforzare, indebolire o distorcere –ma raramente abolire– le modalità e gli esiti del processo decisionale e, prima ancora, dotano il soggetto di una sua ‘antropologia di fatto’ (e spesso non esplicitata) circa gli antecedenti del suo decidersi.
È in quest’orizzonte che si delinea l’ampio campo delle motivazioni e, più ancora, della loro espressione e recepibilità da parte di ciascuno. Le preferenze, infatti, non meno che i ricordi, le convinzioni ed aspirazioni, intervengono in modo deciso –e spesso anche preponderante–, accanto alla conoscenza, all’interno dei processi valutativi e di giudizio che preludono ad ogni decisione, tanto positiva (per agire) che negativa (per l’inerzia e la rinuncia). Proprio questi fattori assolutamente ‘personali’ –e spesso imponderabili per i terzi– possono tuttavia costituire un elemento altamente significativo nella condivisibilità tanto delle valutazioni che dei giudizi che delle –conseguenti– decisioni.
3. IN IURE
Le questioni, di grande complessità già dal punto di vista concettuale generale sin qui illustrato, non diventano certo più semplici quando ci si addentri espressamente nell’ambito giuridico, ove anche solo la relazione tra Decisio” e “Iudicium” è in grado di porre interrogativi e questioni di portata ingovernabile. Non sarà questo, tuttavia, l’approccio proposto alle diverse tematiche ‘giuridiche’, le quali verranno sollecitate in modo più ‘settoriale’, su elementi specifici che aiutino a cogliere la problematica da punti di vista ‘complementari’, sempre alla ricerca di un plausibile chiarimento di quei termini e concetti cui troppo spesso la dottrina (e qualche Legislatore) ricorre in modo semplicistico e senza sufficienti avvertenze.
3.1 Un indizio semantico
Proprio in vista del poter porre domande specifiche a varie Discipline giuridiche intorno al tema del rapporto tra decidere e giudicare, appare quantomeno interessante la proposta di un ulteriore elemento concettuale (e problematico) che possa fare da trait-d’union tra i diversi approcci e, allo stesso tempo, offrire elementi di riflessione e concettualizzazione ‘fondamentale’ sul tema in esame. Si tratta del concetto stesso di “Ius” da cui derivano –in un modo o nell’altro– tutti gli altri ‘termini’ dell’ambito giuridico. Senza addentrarsi nella ricerca semantica (già svolta anche reiteratamente in dottrina) sull’origine del termine Ius, appare più proficuo e fruttuoso ripercorrerne le principali fasi di evoluzione storico-funzionale che hanno progressivamente portato alla nascita dei termini “Iuris-dictio”, “Iudicium”, “Iudex”, “iustum”, “iustitia”. Pare ovvio, d’altra parte, dal punto di vista antropologico e culturale che il lemma più semplice e concretamente fruibile sia quello ‘originario’ che ha dato l’innesco alla successiva ‘evoluzione semantica’ per le realtà connesse al suo ambito esistenziale. Ciò spinge quindi ad esaminare i termini non in modo sincronico ponendone in luce le ‘attuali’ –solo presunte– interconnessioni semantiche (ormai rigidamente ‘fissate’ ed interconnesse a livello concettuale da secoli di consumato utilizzo), ma in modo diacronico cercando di evidenziare ‘che cosa’ (‘lungo’ e ‘nel’ vivere umano) ha generato ‘che cosa’, non potendo trascurare in questo approccio la consapevolezza della ‘categorialità’ del Diritto, ben espressa dall’adagio “Ius sequitur vitam”.
L’evoluzione del Diritto romano (principale referente e responsabile in materia, almeno per il linguaggio giuridico, e le derivate categorie e dottrine, del mondo occidentale) è chiara: lo Ius è, alle origini, il pronunciamento (dictum/decretum) su base divinatoria dello stato di fatto da accettarsi dai contendenti che abbiano sottoposto –mediatamente– alla divinità la loro disputa a motivo di interessi contrastanti connessi alle medesime cose. L’ordalia nelle sue forme più primitive lo testimonia chiaramente: essa è il “giudizio di Dio”, la sua “parola” sulla situazione contestata (sententia/decretum)! Proprio a partire da tale comportamento lo Ius si presenta come pronunciamento conclusivo della soluzione pacifica e pacificante della contesa sorta tra membri della stessa comunità esistenziale (spesso religioso-politica). I Pontifices/Sacerdotes, allacciando un rapporto speciale (divinatorio) con la divinità, “Ius dicunt”: chiudono la lite e sanano la convivenza sociale in nome di un dictum/decretum che, in quanto ‘divino’ nella propria origine (almeno funzionale), deve essere recepito e rispettato per quello che è e vale. “Ius” e “Fas”, rispondono così a domande diverse poste alla divinità sul comportamento umano da tenersi: Ius a riguardo delle relazioni inter-umane, Fas a riguardo di quelle tra uomo e divinità. In tal modo viene indicato e qualificato come “iustum” ciò che corrisponde allo Ius nelle relazioni inter-soggettive (sociali) rendendo “iustus” chi le rispetta, “fastum” ciò che corrisponde al Fas nella relazione religiosa (ed etico-morale immancabilmente connessa/derivata) rendendo “pius” chi le osserva. L’attività attraverso cui si proclama tale ‘verdetto divino’ –dictum/decretum– (ovviamente inappellabile!) è la “Iuris-dictio” (dicere Ius), la circostanza in cui ciò si attua prende il nome derivato di “Iudicium”; di lì a poco lo stesso Pontifex/Sacerdos sarà sostituito, in tale funzione, dal “Iudex”. Il Iudicium si svolgerà a lungo dapprima secondo modalità ancora di stretta matrice sacrale come nella “Legis actio sacramento” (attraverso cioè il giuramento ‘religioso’ come tale), poi in modo ‘formulare’ (“per formulas”): attraverso la ‘proclamazione’ (=dicere) di “formulæ” fisse con cui, sostanzialmente, le parti si sfidavano reciprocamente finché colui che sapeva di non dire la verità taceva soggiacendo all’altrui posizione/pretesa. La volontaria osservanza di quanto è “iustum” (in quanto così indicato dal dictum/decretum espresso in Iudicio) costituisce la preziosissima virtù sociale della “iustitia”: uno dei ‘cardini’ (da cui: virtù cardinale) di qualunque umana società e della sua stessa sopravvivenza. La sua tematizzazione ad opera di Ulpiano è cristallina in merito: «iustitia est constans et perpetua voluntas Ius suum cuique tribuendi» …in un tempo in cui lo Ius era già divenuto il ‘contenuto’ stesso del dictum da parte dello Iudex; un ‘contenuto’ che ormai può essere anche ‘fissato’ in concetti (Iurisprudentia) o formalmente rivendicato davanti ad altri Iudices (actiones).
L’intero vissuto umano, d’altra parte, indirizza con chiarezza in tale direzione: poiché, infatti, lo ‘Ius’ (= soluzione pacifica e pacificante del conflitto di interessi esistenziali) a volte non ‘appare’ evidente o forse condiviso dalle parti (che lo ritengono in-iustum), ci si affida ad un ‘altro’ (il ‘terzo’, Iudex) che lo indichi o lo proclami (Ius dicere) attraverso un Iudicium. In tal modo lo Ius non è qualcosa in sé, ma il ‘risultato’ di un’attività assolutamente specifica che solo un ‘esterno’ può compiere: lo “Ius-dicere” (e la divinità era quanto di più ‘esterno’ potevasi invocare). Ciò corrisponde anche alla stessa evoluzione dei meccanismi giudiziari (e conseguentemente giuridici). Lo Ius è il pronunciamento dello Iudex in Iudicio quale soluzione pacifica e pacificante del conflitto: Ius ob noxium …Non ex natura! Da qui tutte le successive ‘astrazioni’ e formalizzazioni semantico-funzionali: [a] iustum è quanto corrisponde allo Ius, [b] iustus è colui che si attiene allo Ius, rispettandolo e facendosene, eventualmente, carico, [c] iustitia diventa il fedele rispetto e la tutela proprio di tale Ius, ciò che ‘qualifica’ il comportamento di chi è iustus.
Anche se solo in modo complementare, ma altamente significativo per la ‘tenuta’ storica dei fatti e dei concetti che ne derivano, va considerato come la stessa ‘logica’ risulti sottostare anche alla qualificazione biblica di Dio come “giudice” (e più spesso “giusto giudice”) ponendone in risalto proprio questa funzione in qualche modo originaria: essere la ‘fonte’ dello Ius (i “suoi giusti decreti” di cui traboccano i Salmi e gli scritti sapienziali). In quest’ottica l’uomo “giusto” è proprio colui che si attiene ai “decreti” (=decisioni, giudizi, volontà) di Dio, e questa è –anche– la “giustizia” biblicamente intesa (Ius e Fas, insieme). Lapidaria in merito l’espressione del Libro del Siracide: “il Signore è Giudice e per lui non c’è preferenza di persone” (Sir 35, 15). Questa iustitia ‘biblica’ (quella di Abramo, dei Patriarchi e profeti, di Giuseppe di Nazareth) –che non ha nulla di ‘giuridico’– corrisponde in realtà alla pietas romana, evidenziando di rimbalzo l’origine e la profonda valenza ‘religiosa’ della sua costitutiva connessione-dipendenza dalla divinità.
Una tal consapevolezza, oltre all’aderenza all’evoluzione storica di concetti ed Istituti, evita chiaramente anche la dubbia circolarità tra i diversi elementi (Ius, iustum, iustitia) che s’incontra, invece, nella teorizzazione che vuole la giustizia concretizzare il Diritto e viceversa (Ius obiectum virtutis iustitiæ; iustitia … dare unicuique ius suum): la c.d. teoria del “realismo giuridico classico” che, in realtà, non supera in nulla la semplice tautologia. Si consideri, poi, che la giustizia –in quanto ‘virtù’– non è ‘qualcosa’ in sé, una res (e neppure un ‘valore’), ma un modo di comportarsi (un habitus) che, per di più, riguarda sostanzialmente la volontà (firma et constans voluntas) e, quindi, la sua ‘realizzazione’ non può che attuarsi nel comportamento di ciascun ‘singolo’ soggetto virtuoso …nel suo individuale stile di vita (dimensione etico-morale). Cosa abbiano a che fare con tale atteggiamento personale un Iudex, uno Ius-dicere, uno Ius, non pare logicamente, e concretamente, arguibile. Che, di fatto, la crescita irrefrenabile del fenomeno giuridico come tale (in ragione del complessificarsi del vivere socio-istituzionale) abbia portato ad uno slittamento (prima semantico e poi concettuale) verso una “iustitia” (come res) in qualche modo auto-poietica e di portata assiologica così da farne l’esito finale dell’intera attività giuridica è comprensibile dal punto di vista socio-antropologico, pur rimanendo assolutamente problematico nella sua assunzione di principio a livello teoretico e concettuale, oltre che operativo.
Altro elemento che merita attenzione in questa ‘prospettiva’ teoretica –ma anche/soprattutto storica– è l’assenza totale ai vari ‘stadi’ evolutivi concettuali di una Lex, o qualcosa di simile, che indichi, motivi o definisca, in qualunque maniera, cosa sia “Ius”, in modo che questo ne possa o debba in qualche modo dipendere.
3.2 Giudicare e decidere nella pratica giuridica
Se in tal modo stanno (o possono fondatamente e ragionevolmente porsi) le cose, il contributo chiarificatorio derivabile dalla pressoché totalità delle forme e modalità di individuazione formale ed efficace (=Iudicium) e “pronuncia della soluzione pacifica e pacificante dei conflitti esistenziali creatisi nel vivere umano” (=Ius) diventa decisivo per comprendere meglio cosa significhino, presuppongano e comportino, “giudicare e decidere”, prima di tutto nella giuridicità occidentale odierna, poi nella Chiesa stessa.
Ai tecnici del Diritto si pone così il compito di ‘sondare’ alcune concrete forme e modalità di individuazione e pronuncia della soluzione pacifica e pacificante dei conflitti esistenziali che scuotono il (quieto?) vivere umano, tracciando una sorta di ‘orizzonte’ che evidenzi la specifica ‘tensione strutturale’ che lega tra loro giudicare e decidere in ambito giuridico, all’interno di una dinamica ben più ampia di quanto i singoli termini e linguaggi ‘tecnici’ sembrano suggerire. Verranno così in considerazione anche la ‘motivazione’ e le ‘conseguenze’ del provvedimento giuridico (anche ecclesiale); provvedimento che non perde queste stesse caratteristiche neppure quando non si tratti di risolvere ‘conflitti’ (come avviene in Tribunale) ma di ‘strutturare’ una pacifica e pacificante convivenza sociale o comunitaria attraverso l’attività istituzionale di governo.
3.2.1 In ambito civilistico Mantenendosi legati unicamente all’essenza dello Ius come sin qui concettualmente illustrato, risulta di grande significatività ed efficacia il riferirsi al giudicare e decidere giuridicamente attraverso diverse forme di ‘soluzione dei conflitti’ attualmente in uso in vari Ordinamenti giuridici. Sarà così possibile evidenziare come una parte significativa degli elementi e fattori di giudizio e decisione che spesso rischiano di restare ‘sommersi’ all’interno dei sistemi giuridici e procedimenti ‘codiciali’ non siano –in realtà– radicalmente diversi da quanto attuato fuori da essi. Che si tratti, pertanto, di modalità non strettamente dipendenti dalla Lex come tale (per quanto con effetti ad essa riferibili) come l’Arbitrato, la Mediazione o il Processo di Common Law, oppure di procedimenti più formali e rigorosi fissati rigidamente dalla Lex, le peculiarità di ogni singolo ‘percorso’ (=processum) –per quanto parziali– metteranno in luce elementi che appartengono comunque, quali presupposti o apporti di fatto, ad ogni giudizialità, per quanto in modo spesso ancora impercettibile a molti operatori del Diritto.
3.2.1.1 L’Arbitrato  Nell’ottica dello “Ius dicere” al di fuori della sede/modalità ad esso ordinariamente deputata in ambito ‘pubblico’ (il Tribunale) è necessario non trascurare come una serie numericamente significativa di ‘conflitti’ (o comunque di discrepanze di valutazione e conseguente operatività) venga ordinariamente ‘gestita’ e risolta, ormai da secoli, in sede arbitrale. Ciò si realizza considerando non tanto –o solo, o principalmente– ‘norme (legali)’ prestabilite in modo generale (e generico) ma altri elementi/interessi che portano ciascuno dei ‘contendenti’ a ritenersi nel ‘giusto’ circa il proprio modo d’intendere l’applicazione sostanziale del dettato normativo oppure –addirittura– a ‘preferire’ un dettato normativo ad un altro. Non per nulla nel linguaggio comune si dice proprio che quanto la gente cerca nelle varie situazioni contenziose non è tanto l’osservanza della Legge (come tale) ma “avere ragione”. Non importa se secondo la Legge (quale?) o secondo ‘altro’ da essa differente. Una ‘ragione’ che, poiché disputata e messa in discussione, richiede un intervento che, sulla base di una differente valutazione dei diversi elementi e fattori in questione, possa operare un diverso giudizio ed una conseguente diversa decisione la quale, tenendo adeguatamente conto dei fattori più significativi per le parti, ponga fine all’incertezza. Tanto più che spesso ciò che si cerca è proprio una conclusione condivisa ad una vicenda le cui conseguenze (economiche o esistenziali) intralciano la normale attività/vita ben più delle loro ‘cause’. In tale prospettiva il semplice fatto che il c.d. lodo arbitrale non sia una ‘Sentenza’ in senso tecnico, non solo non toglie nulla alla sua effettività giuridica (ed esistenziale), ma non cela neppure la stessa combinazione di valutazione-giudizio-decisione che si esprime ordinariamente in sede ‘processuale’ pubblica. Il fatto che, in linea di principio, l’Arbitro non decida solo/tanto ex Lege –per quanto ciò accada molto spesso– ma ex rationibus, non toglie nulla neppure alla natura e portata di quello che è –e rimane– ad ogni effetto un vero ‘processo decisionale’ giuridicamente rilevante. Per quanto non assunta da un Giudice secondo una Legge (prestabilita), l’efficacia pacificante della Decisione è la stessa, una volta entrati nella sua esecutività, la quale –propriamente– non è operata dal Giudice come tale ma ‘garantita’ dall’Ordinamento.
3.2.1.2 La Mediazione  In una linea analoga, per quanto radicalmente diversa nei propri presupposti di base, si pone la Mediazione, oggi in fase ‘crescente’ in diversi ambiti della vita giuridica occidentale tra cui quelli non poco delicati e problematici dei rapporti familiari, della devianza comportamentale minorile, della convivenza multiculturale. Si tratta di un’attività in sé non sostitutiva rispetto a quella strettamente giudiziale, ma ‘alternativa’ nel senso che i suoi risultati possono evitare (=essere alternativi a) il ricorso al Tribunale, giungendo a sanare il conflitto per altra via: in fondo stabilendo di comune accordo uno Ius (=pronunciamento concorde pacificante/pacificatorio) cui attenersi. Nella Mediazione, caratterizzata dall’assenza di Potestà decisoria del Mediatore, il ‘terzo’ (né Giudice, né Arbitro) esercita un ruolo fondamentale nel favorire un incontro tra le parti che le stimoli ad una nuova fase di valutazione-giudizio-decisione ulteriore e forse diversa da quelle precedenti in cui ciascuno autonomamente si era accontentato di osservare, giustificare ed accrescere le proprie posizioni o quelle a lui favorevoli. Il procedimento mediativo tende a mettere a punto una soluzione pacificante (e meno traumatica possibile per le parti) basata sulla concreta condivisione della decisione stessa: proprio ciò che ne garantirà anche la messa in opera (Esecuzione) senza un necessario intervento autoritativo o ‘giurisdizionale’, poiché il Tribunale non verrà adito. Per quanto al termine del percorso mediativo non esista una ‘Sentenza’, tuttavia, la decisione condivisa porta ad un insieme di azioni e comportamenti che di fatto la rendono inutile, poiché si è già cercato ed ottenuto per altra strada quanto normalmente si esige dal pronunciamento del Giudice: il ristabilimento condiviso della relazione turbata/interrotta (=Ius). Non le ‘norme’, quindi, ma l’incontro ed il dialogo tra le parti coinvolte stanno alla base sia dell’Istituto giuridico mediativo che degli esiti da esso perseguiti, a livello prima esistenziale che sociale. Ma proprio l’esistenza individuale (=la vita concreta dei singoli) si pone sempre alla base di ogni ‘socialità’, caratterizzandone la tipologia e le dinamiche, soprattutto nelle situazioni di maggior problematicità: quelle in cui/da cui sorge necessario lo Ius, tutte le volte che la ‘controparte’ non è un “tu” con cui incontrarsi (come nella Mediazione o nell’Arbitrato) ma un semplice anonimo “altro” (come nel Giudizio).
3.2.1.3 Il Giudizio di Common Law Il Giudizio/Processo di Common Law, da secoli utilizzato in vari Paesi di cultura anglosassone con ottimi risultati, si caratterizza per il riferimento non tanto ad un ‘sistema di Leggi’ prevenienti i fatti in questione (=Civil Law) quanto a Precedenti giurisprudenziali (attraverso il c.d. “stare decisis”), implementando l’efficacia di una concezione e pratica giuridica troppo spesso ignorata soprattutto dai giuristi (e canonisti) continentali. Forma giudiziale del massimo livello giuridico ma senza una stretta dipendenza da un Codice che preveda –inevitabilmente– soltanto ‘alcune’ (per quanto numerose) fattispecie comportamentali tra le tante umanamente possibili (e concretamente attuate), il Giudizio di Common Law assolve esattamente alla stessa funzione di ogni altro Istituto giuridico volto alla pronuncia della soluzione pacifica e pacificante tra le parti (=Ius). Un modo ‘diverso’ di concatenare (=processum) ‘fatti’ ed ‘atti’ per giungere allo stesso risultato: risolvere una lite/contesa o fissare uno status quo da ritenersi giuridicamente vincolante per le parti e la stessa società. Nel Giudizio di Common Law è la concreta ‘prassi’ del vissuto sociale che prevale sulla genericità di tante norme astratte e puntigliose che non riescono (neppure di principio) a gestire a priori la complessità del vivere umano e delle sue devianze e conflittualità. Un Giudizio conforme [a] al sentire comune, [b] alle Decisioni precedenti, [c] allo spirito –anche culturale– della convivenza sociale all’interno della quale le vicende si svolgono, offre certamente criteri di valutazione-giudizio-decisione ben diversi da quelli (pre)imposti da una Legge generale e, comunque sempre d’altri tempi/circostanze, alla quale occorre ‘sussumere’ gli atti e fatti oggetto dell’intervento giudiziario. Proprio l’indisponibilità di principio di fattispecie prefissate a priori dalla Legge, spinge questa modalità di pronunciamento giudiziario ad essere particolarmente aderente alla vita concreta, sfruttandone anche molti elementi di carattere valutativo e coinvolgendo nell’attività giudiziaria un numero certamente più ampio di fattori utili al giudizio ed alla conseguente decisione. Non di meno anche la gestione dell’eventuale ‘insoddisfazione’ giudiziale non si basa sulla specifica attenzione alle ‘forme’, come nei sistemi di Civil Law (attraverso una Corte di Cassazione), ma col ricorso ad un ‘tipo’ differente di Corte/Tribunale che applica ‘principi’ valutativi e decisionali diversi: la Court of Equity.
3.2.1.4 Natura partecipativa del Processo Dopo aver ampliato l’orizzonte del valutare-giudicare-decidere giuridico oltre i confini troppo angusti di una mera applicazione della Legge (di stampo ‘napoleonico’), è ormai possibile porre in luce come la peculiare ‘natura’ del Processo vada individuata non tanto [a] nelle (sue) ‘forme’ o [b] nella Potestà da cui promana la Decisione giudiziale/aria quanto, maggiormente, [c] nel suo ‘presupposto’ costitutivo: il contraddittorio giudiziale. Al punto che si potrebbe vedere il Processo quale modalità partecipativa di conoscenza di ciò che abbia turbato la quieta convivenza inter-soggettiva, in vista del pronunciamento giuridicamente efficace di un’adeguata soluzione per la vicenda stessa ed i rapporti sottesi (=Ius) da parte del decisore (=Giudice) competente. In tal modo (attraverso il Processo) il contraddittorio tra le parti e/o le loro posizioni processuali si configura come lo strumento di base per acquisire la conoscenza della realtà relazionale oggetto della controversia a cui s’intenda offrire soluzione giuridica. Di fatto, per mezzo del Processo gli elementi ‘cognitivi’ (rilievi, testimonianze, perizie, documenti, ecc.) raccolti durante le Indagini, vengono ‘integrati’ dall’apporto diretto delle parti, cui il Giudice può rivolgersi anche separatamente ma sempre nell’ottica della raccolta di un loro vero apporto alle conoscenze già acquisite, al fine di poter meglio valutare e giudicare atti e fatti alla luce del valore e significato attribuiti loro da parte degli interessati. Il problema è strutturale poiché, se bastasse raccogliere i dati ‘oggettivi’ (cognizioni) come avviene in sede investigativa, non ci sarebbe più alcun bisogno di valutazione e giudizio: la decisione risulterebbe ‘matematica’, leibnizianamente computazionale. Il nomen Iuris (=sussunzione) attribuito ai diversi eventi dal Pubblico Ministero sarebbe l’unico elemento qualificatore e quantificatore dell’accaduto e non esigerebbe in seguito altro intervento ‘umano’ …come accade, invece, all’interno della necessaria dinamica processuale che pone al centro l’apporto delle parti, tanto personale che funzionale (posizione processuale), per averne un singolare contributo di conoscenze e valutazioni di utilità irrinunciabile per chi debba giudicare e decidere in merito al conflitto a lui deferito. In tal modo il contraddittorio, anche indiretto, risalta quale elemento specifico ed in qualche modo fondativo dello stesso Processo, ben prima della mera applicazione di norme (anche legali), giovandosi di una strutturale dimensione ‘dialettica’ di approccio alla stessa realtà che può offrire molto di più alla umana conoscenza di qualunque auto-valutazione ed auto-giudizio. Poiché nessuna relazione è auto-fondante e mono-referenziale, l’apporto dialettico delle parti è irrinunciabile per meglio conoscere la realtà dei fatti che dovranno poi essere valutati per giudicarne la portata e decidere di –adeguata– conseguenza. In tale prospettiva il ‘dibattito processuale’ (o contraddittorio delle parti/Patroni) si pone strutturalmente molto al di là di un semplice “diritto di difesa” o “giusto Processo” che sia necessario assicurare alle parti; è invece il loro concorso/apporto ‘dialettico’ a dover essere garantito ed assicurato perché si abbia un vero ‘Processo’. Caratteristica, e forse specifica, del Processo diventa, allora, quella sorta di co-valutazione che si attua proprio attraverso la dinamica processuale che prepara il Giudice a giudicare la Causa, dopo aver ‘assunto’ la pluralità di elementi –fattuali e valutativi– messi a disposizione dai diversi protagonisti del dibattimento processuale. Come, quanto, perché, ciascuno di essi ‘pesi’ e ‘contribuisca’ alla formazione del giudizio del Giudice rimane questione che, seppur spesso ‘indirizzata’ dalla Legge, non è di principio separabile dalla sua stessa persona …né dalla sua ‘antropologia di fatto’, né dalle sue convinzioni ideali più profonde. Non di meno, al di là della –anche movimentata– dinamica processuale, non va sottovalutato lo status specifico peculiare di ogni Decisione giudiziale/aria come tale: essa infatti –per quanto contestabile– risulterà sempre e comunque irrevocabile da parte di colui (il Giudice) che l’abbia pronunciata. Proprio da ciò nascono Appelli e/o Querele di nullità verso tale Ius. Tale caratteristica della Sentenza giudiziale/aria non va affatto sottovalutata in quanto, a differenza di altri strumenti decisionali, essa pone in evidenza l’assolutezza di quanto avviene all’interno tanto della dinamica conoscitivo-valutativa che di quella giudicante-decisionale; un’assolutezza che pone in ulteriore risalto quanto ‘si svolge’ entro ed attraverso l’apporto personalissimo del decidente, attuabile –ed attuato– ‘solo’ una tantum.
3.2.2 In ambito canonico 3.2.2.1 Conoscenza e ‘giudizio’ nella Chiesa  Tra gli elementi da tenere in specifica considerazione quando si tratti di ‘giudizialità’ canonica si pone la funzione prevalentemente cognitiva (=di accertamento) che caratterizza in modo sostanziale il Processo canonico nelle sue varie tipologie (dichiarativo, condannatorio, penale…). Alla base, infatti, del governo ecclesiale (esecutivo e giudiziale) non si trovano essenzialmente elementi riguardanti i diversi ‘soggetti’ in quanto individui (privati) in rapporto alla società o alle (sempre poche) risorse materiali disponibili, quanto, invece, lo ‘stato’ di persone o cose che, in sé o per le specifiche finalità loro assegnate, possa legittimamente risultare ‘dubbio’ (o anche sconosciuto/indefinito) all’interno della comunità ecclesiale, condizionandone in tal modo la piena attività o fruizione all’interno della più ampia vita e missione della Chiesa. Essa infatti interviene giudizialmente su materie e cose che riguardano quasi esclusivamente aspetti della vita dei fedeli connessi al loro esser parte (più o meno attiva) della compagine ecclesiale. Lo stesso vale delle ‘cose’ connesse al conseguimento degli scopi e finalità canonici (Culto, sostentamento dei ministri, pastorale, carità). Laddove poi, straordinariamente, la Chiesa accetti di pronunciarsi su altre materie o soggetti, lo fa più per –invocata– autorevolezza (morale) che non per autorità vera e propria (=Giurisdizione/Potestà), come potrebbe verificarsi nel caso di verificare l’esistenza/consistenza di c.d. Matrimoni naturali o simili o questioni di proprietà di beni, eredità, filiazioni, ecc. e, pertanto, non espressamente normato dall’Ordinamento canonico come tale ma, pur tuttavia, di qualche rilievo per una reale vita cristiana. Le questioni riguardanti lo status delle persone e delle cose all’interno della vita ecclesiale, d’altra parte, non potrebbero avere altra trattazione che quella verificativa-dichiarativa (cfr. Can. 1400). Non di meno anche per il delicatissimo ambito ‘penale’ canonico ciò che risulta essere il principale oggetto d’Indagine (=conoscenza) non è tanto il ‘fatto’ in sé (come accade negli Ordinamenti statuali ‘allertati’ anche dalla sola “notizia di reato” di cui occorre ‘scoprire’ il colpevole) ma la sua concreta imputabilità “grave ed esterna” (cfr. Can. 1321 §1) in capo al suo autore (noto). Ed anche quando a muoversi non sia una ‘parte’ (=singolo soggetto interessato: persona fisica o giuridica) ma un Pubblico Ministero, com’è il Promotore di giustizia, ciò avviene sempre per ‘certificare’ (=rendere certo) l’effettività o l’imputabilità di un atto le cui ricadute sulla vita ecclesiale non possono essere trascurate né per il suo autore (nei confronti del quale la Chiesa potrebbe tuttavia agire anche soltanto attraverso il c.d. foro interno) né per la comunità investita da troppo gravi disordini spirituali, dottrinali o morali, che potrebbero comprometterla in quanto comunità di salvezza.
È in ragione di questa strutturale funzione cognitiva (=di accertamento o verificativa) del Processo canonico che risaltano sia il ‘protagonismo’ del Giudice ecclesiastico che la sua centralità nella vicenda processuale. Protagonismo che ne giustifica ed induce l’atteggiamento, il comportamento, l’operatività, sia nei confronti delle parti (private e pubbliche) che della stessa Causa sottoposta alla sua conoscenza e giudizio. Il ruolo del Giudice canonico è ‘attivo’: è lui che, una volta ‘coinvolto’ attraverso il Libello, ‘assume’ e ‘gestisce’ l’iniziativa processuale dandole il necessario impulso affinché si giunga ad una conoscenza veritiera dei fatti e delle situazioni da essi derivanti, in modo da ‘dichiararli’ nella loro fondatezza e portata, traendone le conseguenze per le parti in Causa, all’interno dell’orizzonte più ampio della vita ecclesiale. In questo delicato compito di “conoscere la Causa”, l’attività più specifica assegnata al Giudice canonico risulta senza dubbio quella espressamente ‘valutativa’: è il Giudice infatti che verifica l’ammissibilità e l’utilità delle Prove prodotte (Can. 1517) in Giudizio ed il modo di valutarle, sebbene la Legge processuale stabilisca una ‘gerarchia’ tra le Prove stesse ed indichi quale sia, o possa essere, lo specifico valore da attribuire a ciascuna di esse (=Prova piena o parziale). L’oggetto di valutazione e giudizio (e decisione) ‘nella’ e ‘da parte della’ Chiesa, non risulta, pertanto, la persona come tale ma sue (singole) ‘azioni’ che possano pregiudicarne la ‘pacifica’ –o efficace– appartenenza ecclesiale o, più semplicemente, uno specifico status canonico che la ponga in particolare ‘rilievo’ rispetto alla vita ed all’attività degli altri Christifideles (coniugato, chierico, religioso). Proprio tale status di persone e cose costituisce l’oggetto fondamentale del Giudizio canonico, delineando rapporti del tutto particolari tra Istituzione ecclesiale e persona del fedele.
3.2.2.2 Conoscenza e certezza morale nel giudizio canonico Le caratteristiche già evidenziate circa la complessità del valutare-giudicare-decidere già dal punto di vista antropologico (prima che concettuale), unitamente alla specifica dimensione cognitiva del Processo canonico, conferiscono uno speciale valore all’indicazione del Can. 1608 §1 che richiede al Giudice canonico di agire con “certezza morale” in qualsiasi Sentenza egli debba pronunciare. Si tratta di una formula in qualche modo ‘tecnica’ per escludere in modo espresso la semplice ‘probabilità’ o una –peggiore– ‘prevalenza’ di sole ragioni/interessi. Ciò espressamente per il fatto che il pronunciamento giudiziale canonico dev’essere un pronunciamento di ‘conoscenza’ (=cognizione) e non di semplice ‘opinione’ (=convinzione). La materia prevalente (ma anche la finalità in ragione di cui –eventualmente– ci si interessi pure di altri elementi in sé non specificamente ecclesiali) di cui si occupa il Processo canonico è, infatti, di ordine sostanzialmente spirituale –lo ‘stato’ delle persone– in riferimento alla possibilità o necessità (alle volte) che i fedeli manifestino –o di cui debbano essere resi partecipi (o privati)– di poter meglio giovarsi dei ‘beni’ che costituiscono l’oggetto della missione ecclesiale stessa (cfr. Can. 213) della quale hanno scelto di essere partecipi con/per la propria vita. In tale prospettiva l’esistenza o meno di requisiti, condizioni, vincoli, circostanze, doveri, prerogative di vario genere, profila ‘situazioni esistenziali’ (globali) di grande delicatezza, cui non si possono ‘opporre’ semplicemente delle ‘ragioni’ o degli ‘interessi’, in quanto l’elemento sempre comunque in gioco è la persona del fedele come tale, vista nel suo rapporto con la salvezza evangelica di cui la Chiesa sa di essere semplice –per quanto autorevole– ministra, oltre che custode. Opinioni, convincimenti, credenze (meno che mai: interessi)… non possono pertanto commisurarsi con l’irrinunciabilità di tale ‘nucleo sostanziale/ontologico’ (=la persona) che, come più volte ribadito già da S. Paolo, è stato valutato ‘degno’ del sangue di Cristo stesso in croce (1Cor 8, 11). Solo la certezza morale –credente– possiede i requisiti cognitivi minimi –ma anche sufficienti– per poter intervenire (in realtà: solo pronunciarsi) ‘intorno’ a tale nucleo esistenziale e spirituale.
All’interno di questo quadro teoretico e concettuale non pare ormai più rinunciabile la sottolineatura della profonda differenza che intercorre tra tale ‘certezza morale’ che il Giudice ecclesiastico deve essersi formata in vista della Decisione da pronunciare ed un non-equivalente ‘giudizio morale’ che spesso –ecclesiasticamente– si sarebbe tentati (e storicamente si è creduto) di dover esprimere circa i fatti –ma non di meno le stesse persone– dedotti in Giudizio …tanto più trattandosi della valida celebrazione di Sacramenti. Di fatto anche il linguaggio comune non risulta favorevole a questa consapevolezza ed alla sua comunicazione, dal momento che non dimostra alcuna attenzione alla dichiarazione circa i fatti oggetto di conoscenza-valutazione-giudizio-decisione ma finisce per concentrarsi sulla ‘qualificazione’ di “colpevole” in capo a chi li abbia posti in essere. Una qualificazione che, secondo l’opinione pubblica, è (e deve essere) proprio un giudizio morale di reprobità e riprovazione della persona come tale. Come e quanto ciò abbia caratterizzato spesso l’agire dei Giudici ecclesiastici (e lo stesso sistema processuale canonico) non è difficilmente dimostrabile; basti semplicemente ricordare come nel Processo di nullità matrimoniale del Codice pio-benedettino l’oggetto sostanziale del Giudizio canonico finiva per essere la ‘colpa’ (in capo ad almeno una delle parti) di aver celebrato un Sacramento nullo. Di fatto il vecchio Processo canonico matrimoniale era una questione principalmente di coscienza poiché verteva sulla validità presuntamente morale del Sacramento. Quanto un tale ‘presupposto’ coinvolgesse nell’attività valutativa anche elementi di specifica accettabilità morale, a volte addirittura prima e più di quelli espressamente giuridici, è facilmente riscontrabile dalla pregressa dottrina in materia. Il nuovo Processo di nullità matrimoniale, al contrario, si sbilancia con maggior decisione sulla ‘recognitio facti’ per verificare ex-post se il Sacramento in quanto tale ci sia davvero stato oppure no. In ciò continuano certamente ad avere una fondamentale importanza gli atteggiamenti tenuti/assunti dalle parti all’interno della vicenda (sacramentale) sottoposta a Giudizio. Non tanto però nell’ottica espressamente ‘morale’ quanto, invece, nella concreta espressione e relazionalità intersoggettiva. Incapacità e ‘simulazioni’ (ed in generale i vizi del consenso) sono ben evidenti in questa prospettiva, esprimendo elementi affatto diversi da quelli –classicamente– richiesti per compiere peccato grave, quali sono: la piena avvertenza ed il deliberato consenso…
3.2.2.3 Motivazione della Decisione Tra gli elementi concettuali delineati a livello introduttorio si è accennato solo fugacemente alla ‘motivazione’, per quanto in maggior connessione alla componente psicologica del decidere che non a quella ‘giuridica’. L’ambito giuridico ‘occidentale’ tuttavia ha dimostrato, soprattutto nell’ultimo secolo, una profonda attenzione a tale ‘elemento’ del processo decisionale posto in essere a livello ‘istituzionale’ (Tribunale e Governo), al punto da farne un fattore in continua crescita …divenuto ormai pregiudiziale. In una società orizzontale/egualitaria (=non gerarchica), fatta ormai di soli ‘pari’, nulla può oggi essere/rimanere immotivato, soprattutto una ‘negazione’ o un ‘onere’ che ‘riducano’ le potenzialità ed aspirazioni individuali. È così che oggi le ‘norme’ processuali del mondo giuridico occidentale condividono il sostanziale ‘assioma’ secondo cui tutte le Decisioni (giudiziali/arie) devono essere ‘motivate’; l’assenza di motivazione rende –variamente– nulla la Sentenza e –parimenti– espone ad impugnativa il Decreto, mostrando così la costitutività sostanziale della motivazione rispetto alla Decisione. La questione pare andare di pari passo con la ‘laicizzazione/desacralizzazione’ dell’attività Ius-dicente: quando, cioè, lo Ius dicere non è più appannaggio (anche indiretto, come nella Legis actio sacramento) della divinità –e dei suoi ‘referenti’– ma diventa ‘azione’ pienamente umana (=socialmente paritaria), l’uomo stesso esige di poterla ‘verificare’ e ‘controllare’ prima-di/per poterla accettare quale efficace soluzione pacifica e pacificante di quanto abbia perturbato a livello socio-relazionale la sua esistenza (=Ius). Alla –evidente– insindacabilità del responso divino ‘originario’, accettato per fede/convinzione, succede –e si contrappone– pertanto la necessaria sindacabilità di quello umano per il quale si esigono, prima ancora di specifiche strutture di verifica (quali sono le Istanze superiori o ulteriori), elementi almeno di ‘fondatezza’ quali risultano dalla motivazione. Lo Ius secolarizzato, divenuto ormai attività pienamente umana (sociale-istituzionale), deve corrispondere a ciò che maggiormente esprime e facilita l’umano consenso: la ragionevolezza. La ratio, quindi, e non più la fides diventa il fondamento dell’accettabilità della Decisione che ‘incide’ sulla vita personale e sociale/comunitaria: solo la ‘motivazione cognitiva’ può, allora, rendere comunicabile e recepibile il giudizio-decisione perché sia assunto ed attuato.
Tale impostazione tuttavia non è universalmente condivisa a livello giuridico, in quanto in alcuni Ordinamenti dell’estremo Oriente (Cina in particolare) la Decisione giudiziale –anche umana– rimane ‘oracolare’: pura proclamazione che, in quanto tale, dev’essere accettata ed applicata; non di meno ciò continua ad accadere anche nei sistemi giudiziari di forte connotazione ‘sacrale’ –com’è quello islamico– in cui la Sentenza deriva la propria ‘forza’ dalla ‘volontà superiore’ che ne ha posto le basi attraverso la Legge religiosa. La questione non si pone, invece, per il Diritto canonico che, nonostante sentenzi all’interno di un contesto anche formalmente religioso (cfr. Cann. 1609; 1612 §1), ha adottato ben presto il principio della ragionevolezza della Decisione giudiziale/aria espressa attraverso la motivazione. L’aspro confronto durante tutto il Medio Evo tra la propensione germanica per il duello giudiziale (ordalia) e quella canonica per il ‘confronto’ tra le ragioni delle parti (Processo giudiziale/ario) testimonia proprio questa radicale pre-comprensione canonica. Tanto più ora, nell’orizzonte ecclesiale/canonico fortemente rimodulato dalla Ecclesiologia conciliare: in essa il Popolo di Dio rimane sì ‘gerarchicamente’ strutturato ma tale elemento teologico non presuppone né comporta –più– una immediata ‘sacralizzazione’ dell’agire istituzionale/autoritativo che renda absoluti i fedeli che agiscono in nome della Chiesa stessa. Il ‘ricupero’, anzi, della dimensione più strettamente comunitaria della vita ecclesiale ha richiesto una nuova struttura di consiliarità intorno a coloro che in essa hanno responsabilità di governo, ponendo l’accento maggiormente sui presupposti (teologici, spirituali e pastorali) che non sulla concretezza delle modalità di azione. In tal modo anche nell’Ordinamento canonico la motivazione riveste oggi un ruolo costitutivo, almeno dal punto di vista istituzionale.
D’altra parte, la natura maggioritariamente dichiarativa di fatti che sostanzia il Processo canonico non potrebbe esplicarsi in altro modo: è, infatti, la ricostruzione dei ‘fatti’ a costituire la reale risposta alla domanda giudiziale “an constet” di cui l’“affirmative” o il “negative” non sono che l’estrema formalizzazione sintetica, anche formalmente distinta dalla sua motivazione. Allo stesso tempo anche la struttura formale della Sentenza canonica è intenzionalmente diretta a perseguire la stessa finalità, dovendosi esporre –tanto in Iure che in facto (cfr. Can. 1611, 3°)– le diverse ragioni (cfr. Can. 1612 §3) ed i diversi elementi in base a cui ciò di cui il Giudice è venuto a conoscenza ed ha valutato la Causa sono stati giudicati ‘adatti’ ad assumere la decisione (=Sentenza) concretamente adottata.
La portata conciliativa e non oppositiva della Sentenza canonica, non di meno, non potrebbe trovare altre forme/modi di espressione e valorizzazione: in un ‘sistema’ organico di relazioni di condivisione e comune adesione allo stesso ideale esistenziale (communio/communitas) ciò che sana l’eventuale lacerazione comunitaria (Ius) non può essere che un elemento/fattore ri-costruttivo della relazionalità interrotta/compromessa. Ciò avviene in primis ‘condividendo’ i ‘perché’ (motivazioni) delle Decisioni assunte a tale scopo. Solo così, infatti, la Decisione può costituire la base anche per un nuovo futuro-comune e non limitarsi ad estinguere ex-auctoritate una questione ormai passata. La questione risalta ancora maggiormente quando ciò riguardi, come nella quasi totalità dei casi (=nullità matrimoniale), il ‘reintegro’ dello status canonico-sacramentale precedente, permettendo nuovamente ai fedeli di partecipare in pienezza alla vita di Grazia ed alla missione ecclesiale.
3.2.2.4 Conoscere per giudicare Proprio l’ampiezza di elementi considerati in relazione ad un giudicare-decidere in ambito istituzionale, potenzialmente molto ampio nelle proprie ‘dimensioni’ poiché non strettamente dipendente dalla meticolosità della Legge, sollecita una specifica attenzione nei confronti delle forme processuali di stampo codiciale (Civil Law e Diritto canonico), aiutando a porre in luce non tanto i necessari e palesi riferimenti alla Legge ma gli elementi che si riferiscono alla conoscenza, necessaria per applicare la Legge. Ciò in quanto –almeno strutturalmente– nei sistemi ‘codiciali’ la valutazione dei fatti, in qualche modo, è già stata fatta previamente dal Legislatore (attraverso le diverse species facti) e ad essa deve attenersi anche il giudizio; proprio questo, però, inclina a spostare l’attenzione dei Giudici necessariamente sulla conoscenza (previa), in quanto sarà solo questa a fornire gli elementi da ‘stimare’ secondo la Legge, attraverso la c.d. sussunzione. Viene così in risalto l’importanza della parte prettamente investigativa del ‘Processo giudiziale codificato’ cui i vari Codici di Procedura civile o penale ‘offrono’ il loro supporto, in modo spesso puntigliosissimo, finalizzato a ‘guidare’ e dirigere la stessa fase ‘conoscitiva’ assegnata, a seconda dei casi/tipologie, anche ad altro Magistrato (Pubblico Ministero in Italia, Promotore di giustizia nell’Ordinamento canonico) perché provveda proprio a porre le basi cognitive minime da cui prenderà poi corpo la vera e propria Istruttoria giudiziale svolta da chi dovrà pronunciare la Sentenza, o da suo delegato (Giudice istruttore). La stessa ‘ammissibilità’ della Causa diventa, così, a sua volta oggetto di primaria e specifica valutazione-giudizio-decisione (fumus boni Iuris, canonicamente; ‘rinvio a Giudizio’ nell’Ordinamento italiano) prima ancora di essere ‘assunta’ direttamente dall’Organo giudicante. Ciò permette di evidenziare come, ad ogni buon effetto, la maggior parte dell’attività giudiziaria ordinariamente svolta in qualsiasi Tribunale non vada attribuita né alla fase specificamente di giudizio, né a quella di decisione propriamente tali, quanto piuttosto –con assoluta prevalenza– alla fase conoscitiva c.d. istruttoria. È infatti ai Giudici istruttori che incombe la maggior parte dell’attività ‘processuale’, volta proprio ad ‘istruire’ la Causa raccogliendo ed organizzando in modo ordinato e consequenziale (anche se spesso solo ipotetico) tutto il materiale utile a “conoscere la Causa”, secondo la terminologia ancora in uso nell’Ordinamento canonico.
3.3 Decidere per governare
Molti degli elementi sin qui evidenziati a riguardo del decidere-giudicare in ambito giudiziale/ario non perdono nulla della propria consistenza più profonda quando vengano accostati in riferimento ad un altro ambito di vita istituzionale qual è quello c.d. esecutivo tipico dell’attività di governo. Non è infatti improprio affermare anche per esso la costitutività della ‘motivazione cognitiva’ in quanto si tratta pur sempre di giudizio e decisione ‘pubblica’, attuata in modo istituzionale per/con finalità istituzionali, che riguarda e coinvolge destinatari diversi dal decidente, mutandone la ‘collocazione’ giuridica (status/ufficio/ministero) e, pertanto, anche esistenziale.
3.3.1 La decisione di governo nella Chiesa Di fatto anche la Decisione di governo segue lo stesso iter/processus di qualunque altra decisione umana poiché comporta sempre una valutazione di fatti e circostanze, tanto ‘oggettivi’ che ‘personali’, un giudizio previo che, una volta approntato ed espresso, chiede di essere come ‘inserito’ nella realtà sociale/societaria affinché se ne traggano opportune/adeguate conseguenze, quelle, nel caso specifico, rispondenti alla volontà dell’Autorità di governo, in ragione del munus/ministerium ad essa stessa (allo stesso modo) affidato.
Questo, tuttavia, ‘inaugura’ una prospettiva in qualche modo ulteriore a quelle già considerate per l’attività giudiziale/aria: la finalità della Decisione stessa che, come tale, non potrebbe appartenere alle Decisioni giudiziali/arie che si configurano normalmente come risposta specifica a domanda ‘chiusa’ (=petitum), avendo già al proprio interno la loro finalità. Mentre, infatti, tali Decisioni sono rivolte, di per sé, al passato, quelle di governo sono naturalmente indirizzate al futuro; mentre, ancora, le prime guardano al passato onde ristabilirne ‘uno’ specifico momento/status, le seconde guardano ad un futuro ancora inesistente ma che deve, tuttavia, essere predisposto e reso attivo. Pur all’interno di una prospettiva così profondamente diversa, tuttavia, non sembrano mutare in modo sostanziale le dinamiche sin qui evidenziate; anche le decisioni di governo, infatti, devono poggiare su di una solida base cognitiva, per quanto rivolta più alla conoscenza di circostanze e persone anche reciprocamente non-connesse (in vista della loro futura connessione, come accade, p.es., per l’affidamento di un ufficio pubblico o ecclesiastico) che non a quella di un passato in cui tali circostanze e soggetti siano già venuti in relazione e, specificamente, in quella dedotta in Giudizio. Anche in questo caso ci si troverà dinnanzi ad una nuova situazione di fatto, diversa da quella ‘corrente’, non importa se ‘originaria’ (in quanto sorga per la prima volta) o ‘ricorrente’ (in quanto ripristino di uno specifico passato). Non di meno la stessa dimensione valutativa appare diversa tra ‘passato’ e ‘futuro’; nel primo caso i ‘fatti’ e le ‘circostanze’ –già attuatisi– vengono valutati in reciproca connessione al fine di ricostruire veritativamente quanto realmente accaduto per trarne le ‘dovute’ conseguenze, nel secondo caso, per contro, la valutazione si esprime in modo sostanzialmente ‘potenziale’, cercando cioè di soppesare quanto ciò che già ‘esiste’ possa/debba/riesca a condizionare quanto non esista ancora… Per attuare questo tipo/genere di valutazione risulta del tutto necessario conoscere e considerare la ‘finalità’ della decisione stessa (dimensione intenzionale o teleologica) poiché la realtà conosciuta dovrà esser valutata ‘in vista’ di quella ipotizzata (=potenziale). Il giudizio di governo che ne conseguirà avrà così caratteristiche del tutto differenti rispetto a quello tipico del Giudice.
A questo si aggiunga la considerazione che, di fatto, la ‘realtà’ su cui si esercita il governo –anche ecclesiale– esiste indipendentemente dalla persona che deve provvedervi, la quale non è pienamente identificabile col ‘ruolo’ istituzionale ricoperto poiché mai nessuna decisione potrà essere assunta in modo ‘impersonale’ da un semplice ‘funzionario’; tanto meno nella Chiesa. Va infatti considerato come l’Ufficio ecclesiastico (o pubblico) conferisca solo le potestà istituzionali (giuridiche) per poter intervenire sulla vita altrui in modo autoritativo, senza tuttavia trascurare come la Decisione possa essere presa solo dalla specifica persona che ‘occupa’ quel ruolo, innescando così la dinamica della conoscenza-valutazione-giudizio-decisione normalmente evocata in ambito ‘esecutivo’ come discrezionalità, ben diversa dall’arbitrio.
Per meglio delineare le ‘peculiarità’ di quest’attività decisoria è anche necessario rilevare come, data la costitutiva struttura gerarchica della Chiesa nella quale si tende a procedere in modo elettivo (=per libera cooptazione) e non collegiale (=attraverso votazione), la maggior parte delle Decisioni di governo ecclesiale siano ‘libere’ per l’Autorità che le assume, la quale –al di là di eventuali ‘consultazioni’ predeterminate dal Diritto– agisce in piena autonomia …salvo specificità che ricadano sul Diritto comune per ‘altre’ vie rispetto a quelle espressamente ‘ecclesiologiche’. In tale prospettiva non sono senza specifico rilievo i ‘campi’ affidati all’attività esecutiva di governo ecclesiale ed alle sue Decisioni: [a] ordinamento della ‘portio Populi Dei’ facente capo alla singola circoscrizione ecclesiastica, [b] provvisione della sua cura pastorale, [c] vigilanza sull’esercizio di tale cura. Tre attività intrinsecamente connesse, ma allo stesso tempo estremamente differenti tanto nei singoli presupposti, che nelle finalità specifiche. Tre finalità che comportano, non di meno, anche modalità specifiche di individuazione e conseguimento tanto dei singoli ‘esiti/risultati’ da perseguire (interventi ‘ordinatori’) che degli specifici –ed individuali/personali– interventi provvisionali, pastorali o disciplinari. È in quest’orizzonte che si collocano i diversi processi decisionali spettanti all’Autorità ecclesiale e da essa posti nei confronti della vita sia di una moltitudine di fedeli (la circoscrizione ecclesiastica) che di alcune persone soltanto (generalmente chierici, o comunque ministri). La ‘libertà’ di principio di tali interventi non li rende tuttavia espressione della mera volontà individuale del decidente ma, al contrario, ne mette in risalto la specifica ‘attribuzione’ e responsabilità in capo alla sua persona …non solo/tanto per la reale possibilità di dover rispondere di eventuali ‘danni’ derivanti dal suo agire (cfr. Can. 128) ma, molto maggiormente, per la espressa prescrizione dei Cann. 50 e 51 che impongono, nell’adottare una Decisione a riguardo di ‘singoli’, [a] di ricercare prima le notizie e le prove necessarie, [b] per quanto possibile ascoltare coloro i cui diritti possono essere lesi [c] esporre, almeno sommariamente, le motivazioni della Decisione stessa. Conoscenza, valutazione, giudizio continuano così a palesarsi come gli elementi cardine di qualunque Decisione di governo ecclesiale, in modo né solo ‘alternativo’ né semplicemente ‘complementare’ alla dimensione teologico-spirituale costitutiva di tale delicatissima e preziosa attività nella Chiesa. La motivazione del Provvedimento appare come la ‘sintesi’ degli elementi cognitivi, valutativi e finalistici (teleologico-intenzionali) che lo sostengono e che potranno sollecitarne ed esigerne –salvo onerosità personali immotivate (cfr. Can. 1733)– la stabile esecuzione all’interno e nell’interesse della comunità ecclesiale.
3.3.2 L’autotutela amministrativa come supplemento di conoscenza Nell’ottica del conoscere per valutare e quindi giudicare e decidere in campo di governo ecclesiale si pone anche la possibilità/necessità di rileggere gli strumenti previsti dall’Ordinamento canonico per sanare le situazioni in cui la Decisione di governo si mostri inadatta ad essere accolta ed attuata da parte del suo destinatario: quanto normalmente viene indicato come rimostranza (Remonstratio) verso la Decisione assunta dall’Autorità ecclesiale (cfr. Can. 1733). Nell’ottica del conoscere-valutare-giudicare-decidere sin qui proposta, tale specifica situazione ecclesiale può essere letta, piuttosto che in chiave –immediatamente– contenziosa –come avviene di solito– , in chiave di vera e propria autotutela da parte dell’Autorità di governo ecclesiale; autotutela che si realizza attraverso il volontario apporto conoscitivo-valutativo del destinatario della Decisione stessa che interviene attraverso un’istanza di ‘verifica a posteriori’ dell’efficacia della Decisione assunta ma ricusata. L’ottica è innovativa poiché si tratta di non considerare più l’atto di governo come ‘perfetto’ (cioè completo ed adatto a conseguire i propri scopi) con la sua sola emanazione e notifica ad normam Iuris –come avviene per una Decisione giudiziale/aria–, ma anche attraverso l’eventuale –successivo– apporto volontario (poiché non specificamente richiesto) del suo destinatario. Per quanto ciò appaia difforme rispetto alla teoria sostanziale dell’atto amministrativo canonico come espressa dalla dottrina (e recepita dal Legislatore canonico), il suo fondamento risulta non di meno di planare evidenza nella necessità –anche legale– che la Decisione di governo ecclesiale sia ad ogni buon conto e fine ‘adeguatamente motivata’ così da risultare condivisibile ed ottenere l’accoglienza ed esecuzione da parte del suo destinatario (cfr. Can. 51). Se ciò, invece, non accadesse primo ictu si potrebbe intervenire in un secondo momento (entro dieci giorni dalla Notifica) per conferire all’atto decisorio le caratteristiche di condivisibilità necessarie alla sua reale efficacia, senza che ciò attivi necessariamente le ‘logiche’ e dinamiche proprie dell’opposizione all’atto di governo come tale e del conseguente contenzioso col suo autore. L’intervento, infatti, del destinatario che –dopo la Notifica– ‘offre’ nuovi/ulteriori elementi di conoscenza e valutazione di fatti e circostanze in precedenza non adeguatamente considerate dal decidente permette di rivedere l’atto stesso conferendogli in seconda battuta l’efficacia prima carente senza che, in tal modo, si attivi un contrasto istituzionale né l’atto come tale sia posto in vera discussione. L’Autorità di governo ecclesiale che sapesse riconoscere nei nuovi elementi conoscitivi e valutativi fornitigli dal destinatario dell’atto la necessità di operare un diverso giudizio sulla realtà sottoposta alla sua decisione potrebbe così mutare giudizio e relativa decisione al fine di non incorrere in un vero e proprio ‘errore’ (di valutazione e giudizio); ciò corrisponde pienamente al concetto di autotutela che la dottrina amministrativistica civile più matura ha saputo mettere a fuoco nell’ultimo secolo. È proprio la consapevolezza della complessità del conoscere-valutare-giudicare-decidere che –quasi– impone questo approccio alla teorizzazione dell’atto amministrativo singolare come tale, ampliandone la concezione al fine di meglio salvaguardarne l’efficacia che, costituendone in effetti la finalità, ne rappresenta praticamente l’essenza stessa. Un atto di governo, infatti, che non potesse sortire il proprio risultato non sarebbe sostanzialmente tale!
3.4 Giudicare e decidere con prudenza
Quanto sin qui espresso innesca, non di meno, un altro ambito di riflessione strettamente connesso al giudicare-decidere: quello della necessaria prudenza con cui il decidente deve comunque fare i conti al momento d’intraprendere le diverse valutazioni e scelte da operare. Ciò non vale solo per l’Autorità di governo, che procede normalmente in modo ‘discrezionale’, ma anche per il Giudice che, anche quando chiamato a decidere in dipendenza dalla Legge (la quale –solitamente– ha già previsto anche le conseguenze dei fatti portati in Giudizio) mantiene però –e deve esercitare– una propria discrezionalità circa la loro ‘quantificazione’ e ricaduta sulle parti e la comunità (sociale o religiosa).
Dal punto di vista concettuale, l’evidente sbilanciamento/propensione verso il ‘futuro’ che caratterizza la prudenza risulta così completare la prospettiva sin qui proposta a riguardo della conoscenza, saldamente connessa –invece– al ‘passato’, rimarcando ancora una volta lo stretto legame dei processi decisionali giuridici con la concretezza ed effettività della vita. Una ‘decisione giuridica’, d’altra parte, non è facilmente assimilabile a qualunque altra decisione ‘esistenziale’; essa, infatti, entra nella vita di singoli e comunità raggiungendone a volte anche gli ‘strati’ più intimi …e ciò dall’‘esterno’, poiché –in Diritto– il decidente ed i destinatari non si identificano (praticamente) mai. L’entrata in gioco del ‘futuro’ permette, a questo punto, di riconoscere in esso l’elemento di più specifica caratterizzazione del decidere, rispetto alle ‘attività’ ad esso previe. Mentre, infatti, il giudicare riguarda maggiormente il passato, potendosi presentare come un problema essenzialmente di ‘conoscenza’ (di ‘fatti’ già conclusi), il decidere deve fare maggior riferimento all’esito del percorso: l’azione che ne conseguirà e le sue ricadute sull’effettivamente vivibile. Proprio questa ‘attenzione previa’ al futuro ed alle conseguenze su di esso dell’agire personale risulta essere parte assolutamente ‘propria’ dell’attività giuridica in ogni suo aspetto, chiedendo che l’assunzione di una Decisione giuridica preveda, commisuri ed imponga la propria ricaduta nel futuro non solo conseguentemente a quanto conosciuto-valutato-giudicato, ma anche tenendo conto di quanto essa stessa produrrà di nuovo nella realtà esistenziale degli interessati. In proposito, è percezione piuttosto comune lo scetticismo diffuso verso norme di Legge –e più ancora Sentenze– che impongono conseguenze (=sanzioni) di fatto inapplicabili in conseguenza di determinati Reati, giacché: è del tutto inutile comminare più ergastoli (o anche condanne a morte) alla stessa persona, così come assommare sul suo capo troppe decine di anni (=secoli) di reclusione …oppure anche il non far scontare la pena oltre una certa età. Indubbiamente principii giuridici e norme legali esigono la ‘propria parte’, così come ‘altri’ principi e valori (quelli etici); non di meno, tuttavia, la concreta non-effettività del deciso rischia di denunciare l’inutilità di tutto l’apparto giuridico come tale, almeno nei sistemi giuridici maggiormente formalistici (=civil Law).
Ecco perché è alla prudenza che il Giudice deve fare riferimento per emettere una Sentenza che abbia una reale efficacia sul vissuto/vivibile umano; una Sentenza, infatti, che risultasse concretamente inapplicabile per qualsiasi motivo (fisico, morale, culturale, sociale, ecc.) perderebbe anche la propria stessa ‘consistenza’, al di là ed indipendentemente da qualsiasi sua ‘motivazione’ tanto sostanziale che legale. In modo non certo minore ciò si applica anche alle Decisioni di governo la cui im-prudenza rischia non solo di renderle inefficaci in se stesse ma, molto maggiormente, di creare nuovi conflitti che turbano e destabilizzano il buon ordine sociale o comunitario, contraddicendo così alla radice la stessa funzione di governo. Proprio tale approccio ‘prudenziale’ ha sempre caratterizzato l’agire dell’Autorità canonica, spesso ‘a cavallo’ tra intervento disciplinare o penale, potendo fruire per correggere gli abusi tanto di una ‘via’ giudiziale che extra-giudiziale (=amministrativa, oggi) …oltre che di un foro interno ed uno esterno, in modo da assicurare la maggior efficacia reale ai propri interventi.
‘Prudenza’, però, comporta ancora una volta valutare-giudicare-decidere, senza che la maggior attenzione posta in vista del futuro, anziché del passato, muti sostanzialmente le ‘dinamiche’ dell’intero processo decisionale. Non sia inutile osservare in merito come lo ‘studio’ dell’attività giuridica, svolta da sempre in maggior parte nei Tribunali (o istituzioni equivalenti) –le Sentenze, in massima parte–, sia stato qualificato tecnicamente proprio come “prudenza”: Iuris-prudentia, mentre il resto del pensare umano si è generalmente caratterizzato come ‘logia’.

4. GIURISDIZIONE E POTESTÀ: QUALE FONDAMENTO?
4.1 Giudicare e decidere senza autorità
Il lungo percorso sin qui articolato pare aver messo in sufficiente rilievo –per quanto in modo indiretto (e non espressamente intenzionale)– come, in fondo, tutto quanto riguarda le ‘dinamiche’ proprie del conoscere-valutare-giudicare-decidere che si attua all’interno degli Ordinamenti giuridici ‘occidentali’ (tra cui quello canonico) possa reggersi –e di fatto si regga– in modo sostanzialmente ‘autonomo’, ‘auto-portante’, ‘auto-poietico’, rispetto agli Ordinamenti stessi, rispondendo a livello di strutture e dinamiche fondamentali e portanti solo a se stesso ed alle proprie intrinseche necessità che, come pluralmente illustrato, non hanno alcun bisogno di ricevere dall’esterno la loro ‘legittimazione’. Auctoritas, Potestas, Iurisdictio, appaiono, così, poco più che ‘figure concettuali sintetiche’, di grande utilità per semplificare la ‘presentazione’ e gestione teoretica dell’intero ambito e coordinarne alcune espressioni/dinamiche ed applicazioni concrete, ma non –ontologicamente– necessarie al funzionamento dello Ius come tale. A ben vedere, infatti, il loro maggior ruolo si pone più nella Esecuzione della Decisione/Sentenza (la sua effettiva ‘applicazione’ alla realtà sociale) che non nella sua ‘costruzione’ e formulazione, evidenziando come la loro necessaria ricaduta sociale/comunitaria non possa, di solito, trascurare una qualche forma di ‘istituzionalità’ attraverso la quale l’intera società/comunità –o una sua parte esistenzialmente significativa– prenda atto e soprattutto ‘urga’ le conseguenze della Decisione stessa: la nozione di giuridicità/Diritto già esplicitata in altra sede è pienamente rispondente proprio a questa prospettiva. Di fatto –p.es.– il necessario ‘deposito’ del Lodo arbitrale, con cui –eventualmente– si sia decisa una questione applicando il Diritto ‘interno’ ad un altro Ordinamento giuridico, è di tutta evidenza in merito poiché conferisce esecutività a ‘giudizi-decisioni’ che autonomamente non potrebbero esigerla nell’Ordinamento che dovrebbe, invece, riceverla. Per di più: se il dicere-Ius è attività ‘personale’ che non abbisogna per il proprio ‘esserci’ ed attuarsi di nulla di estrinseco rispetto a chi lo pone in essere (=le parti ed il tertius), allora il ruolo dell’Istituzione appare chiaramente come di ‘sola’ unificazione e garanzia degli intenti e delle azioni di ciascuno: lo ‘spazio esistenziale condiviso’ all’interno del quale ciascuno può cercare e ricevere ciò che è ‘per-tutti’ e dare il proprio apporto ‘a-tutti’. È questa in effetti la vera forza/natura dell’Istituzione dal punto di vista sociologico ed antropologico (non politico o giuridico, che ne sono solo parziali e non-univoche derivazioni funzionali): la sua ‘esistenza’ autonoma rispetto non all’umanità come tale ma alle singole persone che di volta in volta ad essa si riferiscono. A maggior ragione nella Chiesa la quale opera per un fine ben specifico (=la missione affidatale da Cristo), secondo modalità specifiche (=spirituali), attraverso la custodia e condivisione di un “depositum fidei” su cui non possiede alcuna disponibilità sostanziale. Non di meno, in essa la concreta assenza di un reale sistema esecutivo delle Decisioni ne rimanda di fatto la piena efficacia all’auto-assoggettamento (volontario e consapevole) alle stesse da parte dei fedeli cui sono destinate.
Ne consegue per la Teoria generale di Diritto (anche canonico), e più specificamente per un’adeguata ‘identificazione’ dello Ius, una chiara riaffermazione del ruolo irrinunciabile e costitutivo della conoscenza rispetto alla volontà; non di meno la propedeuticità del giudicare rispetto al decidere pone in maggior risalto gli elementi valutativi rispetto a quelli ottativi, così come il decidere, con la sua necessaria pre-assunzione di un futuro concretamente possibile, deve rispondere a requisiti di responsabilità e prudenza difficilmente estranei a quanto già entrato in gioco all’interno dell’intero ‘processo’ decisionale.
Giurisdizione, quindi, come sostanziale ‘conoscenza-giudizio-decisione’? L’ipotesi non solo non è improbabile… ma anche restituirebbe lo Ius all’umanità, smettendo di farne sia [a] uno strumento di potere –come la cultura giuridica moderna ha invece realizzato– che [b] quel ‘commercio’ d’interessi che non sa più vedere la persona come tale ma solo –eventuali– ‘diritti’ (a volte, forse, neppure davvero ‘suoi’) a cui è stata progressivamente ridotta.
4.2 L’autorità di giudicare e decidere
Quest’ultima prospettiva che vede nascere la c.d. Giurisdizione/Potestà (sociale/comunitaria) in modo pressoché autonomo (poiché socio-antropologico) rispetto alla necessaria pre-esistenza degli Ordinamenti giuridici che in qualche modo la ‘fondino’ e la legittimino, riconoscendo sostanzialmente alla sola attività del dicere-Ius le caratteristiche necessarie e sufficienti alla vera ‘creazione’ dello stesso Diritto è riscontrabile anche oggi (in modo confuso ma indubbiamente efficace) nelle attività proprie (ed in quelle connesse) della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Proprio da tale Organismo, infatti, e dalla sua attività si sta già prospettando il sorgere di una Giurisdizione vera e propria cui gli Stati europei finiranno per trovarsi assoggettati anche contro la loro espressa volontà individuale di ‘permettere’ che ciò avvenga, p.es., attraverso un ‘conferimento’ ad essa di ‘Potestà’ tradizionalmente ritenute ‘proprie’ ed inalienabili di ciascuno Stato (post-rinascimentale). Ciò che, infatti, sta avvenendo attraverso l’azione della C.E.D.U. è proprio l’instaurarsi di una vera referenzialità sovra-soggettiva (in un ambito in cui i soggetti unici sono –di per sé– gli Stati aderenti all’U.E. e firmatari del Trattato di Roma istituente la stessa Corte) che esercita comunque un influsso di ‘valutazione-giudizio’ sul comportamento degli Stati in un certo numero di materie ‘decise’, tra l’altro, non dai loro Governi ma dai cittadini come tali col proprio rivolgersi a tale Organismo perché pronunci ‘il Diritto’ in tali materie, le più disparate. Quanto tale situazione finirà per pesare sui singoli Stati in quanto –pretesamente– ‘uniche’ fonti del proprio Diritto (come dal Rinascimento si è sempre voluto sostenere col proprio “superiorem non recognoscens”) non può essere ulteriormente ignorato. Sarà ben difficile, infatti, che gli altri Stati aderenti all’Unione [a] tollerino a lungo le ‘difformità’ normative di qualche singolo Stato membro che la C.E.D.U. abbia ripetutamente evidenziato/contestato oppure [b] non provvedano a ‘trasferire’ in sede europea la fissazione dei parametri ‘comuni’ di riferimento per un numero sempre maggiore di materie a fondamento ‘giurisprudenziale’ comunitario o anche [c] non impongano l’osservanza/adozione di tali ‘esiti’ agli Stati che progressivamente richiedano di entrare a far parte dell’Unione o ad essa si avvicinino, negando così di fatto il presupposto tutto solo moderno che vede nell’esercizio della Potestà legislativa l’apice ed il distintivo dell’indipendenza ed autonomia di uno Stato.
Questo fenomeno, tuttavia, per quanto in modo certamente contraddittorio con le proprie stesse origini e ‘fonti’, sta già ‘illustrando’ –ma anche ‘realizzando’– in diretta il nucleo portante della fisiologia più profonda del sorgere autopoietico della c.d. Giurisdizione ‘laica’. Non di meno è qui il caso di ricordare soltanto come da tutta l’Antichità fino al Medio Evo il vero cuore della Giurisdizione (regale ed imperiale, e quindi ‘personale’ e non ‘statuale’) non fosse affatto la potestà legislativa ma proprio quella giudiziaria. Anche gli apporti della dottrina del Realismo giuridico (contemporaneo) delle scuole scandinava e nord-americana, in fondo, vanno esattamente nella stessa direzione: il Diritto –‘reale’– è quello pronunciato dai Giudici (la “Law in action” di R. Pound). La prassi forense ‘continentale’, non di meno, non ignora né contraddice tale realtà quando –sempre più spesso– si appoggia alla Giurisprudenza (applicativa ed interpretativa) anziché al testo di Legge (puramente prescrittivo/dichiarativo), generando anche vere e proprie ‘fattispecie’ che la ‘Legge’ formale (forse) giungerà a recepire solo a distanza di decenni, come –p.es.– per il c.d. danno esistenziale.
4.3 Una formalizzazione ‘regressiva’
Il percorso sin qui intrapreso, unitamente al riferimento alla Giurisprudenza della C.E.D.U., pongono un ‘problema’ di sicuro interesse proprio nell’ottica della conoscenza-valutazione-giudizio-decisione; un problema che tocca con immediatezza il Diritto processuale canonico, almeno nelle occasioni in cui debba interfacciarsi con gli Ordinamenti ‘assoggettati’ alla C.E.D.U. stessa. Si tratta, come rilevabile da un articolo di recente pubblicazione, dei presupposti stessi del Diritto processuale contemporaneo. Due i casus belli da considerare: le Sentenze ‘italiane’ su due casi radicalmente diversi ma di comune origine canonica: a) nullità matrimoniale per impedimento di parentela (causa Pellegrini), b) non rinnovo della docenza universitaria per via amministrativa (causa Lombardi Vallauri). Al di là della complessità strutturale e procedurale dei due casi, innescatisi per via indiretta attraverso la Giurisdizione (amministrativa) italiana –visto che la S. Sede non partecipa della Convenzione di Roma del 1950– ciò che conta è quanto emerge nella sostanza: le due Decisioni canoniche, poiché carenti del contraddittorio processuale, secondo la C.E.D.U. non avrebbero dovuto esser ‘riconosciute’ dall’Ordinamento italiano che, di conseguenza, è stato ‘condannato’.
La ricaduta di tali Sentenze “c. Italia” sul tema conoscere-valutare-giudicare-decidere che qui ci occupa è radicale poiché esclude di fatto (e si pretende anche ‘di Diritto’!) la strutturalità della dimensione ‘conoscitiva’, trasferendo la sostanzialità del procedimento giudiziale/ario a carico del solo dibattimento processuale… anche quando esso non serva affatto, data la palese sufficienza di una semplice ‘ricognizione’ dei fatti in oggetto (come nel caso del vincolo di parentela). In questo lo stacco col sostanzialismo dell’Ordinamento canonico è considerevole e pare destinato a crescere. Ciò che, tuttavia, emerge in questi casi non è tanto un semplice elemento di ‘incoerenza’ o ‘difficile conciliabilità’ teoretico-pratica tra Ordinamenti giuridici differenti, quanto piuttosto una radicale differenza di pre-supposti degli Ordinamenti stessi e, più ancora, del loro modo di Ius-dicere. Differenza sommariamente esprimibile in due posizioni base: a) posizione canonica: poiché la natura del Processo canonico è sostanzialmente ‘cognitiva’ e si rivolge al raggiungimento ‘a posteriori’ della verità dei fatti e delle circostanze in modo da poter ‘dichiarare’ tale status quo ante rispetto alla disputa/contestazione dedotta davanti al Giudice, nel caso in cui tale conoscenza sia stata conseguita (o sia conseguibile) in modo certo, p.es., attraverso un Processo documentale (=massimo grado di certezza) non si richiede nessun intervento ‘esterno’ a quello del Giudice che, interrogato “an sit/constet” risponde “affirmative aut negative”; b) posizione statuale: poiché il Processo statuale mira sostanzialmente –almeno negli ultimi decenni– alla dichiarazione di ‘colpevolezza/dolo/reato’ o ‘innocenza’ di una delle parti, non si può prescindere da una vera e propria accusa (per quanto anche solo ‘rituale’) destinata a mostrare tale ‘condizione’ personale affinché il Giudice –eventualmente– la dichiari e la persegua.
La distanza tra le due posizioni, per di più, si sta progressivamente ampliando poiché i vari processi di ‘laicizzazione’ (de-confessionalizzazione, de-moralizzazione, de-eticizzazione) della cultura e dei necessari riferimenti di valutazione e giudizio personali dello stesso Giudice sembrano non lasciare alternativa ad una semplice e restrittiva (e parzialissima!) ‘valutazione’ intra-processuale delle posizioni degli intervenienti (le parti) in modo da giudicare e decidere –solo– in ragione di quanto sia effettivamente stato espresso nel corso del Processo. In tal modo, per non dover attingere alla ‘propria’ eticità (ovviamente mai ‘oggettiva’), il Giudice (‘relativista’) deve necessariamente ‘assistere’ al contraddittorio delle parti, valutando e giudicando quale in esso soccomba e quale prevalga: nulla di più. L’identificazione di un ‘giusto Processo’ con la sola possibilità di ‘difendersi’ o difendere la propria posizione/pretesa processuale, come preteso dalla C.E.D.U., pare comportare (e preludere a) la piena rinuncia a qualunque elemento cognitivo-valutativo dell’attività giurisdizionale e di governo con privilegio di un giudizio che, non paradossalmente, diventa sempre più soggettivista ed ‘estemporaneo’.


PAOLO GHERRI
in: Apollinaris, LXXXIV (2011), 27-88.

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