‘processamenti’ ma nella previa scelta di quello –tra essi– adatto a ‘risolvere’ il problema reale con cui ci si misura razionalmente. Più praticamente, con un’immagine: quando, in qualunque circostanza della vita, si ha davanti una ‘res’ che non si sa bene cosa sia, il vero problema è la scelta dell’approccio più adatto: biologico, chimico, fisico, storico, artistico… è chiaro che –solo ‘in seguito’– ogni approccio seguirà ferreamente le proprie regole già prestabilite intra-disciplinarmente, ma fino al momento della scelta iniziale nessuna ‘regola’ intra-disciplinare è in grado di dare l’indicazione da cui partire. È quanto sperimentano, spesso non senza disagio, i giuristi che ‘accolgono’ dalle persone i ‘racconti’ delle loro sventure familiari/matrimoniali e devono capire di cosa si è trattato in effetti, prima di poter ricondurre (=sussunzione) tali fatti (o una loro parte) entro le ‘previsioni’ generali già operate dal Diritto.
Ecco perché la funzione irrinunciabile della Logica in ambito giuridico va collocata in seconda ed ulteriore battuta, quale sostanziale dispositivo/funzione di controllo e verifica della correttezza dei vari passaggi ‘causali’ operati durante l’attività sia istruttoria che decisionale (v. infra).
In tal senso un grande vantaggio potrebbe trarsi anche nel guidare –o almeno suggerire– i migliori percorsi probatori per le differenti fattispecie sottoposte a Giudizio, aiutando, p.es., a non omettere nessuno degli elementi davvero portanti la fattispecie stessa, così come nel relazionarli correttamente tra loro.
LE LOGICHE ‘COMPORTAMENTALI’
Il fatto, tuttavia, che la Logica ontica –in sé e per sé– non possa avere un’immediata utilità nel trattamento dei ‘fatti umani’ una volta posti/attuati, non significa che la Logica come tale abbia però perso la propria legittima cittadinanza nell’attività giuridica e tanto meno in quella processuale. Se infatti l’agire umano non risponde ad una necessità ontica, questo non significa affatto che non possa rispondere ad ‘altre’ tipologie di inter-connessione che la mente umana possa cogliere, conoscere e valutare …anche attraverso quello strumento gnoseologico che è il Processo giudiziale/rio.
Anziché la ‘struttura’ rigida di quanto risulta già passato (“in facto esse”, per dirla canonicamente) si potrà, non di meno, prendere in esame le dinamiche che lo avevano generato e reso ‘possibile’ (“in fieri”), per quanto non ‘necessario’. Proprio qui, tuttavia, sarà decisivo utilizzare non solo gli strumenti investigativi (e diagnostici) corretti ma anche un’adeguata conoscenza e valutazione delle dinamiche razionali e delle ‘connessioni’ intellettive (ed emozionali) che spingono ogni persona all’azione o all’inerzia, all’impegno o al disinteresse.
Si tratta, in ambito giuridico (canonico in particolare), di uscire ormai con serenità e definitivamente dalla costrizione delle sole Logiche ontiche per fruire di altre ‘esternazioni/comunicazioni’ dei processi razionali/mentali umani davvero adatti all’attività giuridica. A maggior ragione se si considera come, di fatto, l’agire umano e ‘personale’ a cui si volge da sempre la pratica del Diritto –soprattutto in ambito giudiziale/rio– riguardi esclusivamente ‘atti’ e non ‘fatti’: un agitum (=actum) di cui conoscenza e volontà sono i pilastri irrinunciabili perché si possa ‘giudicare’ qualcuno. Per contro, ma non paradossalmente(!): se fosse questione degli effetti di una necessità ontica (=metafisica) non potrebbe darsi Giudizio alcuno poiché sarebbero del tutto assenti tanto l’azione/atto/agito che l’imputabilità dei suoi effetti a qualche reale ‘soggetto’ agente, come accade per i fenomeni metereologici. La necessità ontica (=il ‘dover’ essere) che muove la ‘natura’ e fonda i principi etici –indicando ‘cosa’ davvero corrisponda all’essere persona– non può nulla quando si entri nell’immenso campo delle potenzialità –solo futuribili– dell’agire personale.
Le soglie, appena varcate, del nuovo millennio permettono tuttavia di non restare sguarniti ed attoniti davanti al barato della il-logicità in cui considerazioni di questo tipo parrebbero –inconsideratamente (?!)– voler relegare la pratica giuridica (almeno tradizionale), ma di trarre incredibili –poiché ancora in gran parte sconosciuti– vantaggi proprio dall’adozione nel Diritto attuale sia [a] delle c.d. Logiche epistemiche che [b] di quelle deontiche, cui la comportamentalità umana è riconducibile in modo abbastanza agevole.
Ciò, tuttavia, porta di nuovo a valorizzare e ‘funzionalizzare’ in modo più consapevole e radicale proprio i due elementi chiave dell’agire personale, e quindi giuridico: conoscenza e volontà (v. supra); ai quali, per altro, diventa ora possibile attribuire anche specifiche ‘utilità’ non certo secondarie per il raggiungimento sia della verità sui fatti che della certezza morale, necessari per sentenziare canonicamente.
Volitum e cognitum hanno risposto da/per secoli a ‘dinamiche’ –ed oggi anche a Logiche!– diverse ed incommisurabili, irriducibili, per quanto ragionevolmente già interconnesse nell’adagio “nihil volitum quin præcognitum”. Oggi però, grazie almeno alle Logiche epistemiche e deontiche, è possibile entrare anche in profondità nelle loro maglie più serrate mettendone a nudo, o portandone alla vista, i principali dinamismi operazionali. Affrontare, infatti, la dimensione volitiva del comportamento personale guidati dalle dinamiche deontiche (“operatori” in linguaggio tecnico) del permesso, vietato, consigliato, indifferente, ecc., dopo aver vagliato l’oggetto destinatario dell’agire personale in prospettiva epistemica –secondo gli operatori del sapere, ritenere, credere, ecc.– offre senza dubbio chances (potenziali) inimmaginabili ai più. Cosa accadrebbe, inoltre, se si introducessero e gestissero altri operatori logici quali: bisogno, preferenza, ottimalità? …E se si riuscisse anche a ‘quantificarli’ –graduandoli– nella loro portata ed effettività?
Una prima ‘sollecitazione’ sul tema è giunta dalla proposta del prof. Galvan –logicamente coerente e fondata– di ricondurre la “volontà” alla “credenza di ottimalità”. Ciò permetterebbe –forse?–, in una prospettiva personalista, di porre in maggior risalto anche la semplice possibilità, quanto pure il desiderio connesso all’ottimalità, come fattori reali e concreti che intervengono nella vita personale e, più ancora, nelle scelte di vita quali, appunto, Matrimonio, Ordine sacro, Professione religiosa…
Se ciò potesse attuarsi sarebbe superato lo iato millenario tra le due ‘facoltà’ (scolasticamente: potenze), prospettando almeno ‘vie probatorie’ innovative e non meno efficaci di quelle intraprese fino ad oggi in campo processuale canonico. In tale prospettiva, infatti, la volontà non apparirebbe più una sorta di ‘res’ –presente o assente nella persona in ‘quantità’ più o meno determinabili– ma fondamentalmente uno ‘stato coscienziale’ individuale!
A tal proposito, giova specificare come questo approccio non si sovrapponga affatto né a quello fenomenologico né a quello psicologico, poiché non si tratta di esaminare la persona in questione ed i suoi dinamismi interni (per sapere che cosa concretamente ‘è accaduto’ a/in lei) ma di offrire al Giudice la capacità di comprendere adeguatamente quanto gli viene riferito, in modo da porre in seguito domande effettivamente adatte a far emergere la perfetta/migliore corrispondenza tra realtà dei fatti e loro ‘rappresentazione’ (adæquatio rei et intellectus).
Proprio qui, in effetti, è lo snodo del problema: capire che cosa è stato/viene detto! Non tanto nella formulazione linguistica e testuale ma a livello ‘proposizionale’: che cosa, cioè, si afferma della realtà col proprio dire. Anche linguaggio, semantica ed interpretazione vanno esclusi –a questo livello– da indebite interferenze e corto-circuiti espressamente ‘logici’!
Un esempio ‘evangelico’ potrebbe soccorrere la comprensione.
Le due parabole di Gesù sulla preghiera (Lc 11, 5-13 –l’amico importuno– e Lc 18, 1-8 –il Giudice disonesto–) che cosa affermano circa la ‘realtà’ del pregare? 1) La necessaria perseveranza nel pregare, oppure 2) la capitolazione di Dio davanti all’insistenza della preghiera? Il problema è solo ‘logico’; mentre, tuttavia, Teologia e Spiritualità hanno dato lungo i secoli risposte ben diverse alla stessa domanda.
FUNZIONI LOGICHE DI ‘CONTROLLO’
Quanto sin qui sottolineato circa il necessario ed inevitabile superamento teoretico –in ambito giuridico– del paradigma sillogistico ‘tradizionale’ non comporta affatto l’esclusione della Logica tout-court dall’ambito giuridico canonico (processuale in particolare), ma una sua radicale ri-collocazione non più in limine quanto piuttosto in medio et in exitu. Non a livello, cioè, di [a] ‘scoperta’ e ‘ri-costruzione’ della verità dei fatti e [b] necessità di una ‘determinabile’ Sentenza, ma a sua ‘verifica’ e controllo in sede motivazionale …non meno importante per la consistenza della Decisione giudiziale. Passando, cioè, dalla fase istruttoria a quelle dibattimentale e decisoria.
Per contro, proprio nella fase istruttoria, andranno accolti ed adottati gli strumenti più propri del c.d. metodo analitico (platonico) ben più adatti all’investigazione ed alla scoperta a causa della loro potenziale coestensività con l’ampiezza ed indeterminatezza –almeno iniziale, se non anche di principio– della realtà da prendere in considerazione (=dominio). Il procedere, infatti, per sillogismi all’interno di un contesto ‘ontico’ presuppone la già avvenuta perfetta delineazione e fissazione di tutti gli elementi che possano in qualche modo entrare in gioco (=dominio)… cosa del tutto impossibile quando si tratti di agito personale. In tale prospettiva va accantonata anche la pretesa che con la Conclusio in Causa e la pubblicazione degli Atti della stessa (Cann. 1598-1606) si possa fruire dei benefici logici di un ‘campo’ ormai chiuso. Se, infatti, parrebbe vero che in tale fase processuale siano ormai presenti tutti e soli gli elementi da considerare (Acta et probata=dominio) –non più in prospettiva di ‘scoperta’–, restituendo possibilità alla sillogistica ontica ai fini del ‘calcolo’ della Sentenza, sarebbe ancora maggiormente vero che i ‘contenuti’ delle diverse proposizioni rimarrebbero di qualità tale da non permetterne l’assiomatizzazione necessaria all’esecuzione di un tale sillogismo. Le proposizioni p e q, infatti, esprimenti la PM e la pm dei diversi sillogismi, non sarebbero –a loro volta– altro che ‘funzioni’ riassuntive di altri ‘domini’ radicalmente diversi nei loro stessi presupposti, contenuti, dinamismi e risultati; radicalmente diversi perché espressione di ‘modelli’ logici non-ontici, come risultano quelli comportamentali. Concretamente, anche volendo rimanere all’interno della professio fidei syllogistica consegnataci dalla ‘tradizione’ canonistica, si dovrebbe –infatti– riconoscere che, mentre gli atti delle persone rispondono a Logiche epistemiche, le Norme/Leggi funzionano secondo Logiche deontiche. Indipendentemente –perciò– da quali siano la PM e la pm per formulare la Sentenza (Pinto o Lega), ognun vede come l’applicazione di una necessità ontica alla ‘relazione’ tra atti/fatti e Norme non possa generare alcuna ragionevole ‘conclusione’, non potendosi comunque evitare quanto già insegnato da Rosmini come le (uniche) “due regole generali del sillogismo”:
«la conclusione dev’essere contenuta nel tutto sillogistico posto dalla premessa maggiore, e che il termine medio deve avere estensione almeno pari a quella del soggetto e comprensione almeno pari a quella del predicato della conclusione».
Nella stessa linea di inapplicabilità teoretica assoluta del sillogismo formale-modale alla decisione giudiziale, vale la pena di riprendere, ancora a distanza di qualche anno, un’affermazione illuminante del prof. Livi alla Prima Giornata canonistica interdisciplinare:
«il rapporto tra facti-species e factum è un rapporto molto complesso perché il factum viene prima della facti-species altrimenti non ci sarebbe il ritratto l’immagine del fatto. Ma il faciendum viene ancora dopo e allora lì, siccome si salta dall’atto alla potenza, dalla potenza all’atto il sillogismo è una cosa assurda –non so chi l’ha inventata questa storia del sillogismo– è assurdo perché mette sullo stesso piano cose che non sono sullo stesso piano. Il sillogismo aristotelico richiede che premessa maggiore, premessa minore e conclusione siano omogenee, altrimenti che discorso è? Ma invece, factum, facti-species e faciendum non sono mai sullo stesso piano».
Numerose ed utili risultano, di contro, le preziose funzioni di controllo che varie ‘tipologie’ logiche possono ormai offrire alla lettura e valutazione secondo ragione e coscienza che il Giudice (e le stesse parti) devono fare di quanto emerso durante il Processo. Due soli ‘esempi’ in merito –secondo la struttura della Sentenza giudiziale– che pongano in evidenza un proficuo utilizzo delle Logiche deontiche ed epistemiche sin qui evocate: pars in Iure e pars in facto.
In Iure: è certo che le diverse ‘norme’ che intervengono nell’esercizio dell’attività giuridica abbiano ‘pesi’ e ‘caratteristiche’ diverse, sia quanto a ‘gerarchia’ interna delle Norme come tali, sia su base storica nel ‘bilanciare’ –p.es.– una Decretale pontificia medioevale ed un ramo della più recente Giurisprudenza. Problematica analoga dal punto di vista logico si delinea anche nel comprendere quanto –in effetti– il dettato legale (=la lettera della Norma) corrisponda effettivamente alla decisione normativa assunta dal Legislatore (fine e circostanze della Legge, mente del Legislatore, secondo il Can. 17) il quale, inoltre, spesso non ‘decide’ affatto con una conoscenza piena, certa, universale, ma secondo proprie conoscenza, supposizione, credenza, convinzione, giudizio di ottimalità: quanto tradizionalmente si riconduceva alla necessitas vel utilitas vel convenientia rerum et personarum. In quest’ambito non si potrà sfuggire al ‘controllo’ –anche imposto dall’esterno (=Tribunale di Istanza superiore)– da parte della Logica deontica al fine di ‘verificare’ la correttezza dello Ius applicato/bile.
In facto: non di meno occorre considerare come ciò che le singole persone abbiano operato nel tempo attraverso le proprie scelte o anche solo semplici attuazioni (=fatti concludenti) debba essere rapportato con e valutato secondo la loro individuale capacità di distinguere adeguatamente tra conoscenza, supposizione, credenza, convinzione e giudizio di ottimalità (assoluto e/o relativo) che ciascuno abbia formulato nei confronti di una determinata ‘realtà’ o ‘componente’ connessa al proprio Matrimonio, o stato di vita. Anche ragione e coscienza del Giudice dovranno essere soppesate in modo distinto nella portata delle loro conclusioni (=certezza morale). È questo, infatti, l’ambito in cui “ciò che avrebbe dovuto essere (fatto)” –secondo Logica deontica– non riesce concretamente ad andare oltre la semplice “presunzione Iuris tantum” che l’intero Processo mira a verificare nella propria consistenza. Di contro: ciò che della realtà come tale (Logica ontica) o dell’agire maturo, libero e consapevole (Logica deontica) è stato effettivamente ‘assunto’ dall’agente (Logica epistemica) rimane il vero obiectum contentionis cui dare soluzione.
La complessità del quadro si accresce se si consideri poi come, almeno de facto, le ‘intenzionalità’ (o anche solo le ‘aspirazioni’) dei diversi soggetti del Processo siano spesso non concordi: mentre le parti, infatti, propugnano e sostengono una propria ‘posizione’ (e spesso un vero e proprio interesse), il Giudice deve conoscere/verificare che cosa sia realmente accaduto. Ciò condiziona radicalmente gli strumenti razionali –in realtà ‘logici’– utilizzabili: alle ragioni (teleologiche) delle parti bastano degli argomenti, alla conoscenza (aletica) del Giudice serve la ricostruzione del passato. Chi argomenta parte dal futuro che vuol conseguire e cerca nel passato ciò che glielo permetta; chi cerca la verità deve ricostruire il passato andando alla ricerca di tutto quanto possa essere utile alla sua ri-costruzione. Le ragioni sono prospettiche, teleologiche, guardano al risultato da conseguire; la verità è retrospettica, ontologica, guarda a che cosa è successo; le ragioni riguardano il fine, la verità l’origine. Ne sgorga una difficile convergenza tra sillogistica tradizionale e Logiche aletiche; le prime volte a ‘dimostrare’ ab exitu (=la conclusione già ‘posseduta’) che i fatti (=le premesse) sono andati incontrovertibilmente (poiché di sillogismo formale-modale) in un determinato modo, la seconda impegnata a far emergere ex origine (=i fatti accertati) eventuali nessi di ‘causalità reale’ intercorrenti tra atti/fatti e ‘reazioni’ (=decisioni/conseguenze) da parte delle persone coinvolte.
CONCLUSIONI
Gli apporti e, soprattutto, le istanze intorno a cui si sono articolate le presenti riflessioni hanno messo in luce la necessità di continuare la ricerca sulla tematica dei rapporti tra Logica e Diritto (anche specificamente canonico), nella consapevolezza della reciproca fecondità del collaborare.
- Quale altro ambito, infatti, potrebbe offrire allo studio delle Logiche non solo ontiche l’ampiezza di ‘supporto’ che il Diritto, con la sua irrinunciabile necessità di conoscere, valutare e decidere circa l’agire umano riesce ad evidenziare e rendere concretamente disponibile?
- Non di meno anche la pratica giuridica potrebbe trarre grandi vantaggi dall’acquisire ‘dimestichezza’ con l’utilizzo non più di ‘schemi’ e ‘figure’ sillogistiche, ma dall’adozione di una pur minima capacità di ‘formalizzare’ gli elementi cardine di quel ragionamento che, oltre ad essere ‘corretto’, dev’essere anche ‘condivisibile’ …almeno razionalmente.
Con evidenza restano aperte molte istanze che vanno ben oltre la Logica, i suoi confini e le sue possibilità; istanze che riguardano, p.es., l’articolarsi dei ‘processi’ intellettuali e razionali che le diverse Logiche in qualche modo tentano di ‘esprimere’. Processi, tuttavia, che richiedono ben altri approcci e consapevolezze, anche previe, come senza dubbio potrà e dovrà essere messo in luce da un’adeguata riflessione sui fattori e le dinamiche decisionali e di ‘giudizio’, come anche sul linguaggio e l’interpretazione, cui s’indirizzeranno le prossime Giornate canonistiche interdisciplinari.
in: Apollinaris, LXXXIV (2011), 183-198
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