Bilancio canonistico della Quinta Giornata canonistica interdisciplinare

CANONISTICA E SILLOGISTICA

Barbara, Celarent, Darii, Ferioque, Cesare, Camestres, Festino, Baroco, Termia, Darapti, Disamis, Datisi, Felapton, Bocardo, Ferison, Camenes, Dimaris, Fesapo, Fresison, sono i ‘nomi’ –inventati nel XIII sec. da Pietro Ispano– dei diciannove schemi sillogistici aristotelici ‘validi’ che la Neoscolastica ha meticolosamente offerto ai più fortunati tra gli ecclesiastici formatisi prima del Concilio Vaticano II. Agli altri fu consegnato –invece– il solo ‘sillogismo’ nudo e crudo… unico reduce incontestato della c.d. Logica minor che dominò la Scolastica medioevale. Non di meno, alle ‘nuove leve’ ecclesiastiche del post-Sessantotto non è giunto praticamente nulla di tutto ciò, anche ‘in grazia’ dei c.d. diagrammi di Venn (1834-1923) che, riprendendo Eulero, agli albori del XX sec. fornirono uno ‘strumento’ efficace cui ricondurre unitariamente tutti i sillogismi, eliminando di fatto il “calcolo sillogistico” come tale, tramandato dalla ‘classicità’ e variamente assunto nei secoli all’interno della formazione filosofica ed umanistica (soprattutto ecclesiastica).


Un rapporto, quello con la Logica, sicuramente non facile per i discenti della Canonistica classica e proto-codiciale; un rapporto spesso meccanicistico e dogmatico: «la Logica è il sillogismo aristotelico(!)» articolato in premessa maggiore, premessa minore, conclusione. Non di meno, tuttavia, in molteplici occasioni quasi qualunque ‘combinazione’ di tre proposizioni sintattiche con qualche referenza incrociata, non importa se causale, semantica o anche solo fonetica, fu (troppo) facilmente ricondotta ad un ‘sillogismo’, tanto presuntamente efficace quanto concretamente etereo …ed inverificabile. Senza tacere –qui– come ancora più spesso ci si affidasse alle diverse (legittime) ‘procedure’ di riconduzione alla ‘prima figura’ (quando non alla sola “Barbara”, nella connessione di tre proposizioni affermative) di tutte le altre ‘connessioni’ proposizionali …con tutte le evidentissime semplificazioni di una troppo facile ‘formalizzazione’ –e riduzione(!)– universale.


È comprensibile, d’altra parte, la necessità (e l’aspirazione) –soprattutto per il Giudice canonico che deve decidere con certezza morale circa la verità della ‘vicenda’ sottoposta alla sua conoscenza– di poter contare su ‘procedimenti’ (mentali) che gli assicurino non solo razionalità, ma anche ragionevolezza, sostenibilità, motivazione, comunicabilità, ecc. Non di meno: ogni elemento probatorio dev’essere ‘inserito’ all’interno di opportuni ‘cicli’ di indagine ed elaborazione razionale che vanno necessariamente ‘gestiti’ in vista dell’ottenimento di esiti pro o contro il “dubbio concordato” all’inizio del Processo (cfr. Can. 1661 §1), dovendo tale Giudice esprimersi tassativamente all’interno dello schema “an constet de … in casu”, pena la nullità insanabile della Sentenza che non risponda a tale domanda (cfr. Can. 1620, 8°).


In tale quadro, la ‘sicurezza’ offerta ai Giudici canonici dal –presunto– calcolo sillogistico (formale-modale) è apparsa a lungo tanto fondante quanto irrinunciabile, divenendo a sua volta l’origine di altri ‘sillogismi’ come quello c.d. probatorio attraverso cui (pressoché) ciascun capo di nullità matrimoniale troverebbe un proprio infallibile percorso logico adatto a ‘selezionare’ tra le diverse Dichiarazioni, Testimonianze e Prove, quanto effettivamente e risolutivamente necessario al conseguimento di una  risposta certa all’an constet originario.

Testimonia autorevolmente uno dei Giudici rotali più longevi nella propria attività (1970-2006) come sino ad oggi sia stato


«luogo comune affermare che la Sentenza rispecchia un sillogismo. Così Pinto con un rilevante numero di autorità dottrinali: “che la Sentenza sia anche un sillogismo (dove la maggiore è la Legge; la minore è il caso; la conclusione è la Decisione) non si può negare; anzi essa è un insieme di sillogismi, reso vincolante e decisorio dall’atto della volontà del Giudice”; è inutile insistere dal punto di vista del nostro tema sull’importanza di queste ultime parole».


Non di meno, al di là della –inevitabile– dogmatica professio fidei syllogistica, il grande Giudice e processualista (Decano del Tribunale della Rota Romana [1908] e poi Prefetto della Segnatura Apostolica [1914]) Cardinal Michele Lega (1860-1935) (conservando solo formalmente la propria ‘ortodossia’ aristotelico-scolastica) invertì il ‘ruolo’ di tali premesse aprendo, se non una vera ‘falla’ nel sistema, almeno una prospettiva indubitabile a quanti diffidano –in casu– del valore ‘processuale’ della Logica formale aristotelica:


«in iudiciali disceptatione Sententia est ad instar consequentiæ syllogismi cuius maior habetur in facto controverso iudicialiter discusso comprobato plene vel minus aut minime; minor enuntiat Ius ad controversiam iuridicam dirimendam applicadum: unde fluit Sententia, quæ est consequentia præmissarum».


Ben venga, dunque, il (un?) ‘sillogismo’ come ‘incontro’ (=syn) di ‘proposizioni’ (=logia): ma quale sillogismo? La Logica ‘classica’ di fatto non aveva superato le soglie di della necessità ontica, dominata dal “dover essere” (metafisico) degli ‘enti’ rispetto all’‘essere’ come tale. Proprio questo esito continua però a costituire il vero ‘nucleo’ della questione. La professio fidei antiquum, infatti, secondo cui il Giudizio –in fondo– sarebbe solo un sillogismo in realtà non dice assolutamente nulla rispetto a se stessa: quale, infatti, dei diciannove sillogismi ‘ammessi’ si sta usando o si pensa di potersi/doversi utilizzare? Perché Barbara e non Festino o piuttosto Fresison?


Il vero problema in realtà, anche in ambito giuridico, rimane lo stesso già sollevato a suo tempo da F. Bacone proprio verso la struttura sillogistica come tale, dovendosi domandare e chiarire non ‘come’ ma ‘da che cosa’ ed ‘in base a che cosa’ dedurre. Di fatto: né i diciannove schemi sillogistici aristotelico-scolastici né la loro riproposizione settecentesca e successiva con i diagrammi di Eulero/Venn risolvono nulla in merito.

Non di meno: un sillogismo non differisce strutturalmente (e funzionalmente) da un semplice ‘sistema algebrico’ di primo grado: due ‘formule’ (le equazioni) interconnesse (la ‘graffa’ che le unisce pur mantenendole distinte) contenenti elementi correlazionati tra loro (le ‘incognite’ x ed y) ed un risultato finale da ottenere …come le due premesse e la (loro) conclusione. Il vero problema, tuttavia, non è ‘risolvere’ il sistema una volta ‘dato’ (come molti hanno fatto sui banchi della scuola secondaria, trovandone migliaia nei libri di Algebra) ma ‘scriverne’ la prima formulazione corretta affinché non ne risulti impossibile la soluzione!

La debolezza del sillogismo, infatti, non è tanto la sua ‘sintassi’ logica interna, quanto piuttosto la previa ‘riduzione logico-contenutistica’ della realtà che deve essere ‘immessa’ in tale ciclo sintattico logico. Concretamente: davanti ad un ‘caso’ presentato al Tribunale, con le relative ‘domande’ di soluzione e le Prove raccolte nell’Istruttoria, quale delle diciannove ‘forme’ sillogistiche scolastiche il Giudice dovrà/potrà adottare? Come sarà possibile ‘dedurre’ dall’Interrogatorio di un Testimone una ‘conseguenza’ sillogisticamente corretta da adottare quale nuovo ‘presupposto’ (=assioma o teorema?) per il sillogismo ‘successivo’? Come, poi, correlare correttamente tutte le ‘conclusioni’ intermedie dei diversi ‘livelli’ sillogistici, visto che alla fine la ‘conclusione’ dovrà essere una sola? Come, ancora, gestire un sillogismo in cui almeno una delle due premesse (senza preferenze tra Pinto e Lega) non sia un’unica proposizione che affermi un ‘essere’ della realtà?

Palesemente, il vero problema non è il rapporto tra le due proposizioni p e q ma la formulazione stessa di p e q!


Non di meno le forti spinte critiche già attuate dalla nascente Scientia nova avevano anche messo in guardia dall’effettiva im-possibilità di ricondurre ogni composizione proposizionale (=syn-logia) ad un problema di mera ‘necessità’ (metafisica), come anche l’intervento di Hume –con la sua ‘fallacia naturalistica’– mise palesemente a nudo a riguardo dell’ambito comportamentale. Gli ultimi due secoli hanno poi mostrato con chiarezza che non esiste solo questa possibile ‘connessione’ né tra proposizioni, né all’interno della reale esperienza umana.


Tanto più che, molto probabilmente, ciò di cui si continua ad aver effettiva necessità in ambito giuridico non è tanto ‘il’ –solo/unico– sillogismo ma un intero armamentarium di strutture logiche (di cui esso è solo ‘una’) attraverso le quali esternare, comunicare e condividere il proprio (delle parti e dei Giudici) pensiero sulla vicenda portata in Giudizio …come ben evidenziano le acute ed irrinunciabili acquisizioni proposte da J.M. Serrano Ruiz sia sulle “parole” che sui “giudizi”, ormai –di fatto e di ‘diritto’– pienamente collocate nell’alveo ermeneutico e personalistico che ha dato corpo nel Novecento ad istanze variamente già segnalatesi anche nei secoli precedenti ma non in grado, allora, di essere adeguatamente tematizzate.

IL CROLLO DI UN PARADIGMA MILLENARIO

Che l’uomo (in realtà: la persona), a differenza della c.d. natura, non ‘agisca’ per necessità ontica ma in base ad altri fattori quali il desiderio, la conoscenza, la volontà… la passione, era già noto e chiaro agli antichi e la stessa Scolastica ne era ben conscia –seppure all’interno delle proprie categorie e capacità concettuali–. L’ipotesi tuttavia e la prospettazione di ‘altre’ Logiche oltre quella formale-modale propria dell’essere e delle sue ‘concretizzazioni’ (=gli enti) non riuscirono neppure a prender corpo all’interno di quei ‘paradigmi’ di approccio alla realtà, ancora troppo ‘legati’ ad una visione –in fondo– fisicista e materialista del reale con cui ‘idee’ o ‘universali/essenze’ (o ‘spiriti’ nella Modernità) facevano troppa fatica a connettersi e relazionarsi organicamente ed in profondità, come ben mostrarono le ripetute derive e forme di Nominalismo via via succedutesi nei secoli.

Si dovette attendere, in effetti, il Novecento per poter metter davvero mano alle molteplici istanze già da lungo tempo sollevate ma irrisolte. Il/un Novecento che riuscisse ad imporre –finalmente– la persona come fulcro del pensiero (filosofico …ed anche –parzialmente– metafisico) e non soltanto un ‘essere’ o uno ‘spirito/Geist’ che ‘si’ muove e muove l’intera realtà secondo una propria dinamica in qualche modo sempre ‘necessaria’, poiché unica ed assoluta (Hegel docet). Proprio tale assolutezza, non di meno, in quanto incondizionata ed incondizionabile era risultata di fatto il ‘collo di bottiglia’ ontologico che continuava ad impedire un reale incontro e confronto con l’effettiva realtà dell’esistenza quotidiana –di ciascuno–, ancora semplicemente ‘collocata’ (=relegata) in qualcuna delle ‘fasi’ più o meno positive/negative di tali dinamiche ‘universali’ e comunque sempre necessarie’.


L’irrimediabile travolgimento delle mitologie fisicistico-tassonomiche degli antichi a partire da una Chimica ‘strutturata’ (Mendeleev) e dall’Elettromagnetismo (Faraday), dall’affermarsi della Sociologia (Weber) e dell’Etnologia (Levi Strauss), della Psicanalisi (Freud) e della Psicologia (Wundt ed Ebbingaus), dalle consapevolezze circa la Relatività (Einstein), l’Indeterminazione (Heisenberg), l’Incompletezza (Gödel e Tarski), l’Indecidibilità (Richardson), l’Olismo (Bohm), la Falsificabilità (Popper), ecc., ha messo in chiara evidenza la necessità irrinunciabile di considerare, almeno in via ‘strumentale’, altre Logiche (sic!), gradualmente ‘adatte’ a nuovi utilizzi in campi segnati da ‘assoluta’ concretezza e relatività, dove il particolare, lo specifico, il concreto, non coincidono affatto col singolare …ed il generale non incrocia affatto l’universale.

Fenomenologia, Esistenzialismo, Ermeneutica, Personalismo, hanno poi completato l’opera in campo filosofico, mettendo definitivamente alla porta anche lo spirito/Geist che aveva narcisisticamente concentrato su di sé soltanto le attenzioni proto-epistemologiche di Dilthey, oltre a quelle para-scientifiche di Hegel …lasciando tranquillamente Kant alle proprie ‘Ragioni’.


L’uomo e non la natura, la persona e non lo spirito/Geist, è il vero fulcro ed il referente originario (ed originante) dell’attività logica! Della Logica come –mera– ‘espressione’ extra-mentale dei processi cognitivi, valutativi e decisionali, attivi all’interno di ogni uomo e non come ‘legge’ di necessità (metafisica) che regge il mondo stesso in quanto ‘(ess)ente’. Il nuovo quadro generale di riferimento poteva così, finalmente, permettere di interessarsi al ‘come’ la persona articola di fatto i ‘prodromi’ del proprio agire, permettendole libertà, intenzionalità e virtù, ma anche ignoranza, insipienza e vizio… senza dover o poter soggiacere ad alcuna ‘necessità’ assoluta che ne tuteli l’operare.


Ciò che ormai va acquisito è il fatto che il vero problema non sta ‘dentro’ la Logica ma ‘fuori’ da essa: nello scegliere la giusta porta dalla quale entrare. D’altra parte se ciò di cui le varie Logiche si occupano è il ‘processamento’ di una certa qualità e quantità di elementi, il problema non sta nella struttura di tali  ‘processamenti’ ma nella previa scelta di quello –tra essi– adatto a ‘risolvere’ il problema reale con cui ci si misura razionalmente. Più praticamente, con un’immagine: quando, in qualunque circostanza della vita, si ha davanti una ‘res’ che non si sa bene cosa sia, il vero problema è la scelta dell’approccio più adatto: biologico, chimico, fisico, storico, artistico… è chiaro che –solo ‘in seguito’– ogni approccio seguirà ferreamente le proprie regole già prestabilite intra-disciplinarmente, ma fino al momento della scelta iniziale nessuna ‘regola’ intra-disciplinare è in grado di dare l’indicazione da cui partire. È quanto sperimentano, spesso non senza disagio, i giuristi che ‘accolgono’ dalle persone i ‘racconti’ delle loro sventure familiari/matrimoniali e devono capire di cosa si è trattato in effetti, prima di poter ricondurre (=sussunzione) tali fatti (o una loro parte) entro le ‘previsioni’ generali già operate dal Diritto.


Ecco perché la funzione irrinunciabile della Logica in ambito giuridico va collocata in seconda ed ulteriore battuta, quale sostanziale dispositivo/funzione di controllo e verifica della correttezza dei vari passaggi ‘causali’ operati durante l’attività sia istruttoria che decisionale (v. infra).

In tal senso un grande vantaggio potrebbe trarsi anche nel guidare –o almeno suggerire– i migliori percorsi probatori per le differenti fattispecie sottoposte a Giudizio, aiutando, p.es., a non omettere nessuno degli elementi davvero portanti la fattispecie stessa, così come nel relazionarli correttamente tra loro.



LE LOGICHE ‘COMPORTAMENTALI’


Il fatto, tuttavia, che la Logica ontica –in sé e per sé– non possa avere un’immediata utilità nel trattamento dei ‘fatti umani’ una volta posti/attuati, non significa che la Logica come tale abbia però perso la propria legittima cittadinanza nell’attività giuridica e tanto meno in quella processuale. Se infatti l’agire umano non risponde ad una necessità ontica, questo non significa affatto che non possa rispondere ad ‘altre’ tipologie di inter-connessione che la mente umana possa cogliere, conoscere e valutare …anche attraverso quello strumento gnoseologico che è il Processo giudiziale/rio.

Anziché la ‘struttura’ rigida di quanto risulta già passato (“in facto esse”, per dirla canonicamente) si potrà, non di meno, prendere in esame le dinamiche che lo avevano generato e reso ‘possibile’ (“in fieri”), per quanto non ‘necessario’. Proprio qui, tuttavia, sarà decisivo utilizzare non solo gli strumenti investigativi (e diagnostici) corretti ma anche un’adeguata conoscenza e valutazione delle dinamiche razionali e delle ‘connessioni’ intellettive (ed emozionali) che spingono ogni persona all’azione o all’inerzia, all’impegno o al disinteresse.


Si tratta, in ambito giuridico (canonico in particolare), di uscire ormai con serenità e definitivamente dalla costrizione delle sole Logiche ontiche per fruire di altre ‘esternazioni/comunicazioni’ dei processi razionali/mentali umani davvero adatti all’attività giuridica. A maggior ragione se si considera come, di fatto, l’agire umano e ‘personale’ a cui si volge da sempre la pratica del Diritto –soprattutto in ambito giudiziale/rio– riguardi esclusivamente ‘atti’ e non ‘fatti’: un agitum (=actum) di cui conoscenza e volontà sono i pilastri irrinunciabili perché si possa ‘giudicare’ qualcuno. Per contro, ma non paradossalmente(!): se fosse questione degli effetti di una necessità ontica (=metafisica) non potrebbe darsi Giudizio alcuno poiché sarebbero del tutto assenti tanto l’azione/atto/agito che l’imputabilità dei suoi effetti a qualche reale ‘soggetto’ agente, come accade per i fenomeni metereologici. La necessità ontica (=il ‘dover’ essere) che muove la ‘natura’ e fonda i principi etici –indicando ‘cosa’ davvero corrisponda all’essere persona– non può nulla quando si entri nell’immenso campo delle potenzialità –solo futuribili– dell’agire personale.


Le soglie, appena varcate, del nuovo millennio permettono tuttavia di non restare sguarniti ed attoniti davanti al barato della il-logicità in cui considerazioni di questo tipo parrebbero –inconsideratamente (?!)– voler relegare la pratica giuridica (almeno tradizionale), ma di trarre incredibili –poiché ancora in gran parte sconosciuti– vantaggi proprio dall’adozione nel Diritto attuale sia [a] delle c.d. Logiche epistemiche che [b] di quelle deontiche, cui la comportamentalità umana è riconducibile in modo abbastanza agevole.

Ciò, tuttavia, porta di nuovo a valorizzare e ‘funzionalizzare’ in modo più consapevole e radicale proprio i due elementi chiave dell’agire personale, e quindi giuridico: conoscenza e volontà (v. supra); ai quali, per altro, diventa ora possibile attribuire anche specifiche ‘utilità’ non certo secondarie per il raggiungimento sia della verità sui fatti che della certezza morale, necessari per sentenziare canonicamente.


Volitum e cognitum hanno risposto da/per secoli a ‘dinamiche’ –ed oggi anche a Logiche!– diverse ed incommisurabili, irriducibili, per quanto ragionevolmente già interconnesse nell’adagio “nihil volitum quin præcognitum”. Oggi però, grazie almeno alle Logiche epistemiche e deontiche, è possibile entrare anche in profondità nelle loro maglie più serrate mettendone a nudo, o portandone alla vista, i principali dinamismi operazionali. Affrontare, infatti, la dimensione volitiva del comportamento personale guidati dalle dinamiche deontiche (“operatori” in linguaggio tecnico) del permesso, vietato, consigliato, indifferente, ecc., dopo aver vagliato l’oggetto destinatario dell’agire personale in prospettiva epistemica –secondo gli operatori del sapere, ritenere, credere, ecc.– offre senza dubbio chances (potenziali) inimmaginabili ai più. Cosa accadrebbe, inoltre, se si introducessero e gestissero altri operatori logici quali: bisogno, preferenza, ottimalità? …E se si riuscisse anche a ‘quantificarli’ –graduandoli– nella loro portata ed effettività?


Una prima ‘sollecitazione’ sul tema è giunta dalla proposta del prof. Galvan –logicamente coerente e fondata– di ricondurre la “volontà” alla “credenza di ottimalità”. Ciò permetterebbe –forse?–, in una prospettiva personalista, di porre in maggior risalto anche la semplice possibilità, quanto pure il desiderio connesso all’ottimalità, come fattori reali e concreti che intervengono nella vita personale e, più ancora, nelle scelte di vita quali, appunto, Matrimonio, Ordine sacro, Professione religiosa…

Se ciò potesse attuarsi sarebbe superato lo iato millenario tra le due ‘facoltà’ (scolasticamente: potenze), prospettando almeno ‘vie probatorie’ innovative e non meno efficaci di quelle intraprese fino ad oggi in campo processuale canonico. In tale prospettiva, infatti, la volontà non apparirebbe più una sorta di ‘res’ –presente o assente nella persona in ‘quantità’ più o meno determinabili– ma fondamentalmente uno ‘stato coscienziale’ individuale!


A tal proposito, giova specificare come questo approccio non si sovrapponga affatto né a quello fenomenologico né a quello psicologico, poiché non si tratta di esaminare la persona in questione ed i suoi dinamismi interni (per sapere che cosa concretamente ‘è accaduto’ a/in lei) ma di offrire al Giudice la capacità di comprendere adeguatamente quanto gli viene riferito, in modo da porre in seguito domande effettivamente adatte a far emergere la perfetta/migliore corrispondenza tra realtà dei fatti e loro ‘rappresentazione’ (adæquatio rei et intellectus).

Proprio qui, in effetti, è lo snodo del problema: capire che cosa è stato/viene detto! Non tanto nella formulazione linguistica e testuale ma a livello ‘proposizionale’: che cosa, cioè, si afferma della realtà col proprio dire. Anche linguaggio, semantica ed interpretazione vanno esclusi –a questo livello– da indebite interferenze e corto-circuiti espressamente ‘logici’!

Un esempio ‘evangelico’ potrebbe soccorrere la comprensione.

Le due parabole di Gesù sulla preghiera (Lc 11, 5-13 –l’amico importuno– e Lc 18, 1-8 –il Giudice disonesto–) che cosa affermano circa la ‘realtà’ del pregare? 1) La necessaria perseveranza nel pregare, oppure 2) la capitolazione di Dio davanti all’insistenza della preghiera? Il problema è solo ‘logico’; mentre, tuttavia, Teologia e Spiritualità hanno dato lungo i secoli risposte ben diverse alla stessa domanda.



FUNZIONI LOGICHE DI ‘CONTROLLO’


Quanto sin qui sottolineato circa il necessario ed inevitabile superamento teoretico –in ambito giuridico– del paradigma sillogistico ‘tradizionale’ non comporta affatto l’esclusione della Logica tout-court dall’ambito giuridico canonico (processuale in particolare), ma una sua radicale ri-collocazione non più in limine quanto piuttosto in medio et in exitu. Non a livello, cioè, di [a] ‘scoperta’ e ‘ri-costruzione’ della verità dei fatti e [b] necessità di una ‘determinabile’ Sentenza, ma a sua ‘verifica’ e controllo in sede motivazionale …non meno importante per la consistenza della Decisione giudiziale. Passando, cioè, dalla fase istruttoria a quelle dibattimentale e decisoria.

Per contro, proprio nella fase istruttoria, andranno accolti ed adottati gli strumenti più propri del c.d. metodo analitico (platonico) ben più adatti all’investigazione ed alla scoperta a causa della loro potenziale coestensività con l’ampiezza ed indeterminatezza –almeno iniziale, se non anche di principio– della realtà da prendere in considerazione (=dominio). Il procedere, infatti, per sillogismi all’interno di un contesto ‘ontico’ presuppone la già avvenuta perfetta delineazione e fissazione di tutti gli elementi che possano in qualche modo entrare in gioco (=dominio)… cosa del tutto impossibile quando si tratti di agito personale. In tale prospettiva va accantonata anche la pretesa che con la Conclusio in Causa e la pubblicazione degli Atti della stessa (Cann. 1598-1606) si possa fruire dei benefici logici di un ‘campo’ ormai chiuso. Se, infatti, parrebbe vero che in tale fase processuale siano ormai presenti tutti e soli gli elementi da considerare (Acta et probata=dominio) –non più in prospettiva di ‘scoperta’–, restituendo possibilità alla sillogistica ontica ai fini del ‘calcolo’ della Sentenza, sarebbe ancora maggiormente vero che i ‘contenuti’ delle diverse proposizioni rimarrebbero di qualità tale da non permetterne l’assiomatizzazione necessaria all’esecuzione di un tale sillogismo. Le proposizioni p e q, infatti, esprimenti la PM e la pm dei diversi sillogismi, non sarebbero –a loro volta– altro che ‘funzioni’ riassuntive di altri ‘domini’ radicalmente diversi nei loro stessi presupposti, contenuti, dinamismi e risultati; radicalmente diversi perché espressione di ‘modelli’ logici non-ontici, come risultano quelli comportamentali. Concretamente, anche volendo rimanere all’interno della professio fidei syllogistica consegnataci dalla ‘tradizione’ canonistica, si dovrebbe –infatti– riconoscere che, mentre gli atti delle persone rispondono a Logiche epistemiche, le Norme/Leggi funzionano secondo Logiche deontiche. Indipendentemente –perciò– da quali siano la PM e la pm per formulare la Sentenza (Pinto o Lega), ognun vede come l’applicazione di una necessità ontica alla ‘relazione’ tra atti/fatti e Norme non possa generare alcuna ragionevole ‘conclusione’, non potendosi comunque evitare quanto già insegnato da Rosmini come le (uniche) “due regole generali del sillogismo”:


«la conclusione dev’essere contenuta nel tutto sillogistico posto dalla premessa maggiore, e che il termine medio deve avere estensione almeno pari a quella del soggetto e comprensione almeno pari a quella del predicato della conclusione».


Nella stessa linea di inapplicabilità teoretica assoluta del sillogismo formale-modale alla decisione giudiziale, vale la pena di riprendere, ancora a distanza di qualche anno, un’affermazione illuminante del prof. Livi alla Prima Giornata canonistica interdisciplinare:


«il rapporto tra facti-species e factum è un rapporto molto complesso perché il factum viene prima della facti-species altrimenti non ci sarebbe il ritratto l’immagine del fatto. Ma il faciendum viene ancora dopo e allora lì, siccome si salta dall’atto alla potenza, dalla potenza all’atto il sillogismo è una cosa assurda –non so chi l’ha inventata questa storia del sillogismo– è assurdo perché mette sullo stesso piano cose che non sono sullo stesso piano. Il sillogismo aristotelico richiede che premessa maggiore, premessa minore e conclusione siano omogenee, altrimenti che discorso è? Ma invece, factum, facti-species e faciendum non sono mai sullo stesso piano».


Numerose ed utili risultano, di contro, le preziose funzioni di controllo che varie ‘tipologie’ logiche possono ormai offrire alla lettura e valutazione secondo ragione e coscienza che il Giudice (e le stesse parti) devono fare di quanto emerso durante il Processo. Due soli ‘esempi’ in merito –secondo la struttura della Sentenza giudiziale– che pongano in evidenza un proficuo utilizzo delle Logiche deontiche ed epistemiche sin qui evocate: pars in Iure e pars in facto.

In Iure: è certo che le diverse ‘norme’ che intervengono nell’esercizio dell’attività giuridica abbiano ‘pesi’ e ‘caratteristiche’ diverse, sia quanto a ‘gerarchia’ interna delle Norme come tali, sia su base storica nel ‘bilanciare’ –p.es.– una Decretale pontificia medioevale ed un ramo della più recente Giurisprudenza. Problematica analoga dal punto di vista logico si delinea anche nel comprendere quanto –in effetti– il dettato legale (=la lettera della Norma) corrisponda effettivamente alla decisione normativa assunta dal Legislatore (fine e circostanze della Legge, mente del Legislatore, secondo il Can. 17) il quale, inoltre, spesso non ‘decide’ affatto con una conoscenza piena, certa, universale, ma secondo proprie conoscenza, supposizione, credenza, convinzione, giudizio di ottimalità: quanto tradizionalmente si riconduceva alla necessitas vel utilitas vel convenientia rerum et personarum. In quest’ambito non si potrà sfuggire al ‘controllo’ –anche imposto dall’esterno (=Tribunale di Istanza superiore)– da parte della Logica deontica al fine di ‘verificare’ la correttezza dello Ius applicato/bile.

In facto: non di meno occorre considerare come ciò che le singole persone abbiano operato nel tempo attraverso le proprie scelte o anche solo semplici attuazioni (=fatti concludenti) debba essere rapportato con e valutato secondo la loro individuale capacità di distinguere adeguatamente tra conoscenza, supposizione, credenza, convinzione e giudizio di ottimalità (assoluto e/o relativo) che ciascuno abbia formulato nei confronti di una determinata ‘realtà’ o ‘componente’ connessa al proprio Matrimonio, o stato di vita. Anche ragione e coscienza del Giudice dovranno essere soppesate in modo distinto nella portata delle loro conclusioni (=certezza morale). È questo, infatti, l’ambito in cui “ciò che avrebbe dovuto essere (fatto)” –secondo Logica deontica– non riesce concretamente ad andare oltre la semplice “presunzione Iuris tantum” che l’intero Processo mira a verificare nella propria consistenza. Di contro: ciò che della realtà come tale (Logica ontica) o dell’agire maturo, libero e consapevole (Logica deontica) è stato effettivamente ‘assunto’ dall’agente (Logica epistemica) rimane il vero obiectum contentionis cui dare soluzione.


La complessità del quadro si accresce se si consideri poi come, almeno de facto, le ‘intenzionalità’ (o anche solo le ‘aspirazioni’) dei diversi soggetti del Processo siano spesso non concordi: mentre le parti, infatti, propugnano e sostengono una propria ‘posizione’ (e spesso un vero e proprio interesse), il Giudice deve conoscere/verificare che cosa sia realmente accaduto. Ciò condiziona radicalmente gli strumenti razionali –in realtà ‘logici’– utilizzabili: alle ragioni (teleologiche) delle parti bastano degli argomenti, alla conoscenza (aletica) del Giudice serve la ricostruzione del passato. Chi argomenta parte dal futuro che vuol conseguire e cerca nel passato ciò che glielo permetta; chi cerca la verità deve ricostruire il passato andando alla ricerca di tutto quanto possa essere utile alla sua ri-costruzione. Le ragioni sono prospettiche, teleologiche, guardano al risultato da conseguire; la verità è retrospettica, ontologica, guarda a che cosa è successo; le ragioni riguardano il fine, la verità l’origine. Ne sgorga una difficile convergenza tra sillogistica tradizionale e Logiche aletiche; le prime volte a ‘dimostrare’ ab exitu (=la conclusione già ‘posseduta’) che i fatti (=le premesse) sono andati incontrovertibilmente (poiché di sillogismo formale-modale) in un determinato modo, la seconda impegnata a far emergere ex origine (=i fatti accertati) eventuali nessi di ‘causalità reale’ intercorrenti tra atti/fatti e ‘reazioni’ (=decisioni/conseguenze) da parte delle persone coinvolte.



CONCLUSIONI


Gli apporti e, soprattutto, le istanze intorno a cui si sono articolate le presenti riflessioni hanno messo in luce la necessità di continuare la ricerca sulla tematica dei rapporti tra Logica e Diritto (anche specificamente canonico), nella consapevolezza della reciproca fecondità del collaborare.

- Quale altro ambito, infatti, potrebbe offrire allo studio delle Logiche non solo ontiche l’ampiezza di ‘supporto’ che il Diritto, con la sua irrinunciabile necessità di conoscere, valutare e decidere circa l’agire umano riesce ad evidenziare e rendere concretamente disponibile?

- Non di meno anche la pratica giuridica potrebbe trarre grandi vantaggi dall’acquisire ‘dimestichezza’ con l’utilizzo non più di ‘schemi’ e ‘figure’ sillogistiche, ma dall’adozione di una pur minima capacità di ‘formalizzare’ gli elementi cardine di quel ragionamento che, oltre ad essere ‘corretto’, dev’essere anche ‘condivisibile’ …almeno razionalmente.


Con evidenza restano aperte molte istanze che vanno ben oltre la Logica, i suoi confini e le sue possibilità; istanze che riguardano, p.es., l’articolarsi dei ‘processi’ intellettuali e razionali che le diverse Logiche in qualche modo tentano di ‘esprimere’. Processi, tuttavia, che richiedono ben altri approcci e consapevolezze, anche previe, come senza dubbio potrà e dovrà essere messo in luce da un’adeguata riflessione sui fattori e le dinamiche decisionali e di ‘giudizio’, come anche sul linguaggio e l’interpretazione, cui s’indirizzeranno le prossime Giornate canonistiche interdisciplinari.



in: Apollinaris, LXXXIV (2011), 183-198
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