Coram Sciacca, 14 marzo 2008: Causa iurium o Contenzioso amministrativo?


INTRODUZIONE

Il commento alla Sentenza “iuriumcoram Sciacca del 14 marzo 2008, recentemente proposto all’attenzione dei canonisti costituisce un’occasione importante, e finalmente propizia, per porre in risalto un evidentissimo punto critico che continua a rimbalzare tra dottrina e Giurisprudenza, visto che la Sentenza ‘sub iudice’ risolve una questione che per ben tre volte era stata –invece– ‘respinta’ dai Giudici (Rota Romana compresa) in quanto ritenuta estranea al “Processo contenzioso” di ordinaria giurisdizione in ragione del suo ‘oggetto’.

Si tratta, come ben emerge dal commento in parola, del tema (più che ‘problema’) della reale distinzione (ed individuazione) a livello canonico tra le materie proprie delle due differenti tipologie giudiziali: ordinaria (Tribunali ecclesiastici come tali, pur con tutti i necessari ‘distinguo’ di competenze, assolute e relative stabilite dal Diritto) e straordinaria (l’unico Tribunale amministrativo della Chiesa: il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica). La Sentenza, infatti, viene approcciata nel commento proposto proprio nella specifica prospettiva della ratio materiæ, finendo sotto il velo di una non perspicua ‘legittimità’ a motivo d’incompetenza (assoluta!) del Giudice ordinario, ponendosi in serio dubbio la tesi del Giudicante stesso secondo cui, non solo si riammette la Causa all’ordinario esame (Restitutio in integrum) ma anche la si decide ‘iudiciali ordinario modo’ in quanto “Causa iurium” a norma dei Cann. 1400ss.

Dal punto di vista strettamente teoretico non si può tuttavia non osservare come il commento appaia ‘attestato’, come già prima anche i tre Tribunali intervenuti, Rota Romana compresa, sulla (ritenuta) ‘materia’ del contendere: un Privilegio. Il quale, però, poiché materia amministrativa, rientrerebbe –secondo una «consolidata […] chiara distinzione di competenza giudiziaria tra i Tribunali ordinari e il Tribunale speciale della Segnatura Apostolica» (p. 90)– nella competenza non dei Tribunali ordinari e della loro Procedura, ma alla Segnatura Apostolica poiché ad essa

«spetta il Giudizio su tutte le questioni sorte da un Atto amministrativo singolare, anche se attinenti alla tutela dei diritti soggettivi, quantunque l’Azione giudiziaria possa essere esperita solo dopo aver esaurito tutti i Gradi del Ricorso gerarchico» (p. 90).

Lontano dall’intenzione di sommare qui ‘commento’ a ‘commento’, così come di proporre ‘commento’ a ‘commento’, come anche di ri-commentare ex novo la Sentenza ‘valutando’ nel merito l’operato del Giudice ordinario, si farà invece tesoro di molte delle sollecitazioni e critiche proposte in riferimento a tale casus belli al fine di tentare di ‘impostare’ un approccio, se non ‘definitivo’, almeno strutturale al delicato tema in oggetto… preparandosi a ‘chiudere la questione’ sotto il profilo ordinamentale.

1. LA CAUSA IN COMMENTO

Il commento in parola inquadra la Sentenza all’interno dei «rapporti con l’Autorità amministrativa» (p. 85), in base però a quale specifico elemento processuale non appare perspicuo poiché parte convenuta è il Parroco, a cui si contesta di aver violato un diritto vigente in capo ad alcuni fedeli che «esclusi dal Parroco dalla preparazione delle solennità, si volgono al Tribunale ecclesiastico di M. per chiedere la protezione dei propri diritti ingiustamente violati, contro l’azione del Parroco» (p. 85-86); la «fattispecie oggetto della Causa» riguarderebbe in tal modo «la salvaguardia delle situazioni giuridiche derivate da un Privilegio» (p. 85).

Da tale presupposto rileverebbero «due questioni di particolare rilevanza ed interesse»:

- la «distinzione tra ordine giudiziale e ordine amministrativo» (p. 85),

- la «tutela delle posizioni giuridiche individuali» (ibidem).

La linea portante del commento proposto alla coram Sciacca si concentra sul fatto che «la Causa ha per oggetto un Privilegio» (p. 85): nel caso specifico, una concessione plurisecolare mai contraddetta, per quanto parzialmente rimodulata negli ultimi decenni (25/01/1988) attraverso una estensione consensuale («consentientibus ‘civibus’ […] Privilegium processionis gerendæ extendit» Sent. n. 7) ad altri fedeli (“ritualmente” corretta quanto alla forma: cfr. ibidem) di quanto originariamente previsto per i titolari del Privilegio stesso, tra l’altro in modalità che non risulta essere –almeno dal testo della Sentenza– né esclusiva né escludente: «prædictos oppidanos in perpetuo iure fore gavisos sollemnia apparandi pro Ss. Christi ad Columnam gerenda pompa, seu processione» (Sent. n. 3).

Sulla scorta di tale percezione «la prima questione sulla quale è interessante soffermarsi riguarda l’affermazione della competenza della Rota Romana in materia di Privilegi» (p. 86)… “affermazione” in realtà non posta –come tale– dal Collegio giudicante! Competenza che sarebbe da escludersi di principio, data la natura ‘amministrativistica’ di tale Istituto giuridico. Il commento offre poi sei pagine di accurata illustrazione giurisprudenziale ed in parte dottrinale del (presunto) fondamento di tale IN-competenza …evidentemente “assoluta”, secondo quanto addotto, poiché: «i Tribunali ordinari, tra i quali è compresa la Rota Romana, non hanno potere di cognizione sugli Atti amministrativi» (p. 90).

1.1 Privilegi e diritti

Una –nostra– prima osservazione ‘generale’ su tale “questione di particolare rilevanza ed interesse” porta senz’altro a porre in luce come in realtà la fattispecie promossa dal Libello introduttorio della Causa in commento non sia affatto una contestazione concernente il Privilegio in sé e per sé, né suoi addentellati, ma solo a proposito della sua concreta non-applicazionein casu” nei confronti dei suoi titolari. A tal riguardo va ridimensionata in toto la posizione di principio (quale?) secondo cui –tutto– quanto derivi da un Privilegio, in quanto specifico “Atto amministrativo”, sarebbe sottratto alla competenza dei Tribunali ordinari… poiché risulta incontestabile dal punto di vista teoretico (e legale) che il Privilegio sotto il profilo della ‘gerarchia delle Fonti’ e del suo concreto ‘esercizio’ sia un provvedimento di “natura” legislativa (“Lex personalis” recitava la dottrina “quæ hæret ossibus”), visto che tale è la potestà richiesta (anche se solo in forma delegata) in chi lo concede (cfr. Can. 76 §1), a nulla rilevando  per la qualità intrinseca che esso sia concesso attraverso un “Atto amministrativo singolare” che, ad ogni buon conto, costituisce solo il ‘veicolo’ per la trasmissione di un contenuto di ‘altro’ valore: come un assegno bancario o una cambiale rispetto alla somma di denaro da essi ‘veicolata’.

Per quanto ciò possa apparire paradossale (a qualcuno), in realtà all’Ordinamento giudiziale canonico non interessa affatto “chi” abbia legittimamente attribuito ai diversi soggetti le posizioni e/o prerogative giuridiche dal cui legittimo e lecito esercizio possano sorgere questioni, ma “quali” siano concretamente le violazioni a queste posizioni e/o prerogative …tanto più che esse potrebbero anche essere sorte –ex ipsa natura rei– per Consuetudine e quindi non avere un vero e proprio ‘autore’, né un proprio ‘Atto’ costitutivo (né legislativo né amministrativo), pur avendo “forza e valore di Legge”! Nessuna conseguenza, tuttavia, ne deriverebbe sia [a] nella concreta fruizione di quanto giuridicamente connesso al proprio status (o ‘patrimonio’) giuridico personale che [b]  nelle ‘Azioni’  concesse per la loro tutela. I ‘diritti’, infatti, di cui si goda per Consuetudine incontestata sono –dal punto di vista dogmatico (=di principio)– veri ‘diritti’ (a Iure conferta oppure quæsita) come tutti gli altri quanto alla possibile fruizione, violazione e tutela… proprio come anche il Privilegio.

Ciò, però, comporta –per l’amministrativista– l’innesco di un’ulteriore riflessione tanto sul concetto di ‘Legge formale’ che su quello di ‘Legge sostanziale’ all’interno del più ampio tema della Teoria delle Fonti (di cognizione) del Diritto canonico. Due le articolazioni da considerarsi: [1] destinatari della Legge, [2] sostanzialità della Legge.

- A riguardo dei ‘destinatari’ della Legge va ricordato e considerato come destinatario di Legge propriamente detta nell’Ordinamento canonico possa essere solo una/la (fatidica) “comunità capace di riceverla” (cfr. Can. 25), cosa che esclude a priori tutti e ciascuno i soggetti dell’Ordinamento singolarmente considerati; al contrario un provvedimento ‘singolare’ di governo (detto e considerato –soltanto– per ciò ‘amministrativo’, in quanto intrinsecamente non-generale) non troverebbe alcun ostacolo ad attribuire prerogative con forza e valore di Legge anche a chi non sia individualmente “capace di (ricevere una) Legge”.

- Questo, tuttavia, non influisce affatto sul concetto –canonicamente non tramontato– di “Ius singulare” con cui si indica ciò che ‘appartiene’ a qualcuno come vera e propria ‘Legge’ ad hominem (personale) non tanto circa la ‘forma’ ma quanto alla sostanza (applicativa). Si tratta cioè di considerare tutti quegli Atti di governo che abbiano vera e propria forza e valore di Legge (poiché emanati da chi nella Chiesa ha la potestà necessaria per ‘creare’ ex-novo prerogative giuridiche in capo a qualcuno: il Legislatore) anche se indirizzati a chi –in quanto singolo– non sia “capace di Legge” vera e propria. In tal caso, infatti, la caratteristica propria dello Ius singulare o anche speciale non sarebbe tanto da riscontrarsi nella sua ‘innovatività’ (=‘forza’ di Legge innovante l’Ordinamento come tale) ma nel suo ‘valore’, inteso come la capacità intrinseca di ‘resistere’ anche alle Leggi contrarie: esattamente come accade col Privilegio! A differenza, per contro, degli Atti amministrativi, anche generali, che sempre dipendono dalla Legge (non hanno, cioè ‘forza’ di Legge), né mai possono resisterle (non hanno ‘valore’ di Legge) e con essa anche decadono, a differenza del Privilegio.

Si tratta, di fatto, di ammettere la concreta differenza tra gerarchia sistematica e gerarchia applicativa delle Norme giuridiche, la cui integrazione (e teorizzazione) non ha ancora ricevuto in dottrina sufficienti attenzioni, ma che non può comunque mancare nella formazione e nel bagaglio di ogni buon amministrativista canonico.

1.2 La Norma di base

Di fatto il vero “scandalon” in cui inciampa la maggioranza della dottrina e degli operatori è la comprensione, ben prima della interpretazione, delle Norme che disciplinano proprio la competenza ratione materiæ” dei diversi Tribunali nel discriminare tra ‘ordinari’ e ‘straordinari(o)’; comprensione che risulta ininterrottamente turbata fin dalle origini stesse dell’attuale strutturazione ordinamentale: la Costituzione apostolica “Regimini Ecclesiæ Universæ” con cui Paolo VI eresse la “Sectio Altera” del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. La non perfetta formulazione, infatti, del lungo e complesso testo della Norma a riguardo dell’origine della “contesa” da addurre alla Sectio Altera, ha indotto in errore sino al presente la quasi totalità dei commentatori, interpreti e Giudici, a causa del loro concentrarsi principalmente –nell’individuare la ‘competenza’ di tale Tribunale– sulla formula testuale estrapolata dalla dottrina: «contentiones […] ortas ex Actu potestatis administrativæ ecclesiasticæ […] quoties contendatur Actum ipsum Legem aliquam violasse».

Di “comprensione” è necessario parlare e non di semplice “interpretazione” della Norma poiché la seconda riguarda l’estensione e la qualità di ciò che sia contestabile presso quella Struttura giudiziale; estensione e qualità lungamente discusse in dottrina, oltre che precisate e ribadite a livello normativo: «de illegitimitate Actus impugnati» e non «de merito». Di fatto, invece, la questione che il commento vuol vedere come (mal) posta dalla Sentenza coram Sciacca riguarda specificamente l’oggetto della contesa stessa: la “contentio orta ex Actu potestatis”, di cui è palese l’incomprensione poiché è chiarissimo nella Norma che il contendere riguarda solo l’Atto come tale e non le sue conseguenze! …Come ben risalta dalla successiva ‘interpretazione’ secondo cui presso la Sectio Altera si tratta solo «de illegitimitate Actus impugnati» e non «de merito» Actus, cioè (anche) le sue conseguenze. Tanto più che la riconduzione della “contentio” alle conseguenze non appare perspicua dal testo normativo, dovendosi in tal senso supporre:

l’Atto => le sue conseguenze => la contentio (*v. infra) [=> il Ricorso gerarchico] => la Causa presso la Sectio Altera;

mentre, in realtà, il quadro supposto dalla Norma è: 

l’Atto => la contentio ratione illegitimitatis ob violationem Legis => il Ricorso gerarchico => la Causa presso la Sectio Altera.

È quanto nel commento appare cristallino –ed è il vero fulcro di tutto!– nell’affermazione secondo cui alla Segnatura Apostolica andrebbero deferite «tutte le controversie provenienti da un Atto amministrativo» (p. 99); laddove proprio la dicitura “provenienti” (per tradurre “ortas”) costituisce la vera incomprensione del testo normativo che, invece, ‘intendeva’ “circa/su/a proposito di”, “attorno a” un Atto amministrativo.

Due differenti –e complementari– approcci testuali alla (comprensione della) Norma possono meglio evidenziare quanto qui affermato.

- L’analisi grammaticale del testo mostra come il termine “ortas” non riguardi affatto le conseguenze di un Atto di potestà ma l’Atto come tale …come, non di meno, la Norma stessa indica chiaramente specificando: «quoties contendatur Actum ipsum Legem aliquam violasse»! È l’Atto amministrativo “in quanto” violatio Legis a finire sub Iudice, non la violatio Legis come tale… men che meno la violatio iurium (=dei diritti) di parte attrice! Le mere ‘conseguenze’ dell’Atto non hanno alcuna importanza a livello di impugnabilità e pertanto in tema di ‘competenza’ presso la Sede giudiziale straordinaria/amministrativa.

Sotto il profilo espressamente grammaticale, infatti, “contentiones ortas” è il complemento oggetto del verbo “dirimit” che ha per soggetto la Segnatura Apostolica: un oggetto necessariamente ‘plurale’ (indicando l’attività del Tribunale) mentre l’“Actus” e quanto lo riguarda è grammaticalmente singolare indicando la semplice ‘provenienza’ (“ex Actu”) di tali contese.

- Ancora: una (forse non immediata) lettura proposizionale dell’Art. 106 R.E.U. mostra come il vero ‘oggetto’ di competenza della Segnatura Apostolica non sia [a] la “contentio (*v. supra) orta ex Actu potestatis administrativœ”, intendendo con ciò “le conseguenze di un Atto amministrativo” ma, al contrario, [b] “Actus ipsus quoties Legem violasse”, intendendo l’Atto in sé e per sé “in quanto” (quoties) esso stesso si profila come contrario alla Legge (=violatio). Il testo della Norma, infatti, non lascia dubbi: «per Alteram Sectionem Signatura Apostolica contentiones dirimit ortas ex Actu […] quoties […] Legem violasse».

1.3 L’applicabilità della Norma

Di fatto assolutamente marginale in questo genere di considerazioni, ma non certo dal punto di vista procedurale, risulta anche la necessaria considerazione che –comunque– l’originario Art. 106 delle R.E.U. non prevedeva in alcun modo un accesso diretto dei fedeli alla Sectio Altera della Segnatura Apostolica senza aver prima esperito la via amministrativa ‘ordinaria’ costituita dal Ricorso gerarchico presso il competente Superiore dell’Autorità che aveva emesso l’Atto in questione: «ob interpositam Appellationem seu Recursum adversus Decisionem competentis Dicasterii, delatas». Comportando ciò non l’accesso ad alcun Tribunale ma direttamente al Vescovo che avrebbe emesso l’Atto in questione. Di questo, tuttavia, si dirà qualcosa più oltre.

Conseguentemente, quindi, risulta:

- fondato il Decreto dell’anno 2005 che sancisce la Restitutio in integrum;

- propria ed assoluta la competenza del Turno rotale “Sciacca ponens” che accoglie la Causa per “la protezione dei propri diritti ingiustamente violati, contro l’azione del Parroco”.

2. LA PARTE CONVENUTA

Sotto questo profilo, il commento in oggetto afferma correttamente:

«poiché il beneficio non è venuto meno, il comportamento del Parroco che restringe l’esercizio dei relativi diritti deve essere considerato ingiustamente lesivo e quindi passibile di un’Azione giudiziaria ordinata a reintegrare le situazioni giuridiche violate» (p. 97);

osservando poi che

«la Sentenza coram Sciacca […] attribuisce valore preponderante al fatto che l’operato del Parroco abbia danneggiato i diritti soggettivi acquisiti in una precedente relazione contrattuale, indipendentemente dalla qualificazione in senso amministrativo o non dell’atto lesivo» (p. 99).

È, infatti, il Parroco ad essere stato citato davanti al Tribunale come contravventore delle legittime prerogative giuridiche di parte attrice, la cui natura ‘contrattuale’ –per contro– non rileva affatto sulla ratio materiæ.

Questo, però, pone un problema, di per sé pregiudiziale, a monte dell’intera questione: problema costitutivo della stessa attività processuale come tale, poiché se è vero che “nemo Iudex sine actore” non di meno “nullum Iudicium sine convento”! Non esiste, infatti attività giudiziale propriamente detta se non ‘tra’ due ‘parti’ (anche non uni-personali): parte attrice e parte convenuta. Né è giuridicamente concepibile (a livello logico!) un Processo contro ‘ignoti’… diverso dalla “Denuncia contro ignoti” che si effettua ad una Magistratura perché indaghi affinché gli ‘attualmente ignoti’ che abbiano commesso un atto lesivo siano individuati e, poiché non-più-ignoti, messi di fronte alle proprie responsabilità attraverso la successiva Azione giudiziale contro di essi. Cosa diversa è la contumacia (realizzatasi anche nel Processo in parola) della parte convenuta, supplita in questo caso dallo stesso Tribunale attraverso la nomina di un Patrono d’Ufficio, come spesso accade non solo in campo penale (cfr. Can. 1481 §2). Senza dimenticare neppure che la ‘qualifica’ giuridica di “parte convenuta” deriva proprio dalla sua costitutiva “chiamata in Giudizio” da parte del Giudice competente (cfr. Can. 1476).

Non di meno, il commento ha giustamente segnalato come oggetto del contendere sia stato “il comportamento del Parroco” e “l’operato del Parroco”, mostrando come si sia impugnato un “(f)actum” preciso chiedendo ‘giustizia’ per questo …e questo soltanto! La prerogativa giuridica dei fedeli conculcata dal Parroco esisteva realmente ed era pienamente vigente ma il Parroco da parte sua ne ha impedito l’esercizio concreto in più occasioni: cosa mancherebbe alla configurazione della Causa iurium?

Forse il pre-concetto/giudizio che solo una Norma ‘generale’ (Legge o Decreto generale esecutivo) crei Diritto vero e proprio giudizialmente protetto mentre ‘altre’ forme di attribuzione singolare di prerogative giuridiche (come il Privilegio …o forse anche un Contratto?) no.

Giustamente il Turno rotale ha accolto la domanda ex Can. 1400 poiché si trattava della legittima richiesta di ‘verificare’ la violazione da parte del Parroco del diritto ‘singolare’ vantato da parte attrice, ripristinandone l’esercizio.

3. LA VERA QUESTIONE: IL PETITUM

Quanto sin qui osservato, e precisato, soprattutto in ragione del convenuto nella Causa in oggetto (=il Parroco), mette in risalto come la vera difficoltà della sostanziale critica negativa alla Sentenza coram Sciacca consista nel non guardare/considerare affatto il “Petitum” della Causa come tale. Quanto chiesto nel Libello, infatti, s’indirizza espressamente contro il comportamento fattuale (=precise azioni) del Parroco che ha reiteratamente escluso tali fedeli dal compimento di quanto spettava loro in ragione del Privilegio di cui sono titolari. Il Petitum si concretizza in una precisa domanda ‘principale’ e costitutiva posta al Giudice circa uno o più fatti:

«Utrum, vi Privilegii diei 7 martii 1799 […] heredes quarumdam familiarum pagi […] ius habeant “di organizzare il necessario per la processione del Giovedì santo e quello di trasportare, nel corso della medesima, il Cristo” necne […]» (Sent. n. 15).

Il vero fulcro però –non di ‘questa’ Causa– ma dell’intero sistema giudiziale canonico, è l’obiectum contentionis cioè: ciò di cui si contende! Il “quid” che, poiché realizzato/messo in atto da qualcuno, ha creato nocumento (=noxium) a chi stava, invece, esercitando (o avrebbe inteso esercitare) quanto di sua legittima spettanza. La parte attrice, infatti, non contesta per nulla la “privazione” di uno status giuridico o di un diritto vigente (quæstio Iuris) –cosa in realtà non avvenuta– ma il concreto impedimento di esercitarlo (quæstio facti), poiché il Parroco ha escluso ‘di fatto’ questi fedeli dall’organizzazione della processione che da secoli era di loro ‘competenza/spettanza’ …per quanto, almeno più recentemente, in modo condiviso con altri.

A questo punto, per altro, non si può ulteriormente trascurare come a livello processuale canonico sia fondamentale considerare l’estrema precisione e ‘costitutività’ delle fasi iniziali della ‘plantatio Causæ’:

a) l’invocazione del ministero del Giudice (cfr. Can. 1502),

b) l’invalidità della Sentenza che non risponda al ‘Petitum’ (cfr. Can. 1611, 1),

c) la costitutività della “Citazione” (cfr. Can. 1507) anche riguardo all’oggetto della Causa (cfr. Can. 1512, 1-2),

d) la conseguente Litiscontestatio –con la fissazione formale della Causa– (cfr. Can. 1513);

in tal modo: come al di là di queste ‘soglie’ non si darebbe possibilità di valido Processo canonico (ordinario), così in loro presenza non si vede come/perché escluderlo.

D’altra parte, proprio il Petitum costituisce il secondo elemento strutturante l’Azione processuale: un Processo giudiziale serve perché un Giudice dia risposta ad una domanda a lui lecitamente posta: “nullum Iudicium sine petitione”! È il Petitum che, tanto quanto –ed insieme a– la parte convenuta, ‘permette/costituisce’ il Processo; la semplice indicazione, infatti, al Giudice di ‘chi’ ha fatto qualcosa (=“accusato” e non “convenuto”), senza la richiesta che il Giudice da parte sua “faccia qualcosa” non dà corso ad alcun Processo! Non si può infatti

«invocare l’attuazione della giustizia (e avviare un Processo) senza indicare l’oggetto immediato di tale invocazione; all’Autorità predisposta per risolvere il conflitto non si presentano i problemi in genere, ma bisogna indicare cosa in concreto ci si aspetta dal suo intervento».

Il concetto stesso di “Azione giudiziale” si fonda, infatti, proprio sulla domanda che il Giudice intervenga per porre rimedio a quanto –ingiustamente– operato da qualcuno. È proprio ‘questo domandare’ che costituisce ontologicamente la parte/funzione di “attore”: chi soltanto “afferma”, ma non “domanda”, al massimo “denuncia/accusa”, ma non dà inizio ad un’Azione giudiziale! Perché possa ‘nascere’ un Processo non basta “andare dal Giudice” e neppure “parlare col Giudice”: occorre “chiedere al Giudice” …e non qualunque cosa, ma il suo “Pronunciamento” su fatti/diritti controversi (cfr. Can. 1400). Proprio ciò che la dottrina chiama da secoli “Petitum” e deve essere presentato al Giudice in modo chiaro e certo attraverso il Libellus (cfr. Cann. 1502), contenente già le principali e fondate ‘ragioni giuridiche’ della propria posizione: la “causa petendi” (cfr. Can. 1504, 2°).

D’altra parte: per quanto sia –ancora– assolutamente valido il principio “Iura novit Curia” (secundum Legem!), per cui all’interno dell’Ordinamento è l’Autorità competente che –ordinariamente– indirizza verso la loro ‘naturale’ ed appropriata referenza le istanze a lei poste, non di meno proprio le strette garanzie che si devono e vogliono offrire ai fedeli in campo processuale, tanto [a] a protezione loro e delle loro spettanze/prerogative all’interno della Chiesa che [b] alla comunità cristiana come tale, non permettono all’Autorità (giudiziale nel caso) d’intervenire spontaneamente ‘indirizzando’, in linea di principio, la ‘lettura’ di fatti e realtà che riguardino specificamente i singoli soggetti. Il Processo canonico, pertanto, postula sempre l’istanza di parte (anche pubblica!): la domanda attorea, perché un Giudice possa attivarsi. Di fatto la prima attività che il Giudice dovrà sempre compiere consiste proprio nell’esame sia della propria Competenza (relativa/assoluta) nei confronti di quanto indirizzatogli (cfr. Can. 1505 §1), sia della non palese infondatezza della domanda postagli (cfr. Can. 1505 §2, 4°). È questa il vero cuore di tutta l’attività giudiziale (canonica) poiché, se è pur vero che “nemo Iudex sine actore”, non di meno: “nemo Iudex sine Causa”!

In riferimento al commento in oggetto, la portata del pre-giudizio teoretico (si spera non del fraintendimento dell’intera struttura giudiziale canonica) appare macroscopica in quanto non si coglie affatto il ‘quid Causæ’ del contendere ma lo si suppone in ragione della sola “presenza” di un Istituto giuridico –si ritiene ‘amministrativistico’– quale il Privilegio ...supponendo che si tratti in sé e per sé di materia estranea alla normale competenza del Giudice ordinario.

Sul tema, invece, va acquisito come l’oggetto immediato dei Processi ‘amministrativi’ –come tali– sia «la sospensione o modifica dell’Atto amministrativo» come tale, esigita ultimativamente dall’interessato/destinatario –anche– in modo giudiziale, dopo aver già esperito tutti gli strumenti propriamente ‘amministrativi’ (Remonstratio e Recursus) senza tuttavia aver ottenuto tale esito. In tale prospettiva

«l’interessato inquadra quindi la sua pretesa in base all’origine del conflitto (l’Atto di autorità di cui si pretende la modifica), e non direttamente in base alla categoria (veri diritti o mere pretese legittime) che hanno i beni soggettivi che egli ritiene compromessi dalla decisione dell’Autorità».

Per contro, quando si tratta di conflitti «sorti per l’incertezza delle situazioni giuridiche personali o per l’inadeguatezza dei rapporti di fatto esistenti» tra soggetti differenti, «incertezza e inadeguatezza che si vogliono risolvere ricuperando la legalità, superando cioè il divario tra la volontà della Legge e le situazioni o i rapporti intersoggettivi di fatto esistenti», si è dinnanzi ad un –normale– Processo contenzioso (=Causa iurium). Il caso in commento è palesemente di questo tipo!

4. L’ATTO AMMINISTRATIVO IN QUESTIONE

Proprio a questa componente della vicenda s’indirizza ora, più specificamente, l’attenzione dell’amministrativista, partendo dal fatto che l’intera prospettiva dell’incompetenza assoluta della Rota Romana (non meno che di ogni altro Tribunale/Giudice ordinario) in tale Causa sarebbe fondata –secondo la dottrina sottesa al commento in oggetto– sulla natura amministrativa della contesa poiché “proveniente da un Atto amministrativo” (p. 99).

4.1 L’attività del Parroco

Secondo il commento in parola, alla radice della contesa tra Parroco e fedeli starebbe un Atto amministrativo e proprio questa circostanza causerebbe l’incompetenza assoluta della Rota Romana a giudicare tale Causa. Quale sarebbe, dunque, l’Atto amministrativo da cui sorgerebbe la contesa?

Ovvio (forse) che, avendo citato in Giudizio il Parroco, si possa supporre che sia stato lui a porre tale Atto da cui sorgerebbe la contesa, diversamente perché ‘prendersela’ con lui?

Così, d’altra parte, viene proposto considerando come: 

«se si voglia limitare l’attività lesiva al solo operato del Parroco, si dovrebbe comunque considerarlo esercizio della funzione amministrativa, come espressione delle competenze attribuite all’Ufficio del Parroco nella cura pastorale di una Parrocchia (Can. 519), in specifico come moderatore del munus sanctificandi (Can. 528 §2). Non si tratta di un’attività meramente materiale, né tanto meno di un’attività paritetica, ma dello svolgimento di mansioni istituzionali nella regolamentazione delle Celebrazioni liturgiche del Culto pubblico, per giunta in esecuzione di un mandato del Vescovo diocesano. Il sindacato sugli effetti pregiudizievoli di questa attività amministrativa dovrebbe, di conseguenza, essere deferito alle speciali istanze di giustizia amministrativa» (p. 99-100).

Il problema così posto, tuttavia, comporta a monte il verificare se sia possibile/sensato parlare di una vera e propria “potestà amministrativa del Parroco”, non meno che di quella di qualunque altro soggetto che operi –anche con funzioni ‘apicali’– in espletamento dell’Ufficio ecclesiastico conferitogli, senza attuare –tuttavia– espresse funzioni di governo. Poco valgono al proposito eventuali disquisizioni sulla sua possibilità di agire ed intervenire (in modo “non paritetico”) anche nella vita dei fedeli ponendo o –anche– impedendo veri e propri Atti giuridici quali sono, p.es., i Sacramenti, i Sacramentali, gli Atti di amministrazione ordinaria e straordinaria dell’Ente Parrocchia… ecc. Tutti, certamente, “Atti giuridici” derivanti da una qualche forma di «svolgimento di mansioni istituzionali», ma improbabilmente qualificabili come “Atti amministrativi singolari” a norma dei Cann. 35ss, non meno che dei Cann. 1732ss. quanto alla loro ‘qualificazione’ sostanziale in chiave espressamente tutoria …com’è nel caso in questione. Atti amministrativi singolari, non di meno, assolutamente necessari perché si possa aspirare ad una –pur remotissima– competenza in materia da parte della Sectio Altera della Segnatura Apostolica. Tutte questioni che –stante l’attuale concezione della potestà di governo ecclesiale– non possono avere alcun esito concreto.

Anche perché va messo in chiara luce dal punto di vista della eventuale ‘potestà’ del Parroco che:

- per quanto concerne gli Atti giuridici di gestione e disposizione patrimoniale, essi gli competono in quanto “Amministratore” dell’Ente Parrocchia, come competono a qualunque altro ‘Amministratore’ di beni ecclesiastici (Fondazione, Associazione, Istituto…), configurandosi come “atti di amministrazione” (economico/patrimoniale) e non “Atti amministrativi” (=di governo ecclesiale);

- per quanto concerne, invece, gli Atti giuridici connessi alla vita sacramentale/liturgica/catechetica dei fedeli/parrocchiani (per dirla in modo genericissimo ed ultra sintetico) egli risulta certamente “responsabile/referente istituzionale” del loro corretto svolgimento, secondo quanto stabilito dal Diritto, ma in una prospettiva tutoria, cioè di “garanzia istituzionale” dell’adeguata fruizione dei “beni posti dal Cristo nelle mani della sua Chiesa (Parola e Sacramenti)” (cfr. Can. 213), all’interno di un ambito per il quale tradizionalmente si parla di “amministrazione” (dei Sacramenti…) ma che non risponde in alcun modo all’esercizio di alcuna reale potestà di governo così come amministrativamente intesa.

Il Parroco, poi, in quanto “collaboratore” locale del ministero pastorale del Vescovo diocesano ha una sostanziale –e costitutiva– funzione [a] tutoria della vita cristiana dei fedeli affidati alla sua cura (dimensione ‘locale’ del suo ministero connessa al domicilio parrocchiale) e [b] di ‘prima’ garanzia del corretto esercizio di quanto ad essi spetta all’interno della vita ecclesiale. Tutela e garanzia che si attuano a livello di ‘esercizio’ (=realizzazione) più che di ‘governo’ (=disposizione).

Venendo, poi, a quanto contestato, non risulta affatto che il Parroco abbia inteso/preteso ‘invalidare’ il Privilegio in oggetto né assumere altre ‘posizioni’ nei sui confronti in quanto strumento giuridico operando unilateralmente “cambiamenti nelle disposizioni originarie della concessione del Privilegio” (cfr. p. 101) –verso cui, tra l’altro non avrebbe avuto alcuna possibilità reale– a questo soltanto infatti potrebbe essere riconducibile una eventualissima portata amministrativistica del suo agire. Molto più semplicemente: il Parroco ha rifiutato di ‘applicare/rispettare’ uno ius vigens, per quanto non generale o particulare ma singulare. Una inosservanza del diritto/prerogativa: come qualunque violazione del diritto/prerogativa che sia costituito, p.es., da una Legge o da un Decreto generale, o da una Consuetudine …(o anche Privilegio).

Inutile, pertanto, darsi da fare affinché l’azione del Parroco sia qualificabile come “amministrativa”… anche perché il suo è stato un “comportamento di fatto”: «Curio Parœciæ […] partem actricem spoliavit iure» (Sent. n. 25) e non un “Atto di disposizione”, o più ancora “decisorio” secondo l’intendimento del Can. 50. Né pare qui sensato avventurarsi in qualificazioni teoretiche di ‘atti’ vs. ‘azioni’ o ‘comportamenti’…

Rimane, invece, del tutto palese come l’esclusione di parte attrice dall’organizzazione della manifestazione religiosa del Giovedì santo, attuatasi dal 1994 o 1995, non possa delinearsi in alcun modo come esercizio della

«facoltà di estendere –a suo prudente giudizio– la possibilità di portare il Simulacro del Cristo alla Colonna anche ad altri membri della comunità di […], non previsti dal Decreto 25 gennaio 1988 del nostro predecessore» (Sent. n. 9)

espressamente concessagli dal Vescovo. La cosa è tanto più chiara in quanto tale ‘risposta’ del Vescovo non ha la stessa ‘estensione’ (=contenuto) della domanda postagli dal Parroco in data 11/11/1993 in cui si chiedeva espressamente la «facoltà di scegliere ‘i portatori del fercolo’ tra i rappresentanti di tutte le comunità ecclesiali esistenti nella Parrocchia» (Sent. n. 8)… con una chiara volontà ad excludendos i non-parrocchiani (evidente nella ‘reticenza’ verso i ‘titolati’ giuridici a tale funzione); facoltà tuttavia non concessagli dal Vescovo negli stessi termini e con la stessa portata. Proprio in tale esercizio egli si è comportato in modo “imprudente” andando oltre le reali ‘possibilità’ a sua disposizione… configurando al massimo –volendo ostinatamente mantenersi in ambito amministrativistico– un “Abuso d’Ufficio”, per il quale tuttavia l’Ordinamento canonico non dà ‘immediato’ rimedio, potendosi difficilmente applicare in casu il disposto (penale!) del Can. 1389 §1 secondo cui

«chi abusa della potestà ecclesiastica o dell’Ufficio sia punito a seconda della gravità dell’atto o dell’omissione, non escluso con la Privazione dell’Ufficio, a meno che contro tale abuso non sia già stata stabilita una Pena dalla Legge o dal Precetto».

Applicazione che, tuttavia, vedrebbe quale suo ‘referente’ ratione materiæ ancora lo stesso Giudice ordinario, per quanto in materia penale anziché iurium.

4.2 L’attività del Vescovo

Va esplicitato preliminarmente come il Vescovo in quanto tale non c’entri nulla con la Causa in oggetto poiché non ha avuto in essa alcun apporto immediato e, soprattutto, intenzionale, finalizzato cioè a perseguire alcunché di puntuale e specifico di sua spettanza, come chiaramente esprime anche la Sentenza: «immo in eadem ne verbum quidem datum est invenire de Privilegio, propterea concludi debet Exc.mum Præsulem minime cogitasse de Privilegio auferendo» (Sent. n. 25).

Né il Vescovo ricopre alcun ruolo quale parte nel Processo stesso in ragione di “un” (=quale?) proprio Atto amministrativo né di qualunque altro abuso… Si comprende, d’altra parte, la necessità di coinvolgerlo in riferimento al presupposto che l’obiectum contentionis sia di carattere amministrativo, come avviene in riferimento ai suoi apporti ‘amministrativi’ attuati nel tempo: [a] mutamento del Privilegio e [b] Lettera al Parroco sulla direzione della celebrazione del Giovedì santo.

Circa il mutamento della portata del Privilegio in oggetto, effettuato tuttavia (nel lontano 1988) in modo consensuale da parte degli aventi diritto (v. supra), va osservato come si sia trattato di un atto non “ad excludendam” la prerogativa dei titolari del Privilegio, ma di una concessione “ad ampliandam” la partecipazione di altri a tale attività, esattamente come la successiva Lettera –contestata da tutti meno che dalla parte attrice– del 1994 (sic!). Nulla di lesivo, pertanto, del Privilegio originario che, non risultava neppure attribuire una “esclusività” di tale pratica… esclusività che, se non rispettata, avrebbe invece costituito violazione espressa del Privilegio stesso… D’altra parte un “diritto di fare” è negato/violato solo da un “impedimento a fare”, non facendo/lasciando “fare” anche ad altri!

Non guasta, forse, al proposito una schematizzazione ‘logica’ della vicenda in oggetto:

- fino al 1988 l’organizzazione della processione ed il ‘trasporto del fercolo’ erano attività precipua dei titolari del Privilegio pacificamente goduta da secoli e non osteggiata da nessuno, indipendentemente dalla loro ‘appartenenza’ o meno alla Parrocchia (ratione iuris proprii e non ratione canonici domicilii);

- nel 1988 il Decreto episcopale (concordato con gli stessi titolari del Privilegio) estese tale organizzazione e trasporto anche ai membri della parrocchiale “Confraternita del Ss. Sacramento” (ratione canonici domicilii);

- nel 1993 il Parroco chiese al Vescovo che l’organizzazione della processione ed il ‘trasporto del fercolo’ fosse affidata ai ‘soli’ parrocchiani (ratione canonici domicilii) …escludendo così –indirettamente– i titolari dell’antico Privilegio (proprio ratione absentiæ canonici domicilii);

- nel 1994 il Vescovo (unilateralmente rispetto ai ‘privilegiati’) permise ulteriormente al Parroco di estendere a tutti i parrocchiani –senza nulla dire dei ‘non-tali’– l’organizzazione della processione ed il ‘trasporto del fercolo’ (ratione canonici domicilii);

- dal 1994 o 1995 il Parroco impedì (unilateralmente) agli antichi ‘privilegiati’ di prender parte sia alla organizzazione della processione che al ‘trasporto del fercolo’ (ratione absentiæ canonici domicilii);

- nel 1996 i titolari del Privilegio violato si rivolsero al Giudice diocesano contestando la propria ingiustificata esclusione.

In tutto ciò va notato come la parte attrice, fino al 1996, non si fosse mai opposta all’ampliamento ad altri di tale ‘attività’, ritenendola probabilmente del tutto ragionevole né al contempo, contraddittoria della propria prerogativa.

Le cose cambiarono invece in conseguenza della esclusione! Poiché –solo– questo è il problema! E solo questo fu ‘portato’ davanti al Tribunale, contro il Parroco.

4. 2.1 La Lettera del Vescovo

Circa l’intervento –criticamente giudicato dallo stesso Giudice per (dover) essere un Atto amministrativo– attraverso la “Lettera” del 9/03/1994 con cui il Vescovo attribuiva al Parroco di «presiedere la Commissione […] o Comitato che cura lo svolgimento della processione» (cfr. Sent. n. 9) oggetto di contesa, occorre osservare come tale Provvedimento “irrituale” apra di fatto una strana alternativa (tanto a rigore di Sentenza che di suo commento) tra [a] l’Atto amministrativo vero e proprio e [b] il Mandato (di cui –espressamente– parla a più riprese soltanto il commento); alternativa che darà adito al versamento di molto inchiostro in merito… Anche tale questione, tuttavia, pare non godere il favore di troppe evidenze (almeno giuridiche).

Nel caso, infatti, in cui quell’Atto amministrativo singolare che è (o può essere) la Lettera del 1994 intervenga directe et immediate sulla materia oggetto di contesa, non è agevolmente dimostrabile che –allo stesso tempo ed in se stesso– esso contrasti col Privilegio in oggetto, escludendo i suoi titolari dall’organizzazione della processione e dal trasporto della statua: ciò in cui –unicamente– consisterebbe la violazione della loro prerogativa giuridica consistente –solo– nell’esserci; essa infatti “non manifesta alcuna volontà di revocare il Privilegio” (cfr. p. 97; 98) come osservato per inciso dallo stesso Giudice rotale: «immo in eadem ne verbum quidem datum est invenire de Privilegio, propterea concludi debet Exc.mum Præsulem minime cogitasse de Privilegio auferendo» (Sent. n. 25). Poiché infatti la processione costituisce un “atto pubblico di Culto” (per quanto non espressamente liturgico) la materia in sede locale/parrocchiale è senza dubbio di competenza specifica del Parroco ed il suo intervento di “presidenza” non può certo configurarsi come violazione del diritto di “gerere” la manifestazione… tanto più che tutti i ‘diritti’ nella Chiesa devono essere comunque soggetti a moderamen da parte dell’Autorità ecclesiastica (cfr. Can. 223 §2), il Culto pubblico in primis. Circa, poi, la portata di quanto ope Legis competa al Parroco ex Officio in campo liturgico e cultuale in genere non vale la pena –qui– indugiare oltre.

E se, non di meno, si potesse dimostrare il contrario circa la Lettera del Vescovo (cioè la violazione del Privilegio), allora l’Azione esperibile da parte dei fedeli per tutelare la propria prerogativa rispetto al nuovo inatteso ‘onere’ sarebbe stata la Remonstratio contro tale Atto episcopale, da attuarsi secondo il disposto dei Cann. 1732-1739, in tutt’altra modalità, sede e tempistica. Unica variante al palinsesto della fattispecie normata sarebbe stata l’effettiva conoscenza da parte dei fedeli della nuova ‘disposizione’ a loro sfavorevole, facendo così decorrere il tempo utile solo dal momento della effettiva conoscenza della Lettera del Vescovo (cfr. Can. 201 §2: ius suum exercenti). Persa, tuttavia, quell’occasione non si presentano altre possibilità plausibili di impiantare una ‘Causa’ di carattere amministrativo sulla questione di merito. Inutili nel caso le ‘qualificazioni’ tecniche dell’Atto in quanto il Can. 1732 è assolutamente esplicito nell’indicare “che cosa” sia assoggettabile a ‘tutela’ amministrativa: «quæ in Canonibus huius sectionis de Decretis statuuntur, eadem applicanda sunt ad omnes administrativos Actus singulares, qui in foro externo extra Iudicium dantur» …senza alcuna reale distinzione o qualificazione al di là dell’Atto extra-giudiziale (=amministrativo) indirizzato a specifico destinatario unitariamente individuabile. Senza che appaia plausibile una reale distinzione tra Atti amministrativi ed “Atti di natura pastorale” (cfr. p. 91; Sent. n. 22)… Cosa, infatti, non avrebbe natura ‘pastorale’ all’interno dell’attività del Vescovo diocesano? Senza dimenticare neppure che il Can. 36 indica anche i criteri di ‘interpretazione’ degli Atti amministrativi singolari, riducendo ulteriormente le ‘conseguenze’ della irritualità della formulazione dell’Atto stesso, rispetto ai tecnicismi di Legge.

Si completi il quadro con la considerazione che la ‘causalità’ dell’Atto amministrativo rispetto all’onerosità contestata dev’essere diretta ed immediata: dev’essere, cioè, l’applicazione/esecuzione dell’Atto come tale a provocare l’aggravio della posizione/condizione di chi effettua la Remonstratio. Ricordando, inoltre, come ci si debba opporre all’Atto come tale –chiedendone la ‘revisione’– e non alle sue “conseguenze”.

Ulteriormente risulta problematica la lettura proposta secondo cui:

«simile disposizione si può qualificare tecnicamente come un Provvedimento di tipo concessivo, vale a dire un Provvedimento del Superiore gerarchico che estende le attribuzioni dell’Autorità inferiore, conferendo poteri o facoltà prima non possedute. Il Vescovo, infatti, conferisce al Parroco il potere di restringere i diritti dei titolari del Privilegio, affiancando o sostituendo ad essi altri membri della comunità parrocchiale» (p. 98).

Cosa che non risulta in nessun modo costituire oggetto di doglianza da parte dei titolari della prerogativa originaria i quali si lamentano non dell’altrui ammissione ma della propria esclusione! Che poi l’affiancamento costituisca “restringimento” dei –già non esclusivi e già concordemente estesi ad altri– “diritti dei titolari” è punto di vista eminentemente soggettivo, mentre va specificamente dimostrato che la Lettera del Vescovo abbia concesso al Parroco la possibilità di “sostituire” tali persone, cosa che non consta dalla lettura dei testi riportati in Sentenza (nonostante il Parroco avesse chiesto proprio ciò).

Non di meno appaiono ‘opzionabili’ –trattandosi di materia cultuale– le affermazioni secondo cui: «questa possibilità […] viene conferita senza alcuna considerazione dell’interesse degli aventi diritto» e «questa concessione di poteri al Parroco, quindi, arreca un pregiudizio ai titolari del Privilegio» (p. 98) poiché, almeno per il Privilegio in questione, è insindacabile il considerare come la materia liturgico/cultuale sia comunque ed ex ipsa natura reires publica’ nella Chiesa e quindi nessuno ‘singolo’ in nessun caso né modo possa pensare di ‘disporne’ al modo di qualunque altra “res” in nome/ragione di alcuna prerogativa ‘individuale’ come qualunque altro “interesse degli aventi diritto” …tanto più se ad alios excludendos. Non di meno: i “bona” concernenti materia liturgico/cultuale –al pari degli altri bona Ecclesiæ (ex Can. 213)–, essendo spirituali, risultano sostanzialmente infungibili oltre che indivisibili ed inappropriabili, né si può pensare che l’accesso ad essi da parte di un numero crescente di soggetti possa in qualche modo svilirne la fruizione da parte di altri …com’è, invece, per i beni materiali, sempre limitati e contesi. Unico evento problematico ne sarebbe la esclusione (come nel caso in oggetto). Non di meno, sulla “adeguatezza delle motivazioni” (p. 98) per operare tali ‘estensioni’ rispetto a quanto stabilizzato (anche contrattualmente) lungo la storia, basta un’adeguata (ed aggiornata) Teologia… senza necessità alcuna di scomodare “superiori esigenze comunitarie” (p. 98), né il Diritto come tale.

4. 2.2 La questione del “Mandato”

Senza entrare nel merito della Sentenza laddove –non improbabilmente– il Collegio giudicante, con la sua considerazione accessoria «eo magis quod ipse Parochus se gessit iuxta quæ Ep.us […] in epistula diei 9 martii 1994 eidem tradiderat» (Sent. n. 27) ha tentato di corroborare la non totale arbitrarietà del comportamento del Parroco, cercandone una qualche forma di ‘legittimazione’ o ‘attenuazione’… per quanto solo sussidiaria, indiretta ed accessoria, in riferimento al tema specifico della seconda domanda posta al Giudice: quella sul risarcimento dei danni, va però considerata in modo autonomo la “questione del Mandato” posta, invece, in modo non accessorio e ‘specifico’ nel commento in oggetto.

«Si rileva, pertanto, un rapporto di connessione stretta tra la Lettera del Vescovo e l’azione del Parroco, quanto all’effetto di arrecare pregiudizio al diritto dei privilegiati. Il Parroco non si sarebbe permesso di agire contro i diritti del Privilegio se non avesse ricevuto il Mandato del Vescovo. Il documento del Vescovo, infatti, è diretto a costituire il presupposto di legittimazione del comportamento del Parroco. Quest’ultimo, d’altro canto, non è che la messa in opera delle direttive del Vescovo» (p. 98-99; corsivo non originale).

Un tale approccio alla vicenda costituisce l’aggancio necessario a ‘dimostrare’ che si tratta di “questione amministrativa” anziché di Causa iurium …come ben proposto in modo semplicemente ipotetico nel commento: «se si accoglie questa interpretazione circa le modalità lesive del Privilegio, si sarebbe dovuto impugnare  […] anche la Lettera del Vescovo» (p. 99) con evidente impossibilità di instaurare un «Processo ordinario avanti alla Rota Romana» (ibidem).

L’argomentazione critica(nte) prosegue con decisione lungo la via intrapresa fin dall’origine evidenziando come:

«secondo il vigente sistema di tutela, il criterio di ripartizione della competenza tra Tribunali ordinari e Giudice amministrativo non è la natura giuridica privata o pubblica del titolo costitutivo delle situazioni giuridiche violate, né il fatto che siano stati danneggiati o meno dei diritti soggettivi, ma la natura giuridica dell’Atto che ha prodotto gli effetti pregiudizievoli. Se l’Atto lesivo è un Atto amministrativo singolare, tutte  le controversie ad esso riconducibili, pure quelle attinenti alla violazione dei diritti acquisiti per contratto, sono azionabili esclusivamente attraverso le vie dei Ricorsi gerarchici» (p. 99).

Ciò ripetuto, tuttavia, è necessario osservare dal punto di vista strettamente giuridico come l’Istituto invocato non si attagli facilmente alla vicenda, poiché il concetto stesso di “Mandato” non risulta fruibile nel caso di specie visto che costitutiva del Mandato è la finalità del Mandante di far propri i frutti/risultati dell’agire del Mandatario; senza questa intenzione/volontà da parte di chi ‘commissiona’ un risultato come ‘proprio’ nonostante sia stato perseguito da altro soggetto non si può parlare di Mandato in senso giuridico. Nella vicenda in oggetto è palese che il Vescovo non avesse nessuna intenzione di conseguire ‘per sé’ (sia come persona che come Ufficio!) alcun risultato attraverso la discussa Lettera al Parroco. 

Dallo svolgersi dell’intera vicenda è chiaro invece che il comportamento del Parroco non è affatto collegabile ad un “Mandato” del Vescovo poiché nel caso il Parroco sarebbe stato semplicemente un mero esecutore di volontà dispositiva altrui –come il commento considera parlando di «successiva esecuzione da parte del Parroco» (p. 91)–, mentre il Parroco, proprio facendo leva sulle prerogative a lui concesse “a Iure ex Officio” (in quanto Parroco!) prima che “ad casum” dal Vescovo (attraverso ‘quella’ Lettera), ha agito autonomamente negando del tutto l’esercizio della prerogativa in oggetto in nome di finalità pastorali ‘proprie’ del suo stesso Ufficio di “avente cura” di ‘quella’ specifica comunità cristiana a lui affidata (cfr. Cann. 515 §1; 519; 528)… per quanto facendosi forte anche di un’interpretazione restrittiva e parziale della Lettera del Vescovo (appositamente sollecitata dallo stesso Parroco) che, in qualche modo, poteva assecondarne l’indirizzo ‘pastorale’ concreto.

5. LA SENTENZA EMESSA

In conformità alla convinzione (fondata) che l’oggetto della Sentenza non sia il Privilegio, si tralascia qui quanto di interesse per tale peculiare Istituto giuridico canonico, soffermandosi invece, da ultimo, su un altro aspetto piuttosto critico del commento alla stessa: la (mancata) componente condannatoria nei confronti del Parroco e l’assenza di considerazione della questione circa eventuali ‘danni’ subiti dai fedeli in questione… secondo l’assioma(?) che «alla tutela dei diritti è strettamente connessa la questione della riparazione dei danni» (p. 103), quasi che mancando la seconda anche i primi non siano davvero tutelati.

Anche qui, purtroppo, si ha la ‘strana’ impressione di dover nuovamente esplicitare presupposti evidentemente non abbastanza visibili (a tutti i settori della dottrina canonistica). La dimensione condannatoria del Processo canonico –espressamente ‘rivendicata’ nel commento– infatti non ha mai avuto una reale accoglienza all’interno dello “spirito del Diritto canonico” stesso e della sua giudizialità, poiché nel Processo canonico generalmente si tratta di ‘conoscere’ e dichiarare situazioni giuridiche (diritti nel caso) non di condannare qualcuno… al punto che anche le Pene canoniche si “dichiarano”, si “applicano” e/o si “infliggono”, dovendosi riconoscere le poche formule testuali ‘condannatorie’ del CIC semplicemente ‘letterarie’ e non realmente sostanziali!

Per quanto diventi necessario spostarsi, ancora una volta, a livelli più fondamentali e teoretici, è necessario sottolineare –avendone qui l’occasione– come l’“oggetto” specifico della giudizialità canonica ordinaria sia lo “statodelle persone o delle prerogative materiali o spirituali (=diritti, secondo la dottrina dominante) che riguardano loro o i loro ‘beni’: «§ 1. Oggetto del Giudizio sono: 1° i diritti di persone fisiche o giuridiche da perseguire o da rivendicare, o fatti giuridici da dichiarare» (Can. 1400).

Riconosciuto e sancito questo, non c’è alcun altro motivo di procedere oltre! Ciò a cui mira e tende l’intero sistema giudiziale canonico (ordinario), infatti, è il ristabilimento, la restaurazione, il ripristino, dello status quo ante la violazione o l’incertezza giuridica di cui si discuta. Ristabilimento, restaurazione, ripristino, che non si perseguono né si ottengono più efficacemente attraverso la “condanna” di qualcuno. In tal caso, infatti, l’oggetto del contendere non sarebbe più una sostanziale “res”, per quanto immateriale come una prerogativa giuridica, ma una “persona”: quanto di più lontano esista dal pensare plurisecolare della Chiesa …che non ha mai ‘condannato’ neppure “il peccatore” ma sempre e solo “il peccato”! Lo spirito di rivalsa tipico della contenziosità civile (spessissimo anche espressamente ‘monetizzata’) non ha nulla a che vedere con l’esercizio della giudizialità canonica.

Pure la questione della riparazione dei ‘danni’ –anche solo morali– cui ‘condannare’ il Parroco merita una specifica attenzione tutta canonica in quanto necessariamente connessa (per non dire ‘assoggettata’) alla ‘pastorale’: una ‘condanna’ del Parroco –infatti– non avrebbe certo favorito un atteggiamento di ristabilimento, restaurazione, ripristino, anzi, avrebbe ulteriormente appesantito la relazionalità già problematica, come segnala lo stesso Giudice rotale in ragione della prospettiva «ad reconciliationem, concordiam et communionem in Parœcia fovendam animosque emulcendos» (Sent. n. 27). Molto meglio, con grande saggezza, accontentarsi del semplice ‘reintegro’ nell’esercizio del diritto… Tanto più che, anche secondo lo stesso commento: «la misura principale per rimuovere gli effetti lesivi è il ripristino dello status quo ante (c.d. riparazione in forma specifica)» (p. 105)!

La ‘notorietà’ della questione dedotta due volte fino alla Rota Romana e risoltasi ‘positivamente’ contro il Parroco basta a se stessa per ‘ricuperare’ la posizione dei precedentemente esclusi i quali, non di meno, si ripresenteranno ad ogni nuova Quaresima per esercitare quanto di loro attribuzione/spettanza… la ‘fama’ dei fatti e la paesana vox populi varranno ben più di qualunque ‘editto’ o de «la pubblicazione della Sentenza» (p. 105).

In questo genere di cose, inoltre, non si può ignorare come nel campo ecclesiale operino (e debbano operare) dinamiche del tutto diverse che in ambito civile: il Parroco non è il Sindaco! Così come i parrocchiani (ed anche non) non sono semplici cittadini o soltanto elettori: la Rota Romana o la Segnatura Apostolica che condanni un Parroco non è in nulla paragonabile ad un T.A.R. che dia torto (anche qui: non condanna) al Sindaco avverso un cittadino. Non è affatto ragionevole pretendere un trattamento che ponga concretamente il Parroco in difficoltà all’interno dei complessissimi rapporti parrocchiali (e non, come in questo caso): attraverso, p.es., le «pubbliche scuse da parte del Parroco» (p. 105). Lo stesso Parroco, non di meno, sarà colui che continuerà a presiedere quella comunità cristiana e ad averne il ‘polso’ ed è proprio con esso che dovranno rapportarsi in futuro gli stessi titolari della prerogativa giuridica in questione…

Non di meno: il ‘versamento’ finale sul rapporto giustizia-carità («prima di cercare di sublimare i rapporti ecclesiali secondo il modello ideale della misericordia divina bisogna ripristinare la giustizia e il compito del Giudice è proprio di giudicare secondo giustizia» p. 104) appartiene (soltanto) alla letteratura… soprattutto se, dopo aver “condannato” –ché così in realtà si invoca!– qualcuno ratione (duræ) iustitiæ, si pretende che le relazioni pastorali quotidiane possano riprendere –idillicamente “sublimate” ratione caritatis– in forza del fatto che «una volta che sia stato disposto il ripristino della giustizia, si possono invitare le parti a compiere passi ulteriori sul cammino della riconciliazione» (p. 106). Non senza, tuttavia, aver già attuato una previa vindicatio contra reum: «almeno, si sarebbe potuto addossare al Parroco le spese processuali» (p. 105-106).

6. CONCLUSIONI

Al di là di teoresi più o meno ‘assottigliate’ su queste ed altre questioni, pare comunque di non potersi discostare ragionevolmente –a livello espressamente ‘tecnico’– dal principio fondamentale secondo cui: la competenza giudiziale canonica ratione materiæ deriva costitutivamente ed unicamente dalla reale domanda di parte attrice: il Petitum… poiché qualunque risposta a domanda non-fatta è sempre sbagliata… oltre a risultare più ‘inesistente’ che soltanto ‘nulla’.

Non di meno, spiace (a chi –come il sottoscritto– non s’interessa specificamente di Matrimoni) dover osservare come la quasi esclusività della materia matrimoniale quale esercizio della giudizialità canonica risulti non giovare affatto all’Ordinamento giuridico canonico come tale… Tanto meno il fatto che la quasi totalità dell’attività giudiziale canonica stessa avvenga in –veri e propri– “Tribunali speciali”, istituiti solo per quella specifica materia (cfr. Can. 1423), rischiando di condizionare pesantemente l’intero sistema processuale canonico anche dal punto di vista teoretico.


in Apollinaris, LXXXIV (2011), 535-562.