Legittimazione e limiti degli Ordinamenti giuridici tra giuridicità e Diritto

PREMESSA

Il primo problema da porsi per affrontare adeguatamente il tema della “legittimazione e limiti degli Ordinamenti giuridici” riguarda proprio il termine stesso “legittimazione”, di cui è necessario verificare la reale consistenza concettuale, vista la complessità e varietà degli Ordinamenti giuridici stessi, realtà-di-fatto alla quale chi lavora all’interno dell’Institutum Utriusque Iuris non può non dare attenzione …tanto più se canonista interessato ad una tematizzazione ‘univoca’ del concetto di Diritto.

Ciò che riguarda i “limiti” dei medesimi Ordinamenti giungerà poi, come di conseguenza.

A tal fine occorre considerare come già una primissima ricognizione evidenzi con chiarezza che dal punto di vista strettamente giuridico la “legittimazione” non trova consistenza alcuna a monte degli Ordinamenti giuridici stessi, quanto –invece– solo al loro interno …e non per quanto concerne gli Ordinamenti come tali, ma solo per specifici Istituti giuridici, più o meno peculiari! Ciò rende pertanto impossibile parlare in modo non-tautologico di legittimazione degli Ordinamenti giuridici dal punto di vista strettamente giuridico. Di fatto, una volta scartate le valenze intra-ordinamentali (processualistiche e civilistiche) del termine, non rimane spazio giuridico alcuno cui ricondurre tale concetto. Neppure la ricerca in ambito costituzionale offre risultati significativi, posto che ogni Costituzione ‘si’ auto-presume legittimata dalla propria stessa esistenza... cosa che, per di più, non avviene mai –né tecnicamente né sostanzialmente– per via ‘propriamente’ giuridica.

1. LEGITTIMAZIONE E FONDAMENTO

L’inconsistenza concettuale del termine “legittimazione” al di fuori delle strutture e funzionalità interne agli Ordinamenti giuridici spinge allora l’attenzione ad un ambito molto prossimo a quello ‘ordinamentale’ (per quanto con esso non-coincidente) qual è quello socio-politico, dal quale gli Ordinamenti stessi derivano; in tale ambito la questione della ‘legittimazione’ si pone soprattutto a riguardo del ‘potere’ concretamente esercitato all’interno delle diverse forme ‘societarie’ di convivenza umana …di cui proprio le Costituzioni rappresentano –al presente– una delle maggiori forme espressive. Ciò tuttavia rischia di risultare ancora una volta tautologico, poiché già di per sé ogni ‘potere’ tende spontaneamente ad auto-legittimarsi –soprattutto– attraverso lo strumento giuridico posto spesso in essere appositamente per questo scopo, indipendentemente dal suo fondamento democratico o autoritario. I ‘progressivi’ passaggi dalla originaria Res publica Romanorum al Dominato ed all’Imperium mostrano con chiarezza questo tipo di dinamiche sempre auto-referenziali; non di meno il più tardivo ‘transito’ dal Regno di Luigi XVI alla prima Repubblica, al Consolato di Napoleone e quindi al suo Impero –e successivi–.

1.1 La prospettiva

In questa prospettiva, necessariamente pre-giuridica, la ‘legittimazione’ appare pertanto non troppo diversa dal ‘fondamento’, al punto che si può correttamente sostenere che legittimare un Ordinamento giuridico coincida col mostrarne i ‘fondamenti’ i quali, per essere efficaci, devono avere consistenza autonoma: pre-ordinamentale, indipendenti dal singolo Ordinamento giuridico in questione. Tale fondazione, però, finisce per coincidere a sua volta con la concettualizzazione ed il fondamento del Diritto come tale, in una prospettiva che non possa essere meramente ‘formale’ …o, addirittura, semplicemente ‘legale’ (secondo la ben nota proposta kelseniana e le equivalenti).

D’altra parte, i danni derivanti da un’esperienza giuridica autoreferenziale come quella degli Stati etici europei del Novecento sono assolutamente noti e dovrebbero bastare da soli quale sufficiente monito a non intraprendere strade analoghe per il presente né per il futuro. L’intrinseca anti-giuridicità di tali esisti rimane icasticamente fissata nelle forti tinte che l’attuale Cardinale di Madrid espresse oltre quarant’anni fa:

«mai il Diritto era giunto ad un grado tale di perfezione tecnico-logico-giuridica ed anche politica, come in questi ultimi centocinquant’anni di storia europea, però mai neppure era giunto ad un tal grado di disponibilità venale, di permeabilità all’ingiustizia ed alla tirannia. Per molto paradossale che ciò suoni: lo stesso Diritto –non solamente gli uomini del Diritto, coloro che lo creano, lo pensano, lo applicano–  si converte in struttura d’ingiustizia. […] Col principio che il Diritto è ciò che risulta utile al popolo o ad una classe sociale, si fa Diritto in opposizione cosciente ai postulati della giustizia, negando premeditatamente questo minimum di uguaglianza  nella valutazione e nel rapporto socio giuridico, che è il suo stesso nervo. A maggior perfezione formale, tecnico-logica, cultural-giuridica, [corrisponde] maggior disumanizzazione del Diritto, così potrebbe esser formulata la Legge storica che ha retto di fatto il corso della evoluzione moderna del Diritto».

‘Legittimazione’ dell’Ordinamento giuridico e/o ‘fondazione’ del Diritto (che, in fondo, finiscono per coincidere), pertanto, non possono consistere nel mero rimando –irresponsabile ed a-morale– alla ‘Legge’; occorre infatti rifiutare con certezza e fermezza ogni posizione che abbia nella Lex una qualunque referenzialità ordinamentale e/o giuridica.

La posizione non ammette repliche, non solo dal punto di vista del rifiuto ‘ideologico’ di ogni Normativismo e Positivismo legale ma, molto più radicalmente, dallo stesso punto di vista epistemologico cui oggi non è più possibile sottrarsi in ambito scientifico.

1.2 Il fondamento epistemologico

Legittimazione e fondamento, sia dell’Ordinamento giuridico che del Diritto come tale evocano oggi una tematica di grande importanza epistemologica, di cui la dottrina giuridica degli ultimi decenni –soprattutto canonistica– ha mostrato però una scarsissima consapevolezza, precludendosi enormi risorse concettuali e metodologiche, avendo ritenuto ormai inutile “continuare ad interrogarsi su cosa sia il Diritto” ed assumendone ciascun autore la concettualizzazione a lui più facilmente fruibile …anche se del tutto ‘proprietaria’.

L’approccio epistemologico –ormai imprescindibile anche per il canonista– concerne la strutturale incompletezza dei ‘sistemi’ –non solo logici e matematici– di cui l’Epistemologia del Novecento ha preso coscienza ed offerto motivazioni risolutorie attraverso gli studi e l’attività di logici e matematici come Kurt Gödel (1906-1978) ed Albert Tarski (1902-1983) che, per alcuni versi, hanno rivoluzionato (o avrebbero dovuto farlo!) il comune modo di sentire e gestire le tematiche ‘fondative’ in generale.

Secondo i c.d. principi d’incompletezza –evidenziati e messi a fuoco dai due autori– nessun ‘sistema’ può essere mai davvero ‘completo’ (nel senso di auto-fondante, auto-referenziale, auto-poietico, ‘sigillato’), capace, cioè, di contenere e ‘dimostrare’ al proprio interno tutti i propri assiomi. Considerando i c.d. teoremi di Gödel, infatti, è impossibile offrire una valida definizione di qualcosa nel caso in cui l’elemento da definirsi appartenga alla definizione stessa, come anche Bertrand Russell (1872-1970) aveva già dimostrato nel 1902 opponendo le proprie ‘antinomie’ a Gottlob Frege (1848-1925) partendo dall’‘insieme’ che non può contenere se stesso.

Non di meno il correlato teorema di Tarski afferma che per definire validamente una relazione occorre far ricorso/riferimento ad un linguaggio ‘superiore’ (meta-linguaggio) rispetto al linguaggio utilizzato dalla relazione stessa. Il problema non è tanto formale (di ordine solo logico/matematico) ma assolutamente sostanziale, poiché ‘semantico’ –e quindi ontologico–: non si possono, infatti, definire i ‘termini/concetti’ di un linguaggio/referente attraverso i suoi stessi termini/concetti …si avrebbero solo tautologie prive di reale contenuto espressivo: vere e proprie ‘identità’ (c = c) di totale inutilità anche solo linguistica, poiché un termine non può spiegarsi attraverso se stesso [t = f(t)] …né una ‘relazione’ aver un solo membro (m  m).

Secondo questa acquisizione –passata sotto silenzio o gravemente sminuita dagli ambienti più dogmatici (anche in campo logico e matematico)– ogni ‘sistema’ o ‘linguaggio formale’ ha sempre la necessità di basarsi su di un ‘precedente’ (e ‘superiore’) meta-linguaggio/referente, necessario per dare consistenza semantica (ontologica) al linguaggio/referente stesso.

Concretamente, per l’ambito giuridico –soprattutto nelle sue (pretese) teorizzazioni più sistematiche (“pure”?)–: non si dà Legge da Legge, né Diritto da Diritto …Ordinamento da Ordinamento, norma da norma… ecc. Ciò, infatti, renderebbe tautologica –e quindi infondata sia semanticamente che ontologicamente– non solo una “Teoria pura del Diritto” (in quanto ‘comando’ di uno che …può ‘comandare’, sic!) ma anche ogni e tutte le prospettive in cui –p.es.– ‘Diritto’ e ‘giustizia’ si rincorrano quali espressioni uno dell’altra e viceversa …oppure facciano lo stesso i termini/concetti ‘Diritto’ e ‘Legge’…

Da notare, per contro, come le concettualizzazioni di Legge offerte circa otto secoli fa da S. Tommaso rispettassero già sostanzialmente tali ‘principi limitativi’ post-moderni, rimandando ad un referente ‘superiore’ o comunque ‘previo’.

- Di fatto la Legge concepita come «quædam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet, promulgata» (S. Th., I-II, 90, 4) non solo non presenta alcun rischio di tautologia intra-giuridica, ma lega espressamente l’intero ambito giuridico alla ratio ed alla sua intrinseca capacità ordinatoria del reale (meta-linguaggio), facendo della Legge un ‘esito’ e non una ‘origine’ …rendendola –almeno semanticamente– una ‘funzione’ della ragione stessa [L = f (R)].

- Non di meno per la previa –e dimenticata(!)– ‘idea’ tomistica di Legge come «quædam regula et mensura actuum» (S. Th., I-II, 90, a. 1, co) in cui spicca ancora più evidente –se possibile– la non autoreferenzialità della Legge stessa, ‘riferita’ a categorie ben più ampie quali, appunto, la regola e la misura [L = f((r) ^ (m))].

Anche la splendida definizione di Dante Alighieri nel suo “De monarchia” non fu meno felice ed epistemologicamente avveduta: «Ius est realis ac personalis hominis ad hominem proportio, quæ servata hominum servat sotietatem et corrupta corrumpit» (De Monarchia, II , 5, 3); come dire: I = f(phh).

Elementi, pur sommari, di questa portata e preclusività strutturale (poiché epistemologico-ontologica) diffidano oggi dal continuare a procedere oltre lungo la maggioranza delle strade percorse sin qui dalle più diverse dottrine sull’identità e fondazione del Diritto, senza potersi più nascondere dietro la loro “classicità” per dissimularne l’effettiva inadeguatezza. Ciò che oggi occorre cercare –e ‘verificare’– è dunque il reale meta-referente del Diritto stesso: è questa, in realtà, la sua unica legittimazione, quanto alla ‘sostanza’ e non alle ‘forme’ soltanto.

1.3 Il meta-referente della giuridicità

Partendo da siffatta premessa, gli stessi riferimenti già fatti in termini di auto-legittimazione del ‘potere’, ed il loro sostanziale parallelismo con la (auto)legittimazione degli Ordinamenti giuridici, permettono di far tesoro anche delle riflessioni di Max Weber proprio sulla legittimazione del ‘potere’ stesso; legittimazione che trova la propria maggior consistenza in un ambito assolutamente extra-politico ed extra-sociale qual è quello della ‘credenza’, che interviene ‘fondando’ a-priori ed estrinsecamente il ‘potere’, prima religioso e poi politico. Il fondamentale rimando all’esperienza socio-politica non muta il proprio valore quand’anche si passi dagli ottocenteschi sistemi politici di matrice liberale (studiati da Weber) alle attuali democrazie ‘occidentali’ legittimate/fondate dal solo consenso elettorale: pur passando dalla ‘credenza’ romantico-idealistica sullo Stato come entità ‘suprema’ (quasi trascendentale) a quella sul valore incontestabile della maggioranza –anche solo relativa– dei voti espressi attraverso il suffragio universale, il meccanismo rimane invariato. Sempre di presupposti extra-politici si tratta!

Di fatto, tanto la legittimazione/fondazione di un potere/governo che quella di un Ordinamento giuridico appaiono a tutti gli effetti come meta-ordinate rispetto ad essi, dovendo inevitabilmente trovare questi il proprio ‘fondamento’ a monte di se stessi, per via di etero-determinazione o in una base etnica o in una prassi immemorabile o in una guerra vinta o in una rivoluzione ‘riuscita’ o in un colpo di Stato o in un accordo pattizio o in un ‘finto’ accordo dei consociati (et alii).

Proprio come già indicato per via epistemologica attraverso i principi d’incompletezza e le loro conseguenze!

Ciò manifesta, per altro, l’improbabilità anche logica del c.d. principio di separazione dei poteri (Montesquieu) quale reale ‘legittimazione’ dello Stato di Diritto, di cui costituisce, invece, una istituzionale garanzia minimale endogena: una sorta di auto-tutela strutturale affinché uno Stato già esistente possa strutturarsi in modo duraturo. Tale ‘principio’, infatti, legittima –e bilancia– soltanto i ‘poteri’ dello Stato tra loro: si tratta, cioè, di legittimità di esercizio dei poteri interni ‘allo’ Stato e delle loro necessarie relazioni, non di legittimazione del potere ‘dello’ Stato come tale rispetto agli altri Stati o a quella ridotta parte di umanità che finisce per costituirne “i –suoi– cittadini”.

Dovendo così trovare sia per l’ambito ‘politico’ che per quello ‘giuridico’ un meta-referente in grado di semantizzare/concettualizzare adeguatamente (fondare) tali ambiti eminentemente fattuali (empirici) del vivere umano, non pare dubitabile come il meta-ambito/referente da cui ‘derivare’ non solo la loro semantica ma anche l’ontologia sia –e debba essere– quello ‘sociale’: la concreta vita sociale di cui l’umanità è il soggetto attivo. Potere/governo ed Ordinamento giuridico non possono essere adeguatamente ‘definiti’ se non a partire dalla vita sociale… da quel ‘vivere in società’ ormai acquisito come elemento decisivo della stessa umana esistenza (e consistenza). Governo politico ed Ordinamento giuridico derivano, e quindi, devono essere definiti/fondati/legittimati a partire dal vivere sociale dell’umanità. Non si può definire l’Ordinamento giuridico se non attraverso la realtà/semantica della socialità/societarietà.

Ciò significa che ‘potere/governo’ da una parte e ‘Ordinamento/Diritto’ dall’altra non possono essere intesi come elementi in qualche modo ‘autonomi’ …o addirittura ‘trascendentali’ rispetto all’umanità stessa (suoi ‘a priori’, com’è stato nelle diverse mitologie ed ideologie), ma solo come ‘prodotti’ del vivere sociale: «il Diritto non è un’isola galleggiante; è invece radicatissimo nella società, ma è un qualcosa che specifica la globalità del sociale, l’incandescenza del fatto sociale», «nella sua essenza e nella sua origine nativa è invece dimensione dell’esperienza, nasce dal basso spontaneamente, giacché è la stessa società che si auto-ordina osservando collettivamente le regole liberamente poste in essere».

Dunque: fenomeni antropologici. Di profondissimo livello, ma pur sempre ‘prodotti umani’ …non meno che (semplici) ‘relazioni’ dal punto di vista ontologico-metafisico; nel seno del Diritto «tutto è relativo a qualcun altro o a qualcos’altro; la sua struttura interiore si concreta sempre in una relatio ad».

Ciò comporta, per altra via, esattamente la stessa necessità evidenziata per via epistemologica dai principi d’incompletezza di Gödel e Tarski: semantizzare ‘Ordinamento’ e ‘giuridicità’ senza parlare di ‘Diritto’!

La questione non è oziosa poiché la connessione ed inter-dipendenza tra Ordinamento giuridico e Diritto appare del tutto strutturale e, da parte di molti autori, non risulta possibile, attualmente, parlare di Ordinamento giuridico senza far uso del termine/concetto “Diritto” …senza voler qui dimenticare come –ancor oggi– questo tipo di discorsi sia ben difficilmente emancipabile dal ruolo/funzione della Legge, sia in riferimento agli Ordinamenti che al Diritto stesso, soprattutto nei sistemi di civil Law …e –almeno tendenzialmente– per lo stesso Diritto canonico, secondo linee dottrinali ancora fiorenti e dominanti.

1.4 Una proposta sintetica plausibile

Tenendo conto di quanto sin qui illustrato, soprattutto a partire dalle incapacità della dottrina tradizionale(istica) di dare spiegazioni oggi plausibili del rapporto giuridicità-Diritto-Legge, pare ormai possibile proporre una linea di sviluppo teoretico alternativa e prospettica che sia [a] epistemologicamente corretta, oltre che [b] profondamente fedele ai dati della Scienza circa la lunga, complessa e variegata, storia della giuridicità, non senza anche [c] necessarie aperture verso la complessità del fenomeno giuridico contemporaneo e comparato (varietà dei sistemi di common Law, Diritto internazionale, Diritto canonico, Diritti religiosi in genere, Diritti dell’Oriente del mondo, Diritti vigenti ma non promulgati… Consuetudini, Diritti storici). Tale ‘linea alternativa e prospettica’ permetterà inoltre [d] di offrire –finalmente– alla Canonistica quell’adeguata concettualizzazione di ‘Diritto’ di cui gli ultimi cinquant’anni non hanno potuto giovarsi …con le inevitabili contrapposizioni falsamente epistemologiche tra le diverse –non chiamatele più così(!)– “Scuole canonistiche” o gli inefficaci irenismi teoretici di chi dà per ‘presupposto’ il concetto stesso di Diritto …predicandone poi caratteristiche e funzioni del tutto insostenibili ed infruibili tanto dal punto di vista teoretico che pratico.

Si tratta –molto semplicemente– di considerare giuridicità, Diritto e Legge come realtà funzionalmente ‘susseguenti’ e subordinatamente gerarchiche della istituzionalizzazione del sociale: veri e propri sotto-referenti (o sotto-ambiti) ciascuno dei quali funge da meta-referente per la semantizzazione di quello successivo, che risulta –così– in esso contenuto e quindi ‘fondato’, in modo che –prima– la giuridicità fondi il Diritto e –poi– questo la Legge.

In tal modo: quale ultima istanza, la Legge risulta –solo– ‘una’ espressione del ben più articolato Diritto; per parte sua il Diritto appare (solo) ‘una’ delle espressioni –molteplici e sempre parziali– della più radicale giuridicità, la quale si presenta, a sua volta, come una delle modalità in cui si esprime la necessaria istituzionalizzazione del vivere sociale di gruppi umani abbastanza ampi da non riuscir più a reggersi che attraverso opportune strutturazioni funzionali del gruppo umano stesso, al di là degli equilibri relazionali propri delle strutture di natura tribale/familiare. Qualora al linguaggio più sociologico si preferisca quello più giuridico, si potrebbe/dovrebbe parlare di ‘ordinamento’ anziché ‘istituzionalizzazione’, senza che tuttavia nulla cambi nell’impostazione di fondo della prospettiva.

Si tratta, in definitiva, di una visione come a cerchi concentrici, illustrata, supportata, assistita e comprovata dalle Scienze storico-sociali, articolata in tre sostanziali macro-tappe.

Prima tappa) Uscendo dalle [a] logiche e relazioni semplicemente parentali tipiche di famiglia/clan/tribù, si passa dapprima ad una [b] elementare strutturazione sociale su base etnico-culturale, che evolve assumendo tratti sempre maggiori di [c] società istituzionale complessa, la cui crescita e strutturazione funzionale rende inevitabile che [d] si fissino regole comportamentali pubbliche, chiare e sanzionabili da/per tutti, dando così corpo –a questo ‘livello’ di evoluzione della convivenza sociale (diventata ormai ‘popolo’)– all’esperienza più elementare della giuridicità come ‘ordo’. È la fase ‘sacrale’ del Giudizio ancora caratterizzata dall’assegnazione ai Pontifices (o equivalenti nelle diverse culture) del compito di “Ius dicere”, spesso in modo oracolare e/o ordalico, ben rappresentata dalla ‘giustizia’ bendata con la spada in mano.

Seconda tappa) Lo stratificarsi e consolidarsi di questo agire giuridicamente, soprattutto nelle crisi e patologie socio-relazionali tipiche di popolazioni ormai socialmente complesse ed articolate, dà progressivamente corpo alla [e] attività giudiziaria, trasformando le precedenti forme ‘socio-istituzionali’ in giuridiche. Quanto ‘condensato’, modellato e plasmato, dall’attività gius-dicente (Giurisprudenza) tende ad assumere le caratteristiche della generalità e della stabilità che traspaiono nei principia Iuris e nelle Institutiones, da cui deriva essenzialmente [f] il Diritto propriamente detto ed inteso (ex facto oritur Ius; Ius sequitur vitam) quale sostanziale ‘grammatica’ del vivere giuridicamente. È quanto corrisponde più direttamente alla fase del Diritto romano caratterizzata dalle Legis actiones concesse (ormai!) dai Magistrati, raffigurata dalla ‘giustizia’ con la bilancia.

Terza tappa) Sviluppo –solo– possibile degli Ordinamenti (ormai pienamente) giuridici può essere quello [g] legislativo in cui i principi, i concetti, gli Istituti giuridici, vengono organizzati come un funzionale ‘a priori’ rispetto all’agire sociale e ad esso riconsegnati per modellarne la fisionomia e la fisiologia [civil Law], nella convinzione –spesso ideologica, perché infondata in factis– che una tal ‘prevenzione’ giovi al vivere sociale più della sola gestione della sua patologia …come avviene, invece, negli attuali e fiorenti regimi di common Law… spesso ben più efficaci di quelli rigidamente codiciali.

Con buona pace di qualsiasi autoritarismo, Normativismo e Positivismo –tanto umano che ‘divino’– l’attuale cognizione del fenomeno giuridico (universale) non pare discostarsi significativamente da questa linea, che risulta semplicemente ‘progressiva’ (e non necessariamente ‘evolutiva’) solo in quanto cronologicamente dispiegata attraverso i millenni e non nel senso storicistico di necessario miglioramento(!).

Ad ulteriore, parziale, comprovamento di quanto qui proposto –ed a sua maggior teorizzazione–, è possibile individuare anche quelle che possono considerarsi le due ‘soglie’ costitutive dell’Ordinamento giuridico propriamente inteso, ben al di là di qualunque attività normativa in se stessa (tanto meno di quella formale):

prima soglia) la concreta possibilità di rendere effettivo l’Ordinamento stesso attraverso l’instaurazione di qualunque forma di ‘giudizialità’ esercitata in modo ‘pubblico’ e ‘laico’ (attraverso Iudices e non Pontifices) in foro esterno …com’è avvenuto per lunghi secoli anche nell’Europa medioevale attraverso l’applicazione giudiziaria delle Consuetudini;

seconda soglia) la concreta possibilità d’insegnare il Diritto a scuola attraverso le Institutiones, come fu ininterrottamente dalle scuole romane dello Ius civile, a Gaio, a Giustiniano, ai giorni nostri …anche attraverso i ‘secoli oscuri’ che precedettero il fulgore bolognese.

Contro ogni ideologia occorre riconoscere ed ammettere che il Diritto esiste compiutamente non per ‘promulgazione’ di qualche norma/disposizione/Legge da parte di ‘un’ qualche legislatore, ma ogni volta che sia possibile applicarlo ed insegnarlo all’interno di una società istituzionalizzata.

Che Giustiniano abbia ‘promulgato’ –ad instar Legis– il Digesto (Iura) e le Istituzioni la dice lunga in merito, non meno che la natura espressamente compilativa della maggior parte delle ‘codificazioni’ (meglio dette ‘consolidazioni’) medioevali e rinascimentali di Consuetudini raccolte e pubblicate in Europa prima della Rivoluzione francese. L’Ordinamento canonico ed il suo Diritto, poi, risultano vigenti ininterrottamente per diciannove secoli, pur non potendosi parlare di vera ‘Legge’ prima della codificazione del 1917.

2. GIURIDICITÀ COME QUALIFICAZIONE ESISTENZIALE 

2.1 Precedenza tra giuridicità e Diritto

La ‘ricostruzione’ fenomenica e teoretica così sommariamente proposta, se permette a qualcuno di superare in tutta scioltezza la questione –assolutamente pregiudiziale per la stessa concezione del Diritto– della precedenza concettuale ed ontologica della giuridicità rispetto al Diritto stesso –oltre che della società rispetto alla giuridicità–, può suscitare per contro forti reazioni emotive in coloro che abbiano ‘appeso’ al Diritto –quando non alla Legge o al legislatore(!)– l’intero ambito della giuridicità.

Un cauto supporto alla ricomposizione emotiva –oltre che teoretica– potrebbe venire proprio dall’analisi del fenomeno stesso del “vivere giuridicamente” –come l’ha chiamato Sergio Cotta– …rispetto al quale gli elementi di condivisibilità sono certamente numerosi e plausibili, come ha ben mostrato lo stesso autore attraverso il suo approccio esistenziale al Diritto (per quanto occorra molta prudenza verso il presupposto ‘normativo-ontologico’ che lo accompagna).

Come ben rimarca anche Paolo Grossi: sotto il profilo storico è innegabile la precedenza della giuridicità, intesa come dimensione operativa vigente all’interno di una ‘società’, rispetto al Diritto, inteso nella sua accezione più ‘attuale’ di corpo normativo autoritativamente vigente. Alcune ‘testimonianze’ risultano inconfutabili in merito: [a] il sorgere e consolidarsi della più grande esperienza giuridica dell’umanità: quella romana, [b] il consolidarsi del Diritto internazionale e comunitario, [c] lo spazio e la portata in termini di effettività della Consuetudine e, oggi, del Diritto commerciale internazionale, quali ‘norme’ vigenti, anche se non promulgate da alcun legislatore, [d] la concezione c.d. ‘realistica’ del Diritto maturata nell’Occidente extra-continentale durante il Novecento.

a) Il lungo cammino di delineazione e crescita dello Ius civile fino alle soglie dell’età imperiale pone dinnanzi ad un fenomeno apparentemente paradossale (in realtà del tutto coerente con gli attuali sistemi giuridici di common Law) in cui non erano affatto formalizzati dei ‘diritti’ come tali, ma era semplicemente concessa una tutela giudiziaria (in realtà solo arbitrale) degli ‘interessi’ di singoli o gruppi attraverso le varie Actiones che i Magistrati concedevano a coloro che si rivolgessero ad essi reclamando tutela. Non è banale considerare come l’ambito in cui tale forma di giuridicità sorse e si consolidò sia stata sostanzialmente la sola Urbs/Civitas (ed i suoi membri); l’estensione dello Ius Quiritum (i discendenti di Romolo) all’intero territorio imperiale fu infatti graduale lungo i secoli, coinvolgendo dapprima i Latini, poi gli Italici (“guerra sociale” - 90-88 a.C.)… per coprire solo verso la fine l’intero Impero (Editto di Caracalla - 212 d.C.), assecondando in ciò il progressivo complessificarsi ed ordinarsi di elementi socio-politici.

b1) Il Diritto internazionale cresciuto in modo irreversibile –ed incontestabile– nell’ultimo secolo si mostra palesemente come difforme dai presupposti della giuridicità autoritaria e volontarista che caratterizza buona parte del Diritto europeo continentale (civil Law). Nel Diritto internazionale tutto accade per libera decisione ed adesione dei membri che si auto-vincolano a norme e regole assolutamente convenzionali (pattizie) la cui esistenza e fruizione assicura a tutti vantaggi superiori a qualunque ‘prezzo’ richiesto o necessario per la loro applicazione. Nessun legislatore, nessuna doverosità… ma un accordo funzionale tanto più effettivo quanto più effettivamente osservato. Nessuno, oggi, contesterebbe la ‘legittimità’ del Diritto internazionale, pur non potendolo suffragare per altra via che l’accettazione da parte di (quasi) tutti: principio di effettività …anche perché le sanzioni comminate da una maggioranza hanno comunque un peso difficilmente trascurabile.

b2) Non radicalmente diverso dal Diritto internazionale è il Diritto comunitario che caratterizza in modo crescente la fisiologia dei rapporti tra vari Paesi europei. Anche in questo caso la pura effettività dell’Ordinamento osservato è decisiva, poiché la qualità espressamente normativa degli strumenti giuridici ‘comunitari’ è, di per sé, addirittura confliggente con alcuni degli stessi presupposti (ottocenteschi) degli Stati moderni confluiti ormai nell’Unione (p.es.: il superiorem non recognoscens). Che un legislatore nazionale/statuale debba ‘recepire’ dall’esterno norme che in realtà non sono tecnicamente né Leggi, né Trattati internazionali, ma –semplici– “Direttive” di un Organismo sovra-nazionale (ma non federale) ripugnerebbe a qualunque giurista ‘moderno’ …pena la rimozione del concetto stesso di Stato, che pure oggi teoreticamente si continua a professare in Europa. Eppure, al di sopra dei legislatori nazionali, esiste una fonte effettiva di Diritto …ed una Corte che ‘giudica’ e sanziona gli Stati stessi …anche ‘contro’ i loro stessi cittadini …e non necessariamente per “violazioni di Legge”.

c1) Nella stessa linea concettuale la Consuetudine, che ha governato per decine di secoli la vita dei popoli germanici (e non solo), si presenta espressamente come ‘negazione’ di ogni formalizzazione previa di ‘un’ Diritto come tale, enfatizzando ancora una volta l’effettività dell’osservanza di comportamenti che, in quanto tali, ‘nessuno’ aveva mai intenzionalmente stabilito, ma tutti –di fatto– osservavano con la convinzione che così doveva essere. È significativo in proposito che tra gli elementi costitutivi della Consuetudo si collochi non solo/tanto la tautologica opinio Iuris [I = f(I)] quanto la molto più realistica e ‘robusta’ opinio necessitatis [I = f(n)] che ne evidenzia quale meta-referente in un ambito assolutamente esistenziale la necessitas che S. Romano ha presentato «come fatto normativo fondamentale, cioè intrinsecamente giuridico e non già meramente socio-politico».

c2) Il Diritto internazionale commerciale è un’altra delle evidenze in fatto di Ordinamenti effettivamente e necessariamente osservati pur senza avere alla propria base né legislatori né Giudici. Si tratta delle esperienze (private) –ancora una volta europee– di “Unidroit” per l’unificazione del Diritto privato dei contratti commerciali e della “Commissione per il Diritto europeo dei contratti”. In esse emerge una Scienza giuridica non solo a-statuale, ma dinamica ed efficace ben oltre l’inettitudine e la lentezza degli Stati e dei loro Organi legislativi. Le conseguenze economiche –d’altra parte– dell’attività commerciale mondiale non possono attendere né norme né Giudizi che differiscano di (decine di) anni le proprie ‘certezze’: meglio sapere subito ‘chi’ e ‘quanto’ perde o realizza in conseguenza di fatti ed eventi –anche– del tutto imprevedibili che intervengano nella complessa maglia di servizi e prodotti che attraversano il mondo 24 ore su 24.

d) La non-costitutività per l’esistenza del Diritto né della norma né di un qualche legislatore, è posta in evidenza –non solo sul piano teoretico– anche dalla c.d. concezione realista del Diritto, di matrice scandinava (Scuola di Uppsala: A. Hägerström, K. Olivecrona, A. Ross) e nord-americana (R. Pound, O.W. Holmes, J. Frank) che sposta il Diritto addirittura nel futuro: ciò che le Corti decideranno [I = f(dC)]. In tale prospettiva, addirittura, è la stessa Giurisprudenza in acto (la “Law in action” di R. Pound) a costituire lo Ius dicendum da parte dei Giudici, ben oltre i Principia Iuris (“Law in books”) e lo “stare decisis” su cui per secoli si sono retti i sistemi giuridici di common Law.

Come, allora, non riconoscere la natura espressamente strumentale del Diritto?

E, di più, la sua espressa natura pacificatoria?

Ius contra noxium! Ius contra conflictum!

Infatti: non sono nati prima i ‘diritti’ (rights) ma la protezione dai danni subiti …o probabili!

È il conflitto che genera il Diritto; il Diritto, anzi, costituisce la “struttura del conflitto”, rappresentando proprio «lo schema strutturale del conflitto tra gli interessi e tra i gruppi» … la via, dunque, nella quale i conflitti si incanalano; «se la società non si concreta in una incomposta, perenne rissa, ciò lo si deve soprattutto alla funzione ordinativa del Diritto».

Fu infatti dalle Actiones che nacquero –per ‘standardizzazione’ funzionale della inevitabile ripetitività dell’agire umano– gli Iura… e, solo dopo, le Leges… come noi le intendiamo oggi.

È questo, d’altra parte, il motivo per cui il Diritto si interessa –solo– delle cose esteriori e visibili: “de internis non iudicat Prætor” non perché non siano accessibili alla sua indagine e conoscenza, ma perchè l’internum non è –in se stesso– strumentale alle relazioni sociali e –più ancora– alle loro degenerazioni …per quanto possa poi rilevare a livello di motivazioni quale aggravante o attenuante dell’atto effettivamente posto con danno (noxium) altrui: non l’odio (morale) ma il danno (effettivo) è oggetto di Giudizio ‘giuridico’. D’altra parte, lo stesso Prætor non iudicat –neppure– de minimis, seppure in externis: le c.d. bagatelle a cui l’Ordinamento come tale non può essere asservito …pena la sua ‘distrazione’ dalla funzione prioritaria di ‘ordinare’ la vita socio-relazionale della comunità di sua competenza. L’instaurarsi di diverse Magistrature e loro ‘gradi’ ha proprio lo scopo della tutela funzionale dell’identità dell’Ordinamento in se stesso, anche nei suoi ‘livelli’ inferiori come quelli affidati, p.es. ai Giudici di pace, prima che alla Magistratura ordinaria. Senza trascurare l’immenso –ed oggi crescente– ambito puramente arbitrale.

In questa prospettiva risalta in pienezza la natura prettamente ‘strumentale’ del Diritto quale ‘prodotto umano’ di natura tecnica, destinato a supportare l’organico relazionarsi di diversi soggetti, in un clima di reciprocità, all’interno di specifici ‘spazi vitali’ ed operativi (contesto sociale istituzionalizzato). Il Diritto va così riconosciuto non come una ‘cosa’ (res) …un datum (casomai di origine trascendente/divina), ma come una ‘modalità relazionale’ (relatio): proprio la medioevale “hominis ad hominem proportio” magistralmente espressa da Dante.

Di più: secondo la prevalenza dell’attuale Sociologia (non solo giuridica) il Diritto è un ‘sistema di comunicazione’ prima che di norme.

Ne deriva la convenienza –almeno per chiarezza concettuale– di non utilizzare il termine “Diritto” tout-court per indicare ciò che caratterizza questo particolare ‘aspetto’ della relazionalità sociale, quanto –molto più chiaramente– il termine: “giuridico”. Utilizzare l’aggettivo invece del sostantivo permette infatti di rendersi conto con maggior immediatezza dell’apporto ‘qualitativo’ anziché ‘sostanziale’ di ciò che viene evocato coi termini Diritto” e “giuridicità”. Allo stesso modo il termine “giuridicità” riesce ad esprimere i contenuti correlati a questo approccio ‘qualitativo’ molto meglio di quanto riesca a fare il termine –abusato– ‘Diritto’, con tutta la sua polivalenza semantica e concettuale.

2.2 Eventi esistenziali e loro qualificazione

Un modo di ragionare su queste realtà così diverso dal solito chiede, però, qualche ulteriore elemento illustrativo che ne confermi la sostanziale correttezza e plausibilità.

La complessità del vivere umano ha spesso evidenziato l’intreccio di ‘fattori’ che intervengono a condizionare in vari modi la vita, anche quotidiana, tanto dei singoli che delle più diverse ‘collettività’, mettendo in risalto tre ‘elementi’ di primissima importanza che risultano essere i principali ‘animatori’ dell’umana esistenza: atti, fatti e circostanze. Sono proprio questi tre ‘elementi’ che, quale risultato dell’interazione reciproca di persone e (loro) cose, costituiscono la ‘base’ concreta dell’esperienza socio-relazionale umana.

Atti e fatti sono il motore della storia; costituiscono quelle ‘variazioni’ dello status quo socio-relazionale che, alterando i diversi equilibri tra le persone (e le loro cose), inducono alla ricerca di nuovi assetti, capaci di far fronte ai mutamenti che gli uomini, o la realtà stessa che li circonda, pongono continuamente in essere. Atti e fatti però, in quanto tali, non sono in grado d’incidere in modo coerente ed organico sulla realtà che li debba recepire: è soltanto la loro ‘qualificazione’ a rivestirli di significati ed introdurli nel circolo esistenziale, culturale ed antropologico, assegnando o riconoscendo loro ruoli, importanze, prerogative e possibilità, che ne esprimano la/una portata esistenziale, eventualmente anche sociale, anziché solo individuale. Quando mancassero di adeguato significato socio-relazionale, atti e fatti, non avrebbero nessun valore nei rapporti intersoggettivi, come accade, p.es., per i ‘fatti’ meteorologici, che possono modellare la cultura di un popolo …farne la prosperità o causarne la scomparsa (alluvioni o siccità), ma non intervenire ‘singolarmente’ a mutare specifiche relazioni tra i suoi membri… non per nulla la c.d. meteopatia è considerata una patologia.

Atti e fatti, per la loro capacità (o anche solo attitudine) a modificare assetti ed equilibri socio-relazionali attraverso l’attuarsi o il verificarsi di qualche ‘azione’, possono essere cumulativamente racchiusi nel concetto di ‘eventi’, intesi estensivamente come “variazioni dello status relazionale fino ad allora in atto”, secondo l’accezione normalmente utilizzata nelle Scienze ‘naturali’ per indicare ciò che introduce ‘variazioni’ (∆, delta) degli stati di equilibrio o di quiete tra le diverse forze e/o fattori che si dispiegano nella realtà: gli unici ‘elementi’ della realtà (le variazioni) che ci è possibile cogliere e ‘misurare’….

Com’è evidente: l’evento in quanto tale non rileva esistenzialmente –e concretamente– se non per la ‘qualificazione’ che ciascuno ne dà secondo il proprio specifico ‘punto di vista’ (persona, ruolo o funzione). Senza però tale qualificazione gli ‘eventi’ non avrebbero nessun significato rispetto alla vita umana… ma questo, in realtà, non è mai stato vero! È vero, invece, il contrario: gli eventi entrano in rapporto con la vita umana proprio in base al significato esistenziale loro attribuito: la qualificazione esistenziale.

In tal senso va però osservato come la qualificazione giuridica sia solo una delle tante eventuali (alternative o concomitanti) qualificazioni esistenziali degli eventi. Sono possibili, infatti, altre qualificazioni come l’economica, l’artistica, la religiosa, l’affettiva… ecc. Dovendosi così riconoscere come il Diritto, l’Economia, l’Arte, la Religione, l’affetto non ‘esistano’ in sé e per sé (quali ‘res’, né tanto meno come ‘essentiæ’) ma –solo– come concettualizzazioni formali –a posteriori– di valutazioni e giudizi espressi in riferimento ad eventi che hanno caratterizzato la vita personale e relazionale. Quante volte, p.es., la mancata qualificazione giuridica di un evento (dono/regalo) è interpretata negativamente dal punto di vista affettivo così da scatenare odii e rivalse ingestibili? Oppure, ancora, quante volte alla gente non importa affatto la specifica qualificazione giuridica di un evento (reato [penale] o responsabilità [civile]) poiché interessa solo quella economica: l’indennizzo conseguente? Oppure quante volte, ancora, si esige che eventi prettamente affettivi (crisi di una relazione di coppia) vengano qualificati anche giuridicamente (separazione/divorzio) al fine di esigerne una qualche contropartita …spesso solo economica?

Non sono il fatto o l’atto in sé a ‘creare’ Diritto, secondo una lettura banale del principio “ex facto oritur Ius”, ma la loro qualificazione giuridica!

2.3 Il giuridico

Tra le possibili –e comunque effettive– qualificazioni esistenziali cui gli eventi possono andare soggetti quella ‘giuridica’ è senza dubbio una delle maggiormente rilevanti a livello socio-istituzionale, non tanto per la –alta– frequenza della sua ‘espressione’ da parte della maggioranza delle singole persone quanto, piuttosto, per le sue conseguenze e ricadute sulla e nella relazionalità sociale, cui le persone e le società umane non possono sottrarsi.

Di fatto, tra le diverse modalità socio-relazionali che s’intrecciano all’interno di un gruppo umano abbastanza sviluppato da aver intrapreso la propria fase istituzionale/ordinamento, quella giuridica appare senza dubbio una delle più evidenti e solide: la modalità più plastica e versatile che permetta a chiunque di ‘esserci’ e di operare in assoluta paritarietà (la simmetria di Sergio Cotta) con gli altri soggetti (a parità di ruolo/funzione). È nel vivere ‘sociale’ che si crea –in modo pressoché spontaneo ed ‘autentico’– la giuridicità, come elemento fisiologico dello stesso vivere sociale: laddove l’“altro” che si pone “al fianco di”/“di fronte a” ciascun ‘soggetto’ non ha di per sé nessun rapporto esistenzialmente significativo con lui, come sarebbe, invece, per i rapporti inter-personali di base (famiglia, amicizia) …tanto più se si accolgono a fondamento del Diritto le dottrine in merito alla scarsità/distribuzione delle ‘risorse’ –presupposto di molte Scienze sociali–, senza che necessariamente il Diritto si riduca soltanto a puro “sistema di allocazione delle risorse”.

Non è più possibile, allora, trascurare come le consapevolezze esistenzialiste e personaliste, ma anche sociologiche e fenomenologiche, del Novecento ci abbiano ormai ben mostrato come Ius sit in tertium!

È infatti l’iniziale estraneità dell’altro non conosciuto/amato (il ‘terzo’, appunto, l’egli/quello) all’interno di una collettività sociale a richiedere una modalità protetta e protettiva di approccio e relazione che gli permetta progressivamente di venir equiparato –almeno funzionalmente– al “tu” del rapporto inter-personale: è questa –radicalmente– la giuridicità …senza che debbano intervenire –dall’esterno– né giustizia, né sanzioni, né Leggi, né legislatori, tanto umani che ‘divini’; quanto semanticamente si osserva nel passaggio da “aliquis/quidam” ad “alter” ad “utrus”; oppure: dalla terza persona plurale (loro/essi) a quella singolare (lui/lei), da questa alla seconda persona (tu) e da questa all’alterità (il ‘nome’).

La portata socializzante ed equilibrante del sociale gestita a livello socio-istituzionale attraverso il Diritto è oggi una delle maggiori evidenze …ne giovano in modo eminente, p.es., tutti quei ‘non-cittadini’ di cui le società occidentali sono oggi ricolme, ma che la Rivoluzione francese aveva espressamente teorizzato come esclusi dai diritti di libertà, uguaglianza e fraternità riservati ai soli “cittadini”.

Partendo da queste premesse –del tutto costitutive– si giunge a ‘qualificare giuridicamente’ un evento quando gli si riconosca –ben diverso da “gli si attribuisca”– la potenzialità d’intervenire nelle relazioni socio-istituzionali mutandone pubblicamente l’assetto o l’equilibrio.

Detto in altri termini:

la giuridicità consiste nella capacità che alcuni ‘eventi’ hanno d’influenzare le relazioni tra soggetti appartenenti allo stesso gruppo-istituzionalizzato, mutandone in qualunque modo la situazione relazionale precedente, così che la nuova posizione relazionale di almeno uno dei soggetti (o oggetti) implicati sia almeno e cumulativamente: [a] pubblicamente riconoscibile, [b] relazionalmente rilevante, [c] istituzionalmente sanzionabile per chiunque degli altri soggetti appartenenti al gruppo stesso.

Quanto una concettualizzazione di questa portata sia adeguata a delineare la natura più intima e profonda del giuridico nelle sue diverse forme già sommariamente evocate appare chiaro.

Ne consegue con immediatezza anche la definizione secondo cui

il Diritto consiste in tutto ciò che ha la capacità d’influenzare le relazioni tra soggetti appartenenti allo stesso Ordinamento, mutandone in qualunque modo la situazione relazionale precedente, così che la nuova posizione relazionale di almeno uno dei soggetti (o oggetti) implicati sia almeno e cumulativamente: [a] pubblicamente riconoscibile, [b] relazionalmente rilevante, [c] istituzionalmente sanzionabile per chiunque degli altri soggetti appartenenti all’Ordinamento.

Pubblicità (socio-relazionale), rilevanza (socio-relazionale), sanzionabilità (socio-relazionale) non sono altro che diverse espressioni della oggettività, separabilità, generalità, coercibilità che caratterizzano il Diritto nella propria essenza più profonda.

3. FONDAMENTI E LIMITI DELLA GIURIDICITÀ

3.1 Giuridicità e meta-giuridicità

La prima necessaria ed inevitabile conseguenza di questa consapevolezza circa la natura/essenza del giuridico/Diritto è che non esistono ‘cose’ (res) di per sé giuridicamente qualificate in modo generico ed assoluto (originario, a-priori), né altre che di principio non siano (o non possano essere) tali; né ‘cose’ in sé, né specifici ‘ambiti’ di vita umana.

Ogni contesto relazionale socio-istituzionale (che potremmo ormai chiamare genericamente ‘ordinamento’ proprio in ragione della sua struttura e funzione), invece, avrà i ‘propri’ oggetti ed eventi giuridici, anche radicalmente differenti da un ‘ordinamento’ all’altro ma tutti, comunque, ‘giuridici’, senza che nessun ‘ordinamento’ possa legittimamente –e validamente– interferire sulla qualificazione propria di ciascuno degli altri. 

Ne sono un esempio chiarissimo –per quanto solo indicativo– le dinamiche proprie del mondo dello sport, sia in generale che all’interno delle singole discipline agonistiche: il confronto agonistico con altri atleti, così come le c.d. classifiche all’interno delle singole aree agonistiche possiedono tutte le specifiche della qualificazione giuridica vera e propria… ed in questo modo vengono recepite e trattate non solo da atleti, Società e Federazioni sportive che si attengono a tale qualificazione nel loro interpretare la realtà ed i diversi eventi, ma anche da parte del mondo economico e commerciale circostante (di fatto ‘estraneo’ allo sport come tale!) che acquista e rivende ‘diritti televisivi’, pubblicità, azioni, delle diverse Società/Club/Leghe… senza contare la concomitante componente commerciale dei contratti d’ingaggio di atleti, tecnici, dirigenti, ecc. espressamente connessa alle prestazioni sportive ufficiali dell’atleta o della squadra/Società/Club di appartenenza.

Sulla stessa linea e secondo presupposti, almeno funzionalmente, simili s’inserisce la qualificabilità delle norme dell’Ordinamento canonico come pienamente giuridiche anche dal punto di vista ‘tecnico’, nonostante la loro espressa natura religiosa; lo stesso dicasi di tutte le altre normative c.d. religiose e confessionali, da molti percepite come in ‘dialettica’ col Diritto statuale moderno. Non per nulla la dottrina giuridica dominante del ’900 ha considerato quello canonico un Ordinamento giuridico ‘primario’.

L’idea/concetto di giuridico/Diritto, qui proposta, (ri)apre così a pieno titolo –conferendole nuova luce– la tematica mai esaurita del rapporto tra giuridico e meta-giuridico; tematica tanto maggiormente significativa in un tempo come il nostro in cui ogni ‘pretesa’ esistenzialmente valorizzabile chiede di assurgere a vero ‘diritto’ (addirittura soggettivo); la creazione, p.es., per via giurisprudenziale (in Italia) dei c.d. danno biologico ed esistenziale non lascia dubbi in merito alle reali ‘origini’ di tali concettualizzazioni e fattispecie giuridiche: i concreti “decisa” dei Tribunali (che tanto piacciono alla Teoria realistica del Diritto). Non di meno tale tematica risulta di stretta prossimità concettuale a quella della fondazione e limiti degli Ordinamenti giuridici, di cui qui ci si occupa.

Del rapporto tra giuridico e meta-giuridico si occupò con sagacia, quasi trent’anni fa, Luigi Lombardi Vallauri con una riflessione che mise in risalto come, nel tempo, praticamente tutto abbia potuto diventare ‘oggetto’ di Diritto nel vivere umano. Di fatto ogni volta che qualunque cosa –in passato– abbia creato motivi d’intralcio allo spedito progredire del vivere di una società-istituzionalizzata, non si è esitato a porre norme giuridiche in tale materia… dall’eredità, al commercio, ai rapporti sessuali; senza nascondersi come «la prima impressione è che appartengano al giuridico le cose sordide, o forse meglio –aristotelicamente– le cose “utili e necessarie”, e al metagiuridico –sempre aristotelicamente– le cose “belle”» …col ‘dubbio’ dello stesso autore che:

«la nostra sensazione di strano o di ridicolo viene soltanto da una castigatezza pandettistica, o vittoriana, in ogni caso borghese-razionale-laica-moderna, oppure anche da un’inespressa intuizione che il Diritto, di certe cose, farebbe bene, per sua essenza, a non occuparsi».

Ciò nonostante, le cose non sono proprio andate così quasi mai, offrendo alla nostra attenzione norme e, più ancora, Sentenze in qualunque materia e di qualunque contenuto, ponendo in evidenza come –in fondo– ciò che chiamiamo ‘Diritto’ sia solo una risposta inevitabile a domande che la società-istituzionalizzata per non auto-estinguersi, esige di sapere soddisfatte …in linea di principio ed una volta per tutte …con sicurezza, supporto [aiuto], durata, come diceva Cotta.

È proprio nell’ottica della non-giuridicità ‘originaria’ –ma solo ‘funzionale’– di atti, fatti e ‘cose’, che vale la pena considerare il processo che sta alla base del delinearsi e consolidarsi degli Ordinamenti giuridici in quanto tali …e del Diritto come loro precipua espressione.

Le irrinunciabili richieste/attese esistenziali di sicurezza, supporto, durata, sia dei singoli soggetti (umani o sociali) che delle umane società come tali, pongono ad ogni tipologia di ‘ordinamento’ –a partire dalle più elementari– la stessa domanda di efficacia funzionale: la richiesta, cioè, di risolvere in modo definitivo le questioni socio-relazionali che inevitabilmente sorgono all’interno di qualunque collettività umana; i diversi tipi di noxia, cioè, che i vari soggetti (io) possono contestare ai ‘terzi’ (egli/esso) solo fattualmente co-presenti nello stesso ambito vitale, ma coi quali non s’intrattiene rapporto interpersonale (tu) alcuno.

È proprio all’interno ed in funzione delle esigenze –condivise ed esistenzialmente irrinunciabili– di sicurezza, supporto, durata, che si attua il passaggio –involutivo e devolutivo–  dall’ordinamento [a] spirituale (l’Etica) a quello [b] culturale (la Morale) a quello [c] istituzionale (la giuridicità) a quello [d] giuridico (il Diritto) a quello [e] legale (la Legge), secondo una sorta di ‘gradualità’ (in realtà assolutamente regressiva!) che trova la propria principale –se non esclusiva– ragione d’essere nella concreta inefficacia funzionale degli ordinamenti stessi. Laddove, infatti, un ordinamento socio-relazionale non si presenti efficace/adatto a risolvere le tipologie ed intensità conflittuali concrete che nascono all’interno di un determinato gruppo/società, la ‘pacificabilità’ (che l’ordinamento dovrebbe garantire) passa a quello in qualche modo ‘successivo’, ritenuto più ‘efficace’ a causa –parrebbe– del maggior livello di formalizzazione e coinvolgimento del corpo sociale stesso nella sua funzione ‘sanzionatoria’: il garantire –appunto– sicurezza, supporto, durata, visto che i singoli in gioco non hanno saputo provvedere attraverso il loro impegno, responsabilità, disponibilità…

Un esempio di una certa attualità e di chiarezza palmare in merito può riscontrarsi nell’aumento delle richieste che nel Regno Unito vengono rivolte alle c.d. Corti islamiche da parte di cittadini non-musulmani al fine di veder soddisfatte in modo chiaro e veloce alcune proprie pretese che paiono maggiormente tutelate dalla Sharia che dal Diritto inglese. Il fenomeno, per quanto in apparente controtendenza rispetto a quanto si sta qui illustrando, ne conferma invece la profonda ratio nella efficacia pronta e certa dell’esito. Cosa conta, infatti, se il Diritto applicato non è quello che spetterebbe per cittadinanza o fede religiosa? L’importante è ottenere subito quello che si vuole! …Sui ‘fondamenti’ discutano –e si preoccupino– poi i teorici…

Sarebbe tuttavia assolutamente ingenuo negare che la questione dell’efficacia derivi e dipenda in modo sostanziale dall’accettazione (in fondo, la ‘credenza’ di Max Weber) che i diversi soggetti esprimeranno verso le soluzioni ‘proposte’ ai vari conflitti: sono infatti le parti in causa –non meno della stessa collettività ferita dal conflitto– che devono ritenersi soddisfatte nella loro pretesa/rivendicazione dalla soluzione ordinamentale proposta una volta per sempre. La concreta inefficacia della soluzione etica e/o morale derivante, spesso, dalla non piena adesione a tali ambiti assiologici o dall’adesione ad ambiti assiologici differenti (etnie, culture, religioni), costringe così ad affidarsi progressivamente ad un diverso ambito ordinamentale: quello giuridico, per quanto esso si dimostri il più fallibile ed il più contestabile e, di fatto, contestato. La progressiva ‘laicizzazione’ dello Ius dicere, passato (romanamente) dai Pontifices agli Iudices è palese in merito; non di meno l’Etnologia e l’Antropologia culturale mostrano bene il passaggio della funzione gius-dicente dal verdetto oracolare, al giuramento, al duello, alla Sentenza arbitrale a quella giudiziaria…

Trattandosi, dunque, di un problema di qualificazione esistenziale, sono in gioco i criteri di tale valutazione (i valori) nella loro maggiore e minore ‘prestanza’, stabilità ed efficacia; il discorso si sposta così a livello di ‘credenza’, individuale e collettiva. È proprio qui, d’altra parte, che si colloca da sempre il vero problema deontico: la valutazione e scelta di ‘cosa’ si ritiene possibile fare e cosa no!

3.2 Società, cultura e Diritto

Tra le rilevanze che possono ancora rafforzare –confermandola– l’origine prettamente ‘sociologica’ del giuridico sin qui illustrata, vanno considerati anche alcuni fenomeni emergenti all’interno della ‘giuridicità’ statuale contemporanea del mondo occidentale.

L’origine ‘sociologica’ del giuridico, infatti, non riguarda soltanto ciò che le diverse Legislazioni di ogni luogo, cultura, ordine e grado ci hanno trasmesso dal passato ma, molto maggiormente, il presente in cui gli Stati, dopo aver impostato le risposte alle –grandi– ‘necessità sociali’ (sicurezza, istruzione, sanità, lavoro, previdenza, mercato, economia, ecc.), sono ormai passati alla espressa volontà di stabilire per Legge non solo ciò che sarebbe possibile oggetto di ‘interesse/utilità’ per molti (secondo le categorie classiche del bonum commune) ma anche di –semplice– ‘desiderio’ per ‘alcuni’ soltanto. Il rapido sconvolgimento legislativo attuato, p.es., in Spagna nelle ultime due Legislature di ‘segno politico’ opposto al precedente assetto socio-culturale di quel Paese è evidentissimo in questo: si fanno le Leggi non per la necessaria regolamentazione (ob noxium individui vel communitatis) di una generalità di situazioni, ma per la volontaria promozione di alcune pretese comportamentali largamente minoritarie, trasformando la Legge in strumento di propaganda ideologica …come, del resto, l’intero Novecento europeo ha ben mostrato in ciascuno dei ‘regimi’ che lo hanno attraversato da ovest a est. Non di meno è invalso nello scenario politico –italiano in primis– il ‘costume’ di promettere, da parte delle opposizioni politiche, l’abolizione delle Leggi fatte dalle correnti maggioranze parlamentari o di amputarle –attraverso referendum popolari abrogativi– di qualche congiunzione o avverbio che ne stravolgano la natura e l’applicazione, ‘perforando’ le stesse Leggi prim’ancora che rendendo vacillante l’Ordinamento giuridico come tale.

Si aggiunga a ciò la continua proliferazione per via legislativa di nuovi “diritti civili” come recentemente attuato dal legislatore finlandese che ha dichiarato esser tale la connessione ad internet a ‘banda larga’.

Già queste poche ‘osservazioni’ –seppur solo esemplificative– palesano anche nell’attualità la totale dipendenza del fattore giuridico/Diritto (e poi Legge) dalla richiesta/pressione sociale quale suo reale meta-referente. È infatti la società che, eleggendo a suffragio popolare i propri legislatori, li sceglie in base alle proprie ‘aspirazioni’ e ‘pretese’ …ed alle loro promesse d’intervento normativo su questo o quell’altro ambito esistenziale più o meno à la page.

Non diversamente, per altro, da come –anche– nella Res publica per eccellenza venivano scelti i Tribuni del popolo –spesso– in contrapposizione al governo dei Senatores; quanto di fatto l’Editto pretorio, per parte sua, abbia influito al mutamento dello Ius civile non è argomento di oggi.

Nulla, dunque, è cambiato sotto il sole… e gli esempi dell’attualità si moltiplicano in tutto il mondo sotto gli occhi (e l’inconsapevolezza) di tutti …non senza, tuttavia, qualche scossone emotivo e di (indotta) opinione pubblica.

- La discussa Legge afgana, p.es., sui doveri coniugali della moglie del maggio 2009 è evidente: in essa si fissa che il marito ha diritto al rapporto coniugale almeno ogni 4 giorni… Al di là dell’approvazione o meno della Legge, conta la sua –richiesta e– proposizione di principio: anche la frequenza del rapporto sessuale coniugale può voler/dover esser definita per Legge, diventando così un ‘diritto’ di cui esigere anche in Tribunale la garanzia e la fruizione.

- Non diverse sono le considerazioni da farsi nella (civilissima) Europa post-cattolica a riguardo delle discriminazioni sessuali, ultimamente oggetto di normativa comunitaria in tema di c.d. omofobia, oppure circa la decadenza delle ‘classificazioni’ dei comportamenti sessuali ‘secondo’ o ‘contro-natura’, l’identificazione sessuale dei ‘genitori’, quali padre e madre… ecc.

- Di più, si continua ad assistere nel mondo alla nascita di ‘partiti politici’ a sfondo espressamente sessuale: quello pedofilo olandese, quello del sesso australiano (in realtà ‘secondo’ a quello “dell’amore” nato in Italia nel 1991)… nei cui ‘programmi politici’ è costitutiva la finalità di intervenire nell’ambito legislativo per normare in modo diverso dall’attuale la materia in questione.

Aveva pienamente ragione, dunque, Hobbes quando osservava che «non veritas facit Legem» …peccato non avesse visto che in realtà la Legge non venisse neppure dall’auctoritas come tale ma dal consensus populi di cui ogni autorità necessita per potersi sostenere al proprio posto: esattamente quanto già indicato come ‘legittimazione’ del potere.

Non meno significativa a proposito del rapporto società-cultura-Diritto appare la sommaria ricostruzione dell’attuale nascita di un diritto/right, lucidamente offerta da V. Ferrari:

«prima si avverte una privazione e […] questa sensazione può essere particolarmente acuta quando l’oggetto desiderato che ci manca è da altri pacificamente goduto o perfino monopolizzato. Se non si rinuncia alla lotta, si apre allora il processo sociale sintetizzabile con tre participi presi liberamente a prestito da un noto articolo dedicato alle “fasi del processo: «naming, blaming, claiming». Anzitutto si dà un nome a ciò che ci manca. Spesso quel nome c’è già, si tratta solo di farlo proprio e sottrarlo al monopolio altrui: è lo schiavo che vuole essere libero, la donna che reclama il diritto di voto. Indi, possibilmente unendo coloro che condividono questa condizione deteriore e dando vita a un gruppo di pressione, poi a un gruppo di conflitto, si passa a “biasimare” pubblicamente quella condizione. I sindacati, i partiti, i movimenti femministi, e poi i gruppi di tutela degli omosessuali, dei minori, degli invalidi, dell’ambiente e via dicendo, sono nati così, per rendere pubblica una condizione percepita come ingiusta. E in fine si agisce, si indirizza un claim, un’istanza, nella sede opportuna, che può essere un Parlamento come pure una Corte di giustizia nazionale o internazionale: molti claims italiani, per esempio, son dovuti passare per la Corte costituzionale, per la Corte europea dei diritti per la Corte di giustizia delle Comunità europee, prima di essere accolti contro la resistenza a volte accanita delle nostre istituzioni politiche». 

3.3 Attuale funzione/concezione della giuridicità

Ciò che sta accadendo appare solo il sintomo più marcato di un profondissimo sconvolgimento ontologico e strutturale ormai irreversibilmente in atto a seguito della c.d. caduta delle ideologie e della connessa progrediente –vera e propria– messa al bando delle ‘religioni’ e delle stesse culture (da esse non indipendenti!) in ambito sociale, politico e, pertanto, anche giuridico.

Di fatto oggi, in Occidente, si danno per scontate sia la presenza che l’azione di uno/questo ‘Stato’, sia le sue competenze in qualche modo costitutive ed irrinunciabili e non più oggetto di discussione nel proprio essere ‘dovute’ …salvo constatare che il concetto e la funzione dello Stato sono radicalmente ‘altro’ nell’Europa mediterranea, in quella continentale o settentrionale, negli Stati Uniti, soprattutto per quanto concerne il rapporto Stato-società. Non per nulla ogni tanto si assiste a ‘risvegli’ della c.d. società civile proprio contro ‘questo’ Stato e le sue logiche autofondanti e, non di meno, le logiche ‘comunitarie’ (europee) sembrano perseguire finalità ‘ulteriori’ rispetto ai postulati stessi di legittimità ed esistenza degli Stati stessi …superiorem non recognoscentes …così, almeno, quelli nati in Europa dal XVI sec. e ‘riconvertiti’ sui presupposti liberali alla fine dell’800.

A questi Stati –ormai funzionalmente ‘maturi’– che parrebbero aver già esaurito i propri compiti ordinamentali rispetto al ‘sociale’ s’indirizzano oggi altre richieste che riguardano ormai competenze da sempre proprie dell’ordinamento ‘culturale’ …ed anche ‘spirituale’, che –di per sé– ne costituiscono, invece(!), le meta-referenze antropologiche: la stessa possibilità d’essere.

Proprio qui, tuttavia, si pone una questione attuale e futura assolutamente inedita, nell’ultimo millennio almeno: le meta-referenze [1˚ livello] spirituale e [2˚ livello] culturale stanno subendo un sostanziale ‘risucchio’ all’interno del [3˚ livello] istituzionale che le riduce al [4˚ livello] giuridico, offrendole in pasto al [5˚ livello] legislativo, per via ‘politica’.

Il fenomeno, per quanto non appaia di primaria evidenza ai più, non riesce però a giovarsi di un perfetto mimetismo, al punto che se ne possono individuare e ‘come’ descrivere con una certa precisione le principali tappe.

a) L’elemento ‘spirituale’ (la Weltanschauung esistenziale) di originaria portata ‘antropologica’ è stato ormai ridotto dalla cultura radicale dominante (tanto delle diverse destre che sinistre) a fattore semplicemente ‘culturale’ da tutelarsi solo in quanto ‘minoranza’ (etnica?) …in nome di un non meglio definito principio di pluralità (com’è in uso per il ‘valore’ della “bio-diversità” e pittoreschi criteri analoghi, in cui il ‘diverso’ vale solo in quanto ‘diverso’: come in un immenso giardino zoo-antropologico).

b) L’elemento/fattore culturale, a sua volta, è ormai divenuto puramente ‘decorativo’: una utile variante ‘estetica’ …un ‘tocco di colore’ (folklore) rispetto all’insostenibile grigiore di un vivere sociale ormai asservito alle sole logiche della macro produzione-consumo industriale.

c) Tale dissolvimento delle meta-referenze strutturali della socialità a monte dell’Ordinamento socio-istituzionale trasferiscono all’elemento/fattore istituzionale (a maiori ad minus) anche l’inevitabile compito della qualificazione esistenziale di quanto accade tra gli uomini in quel villaggio globale che è ormai il mondo intero. In tal modo, però, la funzione assiologica (etica e morale), di per sé del tutto estranea alla istituzionalità, le viene invece attribuita con tanta maggiore inevitabilità e forza quanto maggiore è la deprivazione culturale (prima) e spirituale (più in radice) di cui l’attuale società stessa si è resa ormai protagonista, misconoscendo che Morale ed Etica si fondano –reciprocamente– nella cultura e nella spiritualità. Ne deriva una giuridicità pervasiva e pressoché totalizzante la relazionalità socio-istituzionale.

d) A questo punto, però, l’elemento/fattore giuridico (idealista, moderno) interpreta e gestisce inevitabilmente l’Ordinamento socio-relazionale in termini puramente imperativi, riducendolo al Diritto come ‘norma’. Il fatto che essa non sia più individuale-autoritaria (in quanto ‘data’ da un’Autorità unipersonale, sia sacrale, che illuministica o romantica), ma condivisa/invocata attraverso il suffragio popolare, completa l’opera di ‘eticizzazione’ dello Stato-Diritto-società ormai pienamente auto-referenziale e senza più alcun limite alla propria pretesa onnicomprensività ed onnicompetenza socio-esistenziale.

e) Non di meno, l’inevitabile pluralità di reali sistemi valoriali (spirituali e culturali, come p. es., l’Islam mostra bene di essere) e sociali (come sono ormai la maggioranza degli Stati contemporanei) sta forzando ogni cosa verso la standardizzazione legale, che ‘sterilizza’ ogni realtà veramente esistenziale riducendo ogni possibilità/aspirazione di vita ad un mero ‘protocollo’ ipocritamente ed ideologicamente super partes (in realtà: super personas!) …attraverso cui ci si alimenta, ci si cura, ci si fa –anche– morire.

Ciò comporta tuttavia che, man mano le possibilità di qualificazione esistenziale del vissuto (senso/significato/valore esistenziale) di cui una collettività dispone si allontanano dalle proprie ‘origini’ più autentiche: Morale (Cultura), Etica (Spiritualità), l’inevitabile compito ‘qualificativo’ del vissuto –anche individuale– venga progressivamente trasferito all’Ordinamento giuridico (e da questi allo Stato o alla ‘Comunità’ sovra-nazionale), in una dinamica regressiva che porta gli ‘ordinamenti’ spirituale, culturale, istituzionale, a coincidere/identificarsi con quello giuridico… spesso destinato, a sua volta, a trasformarsi in Ordinamento puramente ‘legale’ …incapace, tuttavia, di bastare a se stesso ed in potenziale auto-conflitto. Le vicende che pongono oggi seri problemi ai bilanciamenti di ‘competenze’ –ma più ancora di fondamento e limiti– tra i cittadini dell’Unione europea, la “Corte europea dei diritti umani” e gli Organismi dell’Unione come tale, evidenziano l’incongruità anche pratica di tali riduzionismi.

D’altra parte, è lo stesso concetto di ‘ordinamento’ a supporre una ‘gerarchia’ valoriale tra i diversi elementi che lo costituiscono ed integrano: una gerarchia data –appunto– per ‘qualificazione’ esistenziale.

Maggiore è lo spessore e la consistenza valoriale/assiologica/ideale di cui è dotata la collettività da ‘ordinare’ (Morale, Etica), minore saranno le richieste poste all’Ordinamento giuridico (com’è di fatto per il Diritto canonico); minori saranno gli elementi assiologici/ideali della collettività in questione, maggiori saranno le sue richieste o concessioni all’Ordinamento giuridico come tale onde averne sicurezza, protezione, stabilità …fino allo Stato ‘etico’ (non solo dittatoriale, ma anche democratico-populista) che decide per Legge che cosa sia bene e che cosa sia male… chi vive e chi muore.

In tali situazioni, però, il Giudice finisce inevitabilmente per tutelare la posizione del più forte (il Tutore che chiede la soppressione del ‘pupillo’), così come anche risulta essere il ‘protocollo’ che –applicato correttamente– porta al ‘decesso’ di chi l’Ordinamento legale gli ha –però– assoggettato.

Spiritualità e Legge appaiono così i due estremi di una sorta di pendolo deontico tra i quali oscillano i diversi tipi/gradi di ‘ordinamento’; la giuridicità costituisce una sorta di ‘dato medio’ tra i due estremi: la zona mediana in cui il pendolo stesso indugia più a lungo …pur propendendo a volte verso la spiritualità più che verso la Legge o viceversa.

3.4 Fondamento e limiti

Ciò che oggi –ideologicamente– pare sfuggire alla maggioranza è come il ‘fondamento’ del Diritto gli rimanga comunque esterno, costituendone di fatto intrinsecamente anche il limite strutturale …e condizionando irrimediabilmente la stessa consistenza degli Ordinamenti giuridici.

Di fatto –come in un ‘perimetro’– la loro ‘origine’ coincide con la loro ‘fine’ …il motivo di sussistenza col limite proprio: esattamente come un ‘confine’, che delimita uno spazio preciso la cui estensione non cambia entrando o uscendo …il confine rimane lo stesso! È, infatti, chi ‘fa’ il Diritto a stabilirne le ‘dimensioni’, le materie e la profondità esistenziale …ed il livello di intrusione all’interno delle vite e delle coscienze dei singoli. Non di meno, il Diritto non fa altro che ‘condensare’ in modo organico e strutturare tecnicamente ciò che l’Ordinamento giuridico è in grado di offrire nel solo ambito socio-relazionale ai sottostanti ordinamenti sociale, istituzionale, spirituale.

Ma sono proprio le coscienze –personali e collettive– che decidono per il genere, l’intensità e la stabilità della qualificazione esistenziale del vissuto o vivibile umano: le ‘credenze’, come le chiamava Max Weber.

Sono le coscienze che accettano o rifiutano tali qualificazioni esistenziali …le invocano (come desiderabili) o le respingono (come ripugnanti).

Sono le coscienze che accettano di sottoporre questa o quell’altra materia, o suoi elementi specifici, alla valorizzazione giuridica piuttosto che a quella morale o a quella etica.

Antigone, dovendo optare tra il fratello e la Legge, non fa un ragionamento giuridico ma ‘di coscienza’ (esistenziale ed etico): Polinice è comunque suo fratello!

Cristo dovendo optare tra Cesare e Dio, non fa un ragionamento giuridico ma ‘di coscienza’ (esistenziale ed etico):  Dio è comunque uno solo!

Non è pertanto la ‘denominazione’ o la ‘consistenza’ della norma a fare il Diritto, ma la ‘libertà’ che le si lascia di raggiungere la propria vita più intima …lasciando che i suoi artigli penetrino laddove più forte diventa il dolore, perché più chiara è la percezione della persona e della sua irrinunciabilità: ciò che chiamiamo “dignità umana”… o semplicemente “Etica”.

Tanto meno la persona sarà disposta a lasciarsi scarnificare nella propria intima dignità dal Diritto/Legge, tanto minore sarà la portata dell’Ordinamento giuridico ed ampio il suo limite; tanto più –invece– il Diritto potrà insinuarsi nell’esistenza personale, tanto più esteso sarà l’Ordinamento giuridico e risibile il suo limite… e la dignità umana residua.

Ciò, tuttavia, in una pura dimensione esistenziale: l’unica davvero capace di ‘qualificare’ ciò che si ‘fa’ (=gli uomini fanno) sotto il sole.

È in questa prospettiva che, trattando degli Ordinamenti giuridici, si dovrebbe porre dapprima il tema dei loro ‘limiti’: quali ambiti, cioè, e quali elementi del vissuto concreto la persona non possa demandare al ‘giuridico’… né tanto meno alla Legge. Solo avuta piena cognizione della loro effettiva portata ed estensione (i limiti) si potranno individuare adeguati e –solo– sufficienti elementi di ‘fondamento/legittimazione’, sempre comunque esistenziale per gli Ordinamenti stessi.

Questa, in realtà, è l’esperienza universale vissuta dall’umanità, nel percorso che ha sempre visto dipendere la concreta qualificazione esistenziale del vissuto/vivibile innanzitutto dall’elemento spirituale (valorizzazione etica) attraverso totem e tabù (fas/nefas), oppure culturale (valorizzazione morale) attraverso usi e costumi (licitus/illicitus), per giungere –ben tardi– a quello istituzionale (valorizzazione giuridica) attraverso permessi e divieti, ben presto sfociato in quello giuridico e legale: Iura et Leges.

Proprio tale processo però, in una parte del mondo attuale, pare ormai giunto al proprio epilogo a causa dello schiacciamento generale del vissuto/vivibile sull’elemento giuridico/legale, dovuto alla negazione tanto della componente spirituale-etica che di quella culturale-morale, generata dall’a-religiosità ed a-moralità introdotte e fomentate dalla cultura radicale che da qualche secolo imperversa nel mondo europeo.

L’ormai costitutiva assenza di principio dei ‘limiti’ degli Ordinamenti giuridici li rende, così, totali e totalizzanti: nuove divinità informi ed impersonali (‘protocolli’) che impongono l’obbligo di non-qualificare esistenzialmente (‘giudicare’) nulla di ciò che la persona, invece, ha sempre cercato di ‘conoscere’ e ‘ri-conoscere’ proprio per averne identità, sicurezza, supporto e stabilità …accontentandosi anche –extremissima ratio– del Diritto stesso.

3.5 I limiti invalicabili dell’Ordinamento

Proprio a questa irrinunciabile prospettiva di qualificazione spirituale-etica e culturale-morale dei comportamenti socio-relazionali si deve storicamente l’intuizione circa i c.d. Diritto (divino) naturale e Diritto divino (positivo), quali limiti assiologici puramente ‘negativi’ –e non contenutistici(!)– alla progressiva identificazione dell’ordinamento spirituale, culturale, istituzionale, con quello giuridico e poi legale.

Chiamati “Diritto” ma senza esserlo ontologicamente, poiché necessari meta-referenti del giuridico e del Diritto …chiamati –analogicamente– “Diritto” per opporsi comunque alla pari alla concettualizzazione del Diritto stesso …chiamati –impropriamente– “Diritto” per poterli addurre legittimamente (sic!) nelle (in)adeguate sedi legislative quali limitazioni invalicabili al Diritto stesso.

Diritto ‘naturale’ e ‘divino’ (come oggi vengono chiamati in modo non corretto) operano infatti come una sorta di zavorra ontologico-deontica che, conferendo maggior peso specifico, alle dimensioni spirituale-etica e culturale-morale tendono a mantenere al di fuori dell’area d’influenza dell’Ordinamento giuridico (e quindi del Diritto come tale e poi della Legge) i principi primi di valorizzazione esistenziale del vissuto e vivibile umano, rivendicando nella società –non meno che contro di essa, se/quando necessario– il valore intangibile della singola persona che mai può legittimamente essere data in pasto all’Ordinamento giuridico né, tanto meno, al Molok del Diritto/Legge.

Purtroppo la concezione assolutamente autoreferenziale e positivistica del Diritto perseguita ancor oggi da molti –soprattutto non-giuristi– ha contribuito alla espressa ‘contenutizzazione’ (in realtà solo pretesa, poiché inattuabile!) tanto del ‘Diritto naturale’ che di quello ‘divino’, facendone quasi vere e proprie ‘Leggi’ (divine) …convinti che solo così si possa resistere alle Leggi (umane) stesse. Questo, tuttavia, porta con sé il gravissimo rischio di ritenerli davvero ‘Legge’ e ‘Diritto’ come gli altri, ponendoli inevitabilmente sullo stesso tavolo delle trattative e dei diversi compromessi d’interesse, com’è, d’altra parte, tutta l’attività legislativa occidentale dalla Rivoluzione francese in poi.

È, invece, assolutamente necessario mantenere questi ‘elementi assiologici’ al di fuori di qualunque deriva riduzionistica verso la giuridicità intesa come Diritto/Legge (positiva), al fine di continuare a distinguere con forza e lucidità l’estrema differenza tra i diversi livelli di ordinamentalità socio-relazionale, strappando la definizione dei ‘valori’ alla pura attività giurisdizionale, legislativa e convenzionale/contrattuale cui oggi è ridotta …spesso proprio in sede giurisdizionale.

L’accettazione, per contro, della concettualizzazione di giuridicità/Diritto proposta ed argomentata in questa sede offre la grande chance di mantenere la funzione tutoria, limitativa, del ‘Diritto naturale’ e ‘divino’ al proprio corretto posto, proprio quale –originaria– frontiera che impedisca il risucchio dell’intera società nella sola Legge.

CONCLUSIONI

La prospettiva –solo in parte ‘ardita’– qui proposta, permette di ‘illuminare’ in modo diverso un panorama ormai –solo– presuntamente ben conosciuto.

La nuova ‘luce’, pur non potendo pretendere di surrogarsi alla miriade di illuminatori già attivi, aiuta tuttavia a porre in risalto una serie di particolari –si ritiene non banali– la cui accurata considerazione potrebbe, forse, risultare significativa per ‘rintracciare’ indizi del tutto decisivi per ‘risolvere’ il caso Diritto/giuridicità …come quando alla ‘luce’ ordinaria si affianca o sostituisce quella dei raggi infrarossi, capaci di ‘vedere’ anche il calore e le sue gradazioni e non solo le ‘forme’ ed i colori che già ad occhio nudo chiunque può individuare.

 Questione che continua ad erodere impercettibilmente le basi stesse della Canonistica attuale, continuando a mantenerla al di fuori dei contesti giuridici ordinari, senza plausibili possibilità di comunicazione e scambio teoretico.