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L’Autotutela amministrativa come supplemento di conoscenza: la Remonstratio canonica (Cann. 1732-1734 CIC)

PREMESSA

Quanto già sommariamente accennato in occasione della quarta “Giornata canonistica interdisciplinare” del marzo 2009 al riguardo della necessaria revisione generale dell’impostazione amministrativistica canonica, trova nella presente circostanza un’opportunità teorico-pratica di specifico rilievo proprio per la possibilità di porre in evidenza come il cambiamento del ‘fulcro’ della teorizzazione sistematica (o dogmatica) di una Disciplina scientifica –com’è anche il Diritto amministrativo canonico– ne possa mutare (e di fatto ne muti) radicalmente l’intera concezione, oltre che lo sviluppo e le ricadute …anche operative, al punto da poter anche evidenziare (nelle loro specifiche peculiarità) veri e propri –‘nuovi’ (in quanto autonomi)– Istituti giuridici.

Già si accennava in quella sede alla necessità di offrire una visione positiva del Diritto amministrativo canonico capace, cioè, di muoversi

«in vista di un ‘risultato ecclesiale’ da raggiungersi in modo stabile e stabilizzante la vita ecclesiale stessa, conferendo maggiore importanza al buon rapporto tra Istituzione e fedeli invece che ad una –improbabile (?)– ‘tutela’ di diritti soggettivi di singoli, la cui enfatizzazione in chiave tutoria rischia di offrire un’immagine negativa del Diritto amministrativo canonico facendone –in fondo– uno strumento di rivalsa e contestazione, sbilanciando i diversi ragionamenti e le questioni su base rivendicatoria e conflittuale, finendo per porre al centro –anche involontariamente– il contenzioso amministrativo».

Un approccio positivo che, per parte sua, si fonda sulla specifica attenzione posta [a] alle persone che entrano concretamente in gioco e che –comunque– decidono di assumere valutazioni, decisioni, conseguenze, dell’agire proprio e di altri fratelli nella fede e nell’appartenenza ecclesiale, prima che [b] a cose (=realtà/elementi) –sempre ben poco individuabili– quali sono, in effetti, ‘diritti’ o ‘Procedure’ …o anche solo ‘concetti’ come, p.es., quello di ‘legittimità’.

Adeguati ‘presupposti’ del decidere nella Chiesa, come quelli oggetto della presente occasione di riflessione, possono offrire il quadro corretto all’interno del quale riformulare l’intera materia in modo organico ed integrato senza farne, al contrario, una sorta di nicchia riservata a pochi addetti ai lavori ed esclusa dal generale contesto ‘dogmatico’ di riferimento (e ‘fondazione’) dell’Ordinamento canonico come tale: l’ancora tanto debole “Teoria generale del Diritto canonico” alla quale, con le “Giornate canonistiche interdisciplinari”, intendiamo offrire crescente portata e spessore.

1. IL GOVERNO ECCLESIALE E LE SUE DECISIONI

1.1. Concetto e finalità

La prima consapevolezza da cui deve strutturalmente muoversi ogni riflessione che riguardi oggi il governo ecclesiale riguarda la sua stessa identità ed identificazione: in che cosa, cioè, esso consista realmente, al di là dei vari desiderata ed auspici delle diverse teorizzazioni individuali e ‘di scuola’ proposte dalla dottrina.

La necessaria prospettiva storica (evidenziata anche dogmaticamente dagli apporti ecclesiologici del Concilio Vaticano II) non lascia dubbi nell’affermare che il governo ecclesiale ha una sostanziale funzione di organizzazione, gestione e coordinamento delle risorse –personali e materiali– di cui la Chiesa dispone per l’adempimento della propria –costitutiva– missione di annuncio del Vangelo; risorse articolate su base principalmente territoriale (attraverso le c.d. Circoscrizioni ecclesiastiche, in primis le Diocesi) ma anche istituzionale (attraverso le diverse forme di vita consacrata ed altre ‘Universitatespersonarum aut rerum).

A questo primo dato ‘dogmatico’ se ne affianca irrinunciabilmente un altro non meno costitutivo –ordinariamente trascurato dalla dottrina, ma prevalente nel vissuto ecclesiale– circa la concreta identità di tali ‘risorse personali’: coloro, infatti, che operano nella Chiesa e per essa a livello sia ‘organizzativo’ che ‘gestionale’ mettono spesso a disposizione di tale scopo tutta la propria esistenza (clero e consacrati) senza che sia più possibile una vera ‘alterità’ tra la persona come tale e lo status/Ufficio/ministero ecclesialmente ricoperto, assunto di fatto tanto come “ragione” che vera e propria “condizione di vita” con cui ci si identifica completamente: quanto normalmente individuato come “identità di ruolo”. Pur senza voler qui re-introdurre artificiose dicotomie teoretiche e contrapposizioni intra-ecclesiali connesse agli status dei fedeli è però necessario evidenziare come la ‘qualità’ ed ‘intensità’ dei legami con l’attività di governo ecclesiale rimanga radicalmente differenziata tra laici (da una parte) e chierici-consacrati (dall’altra). Questi, infatti, non pongono a disposizione della missione ecclesiale (cattolica) soltanto –e parzialmente– tempo e qualifiche ma la loro stessa esistenza, investendo in tale missione la totalità della loro vita. Ciò costituisce senza dubbio un elemento di grande importanza e radicale differenza rispetto alla maggior parte delle ‘altre’ forme di gestione delle risorse umane conosciute ed attive nelle diverse tipologie di attività/convivenza umana. Le risorse personali maggiormente attive all’interno della Chiesa cattolica, infatti, non sono semplicemente ‘umane’ ma primariamente ‘esistenziali’: non si tratta, cioè, di espressioni ‘parziali’ dell’esistenza personale (come accade solitamente in ambito lavorativo o professionale, cui ci si dedica per –anche molte– ore …o anche nel c.d. volontariato) ma di espressioni ‘totali’ e totalizzanti dell’intera esistenza personale …di cui il ‘celibato’ ecclesiastico e consacrato esprime –intenzionalmente e– riassuntivamente la consistenza e la portata. Il rapido mutamento della società europea verificatosi negli ultimi quarant’anni con la drastica riduzione numerica sia del clero che dei religiosi e consacrati in genere mette in chiara luce l’importanza anche strutturale (assunta e configuratasi lungo i secoli) di tali risorse esistenziali per il compimento della missione stessa della Chiesa, soprattutto laddove la loro ‘sostituzione’ con –non meno ‘qualificato’– personale dipendente evidenzia comunque una effettiva differenza, sperimentabile a vari livelli… La massiccia attività missionaria e ‘sociale’ del secolo XX ad opera di consacrati (come: Comboniani, Saveriani, Clarettiani, Padri Bianchi… oppure: Salesiani, Dehoniani, Fratelli delle scuole cristiane…), non di meno, l’ha evidenziata anche ai fini della stessa missio ad gentes, in sé radicalmente diversa dalle più contemporanee attività di “sostegno allo sviluppo” che ad esse si sono gradualmente affiancate (quando non anche sostituite, almeno da punti di vista ‘funzionali’ come la scolarizzazione e la sanità).

Ciò, quindi, che in massima parte il governo ecclesiale coinvolge e riguarda (da sempre) non consiste soltanto [a] in ‘attività’ o ‘funzioni’, né [b] in Organi, Organismi o Istituzioni –né tanto meno in ‘diritti’– ma [c] nell’intera vita di persone totalmente dedite alla missione evangelica ed ecclesiale. Non di meno ciò vale anche –seppur con diversa modulazione– a riguardo degli ‘oggetti’ cui s’indirizza l’attività/missione ecclesiale: Parola di Dio e Sacramenti in primis. Anch’essi, infatti, poiché riguardano non lo stipendio, la carriera, la fama, gli affetti, la cultura, la professione, le relazioni, la casa, la salute… ma l’onniprofessata(!) “salus animarum”, hanno come effettivi destinatari/referenti le stesse persone (tanto fedeli che ministri/consacrati), nella globalità ed indivisibilità della loro esistenza …anche ultraterrena.

Ecco perché non deve risultare velleitariaimmotivata la volontà espressa –e radicale– di porre quale ‘fulcro’ e ratio dell’intero Diritto amministrativo canonico –e della correlata attività amministrativa ecclesiale– l’esistenza personale del Christifidelis (ogni, ciascuno e tutti) …anziché [a] l’attività –più o meno legittima– di una “Pubblica Amministrazione Ecclesiastica” sempre comunque ‘altra/trascendente/prescindente’ rispetto a tale unica realtà evangelicamente significativa, oppure [b] «la giustizia della funzione amministrativa nell’esercizio del potere e nei rapporti con gli amministrati». Si tratta, infatti, della necessità ormai irrinunciabile di reagire con forza all’uso di linguaggi e categorie concettuali nei quali le Decisoni/Atti di governo ecclesiale che –quasi esclusivamente– ‘dispongono’ in modo totalizzante della vita di persone (consacrate a Dio! Nella ed attraverso la Chiesa) sono trattate attraverso le stesse concettualizzazioni (presupposti e logiche) del ‘Procedimento’ (civile) per ottenere l’autorizzazione –amministrativa– ad aprire una …pescheria …o contestarne il diniego.

Solo dopo aver sommariamente delineato questo nuovo contesto dogmatico-ordinamentale sarà possibile trattare adeguatamente anche singole istanze tecniche come, nel presente caso, la c.d. Remonstratio, della quale si potranno evidenziare –ex novo– consistenza ed autonomia ratione personarum e non solo ratione regiminis/legalitatis.

Soccorre in questa prospettiva quanto già espresso, proprio in sede amministrativistica, dal Cardinal Velasio De Paolis:

«di che cosa parla il giurista? Di Diritto, ovviamente; ma non solo di Diritto. Parla anche, e soprattutto, dell’uomo. Ma quando si parla dell’uomo si comincia ad entrare in un discorso di cui forse si conosce l’inizio, ma di cui di certo non si può conoscere la fine: per quanto tu cammini, i confini dell’anima non li puoi trovare, diceva Eraclito. Chi inizia a parlare dell’uomo parlerà dei suoi bisogni, delle sue pretese delle sue speranze. E giungerà, prima o poi, a parlare delle sue nostalgie dei suoi desideri dei suoi sogni, delle sue utopie. E inevitabilmente, quindi  delle sue speranze e del suo destino. E arriverà alla fine a parlare della sua salvezza».

1.2 Un nuovo governo ecclesiale

La prospettiva già espressa circa la funzione di organizzazione, gestione e coordinamento delle risorse di cui la Chiesa dispone per l’adempimento della propria missione kerigmatica, in cui consiste e si concretizza strutturalmente il governo ecclesiale (quale peculiare espressione formale della c.d. Pastorale), non lascia –con evidenza– nelle mani dei suoi ‘titolari’ (la c.d. sacra Gerarchia) ambiti e spazi di competenza ed operatività –tanto– ampi quanto si potrebbe pensare …e per lunghi secoli si è presunto (e gestito) e come ancor oggi rimane –almeno in parte– sotteso al concetto di “giustizia amministrativa” (da rivendicarsi) nei confronti dell’attività di una (sempre in qualche modo terza/estranea) “Pubblica Amministrazione Ecclesiastica” (individuabile quasi sempre nei c.d. Superiori).

Se il governo ecclesiale, infatti, si esplica in una sostanziale attività di discernimento nell’attribuire e conferire a singoli Christifideles i vari munera/ministeria di cui la Comunità dei discepoli di Cristo (che ‘questa’ è la Chiesa!) ha necessità –o da cui potrebbe ragionevolmente trarre utilità o giovamento–, il vero baricentro della c.d. potestas (o della ‘giurisdizione’ in senso ampio) non può che individuarsi proprio nella specifica responsabilità di stabilire ‘definitivamente’ ‘chi’ e ‘come’ debba impegnarsi per conseguire il risultato ministeriale/pastorale in oggetto che, per quanto affidato specificamente a ‘singoli’, rimane comunque di ‘pertinenza/competenza’ totale ed esclusiva della Chiesa come tale, tanto nella sua destinazione che realizzazione.

In tal modo le “Decisioni di governo” che riguardino e coinvolgano direttamente i Christifideles come tali nel loro vivere in Ecclesia, incidendo sostanzialmente sul loro status o sulle sue implicanze/conseguenze esistenziali (chierici, religiosi, sposati, ecc.), si profilano e configurano –ben prima che ‘dispositive’– come essenzialmente operative: volte, cioè, al conseguimento specifico di determinati ‘risultati’ o all’intrapresa di determinate attività immediatamente o indirettamente ‘pastorali’ (Culto, evangelizzazione, carità) senza, in effetti, poterle ‘qualificare’ come specificamente personali in riferimento ai loro diretti ‘destinatari’, rispetto ai quali permane –e deve sempre presumersi– una sostanziale ‘alterità’ funzionale (almeno ex parte Institutionis), individuata e formalizzata di fatto dal concetto lato di ‘Ufficio ecclesiastico’ (Can. 145) o anche di ‘Ministero’. Una cosa, infatti, è il Ministerium/Officium affidato, altra cosa sono la persona e vita del discepolo di Cristo a cui lo si affida! Non di meno, oggi, sia [a] il ricupero della dimensione prettamente ‘comunitaria’ dell’attività ecclesiale che [b] la connotazione personalistica della sua concreta attuazione pongono in palese evidenza l’irrinunciabile necessità di applicare anche nel governo ecclesiale il principio “del minimo mezzo” nell’impiego delle ‘risorse’ disponibili; superando finalmente la presunta componente di espresso forum conscientiæ che fino al Vaticano II si presupponeva contenuta ed espressa nei c.d. comandi dei Superiori: le –ancor oggi– dette “obbedienze” con cui si qualificavano anche spiritualmente (per il grave ‘costo’ ascetico/esistenziale spesso comportato) tali atti di vero e proprio imperio.

Se un tale presupposto non è oggi più ammissibile all’interno della Chiesa come “assemblea dei figli di Dio”, o suo “Popolo santo” (LG 8; 9; 11; 13…), in cui il sacerdozio conferito col Sacramento dell’Ordine (LG 10) è essenzialmente (=per essenza) ‘ministeriale’ (=di pubblico servizio/utilità) ed in cui la ‘potestà’, soprattutto episcopale, si presenta in modo radicalmente diverso da una –mera– quæstio iurisdictionis rispetto al semplice Presbiterato/sacerdozio (LG 21), allora –a maggior ragione– ogni Decisione/Atto in personam/vitam Christifidelium non potrà ridursi ad un mero atto d’imperio/potestà validamente e legittimamente (“rite”) emanato secondo la ‘Legge’ vigente in ogni tempo/luogo –da considerarsi per ciò soltanto ‘perfetto’–, ma dovrà essere riconosciuto e –conseguentemente– assunto come almeno ecclesialmente/pastoralmente utile dal suo ‘destinatario’ che ad esso dovrà indirizzare e sottomettere –forse/anche tutta– la propria esistenza …in riferimento al ‘dove’ vivere, ‘cosa fare’, ‘con chi’ …ogni giorno …anche per decenni. Il benvenuto superamento delle teorie sulla “potestas dominativa” (o privata) o lo “ius (privatum!) in corpus coniugis” (CIC 17, Can. 1081 §1) professate in epoca ante-conciliare non lascia più esitazioni in merito.

Se tale prospettiva troverà sufficiente accoglienza pratica, lo stesso esercizio del governo ecclesiale dovrà saper passare dalle coordinate della [a] sottomissione personale a quelle della [b] adesione personale.

Questo, però, comporta un radicale cambiamento degli elementi in gioco e della loro consistenza e portata poiché, mentre nella [a1] sottomissione personale alla volontà dell’Autorità il peso maggiore incombe al destinatario del comando (è lui che deve sottomettersi!), nella [b1] adesione personale alla stessa volontà il maggior peso compete a chi deve suscitare e motivare le proprie Decisioni (l’Autorità) affinché –almeno l’impegno per– il perseguimento del risultato possa ritenersi certo/efficace. Lo scarto tra le due posizioni è dato dalle ‘motivazioni’ che si possono o devono apportare per la Decisione/Atto adottata. Nel primo caso [a2], ancora, esse sono –state– preferibilmente ‘soggettive’ in capo al destinatario ed a lui ‘sollecitate’, nel secondo caso [b2], per contro, esse devono essere ‘oggettive’ per potersi comunicare/trasmettere dall’autore della Decisione/Atto al suo destinatario (cfr. Can. 51). Nel primo caso [a3] la motivazione (di fatto interiore) compete al destinatario che deve trarre da sé i motivi e la forza morale per realizzare quanto gli viene imposto, nel secondo caso [b3] la motivazione (di fatto esteriore) compete all’Autorità di governo che deve saperla esplicitare e condividere affinché venga responsabilmente assunta dal suo destinatario.

Ciò comporta anche una ricollocazione del fondamento e della consistenza della Decisione/Atto [a4] dalla sua ‘fonte’ [b4] alla sua ‘finalità’: non importa più tanto [a5] ‘chi’ decida ma [b5] ‘per quale fine’ lo faccia …così come poco importa ormai [a6] ‘chi’ decida e ‘chi’ attui ma [b6] ‘che’ venga attuato quanto ritenuto necessario/utile e, quindi per ciò, deciso. Il profondo stacco –finalmente– ormai esigito tra [a7] forum conscientiæ e [b7] foro esterno a riguardo dell’attività di governo ecclesiale permette oggi (e sollecita a) una sua concezione assolutamente rinnovata basata su [b8] ‘fatti’ (esterni, oggettivi, valutabili) e non più su [a8] ‘sentimenti’ (interni, soggettivi, imponderabili) …su [b9] motivazioni e finalità effettive e non più [a9] su ‘disposizioni affettive’.

1.3 L’inefficacia di governo

La nuova delineazione qui suggerita del governo della/nella Chiesa, insieme [a] al suo esercizio come corresponsabilità e discernimento, [b] alla finalità/natura missionaria della compagine ecclesiale, [c] al suo principio aggregativo comunitario, [d] al bilanciamento tra l’istanza istituzionale e quella personalistica (già illustrati in altre sedi), offrono a questo punto la possibilità d’impostare in modo radicalmente nuovo –per quanto non meno efficace– anche la gestione della c.d. patologia dell’agire giuridico ecclesiale –come tale– su cui la maggior parte della dottrina canonistica si è concentrata negli ultimi decenni in ambito amministrativo riducendo, spesso, l’intero Diritto amministrativo canonico alla –sola/prevalente– teorizzazione e gestione della sua patologia, anche secondo teorie/esposizioni non prive di ‘suggestione’ come quella, p.es., di Francesco D’Ostilio con la sua meticolosa ‘parafrasi’ del linguaggio medico. Anzi, proprio il concetto stesso di ‘patologia’ muta radicalmente, poiché finisce per (o forse inizia a!) riguardare non più soltanto gli Atti come tali nei propri –eventuali– difetti tecnici, imputabili in massima parte all’Autorità che li emette (inesistenza, nullità, invalidità, rescindibilità, inefficacia), ma la globalità del loro porsi effettivo nella vita dei fedeli, ai quali è ora riconosciuto un ruolo attivo, non tanto attraverso una loro –ipotetica(?)– ‘recezione’ (cui sono tenuti in ragione dei “vincoli del governo ecclesiastico” del Can. 205) quanto piuttosto nella loro stessa ‘concezione/formazione’, cui di fatto ancor oggi possono ‘partecipare’ –spesso soltanto– in seconda battuta: la Norma fondamentale degli Atti amministrativi, infatti, colloca proprio all’origine degli stessi l’apporto ad validitatem non solo dei diretti ‘destinatari’ ma di tutti gli interessati (Can. 50). Ciò, d’altra parte, corrisponde in pieno sia alla [a] «vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli per l’edificazione del corpo di Cristo» (LG 32; Can. 208) tra i fedeli (laici o ministri che siano) che alla [b] loro comune attività a favore del Vangelo; principi –ormai– costituzionali che non possono più rimanere privi di adeguata ‘applicazione’ tanto nella concezione che nella pratica del governo ecclesiale. Questo, tuttavia, porterebbe a dover trattare esplicitamente (e con una sistematicità qui fuori luogo) anche il tema –‘positivo’ e non ‘patologico’– del Procedimento per la formazione dell’Atto canonico… basti, per ora, prendere atto della caduta della terminologia canonica legata al concetto di “sudditanza” dei fedeli a vantaggio di una loro reale “cooperazione”.

Quanto sopra osservato sullo ‘statuto’ della Decisione/Atto di governo ecclesiale e sulla sua costitutiva ‘assumibilità’ da parte del Christifidelis che ne risulti destinatario sollecita, a questo punto, l’esplicitazione della finalità ultima del Diritto amministrativo canonico come tale: la tutela e garanzia dell’efficacia dell’agire ecclesiale, intesa come concreto, reale ed effettivo conseguimento dell’esito –ecclesiale (!)– cui tale agire s’indirizza, secondo quanto il concetto stesso di ‘efficacia’ significa e comporta: il raggiungimento, cioè, dell’esito. La derivazione, infatti, del Diritto dalla giuridicità e di questa dall’agire umano come tale porta a dover impostare questo genere di questioni non dal punto di vista degli ‘atti’ (singoli, specifici, puntuali) ma dell’agire (plurale, generale, multiforme) come tale da parte delle persone che li pongono in essere. È lo stesso approccio adottato per “conoscere-valutare-giudicare-decidere” invece che “conoscenza-valutazione-giudizio-decisione”: è solo in tal modo, infatti, che non si avranno dinnanzi azioni –intese come ‘monadi’ leibniziane o ‘accidenti’ aristotelici– ma persone che “agiscono” secondo –almeno– finalità, intenzione, conoscenza e volontà …tanto per sé che per altri.

Di fatto, al di là dei diversi modi di connettere o contrapporre tra loro, le differenti teorizzazioni dottrinali sull’imputabilità degli effetti giuridici dell’azione umana (Michiels o Robleda, per limitarsi ai maggiori), non pare più rinunciabile oggi l’incardinamento dell’agire, anche giuridico, sulla persona come tale:

«ovviamente in una concezione meramente positivista del Diritto, cioè che trova nella Legge l’unica base dell’Ordinamento giuridico, gli effetti giuridici derivano dalla Legge stessa. L’Ordinamento canonico non può accettare un tale approccio poiché il centro dell’Ordinamento è la persona, il che significa che gli effetti dell’Atto giuridico sono originariamente e primariamente in rapporto alla persona e alla sua volontà».

È dunque necessario un ‘salto’, un mutamento di paradigma, una (vera e propria) ‘conversione’, poiché non è più possibile ridurre la persona, nella sua complessità e dignità, a puro “centro d’imputazione” di effetti giuridici: essa, infatti, è la fonte stessa, l’origine (ontologica), di ogni azione …anche irriflessa, involontaria e non-intenzionale; alla persona come tale andranno, dunque, ricondotte tutte le azioni poste in essere (anche –almeno– per riconoscerne la non-imputabilità) all’interno della vita sociale/comunitaria in modo che la sua (non) intenzionalità –ben prima che la conoscenza o la volontà– renda adeguata ragione tanto dell’azione che delle conseguenze da essa perseguite. Ciò che, appunto, può a ragione essere individuato come ‘efficacia’ dell’azione stessa. In caso ‘contrario’ ci si dovrebbe confrontare con semplici “avvenimenti/accadimenti”.

Tale efficacia non va però equivocata con una mera ‘efficienza’ di governo, poiché la modalità concreta con cui una/quella determinata finalità o intenzionalità –anche la più alta da un punto di vista spirituale– venisse di fatto perseguita potrebbe avere ricadute indesiderate o imprevedibili (dirette o collaterali, immediate o successive) tali da manifestare l’inadeguatezza dell’azione stessa al conseguimento del suo ‘fine’, rendendo tale azione ‘inefficace’: non adatta/capace, cioè, di conseguire quanto propostosi dal suo autore …riconoscendo di fatto prevalente e decisiva la dimensione globale-sostanziale dell’agire rispetto a quella –semplicisticamente– singolare-formale dell’azione come tale.

Proprio al livello della modalità concreta dell’azione di governo (ecclesiale) viene pertanto a porsi –e– di principio(!) il tema della sua inefficacia: della globale-sostanziale possibilità, cioè, che l’azione posta in essere –al di là di ogni sua ‘caratteristica’– non riesca/possa raggiungere in pienezza il proprio fine, nonostante –anche– l’eventuale correttezza singolare-formale dell’azione di governo come tale (il generalmente e genericamente detto ‘Atto giuridico’). Chi “governa”, infatti (e non solo nella Chiesa), si trova in una condizione del tutto diversa da chi imparte ‘comandi’ meccanici o elettronici ad una macchina …tanto più che neppure le macchine ormai (si vedano, p.es., i computers) sono passivamente in balia di chi le ‘comanda’ …e, proprio grazie ad ‘intrinseci’ sistemi di sicurezza e ‘protezione’ in esse installati, non ‘rispondono’ a qualsiasi ‘comando’ venga loro impartito… ma solo a quelli in qualche modo previsti come ‘possibili’.

A riguardo, poi, della pretesa connessione e consequenzialità tra decisione ed azione, quasi che bastasse una Decisione/Atto di governo ‘perfetta’ sotto ogni aspetto (legale) per indurre l’inevitabile conseguente azione, non va dimenticato come ogni decisione di governo, di fatto, non ricada mai sulla realtà senza uno specifico ‘attuatore’ (=esecutore). Visto, infatti, che “decidere” non è necessariamente anche “agire”, non è possibile trascurare quanto concerne la concreta operatività intrastorica. Per quanto, infatti, il ‘legame’ tra decisione ed azione sia ‘importante/significativo’ esso però non risulta affatto ‘dovuto’ dal punto di vista ontico: si può infatti anche agire in modo irriflesso ed istintivo (=senza decisione previa) o si può non-agire affatto nonostante una previa decisione operativa (=inerzia attuativa) …a maggior ragione se la componente attuativa della decisione compete ad un soggetto diverso dal decidente. Il ‘dover-essere’ de-ontico (=che riguarda l’agire), d’altra parte, si pone sempre –rispetto a quello ontico (=che riguarda l’essere)– come semplice ‘eventualità’: mero futuribile, mai ‘certo’ né ‘necessario’ …proprio ciò che Hume contestò aspramente alla tarda-Scolastica.

1.4 Un nuovo concetto di ‘patologia’ amministrativa canonica

Assunta ormai di principio –almeno in campo di governo– [a] la non-identità tra decidente e destinatario/esecutore e considerando [b] il non-automatismo del passaggio tra volontà (del primo) ed azione (del secondo), diventa possibile –e forse addirittura necessario– riformulare lo stesso concetto di “patologia amministrativa” in modo tale che la Remonstratio, prevista dal Diritto, possa trovare specifica ‘dignità formale’ ed adeguata collocazione teoretica proprio nella ‘tensione’ strutturale tra le naturali (o “legittime”) posizioni di decidente e destinatario ma soprattutto –e spesso principalmente– tra le ‘conoscenze’ a loro reale disposizione. Dalle conoscenze che ‘sostengono’ la Decisione/Atto di governo, infatti, dipende in gran parte l’effettiva consistenza –e, quindi, l’efficacia– del Provvedimento mandato ad esecuzione.

Proprio, allora, nell’alterità delle posizioni, conoscenze e consapevolezze, di decidente e destinatario si può collocare la (solo eventuale) in-efficacia dell’agire giuridico ecclesiale ben prima di una presunta –ed immediata– violazione di ‘Norme oggettive’ (=illegittimità di cui chiedere conto) o di ‘diritti soggettivi’ (=violazioni/danni di cui chiedere tutela e/o soddisfacimento); dovendosi piuttosto supporre prima di tutto la possibile non-corrispondenza tra singolare-formale azione giuridica ‘decisa/comandata’ e globale-sostanziale realtà concreta del suo destinatario/esecutore, dovuta ad una non-sufficiente considerazione di tutti e ciascuno gli elementi (soggetti, oggetti, circostanze) coinvolti, senza che –nella Chiesa comunità di fede– un tal genere di problematiche venga immediatamente indirizzato nell’alveo contenzioso, sollecitando la contrapposizione di ‘diritti’, ‘posizioni’ ed ‘interessi’ di qualche ‘singolo’ anziché la risposta possibile alle concrete necessità delle persone (come tali) o dell’Istituzione (l’Autorità di governo), nel perseguimento dello scopo/meta ecclesiale comune …cui tutti hanno dato la propria libera adesione (tanto più quando si tratta delle implicanze/conseguenze dell’assunzione del c.d. stato di vita in chiave ‘vocazionale’, com’è per chierici e consacrati in primis).

Ne consegue che tale singola, specifica, incongruenza/incorrispondenza tra ‘azione richiesta’ e ‘realtà concreta’ (tra decisione ed azione, tra punto di vista del decidente e del destinatario) all’interno della vita ecclesiale dovrebbe potersi inquadrare entro un contesto giuridico punto differente da quello contrappositorio-rivendicatorio –concretamente presupposto dall’impostazione contenziosa– tra fedeli ed Autorità ecclesiali, proprio attraverso la sostanziale ed immediata presa d’atto della [a] esistenza di tale incongruenza/incorrispondenza, prim’ancora che una [b] “patologia” dell’Atto, ‘assumendo’ –su istanza di parte (destinataria)– l’esistenza di un ostacolo (obex) che osta alla piena realizzazione (=efficacia) di quanto deciso.

Questo, però, nelle moderne concezioni giuridico-amministrativistiche corrisponde all’armamentarium facente capo all’Istituto giuridico dell’Autotutela che generalmente l’Ordinamento concede/riconosce all’Autorità esecutiva di governo affinché le sia possibile correggere –più o meno spontaneamente– senza inutili sprechi di tempo e risorse quanto (forse) incongruamente posto nei confronti di qualche singolo destinatario.

1.4.1 L’Autotutela nell’attività amministrativa

La dottrina giuridica e la prassi consolidatesi negli Ordinamenti a maggior espressione amministrativistica (generalmente di c.d. civil Law, come l’Italia) individuano l’Autotutela come «quella parte di attività amministrativa con la quale la stessa Pubblica Amministrazione provvede a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, insorgenti con altri soggetti, in relazione ai suoi Provvedimenti od alle sue pretese», senza che l’attenzione (canonistica) possa fissarsi specificamente sulle ‘parti’ in gioco quanto, maggiormente, sul fulcro dell’Istituto stesso: l’intervento esecutivo immediato di chi ha posto l’Atto in questione (o ha autorità su di esso come tale). La dottrina in merito, non di meno, tende a non dilungarsi sulle questioni di ‘soggettivizzazione’ e legittimazione degli intervenienti quanto piuttosto ad illustrare fondamenti e dinamiche dell’Istituto stesso.

Tre le forme d’esercizio dell’Autotutela: [a] spontanea, allorquando l’Autorità esecutiva esercita spontaneamente il potere di autotutela; [b] necessaria, in riferimento al vasto campo dei controlli; [c] contenziosa, che coincide con il settore dei Ricorsi amministrativi; svariate anche le modalità d’intervento: Annullamento d’Ufficio, Revoca, Abrogazione, Caducazione…

Ciò che, tuttavia, merita attenzione dal punto di vista ‘dogmatico’ è la specifica natura/qualifica di “potere” attribuito all’Autotutela: chi agisce in Autotutela in realtà esercita “il potere di autotutela”, evidenziando come l’Istituto ‘appartenga’ alla struttura/funzione stessa dell’esercizio di potestà esecutiva …non meno della capacità di agire potestativamente (“Iure imperii” secondo il linguaggio amministrativistico generale) creando ‘soggezione’ nei destinatari. La natura potestativa dell’Autotutela evidenzia così il presupposto (=considerazione a priori) non tanto di eventuale “errore” nell’esercizio della potestà esecutiva (di per sé possibile) quanto invece della problematicità strutturale di conseguire sempre risultati stabili e definitivi (=efficaci). Lo stesso non succede, invece, né per la potestà legislativa nella generalità ed astrattezza delle sue previsioni, né per quella giudiziale/aria nella singolarità dei propri interventi. Proprio, invece, la potestà esecutiva si trova strutturalmente nella problematicità del conciliare, da una parte, il generale del bene comune con, dall’altra parte, il singolare di ‘qualche’ destinatario/esecutore.

Non di meno, circa l’errore nell’esercizio della potestà di governo come tale (nelle sue tre funzioni tipiche), ogni Ordinamento prevede propri rimedi tanto a riguardo di una Norma che di una Sentenza ‘sbagliata’… considerando comunque ‘completa’ –per quanto ‘errata’– l’attività in questione e concedendo ‘altre’ attività/Azioni per il suo ‘ricupero’, sostanzialmente e formalmente distinte dall’attività contestata e, soprattutto, deferite ad altro soggetto abilitato. Alla potestà esecutiva, invece, gli Ordinamenti tendono ad attribuire una sorta di ‘proroga operativa e di competenza’ tale da permettere comunque all’Autorità di governo il conseguimento in prima persona e direttamente del massimo dei risultati possibili: proprio quanto si verifica nell’Autotutela. Mentre, pertanto, un Processo ‘sbagliato’ viene necessariamente rifatto da altri, un Provvedimento di governo ‘sbagliato’ viene –potenzialmente– corretto dal suo stesso autore.

Questo nucleo costitutivo dell’Istituto, che lo rende parte strutturante dell’azione di governo come tale, è talmente denso che poca importanza finisce per assumere concretamente sia [a] l’innesco di tale attività: ex Officio (canonicamente: motu proprio) o ab extrinseco, sollecitato cioè da chi si ritiene danneggiato dal Provvedimento, che [b] la sua concreta modalità, infatti: 

«tale sollecitazione può essere rappresentata da un’istanza o domanda che viene rivolta alla stessa Amministrazione ovvero ad altra Amministrazione in senso lato ad essa sovraordinata (come avviene nell’ipotesi, assai frequente, del mero Esposto presentato al Superiore gerarchico od all’Autorità di controllo), oppure persino da un Ricorso giurisdizionale (sovente accompagnato da domanda di sospensione dell’efficacia del Provvedimento impugnato) di fronte al quale la Pubblica Amministrazione è portata a rivedere spontaneamente il Provvedimento».

1.4.2 Patologia amministrativa ed Autotutela canonica

È di fatto in questa prospettiva dell’auto-correzione/revisione, che i pochissimi elementi di Procedura amministrativa offerti dagli attuali Codici canonici muovono con decisione –ad un primo livello– mirando ad ottenere, attraverso un adeguato confronto formalizzato tra decidente e destinatario, una realizzazione efficace dell’intenzionalità originaria, tanto del fedele che dell’Autorità di governo. Proprio le ‘logiche’ specifiche dell’Autotutela permettono così di ‘integrare’ –all’interno di un contesto/rapporto ancora essenzialmente non-contrappositorio– il volontario apporto conoscitivo-valutativo del destinatario della Decisione/Atto di governo che –ora– interviene di persona sulla stessa attraverso un’Istanza di verifica a posteriori dell’inefficacia di quanto assunto dal decidente …ma –anche– ricusato dal destinatario.

Proprio quanto accade nell’Istituto giuridico della Remonstratio con cui il destinatario palesa formalmente al Superiore ecclesiale la specifica gravosità di quanto deciso a suo riguardo, in vista di una sua ‘revisione’.

Non di meno, lo stesso successivo Recursus al Superiore gerarchico (secondo livello d’intervento) non esce da questa sostanziale impostazione ‘correttiva’ della Decisione/Atto di governo, coinvolgendo un’Autorità –anche solo funzionalmente superiore– indicata dalla Legge come competente per materia e giurisdizione, alla quale si chiede d’intervenire con autorità (potestà esecutiva) nel merito della questione, decidendo se/cosa/come si debba attuare al fine di ‘risolvere’ il problema creatosi a seguito della Decisione/Atto originariamente assunta, senza che ciò –tuttavia– debba inevitabilmente esser ‘già’ qualificato come agire contenzioso.

Sarà soltanto il terzo livello, quello espressamente giudiziale, a caratterizzarsi come vero Contenzioso, quando ci si rivolgerà al Giudice (terzo per antonomasia) chiedendogli di riconoscere e definire il reale status quæstionis della situazione personale creatasi, pronunciando il Diritto tra le parti (destinatario e decidente) secondo quanto disposto dalla Legge. Non a caso l’intervento giudiziale del “Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica” riguarderà la sola legittimità d’azione delle parti e non il merito della vicenda, in modo che la sua chiusura definitiva non risulti un espresso ‘giudizio’ nei confronti dell’Autorità di governo ecclesiale (originaria e gerarchica) e delle sue motivazioni/decisioni, ma soltanto il ristabilimento del necessario equilibrio ‘fisiologico’ ecclesiale eventualmente violato. È per questo che davanti alla Segnatura Apostolica si cita quale parte convenuta il Superiore gerarchico (spesso il Dicastero romano) che non ha ‘risolto’ adeguatamente la questione e non l’Autorità (generalmente l’Ordinario proprio) che ha emesso l’Atto ‘originario’, a cui il Superiore gerarchico è di fatto subentrato vedendosi ‘trasferire’ la Decisione/Atto circa la vicenda in ragione del c.d. effetto devolutivo del Recursus gerarchico.

In quest’ottica, l’espletamento delle prime due fasi della Procedura (Remonstratio e Recursus gerarchico), non configurandosi come propriamente ‘contenziose’, può convenientemente essere inquadrato come verifica a posteriori dell’inefficacia dell’agire giuridico, proprio attraverso il formale –per quanto tardivo– coinvolgimento volontario (poiché non specificamente richiesto) di un soggetto intensamente coinvolto (=il destinatario) e precedentemente trascurato nelle proprie prevedibili(?) ragioni.

2. IL CONTESTO DELLA DECISIONE DI GOVERNO ECCLESIALE

Gli elementi sin qui addotti per indicare e ‘descrivere’ l’ambito specifico e la prospettiva generale in cui si colloca oggi –e deve collocarsi(!)– la decisione di governo ecclesiale, pur già plausibili in se stessi, possono tuttavia sottostare (non senza una certa ‘utilità’ fondativa) anche ad una sorta di ulteriore ‘verifica’ ordinamentale e dogmatica che ne riconosca –e confermi– non solo/tanto una minimale correttezza (rendendoli soltanto compatibili con l’Ordinamento canonico/ecclesiale vigente) ma l’assoluta adeguatezza che ne permetta –e forse richieda– l’adozione pregiudiziale e –in qualche modo– ‘costitutiva’ per l’intera Teoria amministrativistica canonica.

Ben prima che da astratte concettualizzazioni teoretiche (=la giustizia nella Chiesa) o da inadeguate ‘importazioni’ extra-ordinamentali (=la tutela dei diritti di singoli contro la Pubblica Amministrazione), l’elemento di confronto e verifica è dato –in modo endogeno– dagli stessi ‘Principi’ (assolutamente ‘canonici’), già citati, che hanno guidato la revisione del Codice pio-benedettino: [a] l’indole giuridica del Codice (primo Principio), [b] la miglior distinzione tra foro interno ed esterno (secondo Principio), [c] la definizione e tutela dei diritti delle persone (sesto Principio), [d] la Procedura di tutela dei diritti soggettivi (settimo Principio), all’interno di una concezione del Diritto canonico maggiormente vicina alla giuridicità che non alla Morale, in chiara discontinuità con la natura autoritaria acquisita dal governo ecclesiale soprattutto nei secoli del Medio Evo ed ancora (oggi) troppo condizionata da una concezione prevalentemente moralistica della potestà di governo che, potendo/dovendo intervenire nella vita dei fedeli “ratione peccati”, non conosceva di fatto limitazione alcuna, spaziando indifferentemente dal forum conscientiæ a quello externum e godendo nella quotidianità ‘istituzionale’ le vantaggiose conseguenze di quanto ex religionis virtute imposto ai singoli “onerata conscientia”.

La concreta ricaduta di questa situazione è ben evidenziata da chi osserva come

«in Diritto canonico, prima del CIC ’17, se talvolta si distingue tra Ricorso e Supplica non si può tuttavia affermare che il Ricorso amministrativo abbia rappresentato una autonoma figura di tutela giuridica del fedele (nota n. 688: […] Per questa ed altre ragioni può dubitarsi che sia esistito un Ricorso amministrativo in giustizia, nel Diritto canonico prima di questo secolo e si comprende la indecisione terminologica di cui soffre la dottrina)».

Forse –anche– sarebbe questa la linea dottrinale e sistematica verso cui indirizzare la corretta comprensione degli stessi –presupposti(!) e– Principi per la revisione del Codice pio-benedettino che fanno riferimento ai c.d. diritti (anche) soggettivi dei fedeli: l’esternazione a livello di ‘foro’ (come chiedeva il secondo Principio) e la conversione da morale a giuridico (richiesta dal primo Principio) di quanto per secoli ‘compresso’ (=spinto, forzato), invece, all’interno della persona (e della sua coscienza) in prevalente [b10] virtù di religione …anziché [a10] adeguatezza di governo.

Le acquisizioni ecclesiologiche del Concilio Vaticano II sui rapporti tra Popolo di Dio e gerarchia ecclesiale giocarono, così, un ruolo primario all’interno della revisione codiciale, al punto d’indurre il Legislatore canonico ad un cambio di rotta del tutto epocale a riguardo della struttura stessa della giuridicità canonica, ora maggiormente attenta alla tutela delle persone come tali (=l’umanità del terzo Principio), che non [a] all’immediata efficace funzionalità istituzionale o [b] alla necessità di evitare scandali che comprometterebbero il prestigio ecclesiale …e la sua connessa ‘autorevolezza’ morale, soprattutto a livello socio-politico-culturale.

2.1 Il nuovo principio

È noto come l’immediato post-Concilio sia stato caratterizzato sotto il profilo socio-culturale dal vero trionfo della categoria –e del vocabolario– dei ‘diritti umani’, indicati più spesso come “diritti fondamentali (della persona umana)”; la dottrina canonistica non ne fu indenne spingendo, anzi, in quella direzione lo stesso Ordinamento canonico. Tale approccio beneficiò efficacemente, dal punto di vista giuridico, anche di un’altra opzione dottrinale coeva: quella del Diritto costituzionale canonico che avrebbe dovuto prendere corpo, secondo i suoi sostenitori, nella “Lex Ecclesiæ Fundamentalis”, nonostante essa –almeno nelle sue origini– non avrebbe dovuto ricoprire questa funzione (in qualche modo ‘trascendentale’, cioè: a-priori), quanto piuttosto quella di ‘Ius communiore’ (‘paritario’, cioè: funzionale) tra i due Codices Iuris communis, latino ed orientale.

Al di là, tuttavia, della mutevole e cangiante retorica delle formule e dei concetti adottati –rigorosamente extra-canonici(!)– è necessario prendere atto di come, non di meno, la nuova mens Legislatoris canonici si sia espressamente focalizzata su di un’istanza davvero innovativa costituita dalla persona come tale, destinataria e via privilegiata dell’azione/missione ecclesiale. È ad essa, in realtà, che si riferiscono –seppur indirettamente dal punto di vista testuale– i Principi di revisione codiciale incentrati sulla “tutela dei diritti” (“delle persone” e “soggettivi”), prima in vista di una loro adeguata ‘definizione’, poi in vista della Procedura per la loro effettiva tutela.

Tale portato, tuttavia, proprio perché –finalmente– espressivo di una ‘vera’ giuridicità canonica distinta dalla Morale e dalla Spiritualità/Religione (primo Principio) ed ancorata innanzitutto al foro esterno (secondo Principio), in modo da esprimere e realizzare prima di tutto una relazione personale-istituzionale (all’interno del Popolo di Dio) piuttosto che l’esercizio –individuale– di qualche ‘virtù’, non può ridursi ad una mera individuazione di “diritti fondamentali” e/o “diritti soggettivi” dei fedeli nella Chiesa …tanto più che, proprio sotto il profilo strettamente giuridico, non è possibile identificare tra loro “diritti della persona” (per quanto ‘fondamentali’) e “diritti soggettivi” in quanto, mentre i primi sono di natura extra-ordinamentale (=pre-giuridica), i secondi sono tipicamente (intra-)ordinamentali (=quelli –diversi!– ammessi e tutelati da ciascun Ordinamento giuridico come tale); allo stesso modo –o forse, a maggior ragione– non risulta semplice sotto il profilo antropo-teologico definire adeguatamente ad uso giuridico-canonistico i “diritti fondamentali dei Christifideles”; tanto più che [a] l’espressione massima di tale ‘sensibilità’, la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, ha natura puramente ‘convenzionale’, mentre [b] le vie battute dai diversi Giusnaturalismi filosofici moderni non paiono aver portato nulla di definitivamente accettato/accettabile e, allo stesso tempo, [c] l’Antropologia teologica non li può certo considerare ‘adeguati’ come punti di partenza.

Non di meno, il fatto che la dottrina canonistica parli espressamente di “diritti-doveri” dei fedeli e, più ancora, il fatto che una parte della loro enunciazione codiciale assuma la formulazione “integrum est” (Cann. 212; 215; 299; 991; 1261) la dice lunga sulla reale consistenza ed attendibilità canonistica della dottrina del ‘diritti fondamentali’ su cui fondare, di conseguenza, la possibilità/necessità di un’adeguata tutela giuridica in ragione di una c.d. giustizia amministrativa cui l’Ordinamento sarebbe indirizzato, secondo prevalenti indirizzi dottrinali. La necessaria –per il Codice– co-presenza di diritti e doveri per gli stessi fedeli negli stessi ambiti manifesta ulteriormente la differenza tra le presunte dottrine di riferimento (‘diritti fondamentali’) e la concreta realtà canonica; lo stesso enunciato codiciale, per sua parte, utilizza la formula opposta: “de obligationibus et iuribus”, tanto per il primo che per il secondo Titolo della prima Parte del Libro II …dove, secondo la dottrina più diffusa, sarebbero contenuti gli “Statuti fondamentali” dei fedeli.

Rimandando a quanto già espresso in modo più esteso, s’intende qui richiamare sinteticamente il principio personalista che informa ormai, dagli stessi testi del Vaticano II, il pensiero cattolico anche a livello normativo e giuridico. Senza farne un “Principio inespresso” della revisione codiciale, soprattutto perché il suo ‘livello’ di collocamento è tutt’altro che ‘operativo’, esso va riconosciuto come una delle vere –poche– acquisizioni sostanziali della dottrina conciliare in ambito antropologico ed ecclesiale; ad esso si possono ricondurre con vantaggio sia [a] le esigenze di “temperanza, umanità, moderazione” del terzo Principio di revisione, che [b] i “diritti delle persone derivanti dalla fondamentale uguaglianza di tutti i fedeli” del sesto Principio, oltre che [c] la necessaria “Procedura che tende a tutelare i diritti soggettivi” del settimo Principio. Si può così osservare, proprio in base al principio personalista, come i “diritti fondamentali” delle persone e quelli ‘individuali’ (più che “soggettivi”), pur non coincidendo affatto, possano e debbano trovare all’interno dell’Ordinamento canonico la propria specifica ed adeguata tutela: i primi quali elementi ‘non-dispensabili’ e costitutivi (cfr. Can. 86, in senso ampio) che l’Autorità ecclesiale di qualunque genere e grado non può ignorare né sopprimere nei rapporti con le persone (col linguaggio d’altri tempi si sarebbe detto: di Diritto divino naturale), i secondi come ‘beni’ –anche giuridici– specificamente tutelati dall’Ordinamento canonico (Diritto umano positivo) e quindi suscettibili di appropriata tutela giuridica (intra-)ordinamentale. A quest’orizzonte personalista sarà sempre necessario –e possibile– ricondurre ogni vicenda che, purtroppo, anche nella Chiesa non riesca a trovare altra via di soluzione che il contrasto formalizzato (anche tra fedeli ed Autorità) il quale però, come già indicato, andrebbe meglio individuato come: verifica a posteriori dell’efficacia dell’Atto ecclesiale.

Non sia inutile rilevare –per di più– a questo proposito come, dal punto di vista giuridico generale, la sede ‘naturale’ di tali contrasti formalizzati sarebbe comunque quella giudiziaria/ale ‘ordinaria’ strutturalmente deputata alla tutela dei “diritti soggettivi” erga omnes… che, in quanto ‘tali’, generano vere e proprie Causæ iurium di competenza dei Tribunali ordinari e non quella ‘straordinaria’ (cioè l’amministrativa), come di fatto risulta dalla maggior parte delle teorizzazioni canonistiche in merito: nessun Giudice amministrativo, nei c.d. regimi a Diritto amministrativo, giudica di ‘Diritti soggettivi’!

All’interno, poi, di un ‘quadro’ di questo genere sarebbe necessario approfondire maggiormente la terminologia connessa al c.d. “contenzioso” in modo da metterne in più chiaro risalto la vera consistenza ecclesiale; si tratta, infatti, di un “contenzioso su” oppure di un “contenzioso con”? La differenza non è banale, poiché si sposta dalle persone (=con) alle cose (=su).

2.2 Il fondamento

Alla base della nuova situazione che l’attuale Codice latino configura per le relazioni all’interno della comunità cristiana si pone senza dubbio la rinnovata concezione del governo ecclesiale come munus e ministerium prim’ancora che come potestas e iurisdictio, in una prospettiva di vera corresponsabilità nell’unico annuncio del Vangelo e nel rinnovamento della vita concreta che ne deriva. È questa l’anima più profonda della communio, intesa non come ratio, fondamento e finalità trascendente, dell’intera vita ed attività ecclesiale ma come ‘stile’ e ‘modalità’ concreta di vivere il proprio essere Chiesa …e la sua stessa ‘condizione’ d’esistenza (cfr. Gv 17, 21: «siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato»).

Ne deriva non tanto [a] la caduta del principio gerarchico in sé e per sé a favore di una sorta di democraticismo populista ed egualitario –di fatto irresponsabile– quanto piuttosto [b] una rinnovata concezione della gerarchicità della Chiesa, interpretata non più in chiave ‘ascetica’ (=pura sottomissione ‘individuale’ all’Autorità costituita, in quanto ‘rappresentazione’ istituzionale di Dio stesso e della sua volontà) ma come ‘responsabilità organica’ nella quale ciascun fedele –suo modo et sua parte–, in quanto ‘membro vivo’ del Corpo di Cristo che è la Chiesa (Ef 4, 25; 5, 30), contribuisce con tutta la propria esistenza alla missione evangelica ed alla crescita del Regno di Dio già su questa terra (cfr. AG 21; 36; AA 2). Esattamente come avrebbe dovuto ‘essere’ e realizzarsi ab origine, secondo la Lettera agli Efesini:

«un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. […]

Ed egli ha dato ad alcuni di essere Apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere Evangelisti, ad altri di essere Pastori e Maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4, 4-7. 11-13).

In una Chiesa che è Popolo di Dio, dove l’identità e la dignità fontale è quella del Battesimo ed in cui il ministeriale sacerdotium è accolto e vissuto come munus perché i fratelli raggiungano la perfezione della propria esistenza sacerdotale, profetica e regale (Ef 4, 12) secondo l’insegnamento di S. Agostino («vobis enim sum Episcopus, vobiscum sum christianus»), l’applicazione concreta dell’irrinunciabile principio gerarchico non può più essere semplicemente ‘autoritativa’ pretendendo soggezione ad una potestà sacrale ricevuta (direttamente) da Dio (la “sacra potestas”), ma deve configurarsi come autorevole discernimento teologico e spirituale, capace d’indicare una via certa per la vita della Comunità di fede. A questo compito (munus) autenticamente ‘pastorale’, che ogni Vescovo si vede genericamente affidato nell’Ordinazione e che i (soli) Vescovi diocesani esercitano nelle Chiese particolari loro affidate, corrisponde la necessità-possibilità di ‘reggere’ il Popolo di Dio coordinando verso il bene comune tutte le risorse, soprattutto ministeriali, in esso diffuse dall’azione dello Spirito santo.

Un tale fondamento del munus regendi, se nulla toglie all’efficacia della potestà ecclesiale di governo (che rimane perciò “gerarchica”), non le permette tuttavia di esprimersi in qualunque modo –né in modi qualunque– ma esige un vero atteggiamento di corresponsabilità ecclesiale e ministeriale che non si accontenti della mera esecuzione di ‘comandi’ dati/ricevuti autoritativamente, ma sappia rendere ciascuno e tutti pienamente e responsabilmente partecipi dei bisogni, delle esigenze, delle risorse e delle prospettive della Comunità ecclesiale. Ciò vale, non di meno, anche nelle situazioni di governo non ‘gerarchiche’, come sono quelle degli Istituti di vita consacrata (e similari) soprattutto femminili, nei quali la potestas potrà non essere “sacra” ma è certamente sia effettiva che ecclesiale.

Ne deriva concretamente, a riguardo del governo ecclesiale, la possibilità/eventualità di non sapersi/potersi/doversi necessariamente riconoscere nelle specifiche, singolari e puntuali, Decisioni dei Superiori, ma di potere –o addirittura forse dovere– offrir loro ulteriori elementi valutativi per un miglior discernimento delle situazioni e circostanze ‘singolari’, in modo tale da garantire il pieno rispetto delle legittime esigenze e necessità anche dei singoli fedeli, secondo lo spirito più autentico della normatività canonica, ‘sempre’ pronta a superare quanto possa ostacolare un ‘miglior bene’ di qualcuno.

Allo stesso tempo le esigenze di certezza del Diritto ed il bene pubblico pongono tutti e ciascuno nella necessità di assumersi personalmente e formalmente (=in modo ‘pubblico’) le proprie responsabilità –tanto nel decidere che nel ‘resistere’ alle decisioni– attivando in tal modo quei livelli ‘superiori’ di discernimento che l’Ordinamento ha previsto e predisposto per le questioni concretamente più complesse, adottando anche formalità straordinarie (come quelle processuali) perché le Decisioni che riguardano la vita dei singoli possano godere della necessaria certezza morale (personale e comunitaria) ed essere ragionevolmente accettabili “in coscienza” da parte degli stessi, anche ‘contro’ il proprio interesse di parte-in-causa, quando sia evidente la reale portata ‘pastorale/ecclesiale’ della Decisione/Atto in oggetto.

Un approccio di questo tipo cambia però radicalmente l’intera prospettiva della materia che non può/deve più essere accostata sotto l’angolazione della conflittualità o della rivendicazione o della disobbedienza (sempre riprovevoli in un’ottica davvero comunitaria e di reale corresponsabilità), ma del supporto istituzionale ‘a posteriori’ alle forme di decisionalità più complesse, all’interno delle quali il ‘gioco delle parti’ e dei ruoli offre fattori ed elementi di discernimento normalmente inaccessibili al singolo come tale (Autorità compresa).

Non di meno, a questo proposito occorre anche riprendere quanto già introdotto in apertura di queste note, considerando specificamente come la maggior parte delle Decisioni di governo ecclesiale poste in essere dalla potestà esecutiva non riguardi la generalità dei fedeli come tali ma in modo del tutto speciale alcune categorie tra essi: il clero ed i consacrati. La considerazione è d’importanza decisiva in quanto la vita di queste persone –a differenza di quella degli altri fedeli– dipende in modo quasi totale (si pensi, p.es., al sostentamento, alla salute, al benessere psico-fisico, alla formazione, alla maturità umana, alla relazionalità interpersonale) dalla potestà di governo ecclesiale cui sono in qualche modo ‘legati’ attraverso i vincoli dell’Incardinazione o dell’Incorporazione. Sotto questo profilo ciò che è stato maturato lungo i secoli attraverso –soprattutto– le sofferenze di una grande quantità di persone consacrate al servizio della missione evangelica trova oggi un riscontro mai immaginato: la possibilità d’indurre i Superiori ad utilizzare logiche di governo che non siano –più– di semplice ‘comando’ autoritativo ma che rispondano con maggior verità tanto alla dignità delle singole persone che ad un vero rapporto di corresponsabilità per il bene della Chiesa tutta andando ben oltre ogni semplicistica concettualizzazione di mera “giustizia amministrativa”.

2.3 Lo strumento

L’assunzione di principi in qualche modo ‘ordinamentali’ quali [a] la giuridicità degli strumenti normativi canonici, [b] l’‘esternità’ dell’agire giuridico ecclesiale, [c] la definizione e [d] la tutela di quanto di specifica pertinenza dei fedeli, hanno indotto nell’Ordinamento canonico sensibili novità anche dal punto di vista ‘operativo’, prima tra tutte –per quanto ancora scarsamente strutturata– la necessaria procedimentalità dell’agire, soprattutto esecutivo, da parte dell’Autorità ecclesiale di governo. Pur non potendone qui esplicitare che alcuni elementi e fattori, basti fissare l’idea del Procedimento quale strumento di base dell’agire giuridico ecclesiale… almeno a livello di governo ‘esecutivo’.

2.3.1 Procedimento come ‘principio’

Proprio a partire dalla ‘strumentalità’ alla missio Ecclesiæ che deve caratterizzare le Decisioni di governo ecclesiale, giova innanzitutto segnalare come l’attenzione al Procedimento sia una sostanziale ‘conquista’ del Codice latino del 1983 che, pur continuando a privilegiare in modo evidente la sostanzialità dell’agire anche giuridico all’interno della Chiesa, ha ritenuto però di dover superare la precedente situazione di troppo ampia discrezionalità –anche operativa– dei Superiori, spesso esposta all’arbitrio ed all’abuso di potere da parte di un’Autorità ecclesiale troppo convinta della propria responsabilità morale diretta, a scapito dello stesso rispetto della dignità della persona… d’altra parte era (solo) la sua “anima” che doveva essere “salvata”! In tal modo l’agire potestativo “ratione peccati” è stato lungo i secoli un vero tormento per una grande quantità di Vescovi e di chierici in genere… mentre il rapporto tra potestas dominativa ed obbedienza non è stato da meno nella vita religiosa!

L’introduzione, almeno ‘operativa’, del concetto di “tutela” dei (diritti dei) fedeli ha impresso senza dubbio una svolta decisiva all’Ordinamento canonico, portandolo a dover creare quasi da zero un nuovo stile di attività di governo e gestione della potestà, soprattutto esecutiva, senza per ciò stesso venir meno all’essenzialismo giuridico che lo caratterizza strutturalmente.

Questa estrema novità, neppure significativamente sviluppata a livello codiciale –e da molti non ancora recepita–, ha in realtà soltanto aperto una prima ‘breccia’, lasciando percepire solo gli indirizzi di massima per lo sviluppo delle strutturazioni procedimentali necessarie alla tutela dell’autenticità della vita ecclesiale (forse più che di ipotetici “diritti dei fedeli” …di dubbio fondamento anche teologico).

Acquisito –perciò e finalmente– il ‘principio’ del Procedimento, resta ancora tanto (tutto?) da fare all’interno di un Ordinamento dove l’esercizio del governo istituzionale ha una prevalenza pressoché assoluta sulle altre ‘componenti’ del vissuto quotidiano (cioè: le patologie istituzionali e relazionali). L’effettiva validità degli Atti contra Legem e la sostanziale prescrizione ‘fulminea’ della quasi totalità delle forme di illegittimità degli Atti di governo, infatti, lasciano del tutto irrisolte le problematiche legate ad una concreta ed efficace applicazione di un c.d. ‘principio di legalità’ all’interno della Chiesa …se pur vada ammesso, e non concesso a priori(!), che sia proprio questo il ‘principio’ fondamentale del munus Ecclesiæ regendi, come tanta dottrina paventa.

In realtà la quasi totalità della “strutturazione procedimentale” dell’agire amministrativo ecclesiale è lasciata ancor oggi alla creatività ed al senso giuridico-amministrativistico degli operatori del Diritto canonico, soprattutto curiale, mentre Superiori ed Autorità ecclesiali continuano a (pretendere di) ‘intervenire’ nella vita di tanti fedeli loro ‘affidati’ secondo criteri di mera potestà (e correlativa obbedienza), tralasciando e travalicando spesso –a fin di bene (sic!)– anche le più elementari regole di correttezza e rispetto nei confronti delle persone …che non è più possibile chiamare semplicemente “sudditi”, né tanto meno come tali trattarli.

2.3.2 Procedimento come ‘concetto’

Non si può tuttavia trascurare come l’odierna fatica canonica ad utilizzare il concetto di “Procedimento” trovi uno specifico fondamento proprio nella precedente (e prolungata) concezione dell’esercizio della potestà di governo intra-ecclesiale di stampo espressamente privatistico, secondo le categorie dello Ius Publicum Ecclesiasticum internum che interpretavano buona parte di tale operatività nell’ottica della potestas domestica o dominativa tipica delle “societates imperfectæ”, com’erano considerate le espressioni ‘interne’ della Chiesa stessa, unica “perfecta” in quanto completa.

D’altra parte, come ben rileva Ilaria Zuanazzi, proprio

«le prime ricostruzioni teoriche dell’attività amministrativa negli Ordinamenti statali seguivano l’impostazione dei principi privatistici, per i quali il processo di formazione interna della volontà assume rilievo solo in casi eccezionali e non in via ordinaria, e, di conseguenza, si attribuiva valore giuridico esclusivamente all’Atto finale in cui si manifesta esternamente la volontà pubblica dell’Organo agente. L’analisi giuridica si concentrava sul Provvedimento che concludeva l’iter di elaborazione della disposizione amministrativa, anche perché si riteneva che solo questo producesse effetti giuridici sulla sfera giuridica dei terzi e quindi fosse suscettibile di essere impugnato avanti agli Organismi di controllo contenzioso»;

fu soltanto in seguito che venne «posta in luce la necessaria incidenza degli atti propedeutici sul Provvedimento terminale, cosicché un vizio dei primi potesse riverberarsi in un vizio del secondo», soprattutto in funzione della necessaria tutela contenziosa e giurisdizionale che i vari Ordinamenti statuali –sempre maggiormente ‘costituzionalizzati’ e ‘garantisti’ dell’individualità come tale– dovettero gradualmente ammettere a vantaggio dei cittadini.

L’orizzonte canonico in cui inserire il concetto di Procedimento amministrativo, per contro, è radicalmente diverso poiché non appare coerente coi presupposti stessi dell’Ordinamento, né coi suoi principi dogmatici/costituzionali, né [a] una semplice ‘standardizzazione’ (dei ‘modelli’) degli Atti amministrativi, né [b] una mera retroiezione alla fase preparatoria degli Atti di quanto –invece– utile/necessario ad una loro più facile impugnazione, soprattutto per quanto riguarda il “coinvolgimento” del destinatario del Provvedimento in oggetto. Tale inammissibilità si fonda esattamente sul presupposto stesso del Procedimento in campo civilistico:

«l’anticipazione dell’intervento al momento di formazione dell’Atto rappresenta una forma di difesa più efficace di quella posticipata alla fase di Impugnazione di un Atto già formato, dato che permette non solo di verificare che la decisione sia assunta in modo corretto, ma anche di far valere le ragioni idonee a ottenere un Provvedimento favorevole ai propri interessi, ovvero a impedire o limitare le conseguenze lesive sul proprio status giuridico.

All’intervento nel Procedimento si deve pertanto riconoscere il valore di vero e proprio diritto alla difesa, ordinato all’instaurazione di un contraddittorio con l’Autorità e garantito dal riconoscimento di una serie complessa di diritti strumentali che assicurano la capacità effettiva di interloquire e di incidere sull’elaborazione del Provvedimento».

La ratio, infatti, che postula un adeguato coinvolgimento del destinatario/esecutore della Decisione/Atto di governo ecclesiale nella sua fase fontale/originante (cfr. Can. 50) non può essere in alcun modo ‘auto-cautelativa’ (per l’Autorità decidente), né meramente finalizzata ad evitare una futura “opposizione” del destinatario, quanto piuttosto deve indirizzarsi espressamente ed autenticamente ad una migliore ponderazione –alla luce di quanto ‘detto’ dal destinatario– di tutti gli elementi (personali in primis, poi materiali e circostanziali) coinvolti nella decisione allo studio. Il comune “ingaggio” (=engagement), infatti, tanto dell’Autorità di governo ecclesiale che del fedele-destinatario a servizio della stessa causa evangelica (=la missio Ecclesiæ) non lascia alternative di sorta.

Non si trascuri neppure, a questo proposito, come l’origine stessa della terminologia giuridico-istituzionale del “governo” non sia riducibile ad immediati fattori di autorità/potere quanto piuttosto di guida competente: il “gubernator”, infatti, era il timoniere della nave: colui che con la propria competente e decisa attività assicurava un frutto adeguato agli sforzi (ben più umili) dei molti vogatori… guidando con sicurezza la nave alla sua (comune) meta.

2.3.3 Procedimento come ‘condizione’

È sotto gli occhi di tutti come la natura stessa del Diritto canonico in quanto [a] strumento di communio tra soggetti che hanno scelto una comune appartenenza in ragione di un unico ideale di fede (=cum munus) e non [b] di mera convivenza pacifica tra individui in potenziale competizione per la fruizione di un numero limitato di ‘risorse’ esistenziali, conferisca all’attività giudiziale canonica un valore assolutamente secondario e marginale, rispetto alle ‘omologhe’ attività civili/statuali. Nessuna meraviglia, dunque, se lo spazio riservato alla Procedura giudiziale ed amministrativa riveste nel Diritto canonico un posto che, per quanto chiaro ed incontestabile in linea teorica, è comunque ‘secondario’: il –solo– Libro VII del CIC, mentre fuori della Chiesa esistono veri “Codici di Procedura” civile, penale ed amministrativa. Al di là, dunque, di quanto derivabile dalle pochissime Procedure codiciali previste, non pare possibile individuare nel Codice latino veri iter procedimentali che aiutino a strutturare formalmente la concreta azione di governo ecclesiale.

È in questa prospettiva che, in realtà, ci si deve accorgere che nel Diritto canonico la ‘strutturazione procedimentale’ pare aver rilevanza solo quale condizione a posteriori: condizione, cioè, che in determinati momenti operativi chiede d’essere già stata adempiuta… senza che, tuttavia, nulla ne fosse stato detto in precedenza. Appare corretto in tal modo trattare la ‘strutturazione procedimentale’ proprio in termini di conditio sine qua non per l’ottenimento definitivo di determinati risultati di rilievo giuridico (=efficacia). Proprio tale prospettiva riceve, infatti, autorevole conferma dall’applicazione, presso gli Organi amministrativi superiori, della c.d. Analisi in procedendo, la cui portata è tale da permettere l’invocazione dell’intervento del “Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica” in caso di violazione di Legge nel procedere.

Lo status di conditio sine qua non della ‘strutturazione procedimentale’ è di tutta evidenza nel dettato –indiretto per la verità– di alcuni Canoni del CIC che rimandano espressamente ad un sostanziale iter –non meglio specificato– necessario perché possano prendere vigore ed efficacia alcuni specifici Atti di governo di natura disciplinare.

Si tratta dei Cann. 1339 §3 e 729 che in modi diversi mettono in evidenza la necessità di avere a disposizione dell’Autorità ecclesiale di governo:

a) vere e proprie ‘Prove’, addirittura documentali degli interventi correttivi già intrapresi,

b) cause comprovate giuridicamente.

Nell’uno e nell’altro caso si capisce bene che i livelli di informalità ed essenzialismo che caratterizzano solitamente l’agire dei Superiori ecclesiali (con –ordinaria– assenza totale di qualunque ‘prova’ di quanto esperito) risultano gravemente insufficienti per portare a termine il difficile compito di mantenere o ripristinare la disciplina canonica all’interno di particolari ambiti della vita ecclesiale. È proprio la materia ‘disciplinare’ che fa risaltare ancora maggiormente la questione poiché, laddove esistessero anche tutte le cause sostanziali e le appropriate azioni preliminari, ma ciò non potesse constare secondo i criteri più tipici del Diritto penale (canonico) –cui concretamente si riferisce la Curia Romana nei propri interventi, quale standard di fatto per la tutela individuale–, gli Atti dell’Autorità ecclesiale di governo risulterebbero privi di un supporto assolutamente necessario alla loro efficacia e finirebbero per soccombere irreparabilmente davanti alle istanze contrarie dei destinatari di tali Provvedimenti che, attraverso Eccezioni di legittimità, renderebbero comunque inefficaci i Provvedimenti disciplinari nei loro confronti.

2.4 Il presupposto

Tra gli elementi da considerarsi al fine di effettuare scelte e prendere decisioni di qualche rilevanza istituzionale (che permangano, cioè, nella Chiesa al di là della persona che le ha poste/attuate) è necessario considerare anche come la volontà normalmente sufficiente a porre azioni e comportamenti (sensati e ragionevoli) per il singolo soggetto debba, invece, –nel caso del governo– essere corroborata da una specifica componente ‘im-personale’ sostenuta dalla consapevolezza di ‘creare’ situazioni nuove o mutare quelle esistenti a riguardo della vita di altri soggetti. È quanto accade a chi esercita compiti di governo, o comunque di autorità; compiti che presuppongono e comportano sempre una espressa ‘volontà giuridica’.

Non di meno, perché sia possibile parlare di “decisioni” è necessario possedere una specifica volontà che muova ad ‘agire’ in modo conseguente alla scelta effettuata in modo tale da raggiungerne lo scopo; finché, infatti, si hanno solo ‘intenzioni’ (desideri, aspirazioni, auspici) difficilmente si raggiungerà il minimo di operatività necessaria per ‘attuare’ qualcosa. 

Ne consegue che non è concretamente possibile porre Atti efficaci senza conformarsi ad una espressa e consapevole –previa– volontà di ottenerne i risultati; è lo stesso concetto di ‘efficacia’ ad esigerlo.

2.4.1 La decisionalità

L’attività di governo ecclesiale, dunque, non potrà darsi senza, o al di là, di una esplicita e puntuale volontà di perseguire qualche scopo-risultato-finalità specifici all’interno della più generale (e generica) missio Ecclesiæ, attraverso l’azione (più o meno ‘specialistica’, quanto ad attitudini o competenze richieste) di qualcuno dei suoi membri. Tale volontà tuttavia, poiché al contempo istituzionale (=della Chiesa come tale) e personale (=svolta da qualcuno in specifico), chiede di essere congruamente formalizzata attraverso uno ‘strumento’ (che si concretizza nel singolo Provvedimento di governo) che connetta univocamente finalità, soggetti e risorse, affinché [a] quanto richiesto a qualcuno possa essere anche adeguatamente conosciuto (ed assunto/condiviso) tanto dal suo destinatario che dal resto della Comunità di appartenenza, [b] quanto già ‘impegnato’ in un settore/ambito della vita ecclesiale non debba/possa esserne incautamente (o inadeguatamente) distratto verso altre finalità …spesso non meno importanti, ma per le quali è necessario comunque reperire altre/autonome risorse personali e strumentali. È questa, si è già detto, la specifica funzione della decisione canonica di governo.

Questo radicamento strumentale della decisione di governo all’interno della stessa missione ecclesiale impone una specifica attenzione al risultato istituzionale conseguente: le Decisioni –almeno formali– di chi esercita potestà di governo ecclesiale, infatti, non sono mai semplici scelte (motu proprio o ex-Lege) oppure risposte (affermative o negative) a richieste di singoli od istanze di parte, ma veri interventi performativi che influiscono nella vita –spesso anche direttamente spirituale– della Comunità ecclesiale e/o di suoi membri; interventi che esprimono (o comunque ‘danno corso’ ad) una precisa, quanto inevitabile, volontà giuridica. L’Autorità ecclesiale che si pronuncia o prende posizione –oppure anche evita di farlo– non si limita soltanto a prendere una ‘decisione legittima’ nel campo istituzionalmente riconosciuto di sua competenza… ogni questione, infatti, che la Chiesa abbia riservato alla decisione/giudizio della competente Autorità possiede una portata ‘pubblica’ (a differenza delle decisioni morali che i singoli sono chiamati a prendere) che le conferisce ricadute –più o meno immediate– sulla vita ecclesiale in quanto tale.

Quanto rilevi in tale prospettiva la volontà delle conseguenze dell’agire potestativo ecclesiale non può essere ignorato a livello della valutazione previa che ogni decisione de futuro sempre comporta; non di meno una volontà ‘istituzionale’ (=connessa al munus esercitato) non può tanto facilmente venir ridotta ad una semplice ‘opzione’, come sarebbe per una volontà ‘individuale’: la sua ‘giuridicità’ è, infatti, strutturale.

2.4.2 La responsabilità

Proprio e precisamente a questa ‘volontà giuridica’ sono connesse le specifiche responsabilità solitamente imputabili (e spesso imputate) all’Autorità di governo non solo in decernendo ma anche in eligendo ed in vigilando. Anzi, a ben vedere, si tratta specificamente di ‘responsabilità’ proprio perché si presume una sottostante volontà nel prendere le decisioni in oggetto …dovendosi ricondurre ad esse anche le (mediate) conseguenze.

La questione è molto pratica poiché si tratta di ‘proiettare’ in avanti gli esiti della propria Decisione/Atto fino a ‘disegnare’ lo scenario più completo possibile che da essa prenderà origine, o comunque risulterà; sarà infatti tale scenario finale a venir attribuito all’autore della decisione, tanto in bene che in male; né potrà egli sottrarsi tanto facilmente a tale ‘giudizio’ da parte di singoli e Comunità stessa (oggi sempre più anche extra-ecclesiale).

Dovrà essere proprio questo scenario finale –pertanto– a guidare la ‘strutturazione procedimentale’ nei suoi singoli passi in modo che non la singola decisione in sé e per sé ma il suo concreto risultato focalizzino l’obiettivo della volontà giuridica di chi agisce. Questo significa e comporta che la decisione di governo ecclesiale per essere davvero efficace dev’essere in grado di interagire coi diversi elementi presenti sullo scenario dell’intervento, collocandosi in una posizione non-casuale, né giustapponendosi a quanto già esistente, ma strutturando la ‘relazione’ che s’intende instaurare attraverso la decisione stessa.

Proprio le necessarie risposte che dovranno esser fornite alle mutate condizioni relazionali ed operative della situazione cui s’intende provvedere forniscono le indicazioni di minima sul come strutturare le decisioni di governo ecclesiale e i loro Procedimenti di formazione-emanazione, predisponendo ‘a priori’ la struttura operativa finale che ne garantirà l’efficacia stessa. È in questa logica che Consultazioni, Pareri, Consensi, imposti dal Diritto (Cann. 50; 127) possono diventare –anziché ‘intralci’ ed appesantimenti per la decisione– momenti importanti per ‘certificarne’ (=dare certezza di) la qualità intrinseca, preparando e predisponendo già –quasi a-priori– l’efficacia della decisione come tale. Di fatto, un corretto –poiché completo iter procedimentale sarà sempre la maggior garanzia intrinseca dell’efficacia della decisione, confermando ancora una volta che «i problemi sul metodo sono sempre già problemi di contenuto», visto che il primo non può prescindere dal secondo: «non si può con una scavatrice fare tenere carezze […] non si può neppure ripulire il fondo dell’Arno con sensibili polpastrelli» poiché «ogni tipo di strumento ha un suo sensato ambito di utilizzazione».

3. UNA NORMA PER LE PERSONE

Il discorso sin qui articolato trova –in modo forse sorprendente per qualcuno– una vera e propria ‘conferma’ in Iure nei Cann. 1732-1734 del Codice latino i quali esplicitano i presupposti ‘di Legge’ –e soprattutto di Diritto– che fondano il nuovo contesto relazionale tra decidenti e destinatari/esecutori nell’attività di governo ecclesiale, potendosi –per di più– anche ipotizzare differenti ‘modalità/livelli’ di gestione della eventuale conflittualità intra-ecclesiale in espressa dipendenza dalla sottostante concezione sia ecclesiologica che del governo ecclesiale, che della c.d. potestas, come si tenterà di mettere in risalto.

3.1 La Norma

Il Can. 1733, pur consigliando caldamente di evitare le controversie istituzionali, riconosce a chiunque si senta “gravato” da una Decisione/Atto ‘singolare’ di qualunque tipo (Can. 1732) da parte dell’Autorità ecclesiale la piena legittimità di manifestare la propria –diversa– posizione alla stessa Autorità che l’ha assunta, in modo tale che «si provveda di comune accordo a ricercare un’equa soluzione» per il problema così profilatosi. La genericità della Norma e l’estensione della sua portata (“omnes administrativos Actus singulares”) la rendono in qualche modo programmatica (=di principio), evitando inutili formalizzazioni casuistiche di fattispecie del tutto inattendibili ed improbabili a causa soprattutto dell’estensione del Diritto canonico nello spazio e nel tempo e dell’amplissima tipologia di relazioni ecclesiali di stampo gerarchico/potestativo in grado di generare Decisioni singolari esecutive.

Non di meno, proprio a livello di ‘fondamenti’ e di ‘principi’ merita attenzione il fatto che il Can. 1733 non utilizzi affatto il vocabolario dei “diritti” (né “fondamentali”, né “della persona”, né “soggettivi”), ma adotti invece una formulazione molto ampia ed a-specifica in cui prevale senza dubbio la ‘sostanza’ sulla ‘forma’: «quoties quis gravatum se putet» (=ogniqualvolta qualcuno)… senza limitazioni di nessun tipo né circa i soggetti (personali o istituzionali, privati o pubblici), né le fattispecie o gli oggetti o le Norme o gli stessi Provvedimenti implicati, purché si tratti di Decisioni di governo (“in foro externo extra Iudicium”). Per di più, il parametro ‘temporale’ (“quoties” = ogniqualvolta) evidenzia una chiara funzione universalizzante: non esiste in linea di principio nessuna limitazione a questa possibilità! Allo stesso tempo il linguaggio utilizzato dal Legislatore non può far pensare a nulla di simile ad un “diritto” di Appello, Interpello, o altri Istituti giuridici di ‘garanzia’ propri dell’ambito giudiziale, elemento su cui anche la dottrina risulta serenamente concorde.

Sulla base di queste prime osservazioni diventa però necessario un approccio più ‘strutturale’ all’intera Sezione codiciale intitolata: “Il Ricorso contro i Decreti amministrativi” (Cann. 1732-1739) distinguendo in realtà, dal punto di vista logico ed operativo, almeno due differenti Istituti giuridici ‘principali’: [a] la –così chiamata– “Petitio” (Cann. 1732-1734) e [b] il “Recursus” vero e proprio (Cann. 1734-1739); dovendo riconoscere di fatto al Can. 1734 una doppia appartenenza che lo rende Norma di carattere ‘formale’ per la Remonstratio (=come/quando) e Norma di fatto ‘sostanziale’ (condicio sine qua non) per il Recursus che non potrà essere attuato prescindendo dalla stessa (ma di cui non ci occuperemo in questa sede). In realtà la dottrina pare aver ‘visto’ negli stessi Canoni altri due ‘Istituti’ giuridici: [c] l’evitare liti/contenziosi a motivo del governo, [d] la ‘Conciliazione’ indicata dal Can. 1733; ad essi potrebbero, non di meno, aggiungersi anche [e] gli Organismi indicati –sempre dal Can. 1733– per favorire la Conciliazione.

All’interno di questo contesto, l’individuazione dei due Istituti ‘principali’ e la estrapolazione –ed autonoma delineazione– della Remonstratio permettono di evidenziare non solo due livelli distinti della Procedura (quello ‘immediato’ e quello ‘gerarchico’), ma di porne in risalto le specificità e, soprattutto, le finalità radicalmente diverse. Se, infatti, il Recursus gerarchico, proprio per la sua stessa struttura e funzione si colloca al di fuori della immediata relazionalità di governo ecclesiale (implicando un altro soggetto autoritativamente/gerarchicamente dotato in modo ‘superiore’), la Remonstratio, invece, risulta assolutamente interna a tale relazionalità ecclesiale di base. Quanto, dunque, può e deve dirsi circa il fondamento ed il significato del Recursus in sé e per sé non potrà essere applicato (eventualmente con un indimostrabile nesso “a maiori ad minus”) alla Remonstratio come tale …Istituto autonomo ed assolutamente specifico, per quanto non necessariamente ‘conclusivo’… come, non di meno, lo stesso Recursus il cui ‘risultato’ è spesso deferibile in Iudicium.

Il ‘distacco’ tra i due Istituti e l’assoluta ‘autonomia’ della Remonstratio rispetto al Recursus permette così di porre in risalto come il Legislatore abbia considerato del tutto ovvia e ‘naturale’ la –semplice– eventualità di un diverso parere tra Autorità-ecclesiale-decidente e fedele-destinatario… diverso parere che potrebbe risultare anche conflittuale, soprattutto dal punto di vista esistenziale. In questa linea, infatti, pare indirizzare il significato del termine “gravatum” del Can. 1733 intorno a cui ruota l’intera ‘Procedura’. Proprio la ‘naturalità’ di questa evenienza, la scontatezza cioè che possano accadere cose di questo genere, che –in linea di principio– non vengono moderate in nessun modo nel loro sorgere –né lo potrebbero(!)–, ma solo nel loro concreto manifestarsi, risalta come l’elemento di maggior ‘respiro’ teoretico –e concretamente giuridico– di questa Norma, e di quelle da essa dipendenti.

Emerge in tal modo in tutta la sua concretezza e programmaticità il personalismo canonico conciliare: personalismo che, se anche non può essere ‘descritto’ e ‘fissato’ giuridicamente –in sé e per sé– attraverso specifiche fattispecie giuridiche e Canoni puntuali, non di meno riceve nell’Ordinamento piena tutela ‘oggettiva’ nella sua sostanzialità e nel suo complesso …senza che neppure si debba (più) indicare il “perché” questo accada. Nella stessa linea il Can. 1737, presentando direttamente il Recursus al Superiore gerarchico, puntualizza che esso possa darsi «propter quodlibet iustum motivum», esprimendo ancora una volta l’apprezzamento concretamente riconosciuto dal Diritto stesso alla libera valutazione che il destinatario possa/debba dare della Decisione/Atto in oggetto. A lui solo, infatti, spetta decidere circa tale ‘previsione’ dell’Ordinamento. L’utilizzo, poi, del termine “motivum” anziché “causam” disconnette la portata di tale Istituto dal ‘gioco’ delle quantificazioni della causa (grave, ragionevole, giusta…).

La messa in evidenza di questa specifica componente ‘personalista’ risulta necessaria –almeno– per bilanciare la diversa prospettiva della maggioranza della dottrina e della stessa Giurisprudenza che spostano spesso il fulcro del problema dall’elemento ‘personale’ –di Legge– (“quis […] se putet”) ad uno ‘oggettivo/legale’: un “gravamen” vero e proprio …che finisce per diventare poi –almeno in italiano e spagnolo– un’autentica “lesione/violazione”. Quest’attenzione diventa tanto più necessaria quando, come accade a qualche autore, ci si fermi a considerare specificamente gli ‘oggetti’ assoggettabili a Recursus (ex Can. 1732), trascurando invece completamente come il vero “obiectum quæstionis” indicato al Can. 1733 §1 non sia affatto una “res” (=gravamen, violatio…) ma la concreta vita di qualcuno.

3.1.1 Il soggetto

Espressione eminente di personalismo canonico –o comunque di un’impostazione diversa da quella ‘tradizionale’– è proprio quella che il Legislatore ha utilizzato per indicare l’obiectum quæstionis del dissenso tra decidente (Autorità) e destinatario (fedele): non una ‘cosa’ (=res materiale o immateriale …come un ‘diritto’, un ‘interesse’ o ‘la’ giustizia) ma una ‘sensazione/percezione’ di chi/uno/qualcuno (=“quis”) “gravatum se putet”, dove tanto l’aggettivo (“gravatum”) che il verbo (“puto-as”) lasciano pieno spazio alla dimensione e portata ‘personale’ della percezione di atti, fatti, circostanze… da cui prenderanno origine valutazioni e giudizi in merito.

Proprio nell’ottica sin qui proposta merita di essere adeguatamente sottolineato come ciò che il Canone individua quale elemento di contesa/dissenso tra decidente e destinatario non sia affatto [a] la violazione di una Legge/Norma o [b] il non riconoscimento di un “diritto” o [c] di un “interesse” e tanto meno [d] un “danneggiamento” che il destinatario abbia ricevuto da parte dell’Autorità ecclesiale (o della Pubblica Amministrazione Ecclesiastica)… ma: la percezione soggettiva di un aggravio della propria condizione esistenziale (“gravatum se putet”)! Quanto Valdrini tende a presentare come “iniustitia”, al di là della possibile legittimità.

Ciò costituisce a tutti gli effetti l’apertura più ampia che l’Ordinamento potrebbe ipotizzare, lasciando al singolo destinatario la possibilità di stabilire ‘in proprio’ l’eventuale inadeguatezza sostanziale dell’azione di governo ecclesiale a lui indirizzata e, conseguentemente, la sua eventuale concreta inefficacia (=non [possibile] attuazione/esecuzione), poiché tale Decisione/Atto non ‘potrà’, in quelle condizioni/circostanze, essere recepita/eseguita da parte del suo destinatario, tanto ‘personale’ che ‘istituzionale’ (=Associazione, Istituto o ‘Ente’ in genere).

Si considerino, solo esemplificativamente alcune ‘ipotesi’ di assoluta concretezza ed attualità:

- cumulo di ‘incarichi’ (non necessariamente “Uffici”) ecclesiastici e/o pastorali,

- non specificazione delle risorse/modalità necessarie ad attuare un Ufficio/incarico pastorale affidato in modo solo generico,

- non considerazione di circostanze di età e salute (non solo proprie) o difficoltà intellettuali o motorie,

- assegnazione di un Ufficio ecclesiastico differente da quello ‘concordato’,

- attribuzione di incarichi non-pastorali che comportino responsabilità amministrative e gestionali civilistiche,

- radicale mutamento della condizione economica e dello ‘standard’ di vita,

- eccessive distanze tra residenza abituale e sede di esercizio dell’Ufficio/incarico pastorale… ecc.

Tale ‘libera valutazione’ che la Legge riconosce a qualunque soggetto non è, però, una ‘ipoteca’ –cieca e destrutturante– che ponga la Comunità ecclesiale (o una sua porzione) in balia di qualunquistici individualismi e soggettivismi, rendendo potenzialmente inefficaci di principio tutte le decisioni di governo ecclesiale; la Norma infatti va ‘integrata’ nel giusto contesto ordinamentale che prevede, al contrario: [a] l’efficacia di principio degli Atti esternamente posti secondo la Legge (Can. 124 §2), [b] l’efficacia anche degli Atti posti contra Legem nel caso di Norme non ‘irritanti/inabilitanti’ (Can. 10), [c] l’espressa ‘deroga’ a diritti acquisiti e Norme, nel caso specifico, da parte dell’Autorità esecutiva che emetta l’Atto in questione (Can. 38). Nessun indebolimento strutturale, pertanto, dell’Ordinamento come tale …quanto, piuttosto, una sua necessaria ‘valvola’ di sicurezza che lo tuteli ulteriormente, non tanto contro proprie ‘aporie’ funzionali, quanto contro sue incongruità applicative da parte di chi ne esercita le ‘funzioni’ a livello di governo ecclesiale. Nulla di radicalmente estraneo allo iato strutturale che intercorre in ogni Ordinamento giuridico tra quanto previsto dagli ‘architetti’ dell’Ordinamento stesso (Legislatori costituzionali ed ordinari) ed i suoi ‘attuatori istituzionali’ (Amministratori pubblici) …come se bastasse formalizzare la tripartizione della potestà per avere davanti a sé un vero Ordinamento ‘di Diritto’. Non per nulla gli Ordinamenti giuridici ‘moderni’ prevedono apposite Procedure/Strutture di controllo e correzione dell’attività di governo della ‘cosa pubblica’.

3.1.2 La finalità

Il quadro dispositivo si completa, poi, con l’indicazione espressa della ratio cui tale ‘crisi’ funzionale/esecutiva del governo ecclesiale deve fare capo. La Legge stabilisce infatti che, poiché «è assai desiderabile che non vi sia contesa» tra il “quis gravatum” e l’autore della Decisione/Atto, «si provveda di comune accordo a ricercare un’equa soluzione» (Can. 1733 §1): è proprio questo il vero nucleo sostanziale e teleologico dell’Istituto giuridico della Remonstratio (di cui la Conciliazione è solo un possibile esito/strumento derivato), secondo un’impostazione che dev’essere anti-contenziosa …ex Lege! Come, d’altra parte, postula –e merita– il comune onere/impegno (cum-munus) a realizzare la comune missione ecclesiale, secondo le peculiarità proprie dello status esistenziale, oltre che giuridico, di ogni persona che abbia liberamente e coscientemente aderito alla Chiesa per essere discepolo di Cristo ed in essa trovare adeguati strumenti di salvezza e santificazione. Proprio in riferimento a ‘questa’ Conciliazione, tuttavia, non pare appropriato considerarla una via ‘parallela’ alla Remonstratio vera e propria come vorrebbe parte della dottrina (un “doppio passo” previo all’interposizione del Recursus gerarchico) soprattutto perché non si indica affatto ‘quale’ ne sia l’innesco. Parrebbe evidente, invece, che sia proprio la Remonstratio ad attivare (se del caso) anche questa strada ‘complementare’ rispetto a quella ordinaria del solo incontro/confronto (tête à tête) tra Autorità e fedele/i. Non inutilmente il Canone 1733 §3 indica come la Conciliazione vada cercata quando si sia richiesta la revoca della Decisione/Atto di governo e non siano spirati i termini per ricorrere.

Il (nuovo!) ‘contesto’ in cui la crisi funzionale/esecutiva dev’essere affrontata appare così eminentemente relazionale, responsabilizzando espressamente e direttamente le persone coinvolte nella vicenda, rendendole vere protagoniste della stessa; infatti, pur accogliendo tutti nelle proprie legittime ‘aspettative’, non di meno, tutti devono anche farsi carico di una reale responsabilità –tanto inter-personale che istituzionale– cercando non la contesa ma la soluzione, non l’opposizione ma l’accordo, spingendo –anzi: forzando nei fatti– all’incontro ed al dialogo Autorità e fedeli, senza demandare ad altri la “soluzione”. Osserva espressamente in proposito M. Arroba Conde, commentando il Can. 1733, come «non si permette che la soluzione venga affidata ad estranei» (come sarebbe in un Arbitrato) ma sia «necessario il comune accordo tra il fedele e l’Autorità che emise l’Atto amministrativo». Anche le formalità perentorie imposte dalla Legge, quali la forma scritta (Can. 1734 §1) ed il rispetto di specifici tempi d’azione (Can. 1734 §2), indirizzano nella stessa prospettiva di un pronto incontro ed accordo… prima che sia troppo tardi: per la relazione ecclesiale però, non tanto per un eventuale Giudice di legittimità.

La Legge, infatti, presuppone che l’aggravio generato dalla Decisione/Atto di governo ecclesiale sia immediatamente evidente proprio a causa della sua strutturale incidenza esistenziale sulla vita del destinatario, senza dare spazio alcuno ad elementi di tutt’altra natura che potessero intervenire a distanza di tempo ed in altre circostanze ad appesantire una relazione istituzionale (eventualmente già degradatasi per altri motivi) ma che, proprio per questo, non possono trovare spazio e legittimazione sul piano del governo ecclesiale, dovendolo invece cercare su quello relazionale e/o nella maturità personale, psico-affettiva e spirituale di entrambi.

3.2 La ‘contesa’

Il quadro generale che appare ‘presupposto’ dal Legislatore quale contesto dell’inefficacia della Decisione/Atto di governo ecclesiale dei Cann. 1732 ss., evidenzia, però, come l’oggetto del contendere –pur in chiave personalistica– non siano (né lo potrebbero essere) le persone del decidente e destinatario come tali, né le loro relazioni personali o istituzionali, né il loro operato (che riguarderebbe eventualmente il Diritto processuale –Causœ iurium– o penale), ma singole e specifiche Decisioni di governo ritenute di fatto –almeno moralmente– ‘inattuabili’, in normali condizioni di vita, da parte del loro destinatario. ‘Inattuabili’ perché “di aggravio/gravose”, senza che le si qualifichi ulteriormente con avverbi come: ingiustamente, irragionevolmente, chiaramente, inadeguatamente, ecc. come spesso avviene anche nello stesso Codice in tema di ‘cause’. Ciò che si considera è l’aggravio, la gravosità –soltanto–, senza che nulla si dica neppure circa la sua ‘natura’ o ‘consistenza’ (grave, gravissimo…). Certamente il concetto di “aggravio/gravame/gravosità” (non meno dei termini che lo esprimono) è generico e difficilmente definibile in modo ‘assoluto’… proprio qui sta, però, la sua specificità ‘esistenziale’: si tratta sostanzialmente di un concetto ‘relativo’ che indica il “peso” che una situazione esercita su di un soggetto. Un aggravio/gravame non è qualcosa di ‘puntuale’ come potrebbe essere una lesione, un vulnus, una privazione, ma qualcosa (anche di ‘diffuso’ o non ben determinabile) che chiede/esige un maggior apporto di forze o risorse: di tempo, di competenza, di fatica, di dedizione, di responsabilità, di relazionalità… Fattori, tutti, che incidono essenzialmente sulle persone come tali e sulle loro vite, prima che sulle Istituzioni e le loro funzionalità: sul bene concreto della singola persona, prima che su quello generico ‘comune’. Dovendosi considerare, inoltre, come le persone non siano (mai considerabili come) semplici “pacchetti di risorse” sempre pronte all’uso: età, salute, condizioni psichiche, spirituali, ecc. giocano infatti una parte sostanziale nella loro (possibile) attività.

Tutto farebbe pensare, così, ad una inadeguatezza della Decisione/Atto assunta dall’Autorità rispetto alle sue reali ‘premesse oggettive’: una decisione che –come tale– ‘non si sostiene’, ‘non sta in piedi’, ‘non si regge’… perché carente di elementi sostanziali che vanno ordinariamente considerati, quali: conoscenza, valutazione …(ponderato) giudizio. Non, pertanto, un problema ‘relazionale’ e quindi ‘soggettivo’ ma sostanzialeoggettivo connesso alla non-attuabilità della Decisione/Atto in oggetto.

3.2.1. L’oggetto

A ben vedere, al di là di ogni enfasi teoretica e/o dottrinale sui diritti (tutti) dei fedeli (tutti), le Decisioni di governo che possono suscitare Remonstratio, per quanto indicate dal Legislatore come tutti gli “Atti amministrativi singolari” in foro esterno extragiudiziale (Can. 1732), in realtà possono essere ricondotte soltanto a poche tipologie logico-pratiche ‘concrete’:

- Atti di provvisione (=conferimento di Uffici/incarichi ecclesiastici),

- Atti di tutela disciplinare (contro abusi da parte dei fedeli),

- Atti di autorizzazione/licenza che riguardino direttamente la vita delle persone come tale.

È infatti necessario escludere ‘ratione sua’ tutti gli Atti davvero ‘graziosi’, quelli cioè che dipendano unicamente dalla valutazione e discrezione dell’Autorità, come le Dispense e le altre ‘grazie’ propriamente dette che, come tali, sono non-ricorribili poiché attinenti alla Legge (o comunque dalla ‘Norma’) e non ad un Atto decisorio ‘singolare’. Ne consegue che gli Atti ‘ricorribili’ sono quasi esclusivamente Atti dovuti da parte dell’Autorità di governo: Decisioni a cui l’Autorità stessa è ‘tenuta’ a rigor di Legge proprio per il necessario espletamento del munus pastorale-istituzionale conferitole ratione Officii. Le Decisioni di governo, quindi, concretamente inapplicabili o non-eseguibili da parte dei loro destinatari perché loro ‘di aggravio’ si delineano quasi sempre come problematiche a livello ‘strutturale’, nel loro ‘contenuto’ oggettivo… poiché indicano/escludono precise attività o comportamenti (cfr. Cann. 48-49).

Di fatto proprio a tale ‘oggettività’ della questione sembra rimandare il lungo Canone 1733 che, oltre ad indicare possibili ed auspicabili ‘rimedi’ alla questione venuta in essere, risulta non di meno specificamente espressivo anche per evidenziare gli elementi contenutistici –e strutturali– posti dal Legislatore alla base delle stesse Norme promulgate. L’utilizzo, infatti, di termini quali “studio” e “mediazione” –anche da parte di ‘terzi’– evidenzia come in gioco si presuma non ci siano questioni pienamente opinabili, ma reali problemi che chiedono/meritano di essere conosciuti e valutati al fine di assumere decisioni adeguate a loro riguardo. Non pare azzardato in merito riscontrare come la ratio che la Norma pare sottendere rimandi (nella maggior parte dei casi) ad un sostanziale defectum cognoscentiæ/iudicii sottostante alla decisione cui porre rimedio con comune apporto degli interessati.

D’altra parte, ciò che accade più spesso nel concreto esercizio della potestà esecutiva di governo ecclesiale è proprio la carenza di adeguata cognizione di causa da parte dell’Autorità, la quale –probabilmente più attenta, oggi, ad aspetti ‘funzionali’ dell’Istituzione ecclesiastica– rischia di adottare Decisioni ‘singolari’ non rispondenti/adeguate alle reali situazioni e circostanze di persone, cose e rapporti, suscitando nei loro destinatari scontento, disagio, frustrazione o –peggio– senso d’ingiustizia: proprio ciò che giustifica i reiterati e ‘diffusi’ richiami del Legislatore all’equità (in realtà “giustizia distributiva”, nel caso) cui ricondurre ogni cosa.

Ciò, tuttavia, non è altro che la riproposizione e la nuova espressione di quanto già previsto dalla stessa Legge nelle disposizioni sulla preparazione degli Atti amministrativi singolari: «prima di dare un Decreto singolare, l’Autorità ricerchi le notizie e le prove necessarie, e, per quanto è possibile, ascolti coloro i cui diritti possono essere lesi» (Can. 50). Va senz’altro notato a questo proposito, come il fatto che nel Canone 50 non si coinvolga espressamente l’immediato interessato/destinatario del Provvedimento non può che essere considerato un’oggettiva lacuna textus e non un’intenzionale esclusione del Legislatore che non l’abbia ritenuto importante ma solo sottinteso, dandolo così per scontato. Ciò non rende condivisibile l’opinione di chi, invece, ritiene si tratti «semplicemente di una raccomandazione o esortazione, per di più non assoluta, essendo limitata dalla clausola “per quanto è possibile”», in base al presupposto –sostanziale– che la necessità/utilità del dialogo sia una questione poco più che “psicologica”, mentre devono

«essere previsti precisi limiti alla possibilità di intervenire, altrimenti si paralizzerebbe anche l’Organizzazione più efficiente. È necessario rispettare la sfera decisionale dell’Autorità competente –anche sapendo che può sbagliarsi– giacché non si può pretendere un previo accordo tra l’Amministrazione e gli amministrati, in quanto il soddisfacimento dei singoli interessi non sempre è compatibile con l’interesse generale».

Allo stesso tempo –e nella stessa nostra direzione– non va trascurato come le Decisioni assunte debbano essere sostenute, “saltem summarie”, da motivazioni (Can. 51) che le rendano –almeno– comprensibili, giustificandone razionalmente e moralmente l’esecuzione/applicazione, poiché solo un’accoglienza responsabile offre garanzie di vera efficacia –e non mera esecuzione soltanto– di quanto stabilito.

Non di meno, molto spesso sono gli stessi fatti ad evidenziare come ci si trovi di fronte a veri e propri difetti “in decernendo”, dovuti –più profondamente– a trascuratezza nei confronti della sostanziale osservanza del Can. 50 e delle sue prescrizioni nella genesi della Decisione/Atto singolare in questione. È in quest’ottica che –a fortiori– non appare possibile, né sensato, teorizzare una sorta di strutturale conflitto/contenzioso gerarchico all’interno della Chiesa, e più ancora delle singole Chiese particolari o Istituti di vita consacrata (e simili)… dove, non di meno, tali ‘inefficacie’ si consumano più spesso, per quanto non intenzionalmente.

3.2.2 La difficoltà

Questo genere di considerazioni non può essere adeguatamente svolto senza tenere nel debito conto come spesso le concrete circostanze di vita dei singoli fedeli (chierici e religiosi in primis) e di governo ecclesiale (diocesano e/o religioso) creino o evidenzino situazioni oggettivamente difficoltose che non è possibile né ‘canonizzare’ né ignorare; il farlo significherebbe infatti vanificare la funzione essenzialmente ‘tutoria’ del Diritto canonico, lasciando libero corso alla costante sconfessione della stessa verità delle cose e dei rapporti sia inter-personali che intra-ecclesiali –quando non anche della dignitas personarum–, a totale detrimento della missione ecclesiale di vivere ed annunciare il Vangelo. Di qui la pregiudiziale impossibilità di ridurre alla [a] semplice ‘giustizia’ o alla [b] sola tutela di ‘diritti/interessi’ o alla [c] semplice ‘legalità’, la molteplicità degli ‘elementi’ esistenziali che entrano in gioco di volta in volta in ogni Decisione/Atto di governo che ‘tocchi’ la vita dei fedeli. Non di meno la stessa ‘carità’ –così spesso invocata anche in queste tematiche– appare sovente più come una scorciatoia moralistica e spiritualistica “ad actum/personam” e quindi straordinaria che come il necessario rispetto della verità di fatti, circostanze e relazioni: è terribile sentirsi attribuito “in elemosina” quanto, invece, spettante ex natura rei! Soprattutto da parte di chi avrebbe il ‘ministero’ (carisma?) della “cura”…

È proprio per scongiurare questo auto-deterioramento della verità ecclesiale attraverso –eventuali, sempre possibili– inadeguatezze di governo, che il Diritto prevede –seppure solo a posteriori(!)– precise modalità di gestione delle inevitabili problematiche (spesso più esistenziali che propriamente istituzionali) che da sempre attraversano (e trafiggono) alcuni ambiti almeno della vita ecclesiale …e lo fa non ‘aggirando’ i problemi (con una lettura ascetica) o ‘spostandoli’ ad un differente livello istituzionale (=Superiore gerarchico), o ‘trasferendoli’ ad altri (=Giudice), ma imponendo de Iure quanto non si era già stati capaci di attuare nell’esercizio ordinario di un adeguato governo ecclesiale. È, infatti, in questa prospettiva che il Can. 1734 §1 esclude espressamente la possibilità di attivare ex abrupto un Recursus gerarchico senza aver prima ‘informato/edotto’ l’Autorità che ha adottato la Decisione/Atto di governo della sua non congruità (alle situazioni e circostanze di persone e cose) e della conseguente ‘gravosità’ per il suo destinatario la quale, pertanto, la rende ‘inapplicabile’ –e quindi concretamente inefficace–, evidenziando come, di fatto, ciò che conta a livello ‘costitutivo’ di questo ‘innovativo’ Istituto giuridico non sia tanto l’intenzione di ‘ricorrere’ contro la Decisione/Atto dell’Autorità, ma la concreta inefficacia del suo stesso agire!

Ed è proprio questo elemento ‘sostanziale’ ciò che fonda il dettato del Can. 1734 §3 nell’escludere dalla Remonstratio (come “Istanza critica rivolta all’autore della Decisione di governo”) un certo numero/tipo di fattispecie: essa, infatti, trova la propria ragione solo [a] nel primo rivolgersi a [b] chi possieda potestà propria di governo (Vescovi diocesani ed equiparati e quanti altri non abbiano alcun altro ‘Superiore’ al di sotto del romano Pontefice). Ciò, d’altra parte, risponde ad un principio fondamentale della struttura gerarchica della Chiesa: l’attività pastorale, ministeriale ed ecclesiale in genere, trova la propria concretizzazione nel c.d. munus regendi il quale ha sempre un referente ‘proprio’: è a lui che compete in prima battuta la soluzione immediata di quanto non ‘funzioni’ correttamente all’interno della responsabilità di governo a lui personalmente affidata dalla/nella Chiesa …anche se concretamente gestita da Vicari o Delegati. È per questo che [b1] non si pone Remonstratio presso l’autore di una Decisione/Atto di governo assunta da un Vicario o da un Delegato (Can. 1734 §3, 1°) ma ci si rivolge direttamente a chi governa “nomine proprio” e, nello stesso tempo, [a1] ci si rivolge ad esso una sola volta per la stessa questione (Can. 1734 §3, 2°) e [a2] non si coinvolge più chi governi “nomine proprio” quando si agisca in conseguenza specifica del suo “silenzio (negatorio)” (Can. 1734 §3, 3°): in effetti chi già ‘conosce’ e non provvede adeguatamente non ha più ‘titolo’ per essere coinvolto nella soluzione del problema di cui lui stesso, a questo punto, è –almeno– parte (se non anche ‘causa’).

3.3 La Remonstratio

Sono questi il contesto ed il presupposto in base ai quali il Codice latino, davanti ad una Decisione/Atto di governo ritenuta dal suo destinatario ‘inadeguata’ (perché a lui “gravosa”), indica come prima ed immediata ‘reazione istituzionale autonoma’ non tanto la rottura delle relazioni con l’Autorità ma, al contrario, proprio l’avvicinamento istituzionale ad essa, per intraprendere una nuova fase di conoscenza-valutazione-giudizio –questa volta– ‘bilaterale’ in vista della possibile/necessaria correzione o revoca della Decisione/Atto in questione, già indicata come forma di ‘Autotutela’ posta in essere da parte dell’Autorità di governo ecclesiale, che rimane l’unico vero ‘soggetto’ della Decisione/Atto de qua.

3.3.1 Un nuovo ‘contesto’

Il percorso sin qui seguito ha messo in evidenza la necessità (o, almeno, la grande utilità) di evitare termini/concetti quali “contenzioso”, “opposizione”, “impugnativa/zione”… per indicare giuridicamente l’attività del destinatario nei confronti del decisore. L’individuazione, poi, [a] di uno specifico Istituto giuridico autonomo rispetto al Recursus gerarchico oltre [b] alla suggerita adozione delle figure giuridiche tipiche dell’Autotutela da parte dell’Autorità di governo ecclesiale, sollecita ulteriormente a cercare ‘altrove’ la terminologia e le concettualizzazioni più appropriate per delineare in modo ecclesiologicamente aggiornato –e corretto– l’intero contesto.

L’attenzione potrebbe così cadere sul termine-concetto di “resistenza” che offre il vantaggio (semantico, sintattico e logico) di mantenere in chiara evidenza la posizione istituzionalmente non-paritaria del decisore e del destinatario a lui comunque sottoposto, indicando –per altro adeguatamente– la vera ‘natura’ del rapporto creatosi a seguito della Decisione/Atto in oggetto: il destinatario di una Decisione/Atto di governo che ritenga di non poterla ‘applicare/eseguire’, poiché a lui specificamente “gravosa”, in realtà non fa altro che “resistere” alla stessa, sollecitandone almeno la modifica da parte del suo autore (che così agirebbe in/a –propria– Autotutela).

Le maggiori sistematizzazioni della materia oggi disponibili in ambito canonico, tuttavia, non sembrano cogliere specificamente questa lettura, oppure si mostrano molto incerte al riguardo, preferendo senza dubbio l’impostazione contenziosa …più ‘tradizionale’.

a) Eduardo Labandeira (nel 1993) all’interno dell’esposizione della ‘sua’ teoria e sistematica del Recursus gerarchico, che «è contenzioso», tratta specificamente delle “attività preliminari”, indicandole come “intento di conciliazione” e “supplica all’autore dell’Atto”; circa la ‘natura’ di quanto previsto dal Can. 1734 egli scrive che

«tale supplica non si presenta né come un diritto, né come una grazia per l’amministrato, ma come un requisito che deve precedere il Ricorso e un privilegio per l’Amministrazione. In effetti si tratta di un preavviso dato all’Autorità perché non venga colta di sorpresa, possa valutare le conseguenze di un possibile Ricorso e abbia il tempo di prendere una decisione a riguardo dell’Atto in questione. […]

Secondo noi non si tratta di un vero Ricorso, ma tutt’al più di un Ricorso improprio, giacché manca del carattere di reclamo o d’impugnazione proprio del Ricorso stesso».

Non passa certo inosservata a questo proposito la non-adozione dell’Istituto dell’Autotutela amministrativa che gli stessi Ordinamenti statuali a ‘regime amministrativo’ che l’autore assume programmaticamente in modo ‘esemplare’ conoscono ed attuano con proficuità.

b) Nel 1996, Francesco D’Ostilio legge –molto debolmente– la “supplica o rimostranza” dei Cann. 1732-1734 in termini di [«cioè»] “ricorso grazioso”, per poi assumere con chiarezza la prospettiva che la «controversia sorta tra il fedele e l’Organo della P.A.» divenga –volontariamente ed ‘immediatamente’– “Ricorso” al quale, tuttavia, occorre premettere la “richiesta all’autore della revoca o riforma”. Che l’Istituto dei Cann. 1732-1734 sia puramente formale/funzionale al Recursus, senza alcuna reale consistenza e funzione propria, appare con evidenza nella considerazione che

«questa “supplicatio”, che comunemente si chiama opposizione o rimostranza, mentre offre all’autore del Decreto la possibilità di riesaminare la decisione, discuterla con l’interessato, revocarla o riformarla, nell’intento di evitare che sorga la controversia, offre all’interessato uno spazio maggiore per preparare l’eventuale Ricorso gerarchico».

Tale Atto, infatti, da parte del destinatario «non è un vero e proprio Ricorso, ma costituisce il requisito previo perché uno possa interporre il Ricorso all’Autorità gerarchicamente superiore».

c) Secondo il prof. Jorge Miras nel Commentario esegetico di Pamplona (anno 2002)

«esa “petitio” no es propiamente un Recurso, ya que no posee el carácter impugnatorio propio de todo Recurso: la presentación de esa petición no instaura todavía el conflicto jurídico entre la Autoridad y el fiel afectado. […]

Así pues, se trata simplemente de una petición, solicitud o súplica, que puede encuadrarse correctamente, siguiendo a Labandeira, entre las realidades designadas históricamente con el nombre de “supplicatio”, y que es anterior al verdadero Recurso. Su finalidad es sobre todo prevenir a la Autoridad eclesiástica de que hay alguien que se considera perjudicado por su Acto administrativo y tiene interés en recurrirlo, de modo que pueda reconsiderar su decisión y optar, bien por reafirmarse en ella, afrontando el Recurso, o bien por revocarla o modificarla. […]

Y, ciertamente, resulta razonable que la Autoridad eclesiástica que emite un Acto administrativo en ejercicio de su función de gobierno no se vea sorprendida por la interposición de un Recurso, del que su primera noticia sea la comunicación hecha por su Superior jerárquico, sin haber tenido oportunidad de intentar explicar mejor al afectado el motivo de su decisión, o de haber modificado o retirado su decisión, tras reconsiderarla movido por las razones afloradas en el diálogo con el fiel que se considera agraviado».

d) Anche Pio Vito Pinto, più recentemente (anno 2006) ma non altrimenti, parla di “Istanza previa” (ovviamente al Recursus gerarchico vero e proprio!) come «ricorso in opposizione o di rimostranza, se diretto al Superiore autore del provvedimento che si intende impugnare, di cui si chiede la revoca o la riforma».

e) Ancora nell’anno 2009 gli autori dell’Università della S. Croce (e Pamplona), per parte loro, parlano di “controversia non formale” «vale a dire, non istituzionalizzata in un ambito giuridico di soluzione […] tra due parti aventi interessi tra loro contrastanti», evidenziando anch’essi l’interesse quasi esclusivo per il Recursus gerarchico come tale (=contenzioso amministrativo) e declassando l’Istituto dei Cann. 1732-1734 a semplice “passo previo al Ricorso” e “richiesta previa di correzione o revoca” in cui rileva l’elemento semplicemente temporale della ‘previetà’ al Recursus vero e proprio: pura Procedura! Lo status di esiguità (=insignificanza) giuridica di tale Richiesta è subito esplicitato dagli stessi con la precisazione che

«non è un Ricorso in senso tecnico, dal momento che non ha il carattere di impugnazione, tipico di tale Atto: la sua presentazione, di fatto, non instaura ancora una lite giuridica, vale a dire un contraddittorio tra l’Autorità e l’interessato […]. Si tratta dunque semplicemente di una domanda, richiesta o supplica […], anteriore al Ricorso vero e proprio»

con finalità puramente ‘ammonitoria’(!?) nei confronti dell’Autorità che, in tal modo, verrebbe “avvertita” (=notifica?) che qualcuno ha intenzione di “impugnare l’Atto” …implementando di fatto una vera minaccia/ricatto sostanziale: aut modificare l’Atto aut “affrontare il Ricorso gerarchico”, in una prospettiva difficilmente qualificabile come ‘ecclesiale’. Non di meno l’impostazione fondamentale della questione pone proprio il destinatario dell’Atto in posizione ‘attiva’ (=“ricorrente”) e l’autore dell’Atto nella posizione di “resistente”, presumendo che davanti al Superiore gerarchico si collochino –proprio come davanti ad un Giudice– un ‘offeso’ ed un ‘offensore’ e non la concreta inapplicabilità di una inadeguata Decisione/Atto di governo!

3.3.2 L’Istituto ‘autonomo’ della Remonstratio

Il termine “Remonstratio” (=rimostranza, protesta, dissenso) che varrebbe la pena di utilizzare in modo specifico e tecnico per indicare espressamente ed univocamente l’Istituto dei Cann. 1732-1734 del Codice latino, evidenzia bene l’atteggiamento del destinatario dissenziente nei confronti di un Decretum che lo riguardi: a chi è “gravatus” l’Ordinamento riconosce la ‘possibilità’ di chiedere (“petere”) che il decidente ritorni sul proprio Atto mutandolo in modo più o meno radicale (dalla ‘correzione’ fino alla ‘revoca’) affinché sia possibile, nel caso, ‘riceverlo’ ed attuarlo, senza che ciò debba necessariamente [a] né configurare un ‘proposito’ contenzioso, [b] né presupporre una ‘violazione’ di Norme o di diritti, [c] né denunciare un danneggiamento.

La questione terminologica in questo caso non è meramente formale poiché, fino a quando si tratti di sola istanza o formalità “previa” al Recursus, poco importa come la si indichi; trattandosi, per contro, di un Istituto giuridico autonomo e potenzialmente risolutivo, la sua individuazione non può prescindere da un nomen adeguato che ne manifesti con chiarezza il contenuto, la finalità, la struttura e le funzionalità.

In questa prospettiva, chi “dissente”, chi “fa opposizione” e/o “solleva rimostranze” nei confronti della Decisione/Atto assunta, attua una resistenza attiva col dichiararne motivatamente la non-recezione/esecuzione e manifestando il proprio espresso dissenso con cui formalizza in modo evidente la concreta inadeguatezza di tale Decisione/Atto: di qui la necessità della forma scritta e della tempestività (dieci giorni utili) del proprio agire. Proprio la pronta reazione istituzionale (non basta la semplice lamentela, casomai telefonica) del destinatario, realizzata ad normam Iuris, palesa la grave improprietà/inadeguatezza della Decisione/Atto ‘gravosa’, fornendo poi –anche in un secondo momento– all’Autorità di governo nuovi elementi o loro ulteriori valutazioni che la inducano a ritornare sui propri passi, ‘correggendo’ essa stessa il proprio operato.

Proprio questo concetto di “resistenza” pone –oggi– il destinatario della Decisione/Atto in una condizione ben diversa da chi –in un passato neppure troppo remoto– non poteva avere altro strumento che una semplice “petitio” o una più blanda “supplicatio” nei confronti dell’Autorità di governo ecclesiale. La questione, d’altra parte, era certa ed indubitabile: ciò che l’Autorità ha deciso (=præceptum) è ciò che –comunque(!)– si deve fare …anche moralmente e spiritualmente, “virtute religionis adstricti”; l’obbedienza ecclesiastica era divenuta ormai ‘teologale’ e costitutiva degli stessi status personarum di chierici e religiosi/consacrati. Il Decretum (=scelta/decisione, da “decerno-is”) aveva sempre valore costitutivo, sostanziale e giuridico, in forza della –sola– volontà/imperium del (Superiore) decidente: ius quia iussum …nessuna possibile ‘resistenza’ era ipotizzabile/ammissibile di principio. Rimaneva soltanto un piccolo spiraglio –“ratione maternitatis Ecclesiæ” o “benevolentiæ gratia”– attraverso cui tentare in qualche modo di ‘sottrarsi’ al Decretum: sempre, comunque, una ‘passiva’ via di fuga attraverso le maglie ‘dogmatiche’ del precedente Ius Publicum Ecclesiasticum (internum).

Per contro, ma senza costituire un reale cambio di prospettive, quanto proposto oggi dagli autori, sulla pretesa scia del mutamento ecclesiologico conciliare formalizzato nei “fidelium iura”, sembra porsi invece all’estremo opposto attraverso il contenzioso diretto in forza dei “diritti soggettivi” che finalmente la Chiesa oggi [a] non solo riconosce di principio a tutti i fedeli ma [b] anche tutela espressamente contro i loro Superiori …in modo tale che quanto una volta si chiedeva sommessamente per grazia, oggi lo si esiga ad alta voce per pretesa giuridica …davanti ad un Giudice!

Di tutt’altra natura è l’atteggiamento di chi, con lucidità e fermezza, “resiste”. “Resistere”, infatti, a differenza di “chiedere” o anche solo “protestare”, significa e comporta avere motivazioni ed elementi concreti e reali da addurre e sui quali potersi confrontare per sviluppare dinamiche (argomentative, dialettiche e dimostrative) potenzialmente capaci di cambiare le ‘carte in tavola’ a livello di conoscenza-valutazione-giudizio, lasciando ragionevolmente ipotizzare anche una decisione differente da quella già assunta. Di fatto è proprio la Legge che guida in questa direzione indicando quale oggetto dell’agire del destinatario la richiesta espressa e formale, quanto meno, della revisione o modifica della Decisione/Atto in oggetto …cosa inammissibile in campo giudiziale/ario, poiché tali Decisioni (Sententiæ) sono ormai concluse e possono solo essere impugnate/appellate affinché vengano tolte di mezzo da parte di un ‘terzo’ rispetto alla vicenda in questione.

In modo ben diverso si configura, invece, la sostanziale “Notifica ad effetto sospensivo” che gli autori sembrano supporre quale reale consistenza di quanto prescritto dei Cann. 1732-1734 in vista del Recursus amministrativo vero e proprio; quasi si volesse dire che: chi vuole presentare Recursus gerarchico contro il proprio Superiore deve prima ‘interromperne’ la “buona fede” attraverso formale Notifica del rifiuto dell’Atto di governo in oggetto …secondo una logica in fondo non radicalmente diversa da quanto deve fare la stessa Autorità attraverso la “Monitio” prima di sanzionare un fedele a lei soggetto (Cann. 1339).

Il presupposto, d’altra parte, è assolutamente chiaro e ben espresso da uno dei ‘padri’ del Diritto amministrativo canonico contemporaneo, secondi cui:

«se si vuole garantire la giustizia nella Chiesa, non si può confondere la via gratiæin volentes et potentes–, con la via amministrativa. Sarà sempre possibile chiedere grazie alle Autorità, ma la giustizia ha ben precise esigenze. I poteri non disciplinati portano all’arbitrio e danneggiano il bene pubblico e quello privato.

Non è neppure conveniente difendere ad oltranza il principio del dialogo, che, come sappiamo e come è stato ribadito continuamente nei documenti del Vaticano II, è estremamente necessario nei rapporti umani, nella comunicazione, nella ricerca del consenso su questioni opinabili, nonché, entro certi limiti, nella ricerca della verità»,

senza trascurare come «in materia di governo, si parla di dialogo in senso analogico e relativo», assumendo pacificamente come principio che «se la Gerarchia deve servire la comunità esercitando un comando, ha bisogno di prendere decisioni unilaterali». Cosa ne sia –e ne rimanga– della Chiesa “delle origini” che il Concilio Vaticano II tenta di ‘ripresentare’ è di tutta evidenza!

3.3.3 Elementi complementari

Vale certamente la pena specificare a questo proposito come, data la præsumptio Iuris per la validità della Decisione/Atto di governo e per la sua liceità in linea di principio (Can. 124 §2), il problema della Remonstratio –salvo rari casi– non riguarderà tanto aspetti di ‘legittimità’ (formale) delle Decisioni di governo quanto molto più facilmente –e radicalmente– la loro appropriatezza alla specificità e singolarità delle condizioni e circostanze di ‘cose’ e soprattutto di persone (=aggravio nei confronti del destinatario), spesso (purtroppo ancora) ignote a molti tra coloro che esercitano il governo ecclesiale. D’altra parte, chi gode di una maggior contestualizzazione e prossimità alla situazione particolare in oggetto (il destinatario immediato) ha anche la possibilità di fornire ulteriori elementi di discernimento e giudizio circa le stesse, in modo tale che la decisione dell’Autorità ecclesiale sia la migliore possibile, tanto a fondamenti che ad efficacia.

Ciò, tuttavia, spinge con evidenza oltre lo stretto disposto di Legge che non impone –come invece nelle più specifiche Procedure per la Rimozione ed il Trasferimento dei Parroci– l’espressa esposizione di quanto ‘si oppone’ all’adempimento della Decisione/Atto: l’opposizione infatti, per quanto obbligatoriamente in forma scritta per la necessaria certezza giuridica, «non necessariamente deve essere motivata». Se ciò si mostra certamente favorevole al destinatario di una Decisione/Atto ‘gravosa’, che in tal modo può agire immediatamente anche assumendo un atteggiamento ‘di minima’, già sufficiente –però– a sospendere l’attuazione/esecuzione e rimandando ad un secondo momento una più chiara delineazione dei diversi elementi e problemi che la Decisione/Atto a lui diretta comporta per la sua vita, non di meno affinché il decidente possa ritornare sulla propria Decisione/Atto per rivederla, correggerla, annullarla, sarà necessario addurre adeguati motivi di conoscenza e valutazione. La cosa, tra l’altro, non potrà essere ‘evitata’ all’interno della ricerca “di comune accordo di un’equa soluzione” per il problema evidenziatosi (cfr. Can. 1733 §1).

Proprio in ragione di questo necessario ‘ulteriore apporto’ di elementi, circostanze, valutazioni (ed altro) appare possibile, dal punto di vista teoretico/dottrinale, presentare la Remonstratio (con le sue immediate conseguenze formali e sostanziali) come una vera e propria fase straordinaria di discernimento –per quanto ‘forzoso’ ed estrinsecamente indotto su istanza di parte– in vista della emanazione di una efficace Decisione/Atto di governo, attraverso la quale l’Autorità esecutiva interviene lecitamente e proficuamente nella rimodulazione di una propria precedente Decisione/Atto inefficace, senza che l’iniziale inadeguatezza di quanto deciso infici l’esercizio della potestà esecutiva di governo. I nuovi dati messi a disposizione attraverso la ‘rimostranza’ del destinatario si saranno manifestati ormai sufficienti a circostanziare meglio la situazione concreta, producendo una nuova –efficace– Decisione/Atto di governo …o estinguendola del tutto, se davvero palesatasi non congrua. 

In questo modo –al contrario di quanto sostenuto da chi non voleva veder messa in discussione in alcun modo l’autorità episcopale– l’Autorità potrà conservare il proprio ruolo ‘ministeriale’ (senza divenire né idolo né spauracchio) ed i fedeli, per parte loro, potranno continuare a porre in essa la fiducia necessaria per una effettiva condivisione della stessa missione ecclesiale, senza ridurre la propria appartenenza ‘istituzionale’ a mera sudditanza (passiva) …senza che nessuno debba previamente “avvertirla” dell’incombenza di un contenzioso, evitandole così di essere «presa alla sprovvista dall’interposizione di un Ricorso»; anche perché in realtà un tale Ricorso non potrebbe in alcun modo essere attivato/inoltrato senza che l’Autorità in questione ‘partecipi’ in qualche modo alla Procedura stessa dandogliene ‘ragione/legittimazione’ …almeno col proprio ‘silenzio’ negatorio (cfr. Can. 1735)! Con la Remonstratio, pertanto, non “si avvisa” l’Autorità ma la si coinvolge! E sarà proprio l’atteggiamento ‘negativo’ (ostatorio, avverso, inconcludente, sprezzante…) dell’Autorità stessa a creare l’unico ‘appiglio’ possibile per poter inoltrare al ‘suo’ Superiore gerarchico il proprio Ricorso; Ricorso che, a rigor di Logica e di Diritto, non è contro l’Atto amministrativo originario, ma contro la sua non-riconsiderazione da parte di chi lo ha emesso. Esattamente ciò che costituisce il ‘presupposto’ per presentare il proprio “iustum motivum” al Superiore gerarchico di chi non abbia adeguatamente svolto la propria funzione di efficace governo ecclesiale.

3.4 Complessità e sviluppi

Quanto sin qui esposto a livello più di inquadramento prospettico generale che a specifico scopo ‘tecnico’ (comunque non assente), se per un verso indirizza in modo deciso gli sviluppi dell’attuale teoria amministrativistica canonica verso direzioni ancora soltanto ‘di-preferenza’, non di meno non rinuncia a prospettare anche alcuni elementi di problematicità che meriteranno futuro specifico studio e sviluppo.

3.4.1 Conciliazione e mediazione

Il Can. 1733 che fornisce gli elementi operativi sostanziali per la gestione delle ‘crisi’ di efficacia delle Decisioni di governo ecclesiale, proprio ipotizzando ab origine che l’unico esito possibile non possa/debba essere quello contenzioso –come sin qui motivato ed esposto–, lascia però intendere che la concreta correzione (emendatio) della Decisione/Atto in oggetto possa non essere facilmente esperibile, potendo o dovendo coinvolgere anche persone autorevoli (§1) o addirittura appositi Organismi a ciò deputati (§2) quali ‘mediatori’ tra Autorità di governo e destinatario della Decisione/Atto ‘gravosa’. L’elemento appare in qualche modo complementare con quanto già posto a fondamento dell’Istituto stesso della Remonstratio: la gravosità della Decisione assunta. Una gravosità che, per quanto apparentemente ‘soggettiva’, potrebbe assumere anche profili di tale ‘oggettività’ da postulare l’intervento di ‘terzi’ che aiutino nella ricerca di ‘soluzioni’ per il problema concretamente emerso. Se di ‘soluzioni’, pertanto, si tratta parrebbe doversi intendere che esistano non solo/tanto differenze di vedute tra Autorità decidente e destinatario (tali da sfociare –naturalmente?– in un vero e proprio contenzioso con opposizione delle parti) ma veri e propri “problemi” …ben più complessi –in linea di principio, almeno– di una ‘semplice’ violazione di Legge o negazione di diritti, da deferirsi all’Autorità giudiziale. Non di meno non si potrà –in tali casi almeno– far leva sulla necessaria ‘unilateralità’ che l’esercizio del governo deve comportare in modo ‘nativo’, sul presupposto che «è importante che chi svolge la funzione di governo possa farlo senza ostacoli, con strumenti giuridici e tecnici adeguati, godendo della necessaria discrezionalità» ipotecando così di principio la corresponsabilità che deve stare alla base della comune partecipazione alla stessa missione della stessa Chiesa.

3.4.2 Un ‘nuovo’ favor Iuris

Tra gli elementi di novità emergenti dalle problematiche sin qui esposte se ne colloca uno che, per quanto assolutamente indiretto, non manca certo di evidenza e costituisce, anzi, la vera novità ‘costituzionale’ da assumere quale necessaria chiave di volta dell’intera relazionalità intra-ecclesiale: il favor Iuris Christifidelium che, di fatto, pone oggi i fedeli in quanto tali (indipendentemente dal loro status) in una posizione di sostanziale ‘favore’ rispetto all’agire dell’Autorità ecclesiale: è questa, infatti, che nel proprio operare deve comportarsi non solo in modo formalmente legale ma anche sostanzialmente ‘accettabile’, se non proprio pienamente ‘condivisibile’ …pena l’inefficacia delle proprie Decisioni che risultino ‘gravose’ per i loro destinatari …che –ora(!)– potranno (in qualche modo) ‘respingerle’ senza cadere né in un ‘gravosissimo’ e sempre traumatico contenzioso col governo ecclesiale, né in una sorta di minoritas morale e spirituale, come si addice(va) ai rei di insubordinazione e resistenza ai Superiori (diverso da disubbidienza).

Non si può negare in proposito che la prospettiva ecclesiologica, e conseguentemente potestativa, sia radicalmente mutata attraverso il Vaticano II; mentre, infatti, in precedenza il favor Iuris era comunque a vantaggio dell’Autorità ecclesiale, all’interno di uno schema di vera sudditanza che non permetteva ordinariamente di ‘resisterle’ attivamente ma solo di ‘innalzare suppliche’ benevolentiæ gratia, nel Codice latino post-conciliare è riconosciuto ai fedeli un vero ruolo attivo anche all’interno delle Decisioni di governo che li riguardano …fino a poter ‘partecipare’ alla loro miglior delineazione (almeno in seconda battuta).

3.4.3 Un ‘nuovo’ concetto di efficacia giuridica

L’assetto normativo delineatosi attraverso soprattutto i Cann. 1732-1733, che devono essere ritenuti ed applicati come complementari ed integratori di quelli del Libro I sugli Atti amministrativi singolari, sollecita pertanto anche l’assunzione di una sorta di ‘sdoppiamento’ del concetto stesso di efficacia degli Atti giuridici canonici in genere: [a] una efficacia che potrebbe essere definita ‘iniziale’ ed [b] una efficacia ‘definitiva’ da riscontrarsi sistematicamente solo a seguito dell’accoglienza della Decisione/Atto di governo assunta dall’Autorità e correttamente notificata al suo destinatario. Per quanto ciò possa apparire una ‘inutile’ complicazione della materia e di molti Procedimenti, non pare tuttavia ipotizzabile ad oggi una seria Teoria dell’Atto amministrativo canonico che non tenga strutturalmente conto di questa piccola ‘latenza’ (dieci giorni utili dalla legittima Notifica), seppure dal punto di vista pratico del tutto trascurabile nella maggioranza assoluta dei casi.

La teorizzazione di una doppia fase di efficacia delle Decisioni di governo (iniziale e definitiva) genera immediate ricadute sulla struttura stessa del Procedimento di preparazione di tali Decisioni, sollecitandone una maggiore cura nella ‘fase’ preparatoria, onde non dover attuare troppo spesso (ed a quali ‘costi’?) la successiva Autotutela nella ‘fase ricettiva’.

In quest’ottica [a] la ricerca di notizie, elementi e dati, [b] il dialogo con le persone interessate (Can. 50), [c] il confronto con differenti punti di vista –tanto personali che collegiali (Can. 127)– in funzione di assetti ecclesiali, pastorali e personali stabili (=efficacia), sono solo alcuni degli elementi di ‘contenuto’ che il Codice, in vari modi, prescrive come formalità qualificanti le Decisioni stesse di governo ecclesiale. Proprio il fatto che la loro mancanza/carenza possa rilevare a posteriori impedendo –ex Lege– l’efficacia di tali Decisioni ne indica la inderogabile significatività che il Legislatore canonico ha dato per acquisita e già –comunque– esercitata fin dal momento di adottare tali Decisioni …che proprio per questo godono di presunta validità.

CONCLUSIONE

‘Se’ o ‘che’ la Remonstratio costituisca un ‘nuovo’ Istituto giuridico canonico autonomo scaturito indirettamente dall’Ecclesiologia conciliare e derivato direttamente dalla sintesi di circa la metà dei Principi di revisione del Codice pio-benedettino, potrebbe –anche– rimanere questione opinata… Resta però il fatto (da spiegare compiutamente, nel caso) che l’attuale ‘posizione’ dei fedeli verso le Decisioni di governo ecclesiale gode di caratteristiche affatto peculiari che ‘sembrano’ aver spostato in modo piuttosto netto l’intera questione delle Decisioni di governo ecclesiale dalla potestà/giurisdizione, alle sue finalità-modalità di esercizio.

Conoscenza-valutazione-giudizio costituiscono ad oggi le ineliminabili premesse ed i pre-supposti specifici di qualunque decisione singolare, immediata, operativa; per contro: autorità-potestà-volontà, paiono profilarsi come la ‘sola’ base istituzionale che ne richiede-giustifica l’esercizio in capo ad alcuni soggetti piuttosto che ad altri.


in: Apollinaris, LXXXV (2012), 7-72