testo pubblicato senza note (per il testo completo consultare la stampa)

Bilancio canonistico della Sesta Giornata canonistica interdisciplinare

Più che conseguire risultati specificamente ‘propri’, la Sesta Giornata canonistica interdisciplinare ha contribuito a consolidare, rendendolo ancor più organico ed armonico, il percorso sin qui effettuato attraverso varie componenti e caratteristiche sia del Diritto come tale che della sua peculiare esperienza vissuta dalla e nella Comunità ecclesiale.

Due gli indirizzi sostanziali verso cui si orientano le ‘acquisizioni’ importanti per la Canonistica odierna (e futura): [a] la fondamentalità dell’elemento valutativo per la decisione sostanziale, [b] la consistenza della dinamica auctoritas-potestas per la decisione formale; dove ‘formale’ e ‘sostanziale’ non intendono affatto opporsi, depotenziandosi, ma si completano reciprocamente, arricchendosi.

1. DECISIONE SOSTANZIALE E VALUTAZIONE

1.1 Decisione e persona

Quanto emerso dagli apporti di natura maggiormente teoretica e fondativa mette bene in risalto il grande ed irrinunciabile ruolo esercitato da ogni singola persona in ciascuna attività decisionale: un ruolo che non è meramente operativo …poiché (disgraziatamente o provvidenzialmente?) non esiste altra ‘realtà’ oltre la persona che possa davvero assumere ‘decisioni’, ma è radicalmente costitutivo.

La persona, cioè, non è il “collo di bottiglia” che rallenta ed ‘ostacola’ il regolare ed ottimale fluire della realtà secondo verità, logica, giustizia, carità, ecc.

La persona non è né de-plemento, né com-plemento, né sup-plemento, di una generica e –solo– teorica ‘attività’ decisionale, poiché il decidere non è mai un semplice “facere” (demandabile anche in buona parte ad una ‘macchina’ adeguatamente ‘istruita’ ed ‘istruibile’ –pure autonomamente–) ma costituisce e realizza sempre un vero e proprio “agere”… mai affidabile a nessuna ‘regola’ o routine, per quanto sofisticata, né ad una –non semplice– “intelligenza artificiale”… che rimarrebbe solo “calcolo” (v. infra).

Proprio l’agere –di per sé esclusivamente ‘umano’– comporta almeno tre ‘fattori’ costitutivi che differenziano la decisione (umana) dai meccanismi di selezione/computo propri delle macchine: [a] la coscienza/consapevolezza, che si attua ed esprime attraverso i dinamismi coscienziali ed in particolare la ‘coscienza riflessiva’ (cosciente anche di se stessi coscienti/conoscenti), [b] il giudizio-assenso, a cui si perviene grazie alla coscienza riflessiva che impone il confronto con la realtà e la (sua) verità, [c] la relazionalità-responsabilità nei confronti degli altri, del mondo, degli eventi –coinvolti o coinvolgibili– verso i quali s’indirizzeranno le ricadute/conseguenze della decisione stessa.

L’apporto filosofico del Novecento (Fenomenologia, Ermeneutica, Personalismo…) risulta insostituibile in merito, almeno sotto il profilo gnoseologico ed epistemologico, come ben illustrato da B. Lonergan.

In questa prospettiva non può trascurarsi neppure come il problema del calcolo/computo sia un problema assolutamente strutturale in campo esistenziale (e, quindi, giuridico) poiché comporta una fallacia di base: la non possibile gestione delle ‘connotazioni’. Il computo, infatti, opera per referenze a/di denotazioni (cioè le singole “res” come tali: questa, quella, anche quell’altra…) ignorando del tutto le (loro) specifiche connotazioni (cioè le ‘qualificazioni’ esistenziali degli eventi: “acta et facta”). In tal modo non risulta sostenibile alcuna ‘equivalenza’ tra decisione e calcolo/computo, poiché una decisione comporta sempre valutazione e non semplice referenza; una valutazione che opera sempre in via di qualificazione/connotazione della realtà e non di sua mera assunzione/denotazione.

Il problema della connotazione, però, coincide sostanzialmente con quello della semantica: il modo di chiamare (=denotare) cose ed eventi, infatti, dipende dal significato attribuito loro (=connotazione): un “uccisore”, infatti, sarà un “assassino” secondo la semantica del dolo, oppure un “incompetente/distratto/superficiale” secondo quella della colpa.

A ciò si aggiunga pure la componente espressamente gnoseologica irrinunciabilmente posta alla base di qualunque valutazione-giudizio-decisione, la quale distingue tra “conoscenza” (sempre della persona) ed “insieme di informazioni”, quali possono essere possedute/gestite da una macchina: la conoscenza di una persona e la sua ‘cultura’, infatti, non sono riducibili alle sole informazioni da essa possedute e gestite.

Di fatto: solo la persona può “decidere” in senso proprio, poiché solo la persona può valutare e scegliere (=giudicare), riuscendo a collegare tra loro quantità notevoli di elementi, circostanze e fattori –spesso assolutamente disomogenei– che le permettono di giungere a quell’‘unicum’ che ogni decisione costituisce e realizza. Unicum, poiché tale è sempre ogni decisione: una sola, infatti, delle innumerevoli ‘possibilità’ diventa realtà, l’unica realtà! Ciò soprattutto in ambito giuridico, dove il Decreto o la Sentenza ‘creano’ davvero una realtà nuova (=performatività dell’agire giuridico).

1.2 Decisione e futuro

L’elemento, soprattutto, che –qui giunti– dev’essere posto in luce in modo sintetico-propositivo nella decisione è il suo chiaro sbilanciamento verso il futuro; intenzionalità o volontà che sia, poco cambia. È questa, però, anche la vera possibilità e potenzialità contenuta nella decisione: la sua funzione innovativa, la sua creatività, il suo ‘porre altro’ rispetto agli elementi già entrati in gioco (=passato) o anche rispetto al ‘prezzo’ eventualmente da pagarsi al momento (=presente).

Non che questo possa (né debba) rendere inutile o superfluo il ‘passato’, dal quale non può che derivare per essere ‘fondata’ e ragionevole: l’enfasi ripetutamente posta sulla necessaria conoscenza, infatti, ne rimane la chiara tutela. Per decidere è indispensabile conoscere… altrimenti si ‘inventa, si ‘crea’ –arbitrariamente– il futuro: esito ben diverso da quello perseguito dall’attività giuridica come tale, nel suo regolare e dirigere le relazioni sociali verso esiti comunque pacificanti e non verso meri schemi ‘operativi’ fissati ‘di principio’.

Per decidere occorre prima giudicare e per giudicare è necessario conoscere (riflettendo su ciò che si è compreso). Mentre però su questo sembrano, a tutt’oggi, esistere poche esitazioni plausibili, una specifica attenzione al futuro appare irrinunciabile per evitare che derive selettive/computazionali (in fondo formaliste/positiviste) ri-prendano possesso, se non della pratica giuridica in sé e per sé, almeno delle sue teorizzazioni/aspirazioni. Eventualità che si è già tentato di ‘disinnescare’ attraverso la riflessione sulla funzione essenzialmente ‘cognitiva’ (=scoperta) prima che argomentativa (=computo) della Logica nel Diritto, sollecitando serie cautele verso la reale efficacia gnoseologica del sillogismo.

L’irrinunciabile attenzione al futuro permette inoltre di mantenere in luce la natura irriducibilmente prudenziale del Diritto e del suo ‘esercizio’: non per nulla le Decisioni giudiziali vanno a formale la “Giurisprudenza”, diversa tanto dalla dottrina che dalla Normativa.

1.3 Decisione e ragione

Razionalità e ragionevolezza non si pongono sullo stesso piano: ciò che, infatti, i diversi modelli/schemi razionali (=logici) mettono a disposizione delle potenzialità di calcolo –sia ‘umane’ che ‘artificiali’– rimane sempre assolutamente insufficiente ad una vera decisione, che non sarà mai una soluzione nel senso tecnico utilizzato in Logica e Discipline simili… la decisione, anzi andrà ricercata proprio tra le (concomitanti, concorrenti, alternative) ‘soluzioni’ possibili (“legittime”, in linguaggio giuridico) in base alla loro ‘proiezione’ sul futuro ed alle conseguenze implicate (ammissibili). Mentre, infatti, il calcolo tiene conto del ‘già fatto’ o anche del ‘già previsto’, la decisione sa –o, almeno, deve– rapportarsi ed interagire anche col ‘prevedibile’. La ragionevolezza diventa così la vera istanza suprema che fa decidere in un modo ‘migliore’ anziché in molti ‘altri’ solo possibili: ciò che emerge nella ‘classica’ dialettica tipicamente giudiziale tra iustitia (soluzione razionale, calcolata) ed æquitas (possibilità ragionevole, valutata).

Nella stessa prospettiva di necessaria ragionevolezza si pongono anche i fondamenti delle varie modalità ‘dialogiche’ adottate in modo specifico in ambito giuridico e, specialmente, giudiziale laddove attraverso la collaborazione (almeno funzionalmente dialogica) di tutti i partecipanti si cerca di delineare –o anche (solo) selezionare/eleggere– una “razionalità possibile” –poiché sovra-individuale– che possa sostenere a sufficienza la decisione finale adottata in modo potestativo dall’Autorità competente.

La portata ed irrinunciabilità della problematica si amplia quando, invece di decidere de præterito, come avviene per il Giudice, si deve decidere de futuro, come avviene per chi presiede il funzionamento o l’operatività di una Organizzazione/Istituzione (il c.d. governo). In esso, infatti, più che trovare ‘soluzioni’ a situazioni problematiche emerse nella quotidianità, l’attività sostanziale consiste nel porre in opera le ‘risorse’ (personali e materiali) per un futuro che realizzi specifiche esigenze e consegua obiettivi predeterminati in sede ‘intenzionale’ (=politica).

Quanto evidenziato anche in ambito psicologico circa la diversa ‘partecipazione’ del futuro alla consistenza (identità, qualità, tenuta) delle decisioni esistenziali appare significativo in merito: la ‘qualità’ di una decisione, infatti, non dipende soltanto dagli apporti del passato e del presente ma dall’impegno per il futuro. Ciò che nell’oggi può essere voluto e certo in sé, potrebbe anche non rimanere stabile nel tempo se ed in quanto non ‘integri’ a sufficienza un/il futuro nella valutazione posta alla base della decisione stessa.

In questo modo la considerazione psicologica, lungi dallo psicologismo –vivamente combattuto dalla Fenomenologia husserliana– che potrebbe creare pericolosi scivolamenti relativistici passando dal ‘Giudizio’ all’arbitrio, non fa altro che aggiungere un nuovo ‘fattore’ a quelli coscienziali già evidenziati (v. supra).

2. DECISIONE GIURIDICA, AUCTORITAS E POTESTAS

Di fatto la categorialità del Diritto quale fenomeno espressamente umano, la sua natura/funzione prettamente regolamentare, la sua diretta connessione alla vita sociale (=induttività), la costitutività del riferimento personale e non semplicemente antropologico –già emersi nelle riflessioni delle precedenti Giornate– contribuiscono ad evidenziare con chiarezza, una volta di più, il fatto che né auctoritas (come avviene prevalentemente in ambito civile) né potestas (indicata, spesso, come ‘peculiare’ dell’ambito canonico) costituiscono –in realtà– ragioni/condizioni necessarie e sufficienti per ‘fondare’ –e ‘mantenere’– il Diritto …né a livello ‘umano’ né a livello ‘religioso’.

Ciò nonostante, come emerso a più riprese durante l’intero percorso, il binomio auctoritas-potestas continua a rimanere pressoché irrinunciato nelle teorizzazioni anche contemporanee del Diritto, cedendo spesso a vere e proprie assolutizzazioni rispetto all’altro estremo dello stesso ‘pendolo’ concettuale-fondativo (del Diritto stesso) costituito dalla sostanziale corresponsabilità dell’intero contesto socio-istituzionale di riferimento… senza che l’essere “societas” o “communitas”, di natura semplicemente ‘umana’ o religiosa, introduca reali differenze né in linea teorica né –tanto meno– in quella pratica.

2.1 “Auctoritas” e “potestas”: quale fondamento?

Giudici e governanti, in fondo, non fanno altro che ‘gestire’, pur assumendola anche in prima persona come accade per i chierici nella Chiesa, una ‘posizione’ di indirizzo (nel senso della ‘norma’ come direzione vera e propria di sviluppo intenzionale) che in realtà è –solo– una specifica ‘funzione’ comunque ‘affidata’ all’interno della società/comunità. Affidata ed accolta/riconosciuta, al tempo stesso.

Per quanto, infatti, nelle teorizzazioni –soprattutto moderne– del Diritto si possa insistere sulla coercitività a disposizione dell’Autorità per far rispettare la ‘Norma’ (Legge, Precetto, Sentenza… disposizione), non di meno tale coercitività deve sempre essere esercitata da/attraverso qualcuno che –riconoscendo la ‘legittimità’ di quanto stabilito/intimato– se ne faccia ‘esecutore’ anche fisico, nella certezza di non esercitare –né per sé, né per conto di altri– vendetta, violenza privata o sopraffazione ma la realizzazione di una “disposizione legittima”. “Legittima” non in sé e per sé, in quanto proceduralmente ‘corretta’, o autoritativamente impartita da legittimo ‘superiore’ (il kelseniano “keine Imperativ ohne Imperator”), ma nella società/comunità e per chi la esegue. Accuse, difese/giustificazioni, condanne, al Processo di Norimberga per i gerarchi nazisti lo hanno ben evidenziato: il solo “obbedire agli ordini” dell’Autorità (del momento) non basta! Non di meno: i casi in cui, lungo la storia, la forza pubblica o quella militare non hanno –almeno di fatto– accolto/assecondato le direttive dei loro ‘superiori’ costituiscono un chiaro esempio di assenza di ‘credibilità’ o [a] circa la legittimità della decisione/giudizio in sé e per sé, oppure [b] circa la legittimità del decidente/giudicante come tale.

In assenza di tale ‘credibilità’, però, tanto la coercizione verso l’obbligato che il suo assoggettamento non possono esercitarsi proprio per non-riconoscimento della decisione stessa da parte dei suoi esecutori …prima ancora che di destinatari più o meno specifici.

Questo, però, mette in luce come la decisione/giudizio non sia mai un fatto-a-sé, riconducibile soltanto alla coscienza e responsabilità individuale del decidente/giudicante, ma coinvolga almeno una parte significativa dell’intera società/comunità di riferimento… rendendola ‘corresponsabile’, almeno per inerzia o non-opposizione o anche solo ‘accettazione’ e ‘sottomissione’. Di fatto negli Stati si governa e si giudica “in nome del popolo”, nella Chiesa “in nome della fede in Dio”: è solo questa non-autoreferenzialità del governante/giudicante che ne rende ‘possibile’ (=accettabile) ed assumibile la decisione, per quanto eventualmente gravosa …in un incontro di consapevolezze e volontà sempre ‘personali’.

Le diverse modalità e forme decisionali, soprattutto giuridiche, illustrate nelle Relazioni della Giornata (Arbitrato e Mediazione in primis), intervengono pertanto ad offrire nuova linfa alla riflessione non tanto sul ‘come’ ma –ben più radicalmente– sul ‘perché’ dell’esercizio potestativo ecclesiale. Se, infatti, la Chiesa non è più ‘costituzionalmente’ la “societas inæqualium” dello Ius Publicum Ecclesiasticum ‘discriminata’ in ragione del Sacramento dell’Ordine che ‘costituiva’ nei gradi gerarchici, ma il nuovo Popolo di Dio accomunato dall’unico Battesimo e raccolto attorno alle mense della Parola e dell’Eucaristia, allora auctoritas e potestas vengono comunque ‘dopo’ la pienezza dell’Iniziazione cristiana, quali ‘specifici modi’ e non ‘semplici gradi’ (cfr. LG 10) di concretizzazione della propria configurazione sacramentale a Cristo.

Se tale impostazione risultasse riconosciuta/accolta sotto il profilo fondativo-costitutivo, non si potrebbe evitare di trarne la conseguenza (‘innovativa’ quanto –al contrario!– ultra millenaria) che decidere e giudicare –cioè la Iurisdictio– nella Chiesa (ma non in essa soltanto) dipendono e derivano –in realtà– da un munus/ministerium esercitato in aliis e non da una auctoritas/potestas posseduta in proprio… senza che, in realtà, il ‘modo’ di attribuzione del munus/ministerium stesso (Ordinazione sacra o no) faccia una concreta differenza quanto al suo esercizio. L’Ordine sacro, infatti, quale ‘abilitazione ontologica’ all’esercizio della (sacra) potestas, si colloca –anche dal punto di vista giuridico vigente– tra i requisiti soggettivi per la sua assunzione/esercizio ministeriale, ponendosi pertanto a livello di ‘condizione’ e non di ‘costituzione’…come, d’altra parte, sarebbe –ci si passi l’esempio bizzarro ma chiaro– per la necessità (soggettiva/individuale/singolare) delle gambe (=condizione) per un maratoneta (=costituzione). Allo stesso tempo occorre non scivolare nella pre-comprensione (errata!) che vuole il funzionale come in qualche modo anti-ontologico: l’approccio ontologico, infatti, non riguarda la ‘funzione’ in sé ma i suoi ‘presupposti’. La differenza tra cattolici e riformati sul ‘ministero’ in connessione o meno al Sacramento dell’Ordine è palese: se il ministero è funzione auto-refrente ed auto-fondante rispetto alla comunità, allora ciascuna comunità ‘elegge’ (o stabilisce in altro modo) ‘chi’ tra i suoi membri eserciti –anche temporaneamente ed a rotazione– tale ministero/funzione (i Pastori delle diverse Chiese evangeliche e riformate); se, al contrario, il ministero è funzione etero-fondata (quindi non auto-referente) rispetto alla comunità, l’accesso al ministero dipende giustamente da ‘altro’: cattolicamente, il Sacramento –permanente– dell’Ordine sacro.

Purtroppo l’attuale grave insufficienza della riflessione, prima di tutto teologica, sul tema della potestas –troppo spesso e facilmente definita “sacra” così da evitare qualunque tipo di necessaria giustificazione/legittimazione– non permette qui di avventurarsi oltre, per quanto possa trattarsi di una prospettiva altamente stimolante, meritevole di future attenzioni.

Facendo tesoro, invece, di quanto già maggiormente esplicitato in tema di ‘personalismo’ e corresponsabilità ecclesiali appare senz’altro possibile fissare come ‘attuale’ –e definitiva–   acquisizione l’assoluta non-individualità di principio di ogni ‘decisione’ ecclesiale. Ogni decisione autenticamente ecclesiale, infatti, si riferisce all’Autorità (individuale o collegiale) come unico ‘soggetto’ a cui spettano le ‘funzioni’ di garanzia interna ed esterna di quanto deciso (responsabilità e rappresentanza), senza tuttavia dimenticare che nessuno è mai in grado –uti singulus– di conoscere, valutare, giudicare, decidere, né della realtà, né tanto meno delle persone e della loro esistenza… tanto più nelle questioni, vicende e circostanze spirituali di cui ordinariamente si occupa il munus Ecclesiæ regendi nella pluralità delle sue espressioni. Senza che, ulteriormente, l’operare in quanto Autorità (istituzionale) aggiunga o tolga nulla alla natura/struttura propria del decidere.

Si aggiunga poi che, per quanto le decisioni istituzionali nella Chiesa (=munus regendi) siano prevalentemente ‘di’ singoli, ben difficilmente si tratta di decisioni-di-sé, com’è –invece– per la gran parte della vita ordinaria (=civile). Nella Chiesa si decide quasi sempre di e per altri… singoli e comunità, sempre all’interno di un contesto che ‘colloca’ ogni singola decisione in uno spazio/ambiente più vasto, fondato sulla comune recezione di un dono (=munus) ed adesione ad un compito condiviso (=munus): la missio Ecclesiæ che, fisiologicamente, pone alcuni cristiani nel ruolo di guide/pastori, molti altri in quello di discepoli-di-Cristo in cammino verso la santità, in ragione di una differenziazione che –per quanto ‘ontologica’ (“causa efficiente”, se ciò aiuta a farsi comprendere)– è, e rimane, sostanzialmente ‘funzionale’ (“causa finale”), continuando ad implicare l’apporto di tutti e ciascuno alla causa comune; l’utilizzo del termine “ministeriale” invece di “funzionale” rende –forse– meno ambiguo il linguaggio, pur non mutandone l’essenza.

2.2 Dipendenza dell’“auctoritas” dalla “potestas

Governo e Giudizio, d’altra parte, costituiscono da sempre –e ad ogni buon effetto– soltanto ‘funzioni’ finali ed operative di ogni auctoritas/potestas, senza che il loro essere ‘unite’ o ‘disgiunte’ –non ce ne voglia il Barone di Montesquieu– le caratterizzi nella loro essenza più radicale… come in effetti accadde anche in Occidente per molti secoli. A ben vedere, infatti, ciò che distingue essenzialmente un “Ordinamento di Diritto” da un “Ordinamento di forza” non è affatto la c.d. separazione dei poteri ma la presenza e consistenza dell’accettazione sociale delle decisioni ‘ordinamentali’ assunte… come s’intuisce –esemplificativamente– nella sempre indeterminabile differenza tra “rivolta” e “rivoluzione”: governabile (o reprimibile) la prima, indominabile la seconda… crisi ordinamentale la prima, crollo ordinamentale la seconda.

Cosa analoga può dirsi per le ‘forme’ di governo: cosa distingue, infatti, un ‘regime’ da una ‘dittatura’ se non la consistenza della sua accettazione ‘popolare’? I c.d. regimi populisti lo mostrano chiaramente: finché le piazze acclamano non esistono problemi intra-ordinamentali di nessun tipo… checché ne pensino/giudichino gli altri Stati/Popoli dall’esterno e gli oppositori politici all’interno. Il concetto ‘tradizionale’ di “ingerenza negli affari interni” di uno Stato mostra in proposito tutta la propria esiguità… non riuscendo facilmente a resistere –oggi– verso l’“intervento per motivi umanitari”; nella stessa linea per cui oggi un ‘dittatore’ non viene generalmente perseguito e processato per motivi ‘politici’ (interni all’Ordinamento) ma per “crimini contro l’umanità” (esterni all’Ordinamento), dando corpo ad una concreta sua non-accettazione basata su di una ‘base sociale’ più ampia (poiché internazionale) e non facilmente condizionabile quanto quella nazionale: non alcuni oppositori interni, ma una pluralità di Stati esterni.

La questione è tanto più radicale in quanto la dinamica reale di questi ‘fenomeni’ risulta di fatto indipendente dall’origine/fondamento –sempre ab extrinseco– dell’effettiva sottomissione socio-comunitaria alla auctoritas/potestas: umana o divina che essa sia. Anzi, proprio chi rifiuta una tale sottomissione lo fa quasi sempre esattamente per motivi estrinseci: i motivi della legittimazione/legittimità della stessa auctoritas/potestas e/o della sua azione/pretesa; è la “legittimità” che conta, non la sua “fondazione”. La stessa ‘legittimazione divina’ di una auctoritas/potestas, infatti, non agisce direttamente su di essa –qualificandola– ma su coloro che devono sottomettersi –motivandoli–; non di meno anche a livello ecclesiale la storia ha ben mostrato come –nel caso, p.es. degli anti-Papi– non fosse in dubbio il ‘fondamento’ della auctoritas/potestas pontificia ma la sua legittima attribuzione all’uno piuttosto che all’altro. Gli scismi che hanno attraversato la storia della Chiesa non sono –in effetti– stati causati da una ‘mancanza’ di auctoritas della gerarchia ecclesiastica come tale (romano Pontefice in primis), ma dal suo non-riconoscimento/rifiuto (=assenza di potestas) da parte della ‘base’ che non ha valutato/giudicato la propria ‘posizione’ dall’interno della dinamica ecclesiale (=siamo soggetti al Pontefice) ma dall’esterno (=chi lo ha legittimato?). La questione non riguarda la persona come tale ma il ruolo/ministero svolto che, se non riconosciuto, genera de-legittimazione ed inefficacia… con relativo rifiuto e –tentativo di– sostituzione.

Cos’è, d’altra parte, una ‘elezione’ se non una forma di etero-legittimazione? Quella pontificia è esemplare in merito: [a] l’eletto è legittimato dal Collegio cardinalizio ad assumere il ministero pontificio vacante, [b] con l’accettazione egli ‘assume’ legittimamente il ministero, [c] esercitando il ministero egli possiede autorità sulla Chiesa intera.

Chiarissimo –e tipologico–, sotto questo aspetto, quanto accadde tra Papa Gregorio VII ed i Vescovi franco-tedeschi nell’XI secolo: i Vescovi riuniti insieme a Worms nell’autunno 1076 si opposero al Papa deponendo il “falso monaco Ildebrando” (=de-legittimazione), questi ribadì con energia le ‘proprie’ prerogative/pretese verso l’Episcopato (poco importa se attraverso il celebre “Dictatus Papæ”, oppure no) scomunicando Enrico IV che gli aizzava contro i Vescovi (=auctoritas), a quel punto (ormai privi di ‘altre’ protezioni e/o vincoli) essi si sottomisero a Roma, assecondando la posizione pontificia (=potestas) …a cui lo stesso Imperatore dovette piegarsi (ancora: potestas), penitente a Canossa.

Proprio tale decisione dei Vescovi renani di ‘rimanere’ in comunione con la Chiesa non solo confermò la potestas pontificia (il suo ‘primato’) ma la accrebbe pure in modo irreversibile attraverso l’accettazione delle posizioni papali in tema di rapporti tra romano Pontefice ed Episcopato (=auctoritas)! In tal modo fu proprio l’aumento di potestas in quanto assoggettamento –volontario ed auto-motivante– dei destinatari (=Episcopato) a determinare la crescita dell’auctoritas in quanto ‘status’ del romano Pontefice per il quale divenne legittimo –da quel momento– pretendere/esigere nei confronti dell’Episcopato stesso quanto mai esigito in precedenza… istituzionalizzando così tale ‘forma’ di relazione (da potestas, iniziale, ad auctoritas, finale).

Ne deriva così –(forse) innovativamente– che auctoritas e potestas sono [a] non solo due ‘realtà’ differenti quanto ad essenza, ma anche [b] funzionalmente connesse tra loro e [c] assolutamente non-autofondanti (=a priori) rispetto alla società/comunità di riferimento/pertinenza; ne sono, anzi, il ‘prodotto’. È infatti la società/comunità stessa che evolve da Ordinamento di fatto (secondo i diversi modelli che si rifanno al c.d. Diritto tradizionale/consuetudinario) ad Ordinamento di Diritto proprio attraverso il crescere e lo strutturarsi del suo auto-assoggettamento ad alcuni ruoli (=potestas) che, nella loro progressiva istituzionalizzazione, assumono stabilmente in sé tali funzioni rendendole in qualche modo ‘autonome’ ed articolandole in modo stabile/istituzionale (=auctoritas). Due facce della stessa medaglia: la potestas come vincolatività (riconosciuta/accolta), l’auctoritas come legittimità a farlo in determinati modi e verso determinati soggetti. Lo stesso uso linguistico sostiene questa prospettiva: l’Auctoritas non “è” ma “ha” (=esercita) potestas.

Nessuna novità reale rispetto a quanto già illustrato sulle dinamiche evolutive della Iurisdictio come tale: chi decide ‘crea’ Diritto.

Nulla si perde in questa prospettiva neppure a livello ecclesiale, laddove non è discutibile che la funzione di governo nella Chiesa non derivi affatto –democraticamente– dalla Comunità ma costituisca un espresso dono/carisma dello Spirito santo: il problema, infatti, non è di attribuzione (quindi: origine) ma di riconoscimento (quindi: funzionalità). È infatti per fede ed in ragione della fede che la Comunità credente riconosce, accoglie ed asseconda il ministero apostolico (=successione apostolica) ritenendolo il primo custode e garante del Depositum fidei… e ciò in conformità alla natura stessa della Chiesa quale Comunità di fede, ben prima di qualunque sua configurazione ‘societaria’ (=istituzionalizzazione).

Ciò permette inoltre di ricuperare e collocare finalmente al proprio posto la legittima istanza di fede inadeguatamente posta in luce dai discepoli di K. Mörsdorf in riferimento al ‘posto’ del Diritto nella Chiesa: il Diritto non appartiene alla fede della Chiesa costituendo ‘oggetto’ specifico dell’adesione ecclesiale (fides quæ) –quasi(?)– al pari o integrata nel Depositum fidei, ma il Diritto partecipa della vita di fede della Chiesa costituendo una ‘modalità’ dell’adesione ecclesiale (fides qua). A motivo della fede, infatti, si aderisce alla Comunità cristiana accogliendone anche struttura e funzionalità (=potestas). In questa prospettiva risulta del tutto congruo che la –derivata– auctoritas non possa essere esercitata proprio marte o ad nutum seipsi, ma interagendo con una serie di interventi legittimanti quali sono quelli dei diversi Organismi di consiglio (pareri, consensi, decisioni collegiali) di cui il Vaticano II ha dotato ‘questa’ Auctoritas.

Pur tuttavia tale irrinunciabile appello alla fede quale fondamento per la potestas (=autoassoggettamento) non potrà essere –invece– utilizzato da parte dell’Auctoritas a conferma o presupposto del proprio operato e quale pretesa di soggezione, soprattutto se/quando ciò servisse a ‘compensare’ o surrogare in modo del tutto estrinseco (appellando alla ‘propria’ sacralità) reali ed effettive carenze degli elementi costitutivi qualunque ‘decisione’ umana (ed istituzionale): esperienza (propria/altrui), comprensione, valutazione-giudizio, decisione responsabile.

Non si tratta affatto di sociologismi che sviliscono le peculiarità più caratterizzanti la natura e funzionalità ecclesiali, ma di rileggere alla luce dell’autocoscienza di sé che la Chiesa ha maturato nel Concilio Vaticano II le categorie giuridiche che lungo i secoli ne hanno accompagnato la vita in stretto parallelismo alle coeve concezioni socio-politiche presenti in ambito giuridico generale.

* * * * *

Due istanze differenti che permetteranno nei prossimi anni di continuare sia [a] ad interrogarsi intorno alle questioni concernenti i ‘meccanismi’ specificamente istituzionali e giuridici di valutazione condivisa: discernimento e consiliarità nella Chiesa, che [b] di contribuire anche all’indagine intorno al tema della potestas, ancora ben lungi da un’adeguata percezione e teorizzazione tanto teologica che canonistica.



in: Apollinaris, LXXXV (2012), 195-210.