Il concetto amministrativistico di ‘efficacia’: linee evolutive



1. CONCETTO DI EFFICACIA

La dottrina canonistica ancor oggi dominante presenta il concetto di ‘efficacia’ quasi esclusivamente in riferimento all’atto amministrativo facendone, anzi, uno degli elementi ‘costitutivi’: l’atto amministrativo è ‘efficace’ quando, ‘perfettamente’ confezionato, si presenta alla propria ‘esecuzione’. In tal modo l’efficacia sarebbe soltanto la «concreta attitudine dell’atto a produrre gli effetti che gli sono propri», in una prospettiva di semplice ‘potenzialità’ che lascia però del tutto aperto il tema dell’effettivo conseguimento delle finalità ispiratrici l’atto stesso. Tale posizione inoltre finisce di fatto per porre come ‘conclusiva’ la legittimità/validità dell’atto mentre –per contro– è chiaro, a detta degli stessi autori, che «un atto perfetto in quanto ai suoi elementi esterni, benché sia invalido per qualche ragione, può risultare di fatto efficace» in quanto venga comunque attuato. Non di meno, una tale efficacia risulta essere soltanto la semplice premessa necessaria dell’esecuzione: la sua condizione di attuabilità.

In realtà una tale concettualizzazione soffre di almeno due ‘problemi’ che la rendono non pienamente assumibile dalla Canonistica contemporanea:

1) esistono ex-Lege ‘fattispecie’, per quanto piuttosto specifiche, in cui si prevede espressamente la non-efficacia di un atto giuridico in sé “perfetto”. È il caso (più evidente perché codiciale) del Decreto di dimissione del Religioso non ancora ‘confermato’ dalla S. Sede (Can. 700): atto ‘perfetto’, e quindi teoricamente ‘efficace’, secondo le categorie ed il linguaggio della dottrina classica –e dominante– ma non ancora ‘attuabile’ (mandabile cioè ad esecuzione) poiché al suo destinatario non può neppure essere notificato senza la ulteriore ‘conferma’ da parte di un altro soggetto che attua –di fatto– un effetto ‘sospensivo’. Un tale atto, pur ‘perfetto’ in sé ma non notificabile, risulta pertanto concretamente non solo ‘non-efficace’ ma addirittura ‘inesistente’ –almeno– per il destinatario cui è indirizzato (con tutte le necessarie conseguenze giuridiche): in uno status simile a quello della Legge canonica ‘approvata’ (e firmata) ma non –ancora– ‘promulgata’ (Can. 6). In tale caso risulta quanto meno anti-intuitivo parlare di un atto ‘efficace’ ma non ‘eseguibile’, oppure in altri termini, ‘senza risultato’;

2) esiste poi un’altra istanza (di cui s’interesseranno specificamente queste note) che riguarda il concreto ‘risultato’ sortito dall’atto canonico come tale –e non solo da quello ‘amministrativo’ in senso stretto di cui s’interessa quasi esclusivamente la dottrina– considerato nell’arco completo della propria ‘operatività’: si tratta della prospettiva che –organicamente– qualifica l’efficacia dell’atto come “l’attuale situazione di concreto adempimento/realizzazione degli scopi ispiratori dell’atto giuridico: il pieno conseguimento della sua finalità” così come intesa dal suo autore, chiunque esso sia, in una prospettiva in cui è efficace (solo) l’atto che ha conseguito in modo definitivo il proprio scopo. Sarebbe, per altro, poco ‘credibile’ un Ordinamento giuridico che si accontentasse di articolare minuziosamente il percorso di formazione di una ‘realtà’ (l’atto giuridico) di cui, però, non riuscisse ad ottenere la concreta ‘operatività’.

Ne deriva la necessità, inevitabile, di articolare il concetto stesso di ‘efficacia’ dell’atto (giuridico) in due fasi: [a] quella ‘iniziale’ e quella [b] ‘definitiva’, in modo da poter integrare all’interno di una stessa sistematica dell’agire giuridico sia l’intenzione che la finalità, sia la volontà che il suo esito. Che ciò non sia tematizzato in modo esplicito dalla normativa codiciale non può dare adito ad alcuna obiezione sostanziale poiché, di fatto, proprio l’applicazione ‘completa’ ed ‘integrata’ dello stesso CIC impone –concretamente– di operare secondo questa ‘duplicità’, come ben sanno gli operatori di Curia più scrupolosi.


Il problema, tutt’altro che teoretico, presenta una pregnanza specifica all’interno delle concezioni giuridiche effettivamente ‘realistiche’, quelle cioè che assumono la concreta realtà del vivere sociale quale loro orizzonte fondativo. Non importa che si tratti di quella scandinavo-americana, di quella socio-ordinamentale o di quella istituzional-personalista: in ciascuna di esse, infatti, il reale baricentro della giuridicità si colloca nel concretamente vissuto/esperito, nella specifica azione rispondente e conseguente al Diritto, e non nelle pretese caratteristiche del Diritto in sé o degli atti giuridici come tali …o delle spettanze ‘naturalmente giuridiche’ di qualcuno (il “cuiusque suum”). La differenza di prospettiva è strutturale: mentre infatti nella seconda concezione “Diritto” e “giuridicità” esistono in sé… anche in un mondo (pressoché) ‘vuoto’, automaticamente generati dal semplice ‘esserci’ di almeno due individui, nella prima concezione “Diritto” e “giuridicità” sono, invece, ‘generati’ dal con-vivere comunitario o societario nel perseguimento di uno scopo, più o meno comune.

È proprio in questa prospettiva che l’efficacia come “risultato corrispondente alla volontà che lo ha perseguito” non potrebbe mai esistere sulla carta soltanto, né dipendere dalle sole caratteristiche degli strumenti giuridici attraverso cui s’intenda perseguirlo; paradossalmente, forse: è efficace una intimidazione (ingiusta, illegittima ed ‘invalida’) mentre può non esserlo affatto una disposizione (formalmente ‘perfetta’) ma disattesa. Non si tratta certo, qui, [a] di assumere a criterio giuridico la legge della forza, ma neppure [b] di perseverare nell’illusione che “il” Diritto basti a se stesso. L’unico vero ‘giudice’ del vivere sociale/comunitario è –da sempre– la vita… quella di molti, quella di ogni giorno.


2. ATTO ED AGIRE GIURIDICO

Pur nella inopportunità di dedicare spazio in questa sede alla teoria dell’atto giuridico come tale, è tuttavia necessario porre in evidenza come ciò che normalmente viene percepito –e conseguentemente tematizzato– come “atto giuridico” non sia in realtà ‘qualcosa’ di puntuale, monolitico, statico, chiuso… qualcosa di ‘posto’, ‘realizzato’, una volta per tutte e, spesso, rinchiuso nel passato delle cose che già sono giunte al loro termine (‘come’ la res iudicata). La consapevolezza attuale della complessità e dinamicità dell’agire umano, non meno che la sua dimensione personalistica posta in risalto dal Magistero post-conciliare, sollecitano al contrario una concezione dell’actus umano –anche e forse soprattutto giuridico– come realtà ‘distribuita’, complessa, dinamica, aperta, partecipata… com’è, in fondo, lo stesso vivere umano. Una consapevolezza di questo genere sembra però postulare un cambio di vocabolario, utile per evitare ambiguità e fraintendimenti: sarà pertanto meglio parlare di –un più ampio– “agire giuridico” anziché di –un puntuale– “atto giuridico”, conferendo finalmente ‘spessore’ e ‘volume’ a quanto si è troppo spesso concepito in modo solo ‘puntiforme’.

Due i vantaggi immediati: 1) cesserà l’ambigua identificazione (almeno nella prassi di governo) tra ‘atto giuridico’ e semplice ‘strumento’ della sua formalizzazione, come accade, p.es., per il conferimento di un ufficio ecclesiastico ed il Decreto che lo intima/‘realizza’; 2) sarà più agevole anche parlare dell’agire giuridico dei fedeli (tutti), privi in quanto tali di potestà di governo: anche la loro attività nella Chiesa è un compiere veri e propri ‘atti giuridici’, secondo lo status canonico individuale e gli eventuali Uffici o Ministeri loro affidati. Nulla, d’altra parte, ha mai autorizzato la riduzione dell’agire giuridico canonico al solo esercizio della potestà di governo.


3. EFFICACIA GIURIDICA DI DIRITTO E DI FATTO

Di fatto, una teoria dell’agire giuridico canonico non può oggi limitarsi ai pochi Canoni del Libro I del CIC sugli atti giuridici (particolarmente, gli amministrativi singolari) e le caratteristiche e modalità della loro predisposizione ed esecuzione (Cann. 48-58 in particolare). Qualunque agire giuridico non è mai ‘meccanico’, non risponde mai ad una semplice logica di mera causalità fisica (azione e reazione). Non basta disporre con legittima potestà l’attuazione o la omissione di un determinato comportamento perché questo ‘si’ realizzi. Azione e reazione, infatti, si collocano sempre all’interno di ambiti inanimati, fisici (onticamente necessitati): privi di qualunque vera intenzionalità e, più ancora, volontà e consapevolezza (deonticamente necessitanti). Non è così per l’agire umano …e meno ancora per quello espressamente ‘personale’, in cui tutto quanto ‘avviene’ è, in realtà, realizzato da qualcuno sulla scorta di ragione, intenzione, volontà. L’agire umano non è mai costituito di eventi (che ‘accadono’, come un terremoto, un ciclone, rispondendo a precise –per quanto a noi spesso sconosciute– cause fisiche) ma di comportamenti, ed i comportamenti ‘si assumono’, ‘si adottano’ …personalmente.

Ciò comporta in modo strutturale la necessità di considerare come tutto quanto dipende dalla volontà umana non ‘esiste’ mai in sé e per sé, tranne il puro pensiero e quanto (passioni, desideri ecc.) rimanga interno alla persona stessa; da tempo tuttavia è certo che de internis non iudicat Prætor, poiché il Diritto si caratterizza –almeno– per ‘oggettività’ e ‘separabilità’, a differenza della Morale.

L’efficacia dell’agire giuridico, tuttavia, non riguarda soltanto l’oggettività e la separabilità di una condotta ma, molto spesso, anche la sua ‘altruità’: il fatto, cioè, che destinatario del comportamento in questione è un’altra persona, diversa da quella che ha posto l’atto stesso. Anzi: dal punto di vista sostanziale il vero ‘atto giuridico’ è proprio quello intenzionato/voluto/disposto a riguardo di una specifica condotta da tenersi (da parte di qualcuno o di molti) al fine di conseguire un determinato ‘esito’ che abbia conseguenze giuridicamente apprezzabili all’interno della comunità/società di riferimento. La mera decisione/disposizione potestativa che non riesca ad avere ‘presa’ sulla realtà esistenziale cui è destinata potrà certamente essere concepita e denominata come “atto giuridico” secondo il linguaggio tecnico in uso, ma non riuscirà ad essere tale finché non arriverà ad incidere effettivamente sulla relazionalità intersoggettiva del gruppo socio-antropologico di riferimento, mutando (o confermando) lo status relazionale di qualcuno o qualcosa al suo interno. Esattamente quanto si dovrebbe intendere con efficacia quando ciò ‘realizzi’ una precisa ed espressa intenzionalità e volontà d’incidere sulla realtà. Per contro, ogni altra manifestazione di intenzionalità-volontà che non incida sul vissuto/vivibile non potrà che essere qualificata come ‘opzione’…desiderio.


4. IL FONDAMENTO IN IURE

Quanto sin qui sollecitato in via teoretica generale, trova il proprio specifico fondamento in Iure (ed in Lege) nei Canoni del CIC sui c.d. Ricorsi amministrativi (Cann. 1733 ss.) che prevedono –a priori(!) trattandosi della Legge stessa– la possibile non-efficacia degli atti potestativi indirizzati a singoli soggetti (Can. 1732) che, in quanto coinvolti in prima persona, ritengano di non poter assumere la condotta loro ‘richiesta’.

Ciò significa concretamente –e comporta– la possibile ‘resistenza’ del destinatario dell’atto potestativo stesso, impedendo di fatto la realizzazione di quanto esigito nei suoi riguardi, causandone così l’inefficacia. Inefficacia non puramente circostanziale e/o de facto (come sarebbe una mera non-esecuzione), ma de Iure, visto che ciò risulta espressamente previsto e normato dalla Legge; quella stessa che pareva aver disposto la (piena) efficacia di principio di ogni atto giuridico posto esternamente secondo la Legge (cfr. Can. 124 §2). Inefficacia de Iure al punto da comportare la richiesta/possibilità di modifica o cancellazione dell’atto stesso.

Ci si trova così –inevitabilmente– dinnanzi ad un doppio livello di efficacia dell’agire giuridico, un doppio livello (iniziale e definitivo) che si rivela necessario ‘ammettere’ e gestire se si voglia evitare un’interpretazione puramente ‘recettiva’ dell’agire giuridico nella Chiesa normato dal CIC. Se, infatti, l’efficacia fosse ‘una sola’, monolitica, unitaria e ‘conclusiva’, l’applicazione dei Cann. 1732 ss. renderebbe di fatto ‘recettizio’ l’agire giuridico ecclesiale: è efficace (=‘vale’) solo ciò che viene ‘accettato’, rendendo così l’accettazione parte integrante dell’agire giuridico, non senza contraddire tuttavia il Can. 124, oltre che l’intera concezione canonica della potestà di governo. Per contro, la prospettiva del doppio livello di efficacia non comporta affatto l’integrazione dell’atto con la sua recezione (rendendolo efficace solo con l’accettazione), ma permette (soltanto) d’impedire l’esecutività di quanto appaia manifestamente sproporzionato (=gravoso) rispetto alle circostanze di fatti, persone, relazioni e cose (Can. 1733). L’atto, già inizialmente efficace (poiché ‘perfetto’ ad normam Iuris) verrebbe così ‘sospeso’ nella sua esecuzione senza ‘maturare’ automaticamente ed immediatamente la definitività e stabilità cui aspira l’agire giuridico come tale (=certezza del Diritto).

Ciò presenta il vantaggio di offrire una vera partecipazione attiva del destinatario (prima che ‘suddito’) all’agire giuridico che lo coinvolge, senza tuttavia scadere nella pura recettività che lo renderebbe, invece, ‘parte costituente’ dell’atto stesso. Di fatto, la semplice possibilità di non-accogliere un atto di governo ecclesiale –già dotato di propria efficacia iniziale– non lo inficia in se stesso (come sarebbe per la mancata recezione, in caso di sua ‘costitutività’) ma, soltanto, ne sollecita la revisione in vista di una efficacia definitiva …ma soprattutto ‘reale’, esistenziale.

Non l’accettazione, quindi, ma la non-opposizione interviene a dare efficacia definitiva all’agire giuridico, assicurando inoltre –ex post– la sostanziale congruità dell’agire stesso a cui non sia stata mossa adeguata opposizione, ad normam Iuris. Non di meno, quanto previsto dal Legislatore non è affatto la decadenza né l’inefficacia dell’atto posto ma non-accettato, quanto, invece, la necessità di una sua maggiore/migliore ponderatezza e circostanzialità di persone, di condizioni/relazioni e di cose. Esattamente quanto previsto dalla Legge in termini di modifica, revisione, caducazione, dell’atto in questione da parte di chi lo aveva posto. Non di meno: le eventuali maggiori/migliori valutazioni necessarie alla piena efficacia dello stesso atto possono essere sottoposte ad altro soggetto –autorevole e potestativo– qual è il Superiore gerarchico di chi aveva originariamente posto tale atto.

In ciò acquisterebbe risalto un altro elemento ancora poco chiaro tanto in dottrina che in Giurisprudenza e prassi: la chiara distinzione tra [a] Ricorso e [b] Contenzioso (amministrativo). Infatti: Remonstratio e Ricorso gerarchico (la c.d. via amministrativa - [a]) non sono di per sé strumenti per ‘vantare/tutelare’ direttamente e come tali diritti posseduti ed ‘azionabili’, secondo le ‘caratteristiche’ di una vera rivendicazione (=via giudiziale - [b]), originando un ‘contenzioso’ propriamente detto, la cui ‘natura’ sta proprio nell’opposizione formalizzatacoram tertio’ (=Giudice) tra due ‘posizioni di parte’. Le Procedure volte a conferire efficacia definitiva ad un Provvedimento non-accolto non toccano, infatti, i ‘diritti’ dei soggetti (di cui ‘dispone’ il solo Giudice) ma altri elementi -esistenziali- che il Legislatore lascia alla libera individuazione personale (Can. 1737). Ne è prova il fatto che la Remonstratio non si oppone soltanto ad un atto “ingiusto” ma anche solo “gravoso”: il primo sarebbe sostanzialmente contra Legem (almeno illegittimo), il secondo, invece, pur teoricamente ad normam Iuris, risulta concretamente non attuabile nelle situazioni (di fatto) della sua esecuzione. Né si potrebbe ormai più ricorrere alle terminologie –e concettualizzazioni– tradizionali/classiche delle varie appellationes (extra iudiciales o extra ordinem) poiché in tali casi non si ponevano in dubbio né la validità né l’efficacia del Provvedimento ma si chiedeva semplicemente la ‘grazia’ della sua non-urgenza/esecuzione (=disapplicazione o sospensione).


5. LA QUESTIONE CONCRETA

5.1 Efficacia iniziale

Il §2 del Can. 124 del CIC pone una clausola pregiudiziale di salvaguardia generale dell’efficacia dell’agire giuridico ecclesiale (in specifico per gli “atti giuridici”) dichiarando la presunzione di Diritto a favore della validità di tutto quanto posto correttamente dal punto di vista ‘esteriore’. Una presunzione, tuttavia, che –essendo solo Iuris tantum– ammette per ciò stesso la prova contraria, generalmente a livello di volontà e/o conoscenza del soggetto che ha posto tali atti. Nessun Ordinamento giuridico, d’altra parte, –ma anche nessuna aggregazione sociale– potrebbe permettersi il dubbio sistematico sulla totalità dell’agire socio-relazionale (=giuridico) che in esso si sia svolto: svanirebbe infatti la stessa funzione ‘stabilizzatrice’ del Diritto. Secondo tale logica, il Diritto, conformemente alla propria natura ‘minimalista’, ritiene efficace quanto i diversi soggetti (capaci ed abili) compiono, offrendo così alla compagine sociale di riferimento (società/comunità) le necessarie ‘certezze’ per la sua sopravvivenza istituzionale. Chi abbia ragionevoli motivi per dubitare fondatamente di tale efficacia può esporli adeguatamente nelle opportune sedi istituzionali per far valere il proprio punto di vista, le proprie ragioni ed i propri –eventuali– diritti che ritenga lesi, assumendo su di sé l’onere della prova. Appartiene a questa stessa logica di ‘stabilizzazione’ dell’agire socio-relazionale anche quanto disposto dal Can. 144 in termini di errore/dubbio a riguardo della mancanza di potestà (di governo) esecutiva tanto in foro esterno che interno per la quale non si applica neppure la presunzione di Diritto ma si stabilisce espressamente che tale potestà sia semplicemente ‘supplita’ ex Lege.

Quanto stabilito in generale ed a priori dai Cann. 124 e 144 costituisce quella che, a buon diritto, può essere chiamata “efficacia iniziale” dell’agire giuridico. Essa, infatti, al solo ‘costo’ minimale richiesto dalla norma giuridica (non necessariamente la sola ‘Legge’) assicura validità all’agire intenzionale (=cosciente, finalizzato e volontario) delle persone in ambito sociale/comunitario.


5.2 Efficacia definitiva

È possibile però parlare anche di una “efficacia definitiva” dell’agire giuridico ecclesiale (soprattutto per gli atti di governo) seguendo la stessa logica (nessuna ‘analogia’!) alla base dell’Istituto sia della res iudicata che della vacatio Legis: come, infatti, per le Sentenze giudiziali l’Ordinamento ha la necessità strutturale di fissare termini perentori che permettano di acquisire la [nuova] certezza del Diritto, dando stabilità e definitività anche alla vita delle persone, come per la Promulgazione della Legge si prevede un tempo ‘tecnico’ di non-vigenza, altrettanto per tutti gli altri atti –soprattutto quelli di governo– è necessario non lasciare ‘vie di fuga’ potenzialmente in grado di mettere in crisi –in modo estemporaneo ed incontrollabile– l’intera funzionalità ordinamentale… e la stessa vita di fede, culto e carità del Popolo di Dio.

La cosa rileva soprattutto a riguardo delle decisioni che investono la vita delle persone: “chi si senta gravato da un Decreto” (Cann. 1733; 48; 49) emanato dall’Autorità ecclesiale può presentare alla stessa Autorità la propria Remonstratio… fino ad ottenere che il Decreto stesso sia esaminato anche dall’Autorità gerarchica superiore a quella che l’ha emesso, in vista di una sua revisione, correzione o anche cancellazione.

Questa Procedura, però, ha tempi piuttosto stretti di attuazione (=perentori): 10 giorni utili per la Remonstratio e (successivi) 15 (o 30 + 15) per il Ricorso al Superiore gerarchico; aspettare oltre significherebbe mantenere l’intero vissuto ecclesiale nella più completa aleatorietà. Scaduti questi tempi il Provvedimento in oggetto si presenta efficace a tutti gli effetti: valido e –anche– ‘confermato’ dalla sua ‘non-ricusazione’ da parte del destinatario. È lo stesso ‘criterio’ posto alla radice di questi Istituti giuridici ad indicarne la reale consistenza esistenziale: la gravosità. Se un atto risulta essere inadeguatamente “gravoso” per il suo destinatario ciò si manifesta –e deve manifestarsi– immediatamente (=entro 10 giorni utili) dalla sua intimazione/conoscenza, senza che sia necessario ‘fare delle prove’ di esecuzione per vedere ‘come va’… per ritornare, casomai, sulla questione a distanza di anni, destabilizzando completamente anche parti significative della vita ecclesiale (ben prima e ben oltre il semplice ‘ordine pubblico’ o l’attività della ‘pubblica amministrazione’).

Se quanto ‘chiesto’ (o imposto) ad un fedele dall’Autorità competente, all’interno del suo legittimo esercizio del governo ecclesiale affidatogli per il bene del Popolo di Dio, apparisse “gravare” in modo non accettabile sulla sua vita in quanto persona, questi –valutato in retta coscienza l’insieme dei fattori e delle circostanze in gioco a partire dal suo status canonico (e ‘vocazionale’)– ha la possibilità di chiedere all’Autorità di rivedere tale decisione in modo da renderla non (sol)tanto più ‘accettabile’ ma realmente ‘assumibile’ (trattandosi di un “comportamento”) nella propria esistenza. La considerazione che questo genere di ‘atti’ riguarda nella maggior parte dei casi chierici e religiosi (o consacrati in genere ed assimilabili) rende la questione certamente più concreta: la loro vita dipende davvero, infatti, dall’ufficio, ministero, compito (residenza, attività) ad essi assegnato all’interno della vita ecclesiale.


6. CONCLUSIONE

Tra le maggiori conseguenze dell’adozione di una teoria del doppio livello di efficacia dell’agire giuridico ecclesiale, si pone la rinnovata consapevolezza circa la specifica natura della potestà di governo esercitata dalla Chiesa, nella Chiesa, verso la Chiesa.

Davanti alla comune sottomissione alla Parola che salva, lungo lo stesso cammino –anche faticoso– di adeguamento alla “statura di Cristo” (Ef 4, 13), nella realizzazione dell’unica missione affidata dal Signore Gesù alla sua Chiesa (LG 17), nessuna ‘azione’ è mai indipendente, nessuna decisione è mai unilaterale, nessuna realizzazione è mai individuale. È la Chiesa stessa che accoglie, vive, annuncia, il Vangelo e con esso la salvezza per ogni e ciascun uomo che attraversa la storia …senza poter troppo facilmente ignorare che nessun ‘fine’ basta mai a se stesso, tranne proprio quella stessa persona per la quale Cristo ha dato se stesso fino alla morte in croce.

In tale prospettiva, un’efficacia dell’agire ecclesiale che sappia considerare se stessa proprio nell’ottica della condivisione di mezzi, strumenti, modalità e risorse e non solo di mere ‘finalità’, appare più necessaria che –soltanto– auspicabile.






in: Consociatio - Atti Varsavia, 2012