Economia ecclesiale: la sfida finanziaria non solo per le “giovani Chiese”

A proposito di un libro innovativo



PAOLO GHERRI





SOMMARIO

1. Il libro e la sua prospettiva. 2. La fine di un sistema di natura patrimoniale.



L’occasione per questa sommaria riflessione su di un tema tanto vasto e complesso è offerta dalla lettura del libro, uscito nell’estate 2011 dal forte impegno morale e dalla viva passione ecclesiale e formativa del prof. Jean Yawovi Attila, per i tipi della veneziana “Marcianum Press”; libro che si presenta davvero come una “sfida” ecclesiale a tutto campo, ben oltre l’apparente parzialità del proprio titolo: la “sfida” di far prendere in considerazione la tematica e le problematiche sottese e connesse innanzitutto al sostentamento del clero e dei vari ‘ministri’ nelle “giovani Chiese”: «les ouvriers de l’Évangile […] les Pasteurs, les Catéchistes et autres employés» (p. 127-128).

In effetti la vera “sfida” –più di carattere culturale che non tecnico– in cui si cimenta l’autore appare più la volontà e l’accettazione di affrontare il discorso come tale, che non la soluzione operativa da lui concretamente proposta nella “perequazione finanziaria” tra i membri del clero e tra le Comunità cristiane autoctone. Il ‘principio’ della perequazione finanziaria, infatti, viene presentato in tutte le sue possibili prospettive e chances più per essere ‘accolto’ spiritualmente (e moralmente) dal clero (cfr. pp. 164-165) che per venir immediatamente ‘applicato’ sotto un profilo realmente tecnico-operativo, vista anche la difficoltà –davvero ‘strutturale’– incontrata da uno tra i più evoluti di tali sistemi (quello italiano a cui l’autore anche rimanda) che non avrebbe certo potuto essere realizzato senza una fortissima sinergia con lo Stato, attuata su base concordataria; una ‘circostanza’ di carattere istituzionale ben poco plausibile in terra africana (e non solo) senza della quale, tuttavia, un vero ‘sistema’ sia retributivo che –più ancora– previdenziale (anche solo per il clero) non pare facilmente realizzabile al giorno d’oggi, sia esso perequativo o di altro stampo.


1. IL LIBRO E LA SUA PROSPETTIVA

1.1 Il tema trattato

All’interno del panorama canonistico attuale l’opera del prof. Attila si pone in modo del tutto innovativo, sollecitando una riflessione piuttosto insolita per la Chiesa non solo africana: è il tema della ‘dimensione finanziaria della vita ecclesiale, che apre problematiche sino ad oggi risultate/ritenute praticamente inesistenti nella Chiesa –almeno– europea, cresciuta e strutturatasi ‘su’ ed ‘attraverso’ un sistema che, invece, derivando direttamente da quello beneficiale di stampo feudale, aveva assunto da oltre un millennio un’impostazione assolutamente ‘patrimoniale’ (cfr. p. 49) …nella quale persevera tutt’oggi senza porsi grandi problemi in merito all’impostazione di fondo, per quanto il CIC conosca elementi potenzialmente ‘compatibili’ con la gestione della “finanziarizzazione” dell’economia ecclesiale (il Consiglio per gli affari economici, gli Istituti del Can. 1274, la nozione di “patrimonio stabile” et alii).

Di contro, l’assetto economico ecclesiale africano/missionario, povero di risorse ecclesiali ‘storiche’ di carattere immobiliare, è quasi completamente di natura finanziaria, evidenziando problematiche –e loro possibili soluzioni– pressoché sconosciute alle prospettive giuridiche ‘tradizionali’ gestite a livello ‘universale’ dai Codici di Diritto canonico all’interno dei c.d. Diritto patrimoniale canonico (Libro V del CIC e Titoli paralleli del CCEO). Proprio la prospettiva finanziaria costituisce la vera novità e l’intuizione fondante più profonda della riflessione proposta, mentre la dimensione perequativa risulta essere, invece, un ‘criterio’ maggiormente operativo.

In quest’ottica l’autore s’indirizza giustamente verso il c.d. Diritto particolare attraverso cui le singole Conferenze episcopali nazionali (o sovra-nazionali) possono –e devono– legittimamente intervenire a dare Norme ed a creare adeguate ‘strutture economiche’ e dinamiche funzionali che siano al contempo storicamente efficaci ed evangeliche, come d’altra parte attuato in Italia dalla Conferenza episcopale nazionale, seppure attraverso l’intervento concordatario della Santa Sede ed attraverso un importantissimo apporto statale, per quanto formalmente ‘indiretto’, com’è l’“otto per mille”.

Circa le tematica proposta, si legge in una delle presentazioni istituzionali dell’opera (di probabile mano dell’autore):


«il Codice di Diritto canonico latino trova a tutt’oggi molte difficoltà quanto alla concretizzazione delle Norme universali nel Diritto particolare, soprattutto nelle giovani Chiese in Asia, in Africa e in America Latina ancora economicamente dipendenti dai sussidi delle Pontificie Opere Missionarie e delle Organizzazioni straniere. Per consentire al Diritto particolare di precisare il Codice nel dominio dell’acquisizione e dell’amministrazione dei beni temporali, questo libro suggerisce di adottare il meccanismo della perequazione finanziaria quale via migliore per avviare l’autosufficienza economica al fine di perseguire le finalità della Chiesa».


Il problema tuttavia sta diventando a pieno titolo anche di ‘Diritto comune’, poiché gli stessi assetti “economici” ecclesiali europei e nord-americani ‘tradizionali’ stanno ormai slittando completamente verso l’ambito “finanziario”, ponendo nei fatti problemi dello stesso genere di quelli evidenziati dall’autore per le giovani Chiese; la situazione italiana in modo del tutto specifico (v. infra). Alla dinamica specificamente finanziaria, anziché a quella perequativa sarà indirizzata anche l’attenzione di queste brevi note.


1.2 La “Presentazione” del libro

L’opera –prestigiosamente– si apre con un’ampia “Presentazione” offerta dall’ex collega di docenza (ed ex docente del prof. Jean Yawovi Attila) Card. Velasio De Paolis, ampiamente accreditato come esperto in materia di Diritto patrimoniale canonico; Presentazione nella quale, in modo assai evidente, la tradizionale valorizzazione ‘teologica’ (morale e filosofica) del (valore intrinseco del) “bene” temporale in sé e per sé non riesce a tener adeguatamente conto del fatto che oggi non si tratta più di “beni” in senso proprio (com’è stato per la quasi totalità della storia della Chiesa europea) ma di loro semplice ed unico riflesso finanziario (=valore) che –di fatto– non permette più di percepirli come tali (cioè: “beni”).

A questo proposito pare utile segnalare –a mo’ di anticipazione– come il reale problema odierno, anche ad intra Ecclesiæ, non sia tanto la denunciata “scristianizzazione dell’economia” (cfr. p. 21) quanto piuttosto la sua finanziarizzazione: un fenomeno completamente fuori –ancora!– della percezione ecclesiale/canonica, la quale permane legata (come ben si vede in tali parole) all’idea concreta di “bene” come ‘strumento’ e non com’è percepito oggi: quale mero valore economico ‘equivalente’ sempre negoziabile sul mercato globale… in cui non contano più i ‘patrimoni’ (come nelle precedenti economie/società agrarie e proto-industriali) ma i ‘bilanci’ (legati soprattutto all’efficienza della ‘gestione’).

In effetti, il vero problema della Chiesa oggi (in quest’ambito!) non è ‘se’ e ‘perché’ possedere “beni” ed a quali ‘condizioni’ (morali, etiche, filosofiche e sociali) ma che i “beni” posseduti non sono più tali! Non sono più, cioè, fonti di sostegno ed alimento per le citatissime (legittime, necessarie e costitutive per la Chiesa) carità e solidarietà, ma solo cause continue di spese, costi, preoccupazioni ed attività tecniche ed amministrative dispendiosissime che non bastano neppure più alla tutela e gestione ‘autonoma’ di tale patrimonio, rischiando –anzi!– di ‘risucchiare’ altre risorse dal campo più direttamente pastorale ed ‘evangelico’.

Tanto meno il problema attuale della Chiesa a riguardo dei propri “beni” è il (sessantottino) “manicheismo” tra possesso e povertà (cfr. pp. 16; 17) quanto, invece, l’elefantiasi e la sovrastrutturazione patrimoniale: il doversi trascinare dietro –e pagare caro!– un carico enorme di “beni” –e così li percepisce anche lo Stato che come tali li considera e li tassa a livello patrimoniale!– che in realtà già da decenni non svolgono più alcuna funzione ecclesialmente ‘istituzionale’ o pastoralmente compatibile. Semplici ‘immobilizzazioni’ dispendiose: ‘pezzi/monumenti’ di storia finita (spesso ‘abbandonata’) ma che ancora incombe sul presente e futuro delle Comunità cristiane ‘storiche’ …sempre più come una vera e propria macina legata al collo. L’autore, poi, continua la propria riflessione sui bona Ecclesiæ temporalia, mantenendosi all’interno della materia a lui più familiare.


1.3 Il contenuto dell’opera

1.3.1 Lo sviluppo tematico generale

L’opera del prof. Attila manifesta sin dal proprio inizio un grande entusiasmo ed una grande voglia di trasmettere la propria viva preoccupazione per l’urgenza delle gravissime questioni in gioco (cfr. p. 58), non senza (anche) l’impressione di una certa enfasi argomentativa rispetto alla linearità e scansione ‘tecnica’ di tematiche ed argomenti, sospinta dall’evidente desiderio di smuovere la consapevolezza e la volontà circa la necessità e la possibile efficacia dello strumento proposto: la perequazione finanziaria. «Si tratta di un sistema che permette d’applicare la comunione e la comunicazione dei beni temporali secondo la giustizia distributiva eliminando i fossati di povertà tra le Regioni» (p. 45), sistema che «va di pari passo col principio di sussidiarietà, che resta basilare per la sua applicazione» (p. 46).

Non sempre tuttavia, nella lettura, risulta facile ‘circostanziare’ quale sia il reale ‘referente/soggetto’ della “perequazione” proposta: la singola Diocesi, la Conferenza episcopale nazionale o la Chiesa intera …soprattutto nei numerosi riferimenti dottrinali e magisteriali alla “destinazione universale” dei beni creati, secondo la Dottrina sociale della Chiesa (cfr. p. __). Allo stesso modo molte considerazioni sugli stati di necessità e di sperequazione economica ed esistenziale (in sé e per sé) menzionati dall’autore rimbalzano spesso dall’umanità come tale fino ai ‘catechisti’ (animatori e responsabili della Pastorale nei villaggi) passando per il clero, al quale comunque è indirizzata la maggior parte dell’attenzione e delle preoccupazioni (non senza denunce di atteggiamenti e comportamenti assolutamente inadeguati sia dal punto di vista spirituale che morale; v. infra).


Di fatto e nella sostanza reale, lo scritto di Jean Yawovi Attila tratta in filigrana nei primi due Capitoli ed in modo poi estremamente puntuale e ‘di petto’ (nei due seguenti) il tema della necessaria povertà per il clero diocesano/secolare (=Presbiteri e Vescovi), adducendo un’articolatissima serie di riferimenti veterotestamentari, evangelici, neotestamentari, magisteriali e giuridici, indirizzati a coinvolgere i preti diocesani –praticamente ex æquo con i Religiosi– in una reale appropriazione del ‘consiglio evangelico’ di povertà, in nome del suo originario indirizzarsi a tutti i battezzati, nonostante l’assenza di una sua espressa formalizzazione (giuridica) in capo ai chierici secolari …obiezione ‘difensiva’ piuttosto tipica tra il clero: «je n’ai pas fait le vœu de pauvreté» (p. 167). Secondo l’autore, per contro, lo stesso Gesù Cristo


«per la scelta di coloro che devono essere formati in vista del servizio, ha preso il distacco dai beni personali, cioè la povertà evangelica come un criterio, o una condizione essenziale, senza la quale il candidato è immediatamente rifiutato o inibito. Egli è stato inflessibile ed assoluto» (p. 168).


Tale ‘consiglio evangelico’, anzi, viene espressamente e ripetutamente indicato dall’autore come appartenente (e costitutivo) allo stesso depositum fidei neotestamentario (cfr. pp. 195-203) …e come tale indubitabile, indiscutibile, irrinunciabile, non (sol)tanto per i Religiosi (in ragione dei ‘loro’ tre Voti) ma –essenzialmente– per tutti discepoli, in primis, quelli chiamati espressamente all’annuncio evangelico: gli Apostoli …ed i chierici, con e dopo di loro: «il sacerdozio, per propria natura ed in virtù della propria origine, impone la povertà evangelica, come legge intrinseca inerente il proprio essere» (p. 205).


Una sorta di “petitio principii” che, per quanto possa risultare anche immediatamente problematica, almeno sotto il profilo emotivo, non va tuttavia sottovalutata nella propria radicale legittimazione, soprattutto da parte di chi abbia un’adeguata conoscenza e percezione dello sviluppo storico, sociale, culturale ed istituzionale del tema ‘economico’ ecclesiale all’interno delle Chiese “non più giovani”: le ex-beneficiali europee in primis.

Proprio questa consapevolezza, anzi, rende maggiormente fondata ed attuale la ‘sfida’ intrapresa …anche perché, in fondo, la situazione descritta dall’autore per le giovani Chiese non è radicalmente diversa da quella europea stessa di meno di un secolo fa e da quella italiana post-concordataria (anno 1929). Sono, infatti, ancora vive nel ricordo di molti preti (ottuagenari) le ‘condizioni’ di vita che dovettero affrontare da neo-ordinati, quando il “Titulus Ordinationis” era divenuto ormai fittizio e si doveva vivere in gran parte di “stipendia manualia” e di vere e proprie elemosine e questue (latte, uova, grano, uva, castagne…) oltre ai pochi “diritti di stola” non spettanti de Iure ai Parroci in quanto titolari del Beneficium curatum. Solo i “Vicari coadiutori” (ma non quelli ‘parrocali’), infatti, avevano diritto di partecipare di una percentuale delle rendite economiche della Prebenda parrocchiale. In Italia si risolse buona parte del problema (dopo il Concordato del 1929) inserendo i neo-ordinati nelle scuole statali come insegnanti di religione cattolica, dotandoli così di un ‘proprio’ sostentamento (=lo stipendio statale come insegnanti) autonomo dal sistema beneficiale vigente.


1.3.2 Lo snodo portante

Al di là di fondamenti ed argomentazioni varie (e della stessa “perequazione” proposta dal punto di vista operativo) il vero problema teoretico-fondativo che regge lo scritto è però la specifica natura della “massa bonorum da cui tutto dipende.

Il giovane professore dell’Università di “Propaganda Fide” ha, infatti, ben chiaro che senza un “fondo comune” che svolga l’irrinunciabile funzione ‘tecnica’ di ‘volano’ finanziario, nessun sistema perequativo potrebbe non solo funzionare ma neppure prendere forma. Per quanto infatti sia necessario il rimando al Can. 1274 ed all’Istituto ed ai Fondi in esso menzionati, cui l’opera dedica specifica attenzione (cfr. pp. 282-285), l’autore ha però ben presente che non si tratta soltanto di ‘Istituzioni’ nel senso tecnico-giuridico del termine, ma di veri e propri ‘complessi economici’ basati su di un unico presupposto assolutamente ‘materiale’: i soldi (=finanza) che di fatto li costituiscono concretamente.

Nessuna ri-distribuzione (=perequazione) infatti potrà mai essere attuata senza ‘possedere’ ciò che dev’essere equamente e proporzionalmente distribuito (cfr. pp. 47; 75)… Non di meno: nulla potrà essere ‘posseduto’ senza qualche forma di conferimento… Ed è qui che emerge la vera problematica che sostiene e spinge la riflessione dell’autore: è necessario creare un adeguato sistema generale di raccolta di denaro finalizzato alla creazione della “massa bonorum” che dovrà fungere da ‘cuore’ pulsante del nuovo sistema perequativo di sostentamento dei ministri (chierici e no).

Due i canali oggi possibili nelle giovani Chiese:

1) le “offerte” che –ancora– giungono dal mondo cristiano occidentale sia [a] direttamente in ragione di autonomi legami tra Chiese o con singoli Istituti missionari che [b] indirettamente attraverso i finanziamenti annuali erogati da “Propaganda Fide” e dalle “Pontificie Opere Missionarie”,

2) le “offerte” che possono essere raccolte dall’interno delle stesse Comunità ecclesiali autoctone sia [a] attraverso specifiche collette che [b] con la destinazione di una percentuale sulle ‘entrate’ di ciascuna comunità parrocchiale o assimilata.


Precisamente su questa seconda ‘via’ si concentrano le riflessioni e sollecitazioni dell’autore che non esita a ‘qualificare’ in modo del tutto speciale i beni concretamente a disposizione dei battezzati:


«in ragione della relazione familiare creata attraverso il Battesimo, i fedeli sono consanguinei e si chiamano fratelli in Cristo. Tenendo conto dei legami di questa fraternità, i figli di Dio hanno l’obbligo di evitare l’indifferenza davanti ai fratelli bisognosi» (p. 56);


«la condivisione del Corpo e del Sangue di Cristo conferma la consanguineità dei fedeli in Cristo. In tal modo, questa consanguineità impone loro dei doveri tra cui la condivisione» (p. 57) al punto che


«la comunicazione dei beni temporali con gli altri fratelli in Cristo, in conformità alla natura del battezzato, diventa l’opus proprium del cristiano e la prova tangibile della sua identità, che gli impone di condividere» (p. 57).


1.3.3 La prospettiva

Ciò che, proprio in prospettiva finanziaria –ben prima che perequativa–, pare stare maggiormente a cuore all’autore è la necessità di una reale autosufficienza economica delle giovani Chiese, unica possibilità di stabilizzazione dell’intero sistema:


«è importante che gli aiuti non si limitino a doni materiali pronti ad essere consumati, ma siano soprattutto e spesso fatti su programmi o progetti di autofinanziamento, i quali, da un lato, permetteranno di far sparire la causa dei mali e non soltanto i loro effetti» (p. 70);


«la messa in pratica del Can. 1274 §1 in vista della costituzione di un Fondo comune, dipenderà, primariamente, dai fedeli autoctoni, che attraverso le loro offerte mostreranno un segno tangibile del loro impegno per l’autosufficienza, ma anche della buona volontà di tutti i Pastori di favorire lo spirito di comunione» (p. 81).


«Le giovani Chiese non devono più contare totalmente sui doni degli Organismi o dei benefattori stranieri, che, anche, non riescono più ad avere grossi mezzi finanziari come una volta» (p. 156); è invece urgente coscientizzare i fedeli cristiani


«affinché sappiano, da un lato che in questi tempi moderni, gli aiuti provenienti dall’estero sono in regressione costante. Dall’altro, devono informarli sul fatto che il tempo dei grandi donatori stranieri degli inizi della prima evangelizzazione è terminato» (p. 156).


«Per raggiungere l’autosufficienza, ed in considerazione del grande interesse accordato a questi insegnamenti della dottrina nei documenti sopra citati, sarà necessario che i Vescovi di ciascuna Diocesi adottino alcune disposizioni giuridiche, mettendo l’accento sulla koinoia ed il bene comune» (p. 236);


in tal modo, ogni singola Diocesi dovrà intraprendere uno specifico cammino per organizzare un proprio autofinanziamento, sfruttando gli strumenti normativi più tipici del Diritto particolare:


«il Vescovo potrà emettere un Decreto che ordini a tutte le Parrocchie, le persone giuridiche di trasferire mensilmente una percentuale precisa delle loro collette in questa cassa a livello diocesano. Sulla base di questa percentuale definita, ogni Parrocchia parteciperà secondo le proprie possibilità finanziarie alla formazione della massa bonorum della Diocesi. Questa percentuale non dovrà essere uguale aritmeticamente, ma proporzionale secondo le entrate finanziarie di ogni Parrocchia» (pp. 83-84).


1.4 Le ‘resistenze’ del sistema attuale

1.4.1 Resistenze ‘strutturali’

Per quanto, però, l’autore si sforzi di ‘giustificare’ e caldeggiare la necessità di tale ‘passo avanti’ e di fondarne la necessaria consistenza, anche teologica, egli non può tuttavia sottrarsi all’evidenza che «la “perequazione finanziaria”, come concetto, permane assente nei Codici di Diritto canonico» (p. 106), così come «a dispetto di tutti i vantaggi della perequazione, tuttavia questo concetto non figura in modo esplicito nei documenti giuridici della Chiesa» (p. 115);


«passando in rassegna i documenti giuridici e sociali della dottrina della Chiesa cattolica, sarà difficile trovare il concetto di perequazione finanziaria. Tuttavia, questo concetto che applica un meccanismo d’equità s’appoggia sulla sussidiarietà, che è utilizzata nella Chiesa. In effetti, questa è costantemente presente ed utilizzata nella sua Dottrina sociale» (p. 118-119).


Ciò pone, però, il problema anche giuridico, soprattutto rispetto alla concreta efficacia dei sistemi perequativi attuati generalmente in ambito statuale, del


«come inculturare queste Leggi positive civili alla luce del Vangelo affinché i fedeli che vivranno in zone ricche oppure sguarnite siano dignitosamente ed equitativamente trattati dal punto di vista economico» (p. 107).


1.4.2 Resistenze individuali

La questione, tuttavia, appare ben più radicata –e preoccupante– a livello individuale, tanto che «voci molto autorevoli si levano, in certi Continenti, per denunciare uno scarto del livello di vita tra i Pastori ed i cristiani» (p. 151); proprio in questa prospettiva, però, il fatto che


«le élites e le Autorità ecclesiastiche si lascino trascinare in un livello di vita superiore a quello dei cittadini, dimostrerebbe che la causa profonda della povertà non è fondamentalmente la mancanza di risorse» (p. 152).


Non di meno: «l’esistenza di un grande scarto di vita sociale tra le élites ed i fedeli prova che da una parte le risorse esisterebbero, e dall’altra, che la dipendenza continuativa avrebbe una causa più profonda» (p. 152).


Ciò, tuttavia, sposta il problema a livello di ‘selezione’ e ‘formazione’ del clero soprattutto diocesano, nei confronti del quale però non esistono –purtroppo/ancora– specifiche Norme giuridiche mentre «la povertà evangelica dovrebbe essere una legge giuridica per tutti i ministri sacri della Chiesa» (p. 245).

Non di meno risalta come (citando Benedetto XVI)


«l’assenza di una regola costituirebbe degli alibi per considerare la vocazione dei chierici diocesani come un’aspirazione per raggiungere la sicurezza nella vita e profittare dell’Ordine sacro per realizzare ambizioni economiche private, a detrimento della Comunità» (p. 246).


* * * * *


Sin qui la ‘proposta’ sostanziale dell’autore, che non pretende –né lo potrebbe– addentrarsi nelle concrete possibili realizzazioni tecniche di un tale complesso funzionale e normativo, ma ‘solo’ –e radicalmente– porne il reale problema, prima che –ancora una volta– i fatti (esterni) impongano nuove e maggiori emergenze a causa soprattutto della radicale diminuzione delle entrate ‘estere’ del sistema economico missionario –da sempre interamente finanziario… tanto più in tempi, come gli attuali, in cui [a] la distribuzione dei cattolici su scala mondiale si sta vistosamente spostando dal c.d. mondo occidentale ai tradizionali mondi ‘missionari’ e [b] la crisi finanziaria iniziata dall’anno 2008 proprio in tale mondo occidentale non promette in tempi rapidi un ricupero di ‘salute economica’ …e relative offerte ed aiuti per il ‘resto’ del mondo. Senza poter anche ignorare il profondissimo mutamento già verificatosi in questa materia anche nelle Chiese di antica cattolicità, europee in primis, alle quali si volgerà ora l’attenzione di queste note.


2. L’INCONGRUITÀ DI UN SISTEMA DI NATURA PRETTAMENTE PATRIMONIALE

2.1 Precisazioni concettuali introduttive

Le considerazioni del prof. Jean Yawovi Attila a riguardo delle giovani Chiese del mondo genericamente indicato come ‘missionario’, costituiscono in realtà –ed a tutti gli effetti– un prezioso (si vuol sperare non l’ultimo!) campanello di allarme anche per le Chiese europee e, più generalmente, per l’intero sistema ‘economico’ ecclesiale, soprattutto cattolico, cui s’indirizzano espressamente le presenti considerazioni.

Ciò, però, rende necessario esplicitare –anche se non più preliminarmente– alcuni elementi terminologico-concettuali assolutamente fondamentali per l’intero discorso (già parzialmente sollecitati, v. supra) ma ancora totalmente estranei sia alla mentalità propriamente ‘canonica’ che a quella più latamente ‘ecclesiale’ (connessa).


- “Economico”: è un termine piuttosto ampio ed impreciso utilizzato di solito in riferimento all’intero ambito dei beni materiali e delle diverse attività che ne riguardano soprattutto la gestione, con un riferimento sostanziale ed unitario (integrante) a tutto quanto risulti genericamente suscettibile di una valutazione di carattere monetario/commerciale: contratti e diritti reali in primis. Il termine, poiché rimanda di fatto alla “οικονομια” in quanto “gestione della casa” e, pertanto, delle risorse strumentali al perseguimento dei fini ‘propri’ di ciascun soggetto, finisce spesso per lasciar sfuggire dalle proprie considerazioni le componenti non espressamente valorizzabili in termini ‘monetari’. L’esempio più evidente è costituito dagli edifici di culto (e dalle opere d’arte), normalmente privi di ‘valore monetario/commerciale’ a causa della loro improbabilissima alienazione/vendita ma, ciò nonostante, fonti di notevoli spese… che, tuttavia, non ne aumentano il ‘valore’, generando così una (anche notevole) componente ‘economica’ che non ha però corrispettivi reali sulla consistenza di tali “beni”.
Dal punto di vista propriamente contabile l’approccio ‘economico’ è quello riferito agli elementi di gestione diretta ed immediata: entrate-uscite, costi-ricavi (il “conto economico” che costituisce una parte soltanto della redazione di un Bilancio vero e proprio). È questo concetto/ambito ciò che costituisce principalmente l’oggetto delle maggiori attenzioni ecclesiali… riducendosi spesso al solo Rendiconto della “cassa” (corrente), ripresa anno per anno.

- “Patrimoniale”: dal punto di vista propriamente contabile si tratta dell’aspetto necessariamente ‘portante’ di quello economico poiché ne recepisce la stratificazione pluriennale (utili/avanzi o perdite di esercizio) in modo da ‘rappresentare’ e ‘costituire’ al tempo stesso la reale condizione in cui un soggetto si trova dal punto di vista monetario/commerciale… poiché, di fatto, i “beni” ‘valgono’ in ragione di ‘quanto’ sono potenzialmente in grado di realizzare in occasione della loro vendita ad un altro soggetto. Di nuovo: gli edifici di culto non evidenziano alcun valore sotto questo profilo poiché concretamente non-commerciabili… e quand’anche giungessero a tale esito la loro valutazione non sarebbe certo operata in termini meramente ‘commerciali’ (come un palazzo o un impianto industriale) quanto, piuttosto, ‘politici’: in base, cioè, alle diverse circostanze (spesso istituzionali o anche meramente strumentali) in gioco al momento. D’altra parte, anche lo scrivere a bilancio il ‘valore’ prudenziale di una cattedrale o di un museo non è né facile, né ‘realistico’ ai fini della “veridicità” del Bilancio stesso!
A livello di Bilancio lo “stato patrimoniale” esprime il ‘valore’ della consistenza del soggetto, considerando non solo il denaro giacente in “cassa” (e nelle “banche” et similia) ma anche “crediti” e “debiti” di cui il soggetto sia titolare. Beni [a] mobili effettivamente posseduti (soprattutto denaro e titoli) ed [b] immobili in proprietà (fabbricati e terreni), [c] crediti e [d] diritti reali/esigibili, costituiscono il c.d. “attivo” dello stato patrimoniale, cui si contrappone il “passivo” costituito da [e] debiti e [f] accantonamenti/fondi. La differenza tra attivo e passivo ‘evidenzia’ il “capitale proprio” (monetario/commerciale) di cui il soggetto rimarrebbe proprietario se vendesse in blocco tutti i propri beni. Trattandosi, però, di un dato ‘relativo’ (in quanto differenza tra attivo e passivo) tale capitale proprio, se pur indica con evidenza l’equilibrio patrimoniale di un soggetto, non ne esprime però adeguatamente la consistenza assoluta poiché [a] chi, pur possedendo ingenti beni immobili, ha tanto attivo quanto passivo e [b] chi non possiede nulla, appaiono –da questo punto di vista– nella stessa condizione.

- “Finanziario”: il termine indica un ambito che si interseca sempre maggiormente coi due precedenti –complicandone la percezione– poiché, indicando i soldi come tali (=la finanza), partecipa tanto dell’aspetto economico che di quello patrimoniale, costituendo –a seconda delle circostanze e/o dei punti vista– tanto [a] un mero ‘strumento’ operativo che [b] il patrimonio come tale… com’è, appunto, per le giovani Chiese del libro sopra presentato che non possiedono –quasi– nulla a livello di “beni” (immobili) ma sono destinatarie di importanti somme di denaro contante da parte di vari finanziatori, sia esterni (S. Sede ed Organizzazioni missionarie ed umanitarie) che interni (i fedeli autoctoni).
Non di meno la progressiva –ed ormai quasi totale– smaterializzazione dell’economia mondiale ridotta a mero controvalore finanziario equivalente da investire nei più diversi “strumenti finanziari” (primari o derivati) sia in ambito nazionale che internazionale, non favorisce certo un consapevole approccio all’intero ambito… né economico né patrimoniale da parte di chi nella Chiesa si occupa di amministrazione e gestione dei c.d. beni ecclesiastici.


Questa esigua introduzione (a parziale sgrossamento dei profanissimi ed a ‘scandalo’ certo dei tecnici contabili) intende soltanto porre in luce dal punto di vista strutturale –e, quindi, non immediatamente sanabile– l’assoluta inadeguatezza dei concetti, criteri, principii, più tipici e propri del c.d. Diritto patrimoniale canonico, tanto universale (i Codici) che particolare (Concordati, Diritto complementare delle Conferenze episcopali, Diritto proprio di Diocesi ed Istituti religiosi, et similia), come già più sopra evidenziato.


2.2 Una situazione attuale ed emblematica: l’Italia

Ciò detto solo a fini di più immediata intelligibilità delle questioni connesse alla consistenza e portata della problematica cui ormai non è più possibile negare massima rilevanza, se ci si chiedesse quale sia la condizione globale della Chiesa (italiana p.es.) in tema di beni ecclesiastici, ci si dovrebbe immediatamente interrogare sulla necessità di distinguere tra la lettura economica, quella patrimoniale oppure quella finanziaria di tale ‘condizione’… senza, per altro, poter poi delineare un sufficiente ‘quadro d’insieme’ che permetta di trarre ‘conclusioni’ in qualche modo risolutorie.


- La lettura economica riguarderebbe il c.d. fatturato totale ottenuto sommando i conti economici delle oltre 28.000 parrocchie, 228 Diocesi e gli altri Enti ecclesiastici riconducibili alla “struttura gerarchica” della Chiesa in Italia (circa 30.000, approssimando ed arrotondando); ne risulterebbe certamente un numero di grandissimo impatto, soprattutto in considerazione della sola voce “entrate”. Un buon “titolo” per un certo tipo di giornalisti che potrebbero scrivere: “incassati dalla Chiesa in Italia tot milioni di Euro all’anno”…
Ci si troverebbe davvero ammirati davanti alla somma di denaro (=finanza) che, per i motivi più vari, ogni anno entrano nelle ‘casse’ della Chiesa in Italia (lasciandola –immotivatamente– tranquilla nel replicarsi del proprio trend ormai standardizzato). Non di meno la somma dei costi di gestione e manutenzione delle numerosissime strutture genererebbe un’immediata contro-meraviglia… oltre alla necessaria domanda: “ma come fanno questi a [pensare di] andare avanti?”

- La lettura finanziaria offrirebbe, probabilmente, una visione abbastanza euforica, soprattutto in ragione della notevole quantità di depositi e Titoli mobiliari facenti capo ad una miriade di Pie fondazioni non autonome a destinazione cultuale (Ss. Messe da celebrare) o anche i vari ‘finanziamenti’ variamente ottenuti –spesso attraverso Convenzioni con Istituzioni varie–, non ultimo l’otto per mille annuale alla C.E.I., che si aggira nell’ordine dei 1.100 mln di Euro annui.

- Sarebbe, tuttavia, la lettura patrimoniale a fornire il vero indice di consistenza globale di tali “beni”: una somma impressionante di debiti, soprattutto nei confronti del mondo bancario, in ragione di mutui e finanziamenti pluridecennali accesi per far fronte a ristrutturazioni, consolidamenti, restauri, di decine di migliaia di edifici storici, la maggior parte dei quali assolutamente non valorizzabili da punto di vista commerciale (e, quindi, propriamente patrimoniale). Ad essi andrebbero aggiunti i debiti contratti per la costruzione di –ulteriori– nuovi complessi parrocchiali e quelli contratti per non interrompere la gestione di un’infinità di ‘opere’ di assistenza ed istruzione in capo a migliaia di Parrocchie e non solo.
Unico elemento effettivo di ‘contrasto’ e ‘tenuta’ dal punto di vista patrimoniale (“attivo”) sarebbe il valore –assolutamente esiguo, però– dei comunque pochissimi immobili a vocazione non immediatamente cultuale (chiese) ed annessa (case canoniche ed opere parrocchiali) intestati agli stessi Enti ecclesiastici (terreni, appartamenti, capannoni industriali); dovendosi considerare che tutto quanto già posseduto dagli stessi soggetti ed avente una espressa ‘vocazione’ produttiva è già stato scorporato nel 1985 in seguito alla Modifica dei Patti Lateranensi (L. 222/85), essendo confluito –per Legge– negli “Istituti diocesani per il sostentamento del clero”, senza poter più venir utilizzato a fini immediatamente patrimoniali per la Chiesa italiana nelle sue diverse articolazioni.


2.3 La grande mutazione ‘incosciente’

Al di là delle domande più spontanee ed inopportune, per le quali non è questa la sede ‘adatta’, lo studioso non può non chiedersi: come e perché si sia finiti –in pochissimi decenni– in un tal tipo di situazione e, non di meno, se esistano reali possibilità di ‘uscirne’ in qualche modo.

La risposta –molto articolata, per quanto in realtà non ‘complessa’– è essenzialmente quella già ‘introdotta’ più sopra: [a] la finanziarizzazione totale dell’economia, unitamente ad altri [b] elementi tipici dell’Era industriale e post-industriale soprattutto in tema di lavoro e Normative connesse, cui occorrerebbe aggiungere [c] altri fattori di natura più espressamente e direttamente ‘politica’, come quelli tributari e di tutela del patrimonio artistico, per chiudere con [d] ‘sopravvenienze’ derivate di varia origine e, spesso, specifica strutturalità connessa ai fattori fondamentali già indicati.


a) L’esemplificazione del terzo fattore indicato (quello ‘politico’) è addirittura ‘monumentale’: la costruzione delle grandi cattedrali e basiliche medioevali. È generalmente accreditato che l’espressione italica “mangiare a uf” per dire “gratuitamente” trova la propria origine esattamente nelle esenzioni di cui erano oggetto i materiali da costruzione che giungevano nelle grandi città per innalzare un grande tempio (il duomo di Milano, San Pietro a Roma, Santa Maria del Fiore a Firenze, ecc.): “A.U.F.” (= Ad Usum Fabricæ) era il contrassegno di esenzione tributaria e doganale di tali trasporti.
Per contro: costruire oggi un complesso parrocchiale comporta il pagamento di tutte le imposte ed i ‘diritti’ di qualunque natura e tipo, esattamente come per la costruzione di qualunque altro fabbricato civile “di lusso”, così classificato in quanto “non-rurale” né “prima abitazione” civile (I.V.A. al 21%, solo per indicare la voce diretta ed immediata più vistosa), a differenza di quelli industriali o commerciali che, inoltre, potranno comunque in seguito sia ‘valorizzare’ il fabbricato costruito, ‘capitalizzandone’ gli interi costi di realizzazione (anche progettuali e non solo di costruzione fisica) e tributari. Per qualunque Ente ecclesiastico invece, in quanto soggetto ‘privato’ e ‘non-commerciale’, l’I.V.A. è sostanzialmente un puro costo e non si danno ‘ammortamenti’ di nessun tipo, come per qualunque semplice cittadino! Allo stesso modo sono ‘vivi’ tutti i costi per la costruzione del fabbricato stesso, il quale –a differenza della casa del cittadino comune– non potrà essere ‘valorizzato’ patrimonialmente che (molto eventualmente) in percentuali estremamente ridotte, anche in ragione del necessario vincolo derivante dalla specifica “destinazione d’uso” a fini religiosi e –pertanto– non-commerciali.

b) Il secondo fattore da prendere in considerazione, ancora macroscopicamente, è quello ‘lavoristico’ che non permette, oggi, in nessun modo di impiegare –nei cantieri edili soprattutto!– personale non specifico, né a maggior ragione non-retribuito, come fu –invece– nei secoli passati per la grandissima parte della c.d. manovalanza che alimentava e faceva progredire non solo i grandi cantieri ‘cattedrali’ ma anche (e molto maggiormente) la costruzione delle numerosissime chiese e cappelle di paese. Escluse, infatti, le maestranze tecniche di maggior rilievo (architetti, maestri d’arte/opera, capi cantiere, artigiani vari…) il grosso del lavoro vero e proprio era prestato dalla ‘gente’: gli uomini del paese o del contado che si mettevano a disposizione –se pur a vario ‘titolo’– dei lavori edili e di approvvigionamento da eseguirsi per realizzare la costruzione del futuro edificio sacro e delle ‘fabbriche’ ad esso connesse.
Sotto questo profilo non è certo mistero al giorno d’oggi il fatto che la componente assolutamente maggioritaria dei costi di realizzazione di qualunque manufatto o opera sia quello del lavoro… col fatto, tuttavia, che il lavoro edile (tanto di costruzione che di restauro) non può essere in alcun modo realizzato in sedi differenti da quella ‘finale’; unico ‘risparmio’ –soltanto teorico– ipotizzabile: l’impiego di manodopera di bassissimo profilo professionale… con relativa incompetenza ed inettitudine tecnica! Monodopera oggi in massima parte non più necessaria in quanto già abbondantemente sostituita dalle macchine di cantiere. Basterà dare una scorsa anche assolutamente sommaria ad una c.d. contabilità di cantiere per rendersi conto dell’assoluta sproporzione tra i costi di approvvigionamento (=i materiali da costruzione) e quelli di realizzazione (=la manodopera).

c) È a questo livello che entra in gioco –quale fattore parzialmente ‘riassuntivo’– la totale finanziarizzazione dell’attuale economia: nel mondo ‘occidentale’ infatti, oggi, non è possibile vivere senza avere a disposizione denaro (=finanza), poiché l’unica vera risorsa ‘umana’ effettivamente disponibile nelle società post-agricole (il lavoro, appunto) ha quale proprio immediato ed unico ‘corrispondente’ il “salario”. Marx lo aveva ‘descritto’: il proletario (=non-agricoltore) non dispone di altro, non ha altra ricchezza, che il proprio lavoro venduto all’industria… ed il cuore dell’economia post-agraria consiste proprio nella ‘conversione’ di tale lavoro in ‘plusvalore’, che diventa prima profitto e poi patrimonio che genera rendita.
A ciò si uniscano le importanti tematiche connesse alla fase post-lavorativa di svariati  milioni di ‘lavoratori’ (dipendenti) per i quali, cessata la prestazione d’opera che assicura il salario, si pone il concretissimo problema del come continuare a vivere (senza salario). Fu il problema affrontato nelle prime decadi del sec. XX attraverso i diversi sistemi pensionistici: la c.d. previdenza sociale che –ancora una volta– si è introdotta tra i ‘costi’ effettivi della manodopera, dovendosi destinare ‘oggi’ denaro per assicurare un ‘reddito’ continuativo agli ex-lavoratori; necessità non precipua delle società di stampo agrario che si sono sempre rette in modo ‘autonomo’ anche al di là della reale possibilità lavorativa. Tale stato di cose ha trovato l’inevitabile epilogo negli Stati contemporanei nella ‘tassazione’ non solo del patrimonio (immobiliare e finanziario) ma anche del lavoro… inducendo la necessità di controllarlo in profondità per evitare ‘fughe’ tributarie e soprattutto contributive; la correlata esclusione di principio di qualunque forma di ‘prestazione gratuita d’opera’ individuale accresce il già ampio divario con la situazione generale giunta alla metà del secolo scorso.
La ricaduta attuale di tutto ciò anche soltanto sulla manutenzione ordinaria e straordinaria (non sulla costruzione!) degli edifici di culto ed annessi, ha ormai assunto sproporzioni totali: la manutenzione del pratino intorno alla chiesa, la pulizia del piazzale antistante la chiesa e casa canonica, la pulitura delle grondaie, il tinteggio dei serramenti… sono veri e propri ‘lavori’ ad ogni effetto …che non possono essere eseguiti se non secondo le Norme (rigidissime) in materia non solo lavoristica (contrattuale e di sicurezza) ma anche tributaria e previdenziale. Tutto assolutamente legittimo e doveroso nel mondo attuale, ma con un’effettività di esborsi finanziari mai esistita nei millenni alle nostre spalle. Ciò che pone il problema ‘ultimo’ effettivo: dove prendere i soldi per pagare questi costi? Problema mai esistito prima poiché la gente (=i fedeli) si prestava gratuitamente per compiere tali (piccole) prestazioni.
Ecco, appunto, la nuovissima ed irriducibile componente/espressione esclusivamente finanziaria della vita economica della Chiesa anche in Occidente! Quella del tutto sconosciuta al Diritto patrimoniale canonico del Libro V del CIC, già evidenziata dal giovane professore africano.

d) Vanno poi presi in considerazioni molti altri fattori ed elementi tra cui, p.es., la classificazione legale di tutti i fabbricati ecclesiastici come “beni artistici” ed il loro correlativo assoggettamento a Normative speciali di fortissima natura e portata restrittiva… come realizzato (per via evidentemente ‘politica’) da Leggi e Disposizioni ‘unilaterali’ dello Stato che vincola ‘artisticamente’ i fabbricati in ragione della sola soggettività del loro proprietario: tutto quanto, infatti, appartiene ad Enti non-commerciali (e sotto questa prospettiva ricadono –extra Concordato– anche quelli ecclesiastici) soggiace a fortissime limitazioni patrimoniali fissate per Legge come mera ‘presunzione’… la cui “prova contraria” genera però ulteriori specifici costi a carico della proprietà.
Ciò comporta, prima di tutto e ben prima di qualsiasi ‘operatività’, la necessaria richiesta di svariate autorizzazioni in tema di manutenzioni di qualunque tipo; autorizzazioni le quali, a loro volta, presuppongono (e quindi esigono) grandi quantità di apporti verificativi, consultivi, progettuali –tutti altamente specialistici– generando ulteriori altissimi costi… come in caso di consolidamento e restauro di fabbricati che, di per sé, per la Comunità cristiana che li possiede ed utilizza hanno essenzialmente una ‘vocazione’ funzionale! Beni strumentali. Gli altissimi standard di professionalità imposti poi dalla Pubblica Amministrazione (giustamente in quella prospettiva) per por mano a “beni artistici” completano l’opera della lievitazione dei costi, sempre faraonici per quasi qualunque tipologia d’intervento. Quanto tutto questo incomba e pesi sulle reali possibilità economiche, patrimoniali e finanziarie (v. infra), di molte piccole Parrocchie costituisce il cruccio costante di migliaia di Parroci in Italia.

e) Un altro fattore tanto ‘innovativo’ quanto ‘inconsapevole’, per quanto ormai assolutamente ‘strutturale’, è costituito dai costi di gestione di tali strutture (illuminazione e riscaldamento in primis); costi mai esistiti nella storia che ci ha preceduti. In effetti il fattore “impianti” e loro “utenze” di funzionamento appare una ‘voce’ assolutamente nuova nei costi di gestione e funzionamento degli edifici sacri e ‘pastorali’, apparsa –solo– dalla seconda metà del Novecento. La questione si pone su più livelli: [a] quello strutturale della realizzazione di tali impianti (da inserirsi quali manutenzioni straordinarie all’interno di fabbricati classificati come “beni artistici”) e [b] quello del loro reale, continuo, funzionamento. Una chiesa priva di riscaldamento, oggi, non è ammissibile, né una chiesa dove “ci sia freddo” durante le celebrazioni… ciò comporta tuttavia, in base alla dimensione e tipologia sia dell’edificio che degli impianti, una spesa di funzionamento spesso assolutamente non-correlata con l’effettiva fruizione della stessa (=chiesa grande ed alta, pochissimi fedeli presenti alle celebrazioni) generando costi assolutamente non-compensati (né compensabili!) da parte dell’utenza diretta. Il problema –che ha solo 60 anni– non è mai esistito in passato né le regredenti assemblee celebrative attuali appaiono adeguatamente consapevoli della sua reale portata ‘strutturale’ per l’economia della Parrocchia.

f) Proprio connessa agli “impianti” s’impone un’altra –e forse la maggiore– novità contemporanea: l’estrema differenza di valore e durata di quanto realizzato oggi, in fase costruttiva e/o di manutenzione/restauro degli edifici di culto ed annessi, rispetto al passato. La maggior parte degli elementi già evidenziati in tema di lavoro, tributi-previdenza e finanziarizzazione, ha ormai prodotto un effetto globale di proporzioni assolutamente devastanti –per quanto di assoluta inconsapevolezza generale!– che finisce per concretizzarsi nella reale inconsistenza patrimoniale di quanto costruito/realizzato.
Si tratta, in effetti di prendere atto dei rapporti reali tra costi effettivi sostenuti e concrete patrimonializzazioni realizzate nella costruzione e (assolutamente molto di più nella) ristrutturazione/restauro degli edifici di culto (ed annessi). Ad oggi, infatti, è assolutamente necessario rendersi conto della reale ‘composizione’ di tal genere di costi, ripartibili grossomodo in tre tipologie di base: 30% costi indiretti ed immateriali (=tasse, parcelle…) una tantum, 30% impianti (da sostituire/rimodernare radicalmente dopo 20 anni!); 40% strutture permanenti (con prospettiva di durata poco più che ‘secolare’).
Detto altrimenti: a fronte del costo effettivo (esemplificativo) di 2 mln di Euro per la realizzazione di una nuova chiesa e connesse opere parrocchiali (in realtà neppure troppo grandi: 1.440 mq circa) si consegue un risultato di questo tipo: 600.000 Euro di tasse, spese di progettazione (tassate!), diritti, autorizzazioni, verifiche, collaudi, ecc. (senza nulla produrre/realizzare); 600.000 Euro di impianti (riscaldamento, illuminazione, diffusione sonora, ricambio aria…) che andranno radicalmente rivisti –quando non anche completamente rimossi e sostituiti– dopo circa vent’anni, in un’ipotesi neppure massimalista; soli 800.000 Euro di realizzazione strutturale effettiva, [a] comprensiva delle aree di parcheggio e di utilizzo ‘pubblico’ generalmente imposte da parte della Pubblica Amministrazione locale (e spesso di reale ‘cessione’ alla stessa, una volta realizzate), [b] da rapportarsi comunque ai parametri già indicati di (s)proporzione tra costi di approvvigionamento e costo del lavoro, per un ‘risultato’ di 480.000 Euro effettivamente ‘realizzati’ (=grezzo; v. supra). Cioè: meno di un quarto della spesa effettiva!

g) Ultimo fattore (di questo elenco, ma non della realtà) è quello espressamente finanziario che permette oggi di spostare –spesso irresponsabilmente– sul futuro la maggior parte delle problematiche sin qui elencate, semplicemente attraverso il loro ‘finanziamento’ anticipato da parte del mondo bancario: il c.d. Mutuo che accompagna ormai ogni Ente ecclesiastico negli ultimi decenni pregiudicandone irreparabilmente ogni ‘futuro’… la ‘massa’ incalcolabile di debiti incombente sul patrimonio ecclesiale ed i suoi ‘proprietari’.
Anche questo fattore non solo era del tutto sconosciuto al passato ma, spesso, ne è pure l’esatto contrario: in passato, infatti, si costruiva quando si avevano i soldi per farlo, mentre oggi si spende subito quello che non si ha (né, forse, si avrà mai)… In passato per costruire un edificio sacro, e fabbricati annessi, si impiegavano anche vari decenni, costruendo un po’ alla volta a seconda delle reali disponibilità di materiali, di forza lavoro e risorse economiche… oggi, di contro, si firmano i contratti di esecuzione insieme con quelli di Mutuo, come per qualsiasi altro ‘acquisto con finanziamento’, realizzando in pochi mesi di cantiere ciò che rimarrà da pagare per svariati decenni.
La questione si aggrava se si considera anche come in passato fosse il ‘carico motivazionale’ degli operanti a promuovere e realizzare la costruzione da lasciare in utilizzo ai posteri, oggi al contrario sono gli attuali utenti che realizzano strutture di loro utilizzo immediato, lasciando ai posteri l’onere di pagarle! Posteri che, in Europa soprattutto, saranno sempre meno… visto che di Comunità cristiane si tratta.


2.4 Patrimonio e finanza ecclesiale per il futuro 

Quale sia il ‘quadro’ da inserire in questa ‘cornice’ non è facile a dirsi… né può trattarsi di esprimere giudizi o dispensare profezie… quanto di sollecitare le coscienze ecclesiali (ed ecclesiastiche!) verso la nuovissima situazione ormai delineatasi e non ragionevolmente reversibile.


Il reale problema delineato dal prof. Attila per le giovani Chiese è esattamente lo stesso di quelle più antiche: la consapevolezza del rapporto tra finanza e patrimonio e, con essa, l’uso consapevole delle sfuggenti e sempre temporanee –ed ormai uniche!– risorse finanziarie… a fronte –ancora– di un modo (europeo/ecclesiastico/canonico) di considerare i “beni” e di gestirli in ottica soltanto ‘patrimoniale’ (più o meno ‘feudale’).


L’indirizzo –coscienzioso e coscienziale– da adottarsi dovrà essere quello di una maggior attenzione alla componente finanziaria in stretta dipendenza da quella patrimoniale; una semplice domanda: “di chi sono i soldi che abbiamo in mano ora?

Dalla risposta dipenderà la possibilità di servirsene realmente oppure di provvedere a non diventarne ulteriormente dipendenti.


Ciò potrebbe trovare traduzione in alcuni ‘criteri’ operativi.

a) In primo luogo il criterio della “proporzionalità strumentale” che consiste nella ricorrente auto-domanda circa la reale ed effettiva ‘strumentalità’ dei “beni” di cui le diverse Comunità ecclesiali come tali fruiscono: una ‘strumentalità’ che dovrà tradursi sempre maggiormente in reale e realistica ‘proporzione’ tra [a] la Comunità come tale (ogni e ciascuna), [b] le risorse effettivamente disponibili in modo stabile e [c] le reali necessità funzionali alla vita cristiana della Comunità stessa. Dotarsi di ciò che non serve …senza neppure avere di che pagarlo non può essere un buon modo di ‘preparare’ il futuro; non di meno ‘svenarsi’ per “tenere aperto” a qualunque costo.

b) In secondo luogo il criterio della “preservazione della mera proprietà” che consiste nel dismettere temporaneamente l’utilizzo –ed i relativi mantenimento e tassazione!– degli immobili non più direttamente necessari alle singole Comunità cristiane in base alla “proporzionalità strumentale”. Si tratterebbe, cioè, non tanto (né semplicisticamente) di vendere “beni” immobili di nessuna fruizione probabile per molti decenni a venire, quanto di alienarne i soli diritti reali di sfruttamento. La vendita del diritto di Uso/abitazione, Usufrutto o Superficie, infatti, [a] oltre a realizzare per l’Ente ecclesiastico una –modesta ma immediata– entrata finanziaria e patrimoniale (spesso comunque eccedente rispetto alla valutabilità commerciale dell’immobile in sé, ma soprattutto vantaggiosa rispetto ai suoi costi di mantenimento/gestione), [b] sgrava la proprietà da tutte le responsabilità legali e spese di manutenzione straordinaria e tenuta in sicurezza, [c] toglie le imposte per l’utilizzo ‘commerciale’ (locazione) dell’immobile, [d] accresce la consistenza del “bene” in ragione delle opere eseguite (dai terzi) per poterlo sfruttare, [e] permetterà alle future generazioni ecclesiali di rientrare in possesso dei ‘loro’ “beni” qualora le –mutate– circostanze lo richiedessero/permettessero.

c) In terzo luogo il criterio della “patrimonializzazione finanziaria strutturale” che consiste nell’accantonare (ed immobilizzare/investire) costantemente una determinata percentuale delle disponibilità finanziarie di ‘ogni’ momento, ponendo così le basi concrete per una reale ‘autosufficienza’ dell’Ente ecclesiastico in vista delle necessità future. L’accantonare regolarmente somme di denaro (=Fondi) e spendere soltanto attraverso sistemi di Ammortamento (pluriennale) permetterebbe inoltre d’instaurare un proficuo legame strutturale tra le diverse componenti del Bilancio (stato patrimoniale e conto economico) che, se pure non cambia le carte in tavola, tuttavia permette di ‘ragionare’ in modo davvero globale in vista e ragione della stabilità dell’Ente ecclesiastico.
Una volta compiuti i primi due passi (dismissione funzionale e gestione dei “beni” inutili), ciò permetterà anche di assicurare una stabile fonte di ‘entrate’ per la vita reale della futura Comunità cristiana.