Metodo e modelli nel Diritto amministrativo canonico

SOMMARIO: 1. Metodo: concetto e caratteristiche. – 2. Esistenza di un Diritto amministrativo canonico. - 3. Modello ermeneutico. - 4. Paradigma euristico. - 5. Conclusioni.




1. METODO: CONCETTO E CARATTERISTICHE


1.1 Metodo e fondamenti

Il “metodo” nel Diritto è uno dei temi fondamentali, tanto da confondersi spesso col Diritto stesso che, al di là delle sole Norme (e non in tutti gli Ordinamenti giuridici), continua ad identificarsi in massima parte con l’interazione tra dottrina e Giurisprudenza. È sufficiente una rapida considerazione della storia del Diritto e delle dottrine giuridiche degli ultimi due secoli in Europa per rendersi perfettamente conto di ciò: esegesi, dogmatica giuridica, pandettistica, realismo giuridico… connotano ed identificano specifici modi d’intendere l’attività giuridica, di strutturarla e porla in atto.


Il Diritto canonico non sta fuori da questa stessa logica, avendo anche di fatto percorso le stesse tappe o trovandosi spesso “tentato” di farlo in modo un po’ troppo diretto ed immediato. Uno sguardo anche solo d’insieme alla storia della Scienza canonistica mostra con chiarezza come fu proprio dal “metodo” introdotto ed insegnato da Graziano che s’iniziò a ragionare sull’esperienza giuridica ecclesiale e si giunse a formulare e gestire in modo nuovo gli strumenti giuridici canonici –Decretali in primis– fino alla creazione di una vera e propria realtà nuova: il Diritto canonico classico. Non di meno la dottrina ottocentesca sulla codificazione fu alla base della prima vera attività legislativa generale della Chiesa, realizzata dal Card. Gasparri proprio in chiave metodologica.

Nella stessa linea il Diritto canonico codiciale non solo ha avuto forti influssi sulla dottrina canonistica del Novecento condizionandone spesso la componente “metodologica” ma proprio questa ha posto in evidenza che molte delle carenze che progressivamente venivano riscontrate nell’utilizzo del Codice canonico erano connesse alle sue modalità di utilizzo: esegesi (curiale) vs. dogmatica giuridica (laica italiana). La forte rinascita teologica cattolica del secondo dopo-guerra non lasciò escluso il Diritto canonico affiancando ai due precedenti un nuovo indirizzo “interpretativo” fortemente connotato su base teologica e con esplicite pretese “metodologiche” al riguardo. La questione non è ancora chiusa poiché un certo numero di autori di quest’ultimo indirizzo continua a prospettare il “metodo” come il vero elemento portante della Canonistica finendo, tuttavia, per operare di fatto nel campo dei “fondamenti”, al di là della differenza epistemologica che passa tra “perché” e “come”.


Proprio, però, dal punto di vista epistemologico il “metodo” non riguarda il “perché” i fenomeni accadano ma “a quali condizioni” e “in quale modo”: ciò in cui consiste la Scienza. Del “perché”, invece, si occupa la Filosofia con la sua ineliminabile ricerca dei “fondamenti” di quanto la realtà ci pone innanzi: «essa mette a nudo attraverso l’autoriflessione (ossia attraverso la Logica, che è l’essenza della Filosofia) i fondamenti di tutto». La Scienza, invece, opera attraverso il metodo.


1.2 Scientificità e metodo

Parlare oggi di “Scienza” o di “metodo” non fa alcuna reale differenza poiché la scientificità s’identifica col metodo. Non importa “che cosa” si voglia studiare, se un oggetto fisico o un comportamento umano. Qualunque realtà si voglia conoscere “scientificamente”, l’operare umano sarà sempre lo stesso, così come la stessa ne sarà l’origine: la percezione, la “esperienza di”. 

Nella Scienza il primato gnoseologico è operativo: si comprende ed apprende sul campo attraverso le “sensate esperienze” di galileiana memoria. Esperienze concatenate e strutturate in un “procedimento” concreto, fattuale, operativo, che “fa cose”, “compie operazioni”; un procedimento che, in quanto struttura operativa, è l’anima stessa della Scienza, indipendentemente dall’oggetto preso in considerazione.


In tal modo il “metodo” si presenta come concatenamento organico di operazioni strutturate e ripetitive che partono dall’esperienza per offrire conoscenze verificabili, da essa derivabili ma in essa non espressamente contenute. Una prospettiva che ha trovato proprio in ambito teologico una formulazione ad oggi ancora efficacissima nella definizione di B. Lonergan, secondo cui il metodo è uno


«schema normativo di operazioni ricorrenti e connesse tra di loro che danno risultati cumulativi e progressivi. C’è dunque metodo là dove ci sono operazioni distinte, dove ciascuna operazione è in relazione con le altre, dove l’insieme delle relazioni forma uno schema, dove lo schema è descritto come il modo adatto per fare una determinata cosa, dove le operazioni che si svolgono in conformità allo schema possono ripetersi indefinitamente e dove i frutti di tale ripetizione sono non qualcosa che semplicemente si ripete, bensì qualcosa di cumulativo e progressivo. […]

L’indagine trasforma la mera esperienza nell’esame della osservazione. Ciò che è osservato, è fissato in una descrizione. Descrizioni contrastanti danno origine a problemi e i problemi vengono risolti mediante scoperte. Ciò che è scoperto, è espresso in un’ipotesi. Dall’ipotesi vengono dedotte le sue implicazioni e queste suggeriscono quali esperimenti si devono fare. Per cui le molte operazioni sono in relazione tra di loro, le relazioni formano uno schema e lo schema definisce il modo in cui va eseguita l’indagine scientifica».


Una definizione che, pur nata ad uso della Teologia, non considera però né fondamenti né contenuti… poiché il “metodo” non è né fondamento né contenuto.


Senza disperdersi inutilmente nell’immenso ginepraio epistemologico, basterà qui considerare che le Scienze, sinteticamente, si caratterizzano oggi per quattro elementi costitutivi, al di là e ben prima di qualsiasi ulteriore specificazione dell’oggetto di studio: a) cognitività, b) linguaggio, c) dominio/estensione, d) procedimento scientifico.


a) L’obiettivo della Scienza è porre affermazioni cognitive circa la realtà: affermazioni che amplino la conoscenza umana come tale, affermando “attributi/predicati” degli oggetti di studio.

b) La necessità di porre affermazioni cognitive impone una rigorosa ‘formalizzazione’ del linguaggio così da affermare sempre –e solo– il “minimo” di cui si abbia ragionevole certezza.

c) La Scienza non tratta della realtà come tale ma di sue specifiche delimitazioni circoscrivibili e circoscritte (=dominio/estensione) in modo da poterne fare ragionevoli e fondate affermazioni cognitive.

d) La Scienza s’identifica di fatto col procedimento scientifico, che non riguarda né i contenuti della conoscenza né le sue forme espressive ma il “modo” in cui essi vengono portati alla luce partendo dall’esperienza e il “modo” di relazionarli ed interconnetterli tra loro fino ad averne una visione organica che renda sufficiente ragione tanto di sé che dell’insieme.


Cognitività, linguaggio, dominio, procedimento, realizzano di fatto i c.d. postulati minimi di scientificità il cui compito è quello di garantire in modo strutturale, la possibilità dell’elaborazione scientifica e dei suoi risultati in ogni campo dell’umana conoscenza, senza vere differenze tra “sciences” ed “humanities”.


- Il postulato di proposizione riguarda la possibilità/necessità che le proposizioni affermino “qualcosa” su un evento/fenomeno e ne proclamino la verità, cioè l’adeguazione a ciò che costituisce l’oggetto dell’asserzione.

- Il postulato di coerenza impone che le asserzioni cognitive si mantengano all’interno del campo unitario di “oggetti” reali e loro referenti linguistici che appartengono o fanno capo allo stesso domino/estensione.

- Il postulato di controllabilità coincide col fondamento stesso della Scienza poiché «la verità […] è tale solo se può essere osservata, almeno in linea di principio, da tutti».


1.3 Metodo ed oggetti di ricerca

Per quanto dal punto di vista teorico la relazione tra “metodo” e “oggetti di ricerca” appaia piuttosto piana, non potendosi evitare il principio –ribadito da Eugenio Corecco– secondo cui «il metodo di ogni Scienza deve essere definito dal suo oggetto», dal punto di vista pratico le applicazioni rimangono però differenti, giungendo fino all’antitesi, soprattutto quando dell’oggetto conta non la “identità” (=la res) ma una sua –possibile– qualificazione. Fu –e rimane– la questione se l’oggetto della Canonistica sia da qualificarsi come “giuridico” oppure come “teologico”, derivandone la qualificazione stessa del “metodo” da applicarsi nella Scienza canonistica: teologico o giuridico o qualche combinazione tra i due. Questione evidentemente mal posta poiché l’oggetto della Scienza canonistica è –e deve essere– il “Diritto canonico” come tale e non una sua qualificazione: la “res”, l’“ens”, e non un suo “modus (essendi)”. Di fatto l’antica distinzione tra “obiectum formale quod” ed “obiectum formale quo” non risulta adeguata alle odierne consapevolezze epistemologiche e metodologiche le quali esigono l’esistenza soltanto di “oggetti materiali” e “metodi” e non di “oggetti formali” spesso non meglio specificati.


Se è l’oggetto che decide il “metodo”, allora il “metodo” da impiegarsi nello studio del Diritto canonico dev’essere –prima di tutto– adatto allo studio del “Diritto”. Un “Diritto” concreto, vissuto, reale… come la vita della Comunità cristiana che lo ha generato e lo utilizza da quasi due millenni per mantenersi istituzionalmente fedele alla missio che il suo Fondatore le ha affidato. Un Diritto che prima di tutto “avviene” all’interno della complessa ed articolata vita ecclesiale. Un Diritto certamente “segnato” dalle realtà (soprannaturali e spirituali) di cui si occupa, ma anche caratterizzato dal suo essere “Diritto” e non Morale o Teologia o Spiritualità.

La questione diventa più pressante se, anziché al Diritto canonico come tale, ci si voglia dedicare allo studio scientifico di una sua specifica connotazione/branca come può essere –nel caso presente– il Diritto amministrativo canonico.


Proprio perché «il metodo di ogni Scienza deve essere definito dal suo oggetto», la ricerca dovrà affrontare –e risolvere– due questioni previe espressamente “metodologiche” individuando:

a) l’oggetto specifico della ricerca da realizzare, 

b) i modelli di riferimento per guidare, almeno preliminarmente, tale studio.

Sarà questo il semplice apporto espressamente “metodologico” di queste brevi note (a bordo campo) in materia amministrativistica canonica.



2. ESISTENZA DI UN DIRITTO AMMINISTRATIVO CANONICO


L’individuazione dell’oggetto di ricerca chiede innanzitutto di verificarne la concreta esistenza e la plausibilità. Uno studio sulla fisiologia dell’araba fenice ed i suoi cicli di morte e risurrezione, per quanto teoricamente possibile a livello di analisi –essenzialmente– della Letteratura che ne tratta, non è in realtà plausibile soprattutto a causa della concreta inesistenza di tal genere di animale. Né gli studi letterari su tale oggetto d’indagine potrebbero mai aspirare al concetto di scientificità.

Occorre pertanto verificare se esistano le condizioni per l’esistenza di un Diritto amministrativo canonico quale “oggetto” concreto di studio ed indagine, tanto da diventare poi specifica Disciplina scientifica, oltre che accademica. La sola esistenza, infatti, di una formula letteraria qual è “Diritto amministrativo canonico” non è sufficiente (proprio come per l’araba fenice) a testimoniarne la reale esistenza né a giustificarne lo studio scientifico.


2.1 Presupposti storico-giuridici per l’esistenza ed identificazione di un Diritto amministrativo canonico

La storia –anche più sommaria– del Diritto amministrativo così come oggi recepito, studiato e sviluppato negli Ordinamenti giuridici statuali detti, appunto, di Diritto amministrativo, ne fissa le origini sostanziali nella tarda Modernità all’interno del nebuloso delinearsi degli Stati proto-costituzionali. Punto di non ritorno di tale processo fu la Rivoluzione Francese del 1789 che impose una prima forma di connubio e bilanciamento strutturali tra Stato e sovranità popolare. Iniziò così a delinearsi l’originale Diritto amministrativo come ‘culmine’ delle trasformazioni socio-politiche che lungo la Modernità avevano portato alla perdita della dimensione comunitaria della giuridicità tipica del Medio Evo. Il fenomeno era legato alla transizione dal “Regnum” (antico e medioevale) come attività personale del Sovrano, allo “Stato” (moderno e contemporaneo) come realtà impersonale, suprema e sovrana.


Dal punto di vista sociale e politico, il Diritto di civil Law, costituzionalista, codicista (ed amministrativista), presuppone la cessazione della medioevale communitas communitatum in vista ed in nome della moderna societas individuorum (cfr. contratto sociale) in cui il soggetto del Diritto non è più la communitas ma l’individuo, in una crescente concorrenza/contrapposizione (soprattutto d’interessi concreti) del singolo verso tutti (rappresentati di fatto dallo Stato). A questo si aggiunga che, mentre le communitates sono ampiamente compatibili ed integrabili tra loro, le societates non lo sono affatto e tendono a divenire totalizzanti ed esclusive, come ben dimostra l’evoluzione degli Stati europei tardo-moderni (spesso nazionali). In tal modo il “Leviatano” (come Hobbes chiamò proprio tale Stato moderno) che non può più essere sconfitto può tuttavia essere aggiogato attraverso un ‘nuovo’ Diritto (quello costituzionale, inizialmente) che gli imponga sempre nuove catene e gioghi per poterne sfruttare a proprio vantaggio almeno la forza.

In tale prospettiva si delinea perfettamente l’assetto giuridico generale assunto dagli Stati moderni occidentali. Il Diritto costituzionale –per primo– definisce e delimita lo Stato: cosa è e cosa non è, cosa può fare e cosa non può fare ad intra, cioè verso i cittadini. Il Diritto penale accolla allo Stato la tutela dell’incolumità fisica e patrimoniale dei singoli. Il Diritto civile fissa le posizioni e relazioni significative per gli individui e le loro proprietà ed iniziative. Il Diritto amministrativo –ultimo arrivato in tale processo– vincola lo Stato nei suoi rapporti coi cittadini ridimensionandone progressivamente la supremazia relazionale. L’attuale (successivo) Diritto comunitario (europeo) tende ad imporre allo Stato la –sola– regolamentazione e tutela delle libertà individuali dei cittadini.


Se, perché, quanto e come tali premesse corrispondano alla realtà ecclesiale così da giustificare anche al suo interno il sorgere di un Diritto amministrativo va verificato con estrema attenzione, soprattutto poiché la dimensione comunitaria è rimasta assolutamente costitutiva e strutturale del Diritto della Chiesa, anche attuale, la quale –proprio per la sua etero-fondazione (=Cristo e non il popolo)– non ha assecondato al proprio interno i mutamenti costitutivi degli Ordinamenti giuridici statuali tardo-moderni e contemporanei. Il nascere dello Stato moderno ed ottocentesco –individualistico e totalizzante– avviene infatti su basi antitetiche rispetto alla Chiesa che, invece, rimane saldamente strutturata in modo medioevale: come comunità di comunità e non come totalità rigida di individui. Di conseguenza non è affatto possibile modellare il monolite del Diritto in sé (idealisticamente concepito sull’ottocentesca civil Law) attraverso il ricorso ad alcuni utensili speciali come sarebbero dispensatio, æquitas, epikeia, dissimulatio, tolerari potest, in nome del risultato finale da ottenere e non dell’identità e struttura della Chiesa stessa. La stessa struttura e funzionalità della c.d. Potestas non sono assimilabili tra Ordinamento canonico ed Ordinamenti civili.


In questa prospettiva non si può trascurare senza ingenti conseguenze che, mentre soggetto del Diritto canonico è la Comunità cristiana (=Chiesa) nello svolgimento della propria missione (per quanto variamente articolata al proprio interno), soggetti del Diritto statuale sono, invece, i cittadini nella propria volontà di auto-realizzazione (ormai attraverso lo Stato). In tal modo il presupposto stesso del Diritto statuale moderno risulta palesemente in contraddizione col presupposto del Diritto canonico di ogni tempo proprio in ragione del diverso rapporto tra collettivo ed individuale: integrante il primo, contrappositorio il secondo.

Come parlare, dunque, nella Chiesa cattolica di un “Diritto amministrativo”, visto che il suo presupposto originante non trova in essa alcuna corrispondenza?


2.2 Concetto di Diritto amministrativo canonico

La concreta analisi dello sviluppo e delle manifestazioni e teorizzazioni del Diritto amministrativo statuale mette però in luce alcuni elementi e fattori che in se stessi soltanto e dal punto di vista più strettamente tecnico non paiono contraddire specifici elementi e fattori riscontrabili anche nella vita ecclesiale. Si tratta dell’organizzazione istituzionale, della sua struttura e dei rapporti tra Organi ed Istituzioni, in una prospettiva unicamente fisiologica dell’Istituzione stessa e non contrappositoria tra questa e gli “individui” che ad essa si relazionano, come traspare –invece– dalla maggior parte dell’attuale dottrina canonistica in materia. Il rapporto, infatti, tra comunità e suo membro non è assimilabile a quello tra Stato e cittadino.


Va poi considerato un ulteriore fattore di diversità costitutiva e funzionale tra Chiesa (di sempre) e Stati (moderni e contemporanei): la “legittimazione”; è questa, infatti, il vero problema alla base del connubio e bilanciamento tra Stato e sovranità popolare. Se, infatti, “la sovranità appartiene al popolo” (=democrazia) lo Stato non potrà mai mettersi contro il popolo stesso ma dovrà assecondarlo nelle sue volontà numericamente prevalenti. È il popolo, infatti, che “governa se stesso” principalmente attraverso l’attività legislativa esercitata dai Parlamenti elettivi, costringendo lo Stato a “dare” o a “non-prendere” quanto più corrisponda al –presunto– interesse della maggioranza dei cittadini/elettori.

La differenza ecclesiale è somma in questo campo: nessuna legittimazione per via popolare e nessun auto-governo. L’Istituzione ecclesiale è etero-legittimata per via spirituale ed è retta per via vocazionale, con una nettissima prevalenza dell’elemento “gerarchico” rispetto a quello orizzontale, per quanto all’interno della logica e dinamica costituzionale della “Communio”.


Non di meno, tali irriducibili differenze costituzionali non impediscono d’individuare all’interno dei diversi Ordinamenti un’ampia area normativa espressamente rivolta proprio all’Istituzione come tale (Stato o Chiesa che sia), come già riconosceva Santi Romano: «il Diritto amministrativo, prima di disciplinare i rapporti che nascono dalla funzione amministrativa, è il Diritto che stabilisce l’organizzazione degli Enti che la esercitano»; anche perché tale organizzazione realizza «una serie di Atti, di Procedure importantissime pel Diritto, che se ne occupa minutamente e ne fa oggetto di Leggi, di Regolamenti, di Disposizioni di ogni genere» che sarebbe assurdo non considerare vero Diritto «solo perché si esauriscono nell’interno dell’organizzazione statuale» senza coinvolgere direttamente l’individuo come tale, tanto meno in una posizione rivendicativa o di controparte.


Proprio in questa specifica prospettiva di organizzazione istituzionale appare fondata e sostenibile l’esistenza di un “Diritto amministrativo” vero e proprio anche all’interno dell’esperienza giuridica ecclesiale. Un Diritto che riguarda prima di tutto ed essenzialmente la struttura ed il funzionamento dell’Istituzione ecclesiale nel perseguimento delle proprie finalità istitutive: la missio affidatale da Cristo stesso. Un Diritto che, all’interno della stessa missio, coinvolge direttamente i Christifideles a cui tale missio è diretta ed alla quale essi stessi partecipano in modo più o meno diretto. Un Diritto di quanto nella vita ecclesiale è sovra-individuale e comunitario: Parola di Dio (=CIC, libro III), Sacramenti (=CIC, libro IV), Strutture, Organi ed Uffici ecclesiastici (=CIC, libro II), beni materiali di cui la Chiesa si serve per la propria missione (=CIC, libro V): tutte le Norme, cioè, che guidano la corretta modalità di esercizio del proprio ruolo ecclesiale (personale o istituzionale), secondo i principi ecclesiologici e pastorali espressi dal Vaticano II e recepiti nei Codici (CIC e CCEO) e nelle altre Norme dell’Ordinamento canonico. Senza che “tutela dei diritti (individuali)” o “giustizia amministrativa” o altri topoi dello stesso genere letterario entrino a dar corpo ad alcunché nella struttura e funzionalità di tale Diritto.



3. MODELLO ERMENEUTICO

Come già un secolo fa si era fatto grande riferimento alle concezioni e dottrine civilistiche (soprattutto francesi) per la codificazione del Diritto canonico, così negli ultimi decenni la maggior parte della dottrina canonica ha puntato molto –per la sistematizzazione e teorizzazione del Diritto amministrativo canonico– sulle dottrine offerte dal Diritto amministrativo statuale italiano e spagnolo, i più familiari alla maggioranza di canonisti attivi in materia. Si è così assistito ad un vero e proprio “modellamento” dell’Ordinamento canonico su quelli statuali con espressa importazione non solo di Istituti giuridici ma, più ancora, delle teorizzazioni e sistematiche sottostanti imponendo all’Ordinamento canonico vere costrizioni e mutilazioni, oltre che discutibili “protesi”; utilizzando il “modello” come un vero e proprio “stampo”.

Le discrasie ed irriconducibilità già illustrate impongono pertanto un necessario approfondimento nei confronti di un’adozione non specificamente avvertita di tal genere di “metodi”.


3.1 Un confronto strutturale problematico

Da una corretta percezione e concezione della –natura– vita ed attività ecclesiale emerge un elemento di portata costitutiva che differenzia radicalmente le strutture delle due tipologie ordinamentali: [a] oggetto sostanziale dell’attività amministrativa canonica è il governo della comunità ecclesiale inteso come garanzia istituzionale del perseguimento del suo fine costitutivo, [b] oggetto sostanziale dell’attività amministrativa civile, invece, è il conseguimento dei fini che allo Stato si sono di volta in volta assegnati per via politica (=democrazia), spesso con decremento o incremento fattivo delle “posizioni” dei diversi soggetti di Diritto (=cittadini o loro organizzazioni) ad esso sottoposti, soprattutto (o quasi esclusivamente) in ambito di fruizione ed accesso individuale a beni economici.


La differenza è sostanziale poiché in ambito canonico l’attività di governo ecclesiale interviene solo per gestire le risorse (spirituali, materiali o personali) “pubbliche”, cioè: che dipendono immediatamente dalla struttura gerarchica della Chiesa (Uffici ecclesiastici in primis). Nell’attività statuale, per contro, gli interventi dello Stato riguardano prevalentemente beni/situazioni individuali dei soggetti coinvolgendoli –autoritativamente– nel c.d. interesse pubblico che ne limita o ne amplia il patrimonio giuridico attuale o potenziale, come accade –p.es.– per Espropri per utilità pubblica o approvazioni di Piani urbanistici, oppure con l’assunzione di lavoratori dipendenti della Pubblica Amministrazione o suoi fornitori di materiali o servizi nei casi in cui lo Stato stesso operi (più o meno) immediatamente per il raggiungimento di finalità pubbliche (e come tali finanziate con denaro coattivamente prelevato agli stessi fruitori attraverso il Sistema tributario) quali: sanità, istruzione, assistenza, trasporti, telecomunicazioni, energia, sicurezza, protezione civile, ecc.


Ciò basta a mettere in evidenza come gli eventuali motivi (e la qualità) di resistenza/contrasto/opposizione tra destinatari ed Autorità di governo siano radicalmente diversi nella Chiesa e negli Stati, con una capacità di penetrazione (ed aggressione) delle diverse soggettività –e loro condizioni/posizioni– molto maggiore nello Stato che nella Chiesa.

L’espropriato, l’escluso, il non-ammesso, il non-selezionato, il dimesso, da parte della Pubblica Amministrazione (statuale) riceve un reale danno alla propria ‘posizione’ –esistenziale, prim’ancora che giuridica–; una ‘posizione’ che, nel caso delle persone, è ontologicamente pre-esistente allo Stato stesso, come ben dimostra, ormai, nella vita ordinaria l’assoluta irrilevanza pratica dei c.d. diritti della cittadinanza (distinti da quelli politici) rispetto ai c.d. “diritti fondamentali” –comunque assicurati– e come il Diritto comunitario europeo mostra con sempre maggiore pervasività ed efficacia nelle Cause dei cittadini verso gli Stati di appartenenza.

Chi perde una proprietà immobiliare o parte del suo valore, come chi non consegue un rapporto o una commessa di lavoro pubblico, oppure resta escluso da una riqualificazione urbanistica o si vede negare l’Autorizzazione per esercitare un’attività professionale o imprenditoriale o modificare un immobile di sua proprietà, riceve indubbiamente un vulnus alla propria posizione (anche solo potenziale); un vulnus, casomai, ‘evitato’ ad altri soggetti di pari condizione ed in pari circostanze. Di qui la reale contrapposizione sostanziale tra chi opera (=la Pubblica Amministrazione) e chi subisce (=il destinatario), cosicché in ambito statuale si concretizza da subito un reale conflitto di interessi/posizioni che giustifica la “contesa” tra soggetto e Pubblica Amministrazione: un Contenzioso che, pur se non giunto alla fase giudiziale vera e propria, è però tale fin dalla sua origine e tale rimane ad ogni livello, su base espressamente oppositoria… tanto che si parla di “pre-contenzioso” e come tale lo si realizza nelle varie sedi deputate alla sua gestione procedimentale.


Per contro: la pre-esistenza della Chiesa rispetto a ciascun fedele/soggetto canonico, la libera scelta di aderire alla Chiesa stessa, l’indisponibilità per i fedeli come tali dei “beni ecclesiali”, non rendono possibili ipotesi immediatamente deprivative e lesive nella relazione tra Autorità e soggetti ecclesiali. Nessun “bene” personale di nessun fedele –infatti– è nella disponibilità giuridica del governo ecclesiale (come, invece, i beni dei cittadini lo risultano rispetto allo Stato) ed i soggetti ecclesiali pubblici detengono ed amministrano “beni” materiali che –in quanto “ecclesiastici”– appartengono alla Chiesa come tale e non a singoli fedeli/soggetti. In tale contesto eventuali opinioni discordanti sulla “gestione” delle risorse ecclesiali “pubbliche” (spirituali, materiali o personali) appartengono, in prima approssimazione, alle dinamiche stesse del discernimento di governo e all’interno di tale contesto e dinamica devono essere –ordinariamente– gestite.


3.2 La rimodulazione del rapporto Stato-cittadino

Nella Giurisprudenza statuale, per di più, la linea che si è ormai affermata tende ad escludere di principio una reale “disponibilità” da parte della Pubblica Amministrazione (ormai sempre meno legittimata e potestativa) nei confronti dei beni dei soggetti, ponendo come unica “legittimità” sostanziale della frustrazione individuale risultante, la cieca imparzialità che rende “giusto” il Procedimento in quanto non-imputabile a “qualcuno” la designazione/discriminazione dei soggetti eventualmente sfavoriti/danneggiati.

La dominanza, almeno politico-elettorale, dei cittadini alimenta così una dinamica strutturalmente contrappositoria tra soggetti e Pubblica Amministrazione, finendo per trascinare lo Stato all’interno della mischia –pressoché unicamente economica– tra i cittadini/soggetti, chiedendo alla Pubblica Amministrazione, da una parte di tutelare e dall’altra di realizzare il reale interesse/tornaconto dei singoli… i quali, quando insoddisfatti del non-risultato conseguito, si rivolgeranno contro la Pubblica Amministrazione stessa accusandola della loro frustrazione ed esigendo da essa o l’offerta di nuove opportunità o, in alternativa, il pagamento dei “danni” subiti. Ciò conduce di fatto alla necessità di deresponsabilizzare la Pubblica Amministrazione nei confronti dei risultati del proprio operare cercando in ogni modo di prevenire in procedendo le inevitabili recriminazioni ed i contenziosi in decernendo riconducibili a compromissione dell’interesse individuale e gravante –alla fine– sulle casse dello Stato.


Quanto sin qui illustrato non può prescindere dalla consapevolezza dell’estrema instabilità –e sostanziale occasionalità– del configurarsi e divenire dell’attività amministrativistica statuale lungo gli ultimi secoli.

Caduto infatti lo Stato come proprietà e patrimonio privato del Monarca (l’État c’est moi) e divenuto lo Stato stesso una pubblica res, l’Amministrazione fiscale/demaniale divenne pubblica e dovette assumere pubblica utilità attraverso il “service public”. Lo Stato cominciò così ad erogare e gestire in prima persona servizi per la collettività, servizi che per loro natura chiedevano una strutturazione ed apporti economici difficilmente possibili per la società e l’impresa protoindustriale (=ferrovie, Poste) e vennero affidati a specifici rami/entità della Pubblica Amministrazione. Quando però, col tempo, le Imprese o i Gruppi industriali diventarono capaci di erogare le stesse prestazioni su larga scala ed in modo concorrenziale (per costi ed efficienza) rispetto al monopolio della Pubblica Amministrazione, tali “services” cominciarono ad essere percepiti (e vennero configurati) come attività espressamente commerciali e lo Stato divenne progressivamente un competitor “sleale” da combattere ed escludere. 


Un tale processo di autonomia, potestà, riduzione autoritativa e delegittimazione dell’Amministrazione pubblica statuale, per contro, non ha avuto alcun rilievo né parallelismo nell’Ordinamento canonico, a causa della sua millenaria e totalizzante soggezione al c.d. sistema beneficiale che ha “privatizzato” la maggior parte della gestione del patrimonio ecclesiastico –e degli annessi Uffici ecclesiastici–, oltre ad aver saldamente configurato in modo fiduciale-personalistico i rapporti di natura potestativa… e le annesse teorizzazioni.


3.3 La profonda diversità della realtà ecclesiale

Le macro differenze teoretiche e strutturali sin qui evidenziate, seppure in modo generico, si concretizzano in un certo numero di vere irriconducibilità funzionali che non è più possibile ignorare nell’adozione acritica del modello amministrativistico statuale.


a) Prima di tutto: la Chiesa (cattolica), a differenza degli Stati, non è persona giuridica “intra-ordinamentale”, ma soltanto ed espressamente “persona morale” (cfr. Can. 113 §1), ciò che ne impedisce qualunque possibile individuazione e coinvolgibilità quale soggetto agente in campo giuridico, non importa con quale potestà. In essa, infatti, sono del tutto assenti sia [a] un “Ente sovrano” dotato di “supremazia” che [b] un vero patrimonio unitario ad esso riconducibile e capace di supportare l’attività, pretesamente unitaria dal punto di vista dell’Amministrazione (pubblica), della Chiesa come tale. Per quanto concerne la “supremazia” va osservato che essa non coinvolge in nulla la “potestà” suprema, diretta ed immediata del romano Pontefice su ogni soggetto ecclesiale, potestà che è espressamente personale e non viene esercitata in nome e per conto della Chiesa in se stessa, come accade, invece, per lo Stato in quanto Ente sovrano dotato di supremazia. Circa l’assenza di un patrimonio ecclesiale unitario, va ricordato che fino al Codice del 1983 non esistevano né Diocesi né Parrocchie come “Enti” sia giuridici che patrimoniali, ma solo i rispettivi Benefici annessi agli Uffici di Vescovo e Parroco quali fonti di loro sostentamento. Non esiste neppure una vera dotazione economico-patrimoniale unitaria sul modello demaniale civile, né una reale capacità di riscossione di Tributi canonici dovuti da parte degli Enti ecclesiastici ‘minori’ verso quelli ‘maggiori’ (Parrocchie vs. Diocesi o queste vs. S. Sede). Di conseguenza: [1] non esistono “proprietà” della Chiesa sul modello del Demanio statale, [2] non esistono “dipendenti pubblici” della Chiesa come invece esistono negli Stati, [3] non esistono “servizi pubblici” erogati dalla Chiesa come quelli erogati dagli Stati, [4] non esistono “fornitori” della Chiesa come esistono per le attività degli Stati, ecc.

Proprio, però, la regolamentazione e gestione di questi elementi –univocamente riferibili e riferiti agli Stati come “persone”– costituisce in realtà la “core activity” del Diritto amministrativo statuale e dei rapporti tra Pubblica Amministrazione e soggetti individuali.

b) In secondo luogo, esiste una strutturale non-corrispondenza tra l’esercizio dell’Ufficio ecclesiastico e le funzioni –eventualmente– annesse a livello di Amministrazione e Rappresentanza degli Enti canonici; discontinuità dovuta alla configurazione espressamente fiduciale-personalistica dell’esercizio ecclesiale delle prerogative giuridiche che si realizzano ed attuano attraverso gli Uffici ecclesiastici, alla cui identità non partecipa la componente “materiale” identificata negli Enti canonici. Detto in altri termini: le funzioni di Rappresentanza ed Amministrazione degli Enti canonici attribuite ex Lege ai titolari di determinati Uffici ecclesiastici (Vescovo diocesano e Parroco in primis – cfr. Cann. 393; 532) costituiscono un corpus di competenze del tutto autonomo –e subordinato– rispetto all’Ufficio ecclesiastico come tale e, molto maggiormente, rispetto all’eventuale esercizio di potestà di governo implicata dall’Ufficio stesso.

Di conseguenza: quanto compete ai Rappresentanti/Amministratori nei confronti degli Enti che reggono (cfr. Can. 1279 §1) non ha connessioni potestative con l’esercizio dell’Ufficio ecclesiastico loro affidato. In tal modo: i lavoratori dipendenti della Diocesi –pur rappresentata/amministrata dal Vescovo diocesano– non sono, canonicamente, diversi da qualunque altro lavoratore dipendente nell’Ordinamento civilistico di appartenenza territoriale. Che, infatti, il Vescovo diocesano in quanto tale non eserciti sui dipendenti della Diocesi alcuna specifica funzione canonica ratione laboris non è dubitabile. Così come non può dubitarsi che il suo essere il “datore di lavoro” (in quanto Rappresentante/Amministratore) non instauri alcuna connessione potestativa –e quindi amministrativistica– in ambito canonico: un “ordine di servizio” ad un dipendente della Curia non è un “Atto amministrativo singolare” anche se ad impartirlo è il Vescovo o il Vicario generale. Allo stesso modo per il Parroco e tutti gli altri Rappresentanti/Amministratori di Enti canonici “connessi” alla struttura gerarchica della Chiesa. Tali Enti, infatti, sotto questo profilo non costituiscono in alcun modo la struttura gerarchica della Chiesa (né lo hanno mai fatto in precedenza), visto che la “struttura” della Chiesa è costituita da una “rete relazionale” (=network) e non dal coordinamento di veri e propri “Enti”, più sulla linea delle attuali “Autorities globali” che degli Stati moderni e contemporanei.

c) Dal punto di vista (intra-)ordinamentale non esistono nella Chiesa né “services publics” né “pubblici dipendenti” la cui condizione ed operatività vada normata attraverso il Diritto amministrativo (inteso come “dell’Amministrazione”). Ogni Ente canonico, infatti, attua “privatamente” e sotto la propria esclusiva responsabilità gestionale e patrimoniale tutte le proprie attività. La subordinazione gerarchica, per parte sua, non riguarda gli Enti ma i loro “titolari”: è sui Rappresentanti/Amministratori che il Vescovo diocesano esercita la propria potestà esecutiva (affidando loro l’Ufficio ecclesiastico che comporta –anche– tale Rappresentanza ed Amministrazione) e la vigilanza anche disciplinare. Sugli Enti come tali, invece, può compiere solo attività costitutive quali: erezione, modifica, soppressione; escluse ordinariamente Rappresentanza ed Amministrazione, che deve sempre affidare ad altra persona.

d) Un’attenzione tutta speciale merita la “qualificazione” che assumono nella Chiesa le persone coinvolte nell’attività c.d. “istituzionale”. L’Ufficio ecclesiastico non è come un “Ufficio pubblico”. Soprattutto: Vescovi diocesani, Parroci, Cappellani, Rettori, Amministratori, Giudici, ecc. non sono “personale dipendente” della/dalla Pubblica Amministrazione (Ecclesiastica)! Il personale della Pubblica Amministrazione civile è personale “dipendente” dalla stessa: si tratta, cioè, di “lavoratori” che prestano la loro attività lavorativa alla Pubblica Amministrazione. Per contro: nella Chiesa i chierici ed i religiosi (et similia) si collocano in una condizione assolutamente diversa, non potendosi in nessun modo ipotizzare né accettare una posizione “lavorativa” rispetto né all’Ufficio, né all’Istituto, né tanto meno alla Chiesa come tale. Il quadro diviene maggiormente complesso poiché si deve anche tener –necessariamente– conto della strutturazione e funzionalità sostanzialmente fiduciale-personalistica tipica della potestà di governo ecclesiale: gli Uffici ecclesiastici non sono oggetto di autonoma iniziativa da parte di aspiranti, alla stregua dei normali “posti di lavoro”… tanto più se “pubblici”!



4. PARADIGMA EURISTICO

4.1 Necessità di un cambio di passo

Le vistose incorrispondenze ed improbabili riconducibilità inter-ordinamentali appena illustrate (per quanto in modo sommario) sollecitano non solo un’estrema cautela nella ‘modellizzazione’ dell’Ordinamento amministrativistico canonico su quello statuale, ma inducono alla ricerca di altri riferimenti che possano soccorrere l’amministrativista ecclesiale nel delineare non tanto il/un “Sistema della Pubblica Amministrazione Ecclesiastica” quanto –molto più efficacemente– una “comprensibilità funzionale delle relazioni e dinamiche intra-ordinamentali della Chiesa”.


Un “paradigma” (anziché “modello”), inteso come insieme di conoscenze, nozioni, linguaggi e pratiche condivise (anziché rigide strutture da ricostruire/imitare) che possano guidare a tracciare realisticamente tale comprensibilità funzionale dell’Ordinamento canonico, può essere offerto dalle più recenti consapevolezze della dottrina amministrativistica così come emerge in riferimento alle funzionalità e dinamiche espresse dai c.d. “ordinamenti giuridici globali” o “compositi”, come può essere –esemplificativamente– l’Unione Europea. Si tratta di abbandonare la vetusta modellistica dello Stato (giurisdizionalista, ottocentesco) quale “Ordinamento (primario)” (o societas iuridice perfecta) per eccellenza, suddiviso ed articolato al proprio interno in modo gerarchico (per quanto anche con larghe autonomie) per assumere a paradigma euristico quello di un c.d. Ordinamento giuridico globale/composito, non gerarchico e la cui “non-primarietà” nulla toglie alla sua “superiorità” funzionale rispetto ai membri. Un’operazione non di identificazione, legittimazione “ontologica” ed applicazione di un modello (pre)definito, ma di lettura socio-funzionale di una realtà concreta la cui esistenza ed efficacia non possono essere poste in discussione. Non importa molto “che cosa sia” l’Unione Europea (così come la stessa Chiesa), importa invece moltissimo “come” essa funziona! Ed importano molto di più le dinamiche e funzionalità che maggiormente assomigliano a quelle canoniche, permettendone una rilettura che possa aiutare a ridisegnare più fedelmente o forse anche solo a “ridenominare” in modo più appropriato quanto accade nell’Ordinamento giuridico canonico.


Si è già visto che il modello organicista statale non risulta adeguato a descrivere l’Ordinamento canonico, al contrario: un Ordinamento globale/composito pare molto più rispettoso della struttura teologica –e quindi costituzionale– della Chiesa le cui dinamiche del livello generale assomigliano molto maggiormente a quelle sovra-statali che a quelle intra-statali sin qui adottate dalla dottrina dominante. È necessario, quindi, abbandonare il modello imperiale tardo-romano dell’una Ecclesia suddivisa in “diœcesis”, strutturata e compattata dallo Ius publicum ecclesiasticum come societas necessaria iuridice perfecta, per sperimentare una lettura più adatta della una Ecclesia communio Ecclesiarum” presentata dalla formula conciliare “in quibus et ex quibus” in cui le Chiese particolari ed universale si collocano reciprocamente e congiuntamente in una relazione non troppo dissimile, dal punto di vista funzionale, da quella dei membri di un Ordinamento giuridico globale/composito. La prospettiva è solo funzionale e non teologica, né ontologica… come non doveva esserlo neppure quella modellata sull’Ordinamento statuale: la societas iuridice perfecta!

In quest’ottica la Chiesa universale corrisponderebbe alla Comunità sovrastatale e le singole Chiese particolari agli Stati membri, in una prospettiva che non è federativa (=ad accumulo) ma in qualche modo organica (=olistica, come un organismo vivente). Sarebbe così valorizzato anche (rispetto agli schemi vetero-imperiale e moderno-statale) il vero ruolo teologico dei Vescovi diocesani e la natura non parziaria delle Diocesi rispetto alla Chiesa universale.

Il paradigma/metodo dell’Ordinamento globale/composito offre, poi, notevoli possibilità di nuova lettura ed interpretazione di molte categorie amministrativistiche canoniche ad oggi ancora gravemente insufficienti.


Primo passo per intraprendere il nuovo percorso è l’abbandono della modellistica della “struttura unitaria” personale e gerarchica dello Stato moderno a vantaggio della “rete” (network) come figura organizzativa composta di Uffici pubblici e caratterizzata dall’appartenenza a Entità o Apparati diversi e dalla collaborazione o interdipendenza.

Il secondo passo da compiere riguarda la persistenza ed il ricupero di un concetto quasi strutturale della Tradizione canonica: lo Ius commune. Come già nell’ordine medievale, ancor oggi un’idea sta al centro del Diritto globale: il principio di unità, secondo cui «tutte le parti appartengono a un sistema»; il Diritto globale «è unum Ius rispetto agli Iura propria degli Ordinamenti particolari». «Ciò è naturale se si pensa che l’Unione [europea – ndr] è un Ordinamento multi-livello, che viene a integrarsi con gli Stati, non li sostituisce».


4.2 Nuove prospettive interpretative

a) Una prima lettura in chiave globale/composita dell’Ordinamento canonico permette di rilevare in esso una strutturazione funzionale molto simile a quella comunitaria europea che si presenta «come un potere pubblico dotato di un Apparato legislativo e di uno giurisdizionale, ma programmaticamente privo di un Apparato esecutivo». Il fatto è importante poiché l’Unione Europea, come anche su tutt’altra base la stessa Chiesa universale, «nasce in forme opposte a quelle degli Stati, dove il potere originario –come notato– è quello esecutivo». A nessuno sfuggirà come l’attività immediatamente “esecutiva” svolta dalla Chiesa a livello universale/globale sia in effetti molto ridotta rispetto a quella normativa; con un ruolo specifico per i Tribunali apostolici. Ciò è pienamente in linea col fatto che il vero funzionamento e la vera attività ecclesiale si sono sempre svolti a livello sostanzialmente diocesano, ricorrendo a Roma prevalentemente in via suppletoria per averne o principi operativi o decisioni inoppugnabili. Questo, però, coincide col fenomeno funzionale delle Decretali pontificie, poi raccolte, sistematizzate e pubblicizzate come vere e proprie Norme giuridiche ‘comuni’, come fu per il Corpus Iuris Canonici.

Si aggiunga inoltre che anche in sede canonica valgono –oggi– le considerazioni sul rapporto tra “amministrazione di gestione” (propria dei membri) ed “amministrazione di missione” (propria dell’Ordinamento superiore), poiché –diversamente dal modello statuale unitario– il multi-livello dell’Ordinamento ecclesiale vigente permette di non attribuire direttamente al livello universale l’attività esecutiva in cui consiste –più radicalmente– l’esercizio della potestà stessa di governo, che compete espressamente (per il c.d. Diritto divino) ai Vescovi diocesani nelle loro Chiese.

b) Per quanto concerne il livello universale dell’Ordinamento canonico non pare fuori luogo riconoscere come la funzione dei Dicasteri della Curia Romana sia fondamentalmente –ed espressamente– ‘compositoria’ soprattutto nei confronti delle istanze problematiche o anche conflittuali sorte all’interno sia delle realtà gerarchiche (=Circoscrizioni ecclesiastiche) che non-gerarchiche (=Istituti di vita consacrata et similia) in cui la Chiesa stessa si esprime e realizza. Anche in ciò si riscontra similitudine con una gran parte di “attori” della scena globale/composita (=Uffici, Organi, Organi personificati), i quali appaiono essenzialmente come “figure di composizione”: figure cioè istituite quali mezzi di «conciliazione di interessi dei quali i partecipanti e gli Uffici che essi rappresentano sono portatori», caratterizzandosi per di più per lo spiccato «carattere sezionale di ciascuno degli Uffici di composizione: ognuno di essi è istituito per una materia determinata»… in modo non radicalmente diverso da quanto avviene per i Dicasteri della Curia Romana.

c) Va osservato poi che anche l’attività composizionale dei Dicasteri della Curia Romana si svolge in modo sostanzialmente “regolativo”, come accade nei Ricorsi gerarchici verso Provvedimenti inefficaci delle Autorità esecutive con potestà propria inferiori al romano Pontefice: un’attività che, in ragione soprattutto della Giurisprudenza dei Tribunali apostolici (Segnatura Apostolica in primis) quale “formante” dell’Ordinamento, si è progressivamente procedimentalizzata –almeno dopo il Concilio– dando un’importanza crescente all’iter di formalizzazione del Provvedimento rispetto alla semplice discrezionalità più propria del governo. Ciò fa sì che la stessa attività della Curia Romana stia assumendo sempre maggiori connotazioni procedurali e livelli di tutela soggettiva ben prima di qualunque “accesso” espressamente contenzioso (=giudiziale). Si rende presente in tal modo il trend progressivamente affermatosi a livello comunitario europeo dove


«le Autorità di regolazione sono sottoposte al principio del giusto Procedimento (substantive due Process of Law). […] Così si assicura che le decisioni non siano irragionevoli, arbitrarie o capricciose e, principalmente, che esse siano controllabili».


d) Corollario praticamente inevitabile della strutturazione multi-livello cui è approdato l’Ordinamento (anche) canonico attraverso e dopo il Concilio Vaticano II è stata la –ancor fragile– introduzione di un Tribunale “Supremo” incaricato di provvedere al controllo ed alla validazione/rettifica dell’operato “amministrativo” dei Dicasteri della Curia Romana. D’altra parte


«dove vi sono Autorità indipendenti e Procedimenti di regolazione “contenziosi”, vi sono Giudici, che portano la loro attenzione sul rispetto del contraddittorio e delle altre regole del gioco (ragionevolezza, proporzionalità, motivazione, ecc.). […] Essi erano in precedenza meno presenti, per rispetto verso le decisioni politico-governative, o verso la discrezionalità delle Amministrazioni multi-purpose. Quando [però –ndr] le decisioni sono prese secondo il principio del giusto Procedimento e da Autorità single-mission, che non debbono, quindi, esercitare una discrezionalità-ponderazione tra interessi pubblici diversi, entrano in ballo i Giudici, che conducono alle estreme conseguenze il due Process e glorificano il Procedimento amministrativo».


Proprio la portata crescente –soprattutto a livello dottrinale e di Prassi– dell’intervento del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, anche solo attraverso la scarsissima Giurisprudenza ad oggi pubblicata, ha indotto una decisa trasformazione dell’Ordinamento (amministrativo) canonico come tale, poiché anche nella Chiesa


«il passaggio dal Diritto processuale amministrativo al Diritto amministrativo sostanziale […] è reso agevole dalle circostanze che, in molti Paesi (a differenza dell’Italia), la linea di distinzione tra le due aree non è nettissima, essendovi molti Organi quasi giurisdizionali e molte Procedure semicontenziose che si svolgono dinanzi a Pubbliche Amministrazioni».


e) La considerazione conclusiva riguarda il Diritto amministrativo canonico come tale, la sua identità e la sua natura, così fragile sotto certi profili e così puntigliosa sotto altri. Il suo esser cresciuto più come concatenamento di una lunga serie di eventi e di fatti piuttosto che all’interno di una precisa strategia ordinamentale, non ne configura alcuna debolezza intrinseca poiché anche il ben più efficace Diritto amministrativo europeo non è il risultato di un disegno costituzionale.


«Esso, al contrario, è il frutto di ciò che viene definita “adhoccrazia”, di decisioni prese caso per caso, in un Ordinamento che, nei suoi quasi cinquant’anni di vita, ha subito più di una soluzione di continuità e che non si è ancora consolidato, è allo stato fluido».


Un Ordinamento che, per quanto riguarda l’Unione Europea, è andato strutturandosi per via prevalentemente operativa, ben al di là di quanto –più o meno espressamente– stabilito a livello di determinazioni costituzionali (=Trattati istitutivi), attraverso «l’assegnazione di una preminenza funzionale a uno degli Uffici: preminenza –si avverte– non organica o stabile, bensì funzionale, perché legata a una certa particolare attività». Non diversamente è accaduto per quanto concerne la maggior parte delle competenze e funzioni assegnate (o ritrasferite) via via ai diversi Dicasteri della Curia Romana nelle loro funzioni di Superiori gerarchici delle Autorità apicali di governo infra-pontificie, mantenendo costantemente aperto il cantiere amministrativistico ecclesiale sotto la guida di fatto “costitutiva” del Supremo Tribunale incaricato di vigilare sul generale concreto equilibrio dell’Ordinamento e di tutte le risorse in esso attive.



5. CONCLUSIONI

Il ridottissimo spazio a disposizione rispetto alla portata ed estensione delle questioni soltanto introdotte non permette qui né di ampliare né di approfondire la quantità di elementi problematici posti in evidenza.


Non di meno: la prima operazione “metodologicamente” necessaria in qualunque “laboratorio scientifico” consiste proprio nel creare un vero “ambiente sterile” (sotto tutti i punti di vista) in cui sia possibile operare anche ai limiti delle attuali potenzialità… senza correre rischi di pericolose “contaminazioni” o indebite “interferenze” che possano falsare i risultati del procedimento attuato.

Ci si augura che un tal “cave”, non senza le prospettive di miglior sviluppo suggerite, possa risultare utile, se non ai cultori della materia, almeno ai suoi neofiti.


PAOLO GHERRI

(Institutum Utriusque Iuris - Pont. Univ. Lateranense)




in: G. DALLA TORRE - C. MIRABELLI (curr.), Verità e metodo in Giurisprudenza, scritti in onore del Cardinal Agostino Vallini,
LEV, Città del Vaticano, 2014, 285-307