Codificazione canonica tra tecnica e sistema


SOMMARIO

1. Elementi di raffronto tra la codificazione civile moderna e quella canonica. 2. La codificazione canonica in sé. 3. Approccio teoretico al “sistema codiciale canonico”. Conclusione



Parlare di “codificazione canonica” a quasi un secolo dalla sua prima realizzazione (C.I.C. 1917) ed a trent’anni dal termine della sua revisione (C.I.C. 1983) non è cosa semplice, tanto più dopo che il suo aspetto storico-dottrinale è stato ampiamente illustrato dall’opera monumentale di Carlo Fantappiè “Chiesa romana e modernità giuridica” dell’anno 2008, opera alla quale non è facile aggiungere nulla, tranne tentando di ri-effettuare praticamente da zero una ricerca della stessa portata ed estensione, ma da un differente punto di vista; non è però questa l’intenzione delle riflessioni che declineranno il tema del presente contributo.

Le mie saranno piuttosto considerazioni ed istanze di carattere principalmente metodologico ed istituzionale –come di mio più specifico interesse di studio e riflessione– [a] sul “fatto” stesso della codificazione canonica e [b] sulle sue conseguenze per la vita giuridica ecclesiale più che [c] sulle idee ed i presupposti dottrinali ad essa sottostanti, mirando soprattutto a verificare se, quanto e come tale ‘fatto/attività’ abbia inciso sulla ‘qualità’ del Diritto canonico, in particolare dal punto di vista della sua struttura e natura più profonda, e sulla sua concezione all’interno della Chiesa, ben sapendo che «i metodi di pensare il Diritto hanno storicamente sempre influito sul concetto stesso di Diritto».

Una riflessione che trova il proprio spazio di plausibilità tanto nella Teoria generale del Diritto canonico, che nel complementare il lavoro raccolta e sistematizzazione dello Ius proprium della Chiesa bizantino-cattolica d’Ungheria all’interno dell’ampio spazio previsto dal C.C.E.O. per il Diritto particolare delle diverse Chiese sui Iuris. Lavoro che proprio nella ‘codificazione’ del Diritto canonico incontra un’istanza inevitabilmente critica e potenzialmente pregiudiziale:


- che cosa significa e comporta –infatti– la ‘codificazione’ del Diritto canonico, sia in sé e per sé, sia nell’intraprenderla?

- La ‘codificazione’ del Diritto canonico è una scelta di politica ecclesiale o una mera modalità operativa?

- Quale rapporto si realizza e rimane col Diritto pre-codificato e con le sue Fonti, soprattutto tradizionali?

- In quale modo la ‘codificazione’ del Diritto particolare di una Chiesa sui Iuris risente del processo più ampio di ‘codificazione’ del Diritto canonico?


Si tratta di questioni di grande portata teoretica sulle quali è solo possibile –in questa sede– offrire una serie di stimoli critici utili ad un lavoro giuridico più consapevole ed avvertito soprattutto circa vantaggi e rischi connessi all’adozione della ‘forma’ codificata del Diritto canonico, anche particolare. Stimoli critici di natura più concettuale e teoretica che non espressamente storiografica, pur nella convinzione che qualunque teoria e pensiero giuridico non è mai a-storico né indipendente dal concreto vissuto sociale nel quale e per il quale si sviluppa ed afferma, anche tecnicamente.



1. ELEMENTI DI RAFFRONTO TRA LA CODIFICAZIONE CIVILE MODERNA E QUELLA CANONICA

1.1 Fondamenti teoretici per la codificazione giuridica statuale

Senza replicare qui quanto già illustrato in altra sede circa il lungo cammino sotteso alla codificazione statuale ottocentesca in Europa, basterà ricordare il vistoso cambio di prospettiva attuatosi nel passaggio dal XVIII al XIX secolo.


«Sembra che lo scopo delle codificazioni, o dei progetti di codificazione, della prima metà del XVIII secolo sia esclusivamente quello della raccolta e della riformulazione delle Fonti normative esistenti per offrire un quadro più organico ove la Legge si mostri più chiara, più facilmente leggibile, in qualche punto, talvolta –e questo rappresenta il massimo impegno del Principe– aggiornata e adattata alle necessità dei tempi nuovi, in funzione delle istanze della pratica; tutto ciò per una migliore conduzione della giustizia al fine di garantire quella “pubblica felicità” dei sudditi che è obiettivo cui tende il Sovrano assoluto “illuminato” a dimostrazione del suo impegno sociale basato soprattutto su un generoso paternalismo: le motivazioni politiche e sociali di un nuovo regime giuridico che modifichi la costruzione del sistema sono del tutto assenti».


In tale prospettiva il raffronto teoretico con le dottrine riformistiche dell’Umanesimo giuridico cinque-seicentesco rivela chiaramente come sotto il profilo metodologico il concetto di “codificazione” giunto alle soglie della Modernità fosse ancora quello ‘originario’ di consolidamento delle Fonti giuridiche, della Giurisprudenza e della dottrina pregresse e vigenti.

Fu, infatti, solo dall’Illuminismo razionalista dei secoli XVII-XVIII, e dal Positivismo che ne seguì, che il concetto di “codificazione” acquistò una nuova ‘anima’ naturalistica e volontaristica, sulla cui base maturò la nuova concezione di Codice quale ‘sintesi’ delle idee (ri)fondative prevalenti nell’ambito culturale e politico del tempo, non senza contrapposizioni e fratture –tanto più evidenti quanto più ideologiche– con l’esperienza normativa medioevale i cui stessi fondamenti vennero espressamente estromessi dalla nuove concezioni teoretiche, orientate di principio a «fare tabula rasa del Diritto positivo anteriore e della Consuetudine» nell’intento d’inaugurare così ‘epoche’ nuove, almeno intellettuali se non proprio immediatamente politiche.


- Secondo il tedesco Samuel von Pufendorf (1632-1694) il Diritto è ‘volontà’ dell’Autorità suprema; il ‘valore’ del Diritto non dipende quindi dalla sua vetustà e stabilità lungo i secoli ma –al contrario– dalla sua ‘novità’: il Diritto è tanto più ‘vero’ quanto più è ‘nuovo’. Il ruolo –volontaristico– della suprema Autorità legislativa rafforza anche il presupposto della co-estensione del Diritto con la giurisdizione dello Stato, superando così ogni particolarismo amministrativo e giuridico, conferendo al Diritto portata generale. La natura imperativa del Diritto (Legge = comando) impone che i sudditi la debbano/possano conoscere con esattezza per poterla osservare; se il Diritto, poi, esprime volontà sovrana, non si dà interpretazione delle Norme da parte di nessuno, basta –semplicemente– ricercare e conoscere la voluntas Legislatoris.

- La prospettiva germanica è ‘integrata’ da Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) secondo cui il Diritto è un ‘dato’ e la sua ‘conoscenza’ è del tutto identica ad ogni altra conoscenza umana; ogni problema giuridico deve pertanto avere una risposta sicura ricavata per via logica da premesse certe attraverso le normali metodologie scientifiche (=sillogistiche). La natura del Diritto è ‘descrittiva’: le proposizioni giuridiche sono perciò tali non perché comandate o volute ma –semplicemente– in quanto ‘vere’. Il Diritto, pertanto, è coerente e non ammette contraddizioni, le proposizioni giuridiche sono reciprocamente connesse in modo logico, il Diritto ‘mancante’ si ricava per deduzione logica da quello già ‘noto’.


- Il francese Charles-Louis de Montesquieu (1689-1755), pur nella convinzione che l’insieme dei fenomeni sociali sia determinato da una ‘ragione originaria’ che regola l’universo, supera il Giusnaturalismo ‘ingenuo’ del secolo precedente rilevando un legame diretto tra popolo e Diritto, che appare come l’insieme di Leggi politiche e civili di ciascun popolo: non c’è un ‘Diritto naturale’ unico per tutti i luoghi e tutti i tempi! La Legge è vista, pertanto, come rapporto necessario, uguale per tutti i membri dello stesso popolo: ‘rapporto necessario di giustizia’ derivante dal ‘Diritto di ragione’ o dalla ‘natura’ stessa (=la costituzione dell’essere umano) o dalla volontà del Legislatore politico (=Legge positiva); le Leggi positive sono quindi relazioni ‘naturali’ che si determinano nella società.

- Per Francois Marie Aroue, detto Voltaire (1694-1778) il Diritto naturale (universale ed eterno) è fondato su pochi divieti e molte libertà, mentre il Diritto positivo vigente non è affatto un ‘completamento del Diritto naturale’ ma una creazione di uomini rozzi ed interessati. Occorre perciò creare un nuovo Diritto positivo, poiché libertà è vivere in un sistema governato da Leggi. Il compito della nuova creazione legislativa (in rottura col regime precedente) spetta al Monarca ‘illuminato’ che produrrà una Legge ragionevole per garantire la libertà naturale dell’uomo. Questo Diritto, unico per tutto il Paese, dovrà essere applicato e non interpretato altrimenti sarà la volontà (e l’interesse) dei singoli a prevalere, Giudici e giuristi si trasformerebbero di nuovo in altrettanti Legislatori creando nuovo relativismo giuridico.

- Il ‘contratto sociale’ di Jean-Jaques Rousseau (1712-1778) è l’unica regola in cui può tradursi –secondo ragione– il rapporto esistente tra i soggetti, ed è regola che non deriva dalla volontà dei contraenti ma nasce dalla ragione per il fatto stesso che gli uomini appartengono ad una società. La Legge costituisce la formula delle relazioni nello Stato civile ove tutti i diritti sono stabiliti dalla Legge; Legge che è generale perché la volontà generale non può avere oggetto particolare ed è quindi anche astratta per non riferirsi a nessun caso concreto.


In tal modo dalla riflessione teoretico-fondativa che sorreggerà il nuovo mondo giuridico europeo continentale emerge con chiarezza che


«il punto comune ai pur diversi atteggiamenti del pensiero riformatore settecentesco europeo è rappresentato dalla preminenza della Legge nel sistema delle Fonti giuridiche. La Legge è un’espressione della ragione umana: anzi, è la ragione stessa. La Legge è razionale in quanto esiste un Diritto naturale universale superiore a tutte le Leggi date nel corso della storia. […]

La ragione appare un dato oggettivo che opera su due piani: prescrive la concentrazione “assoluta” del potere politico e guida, “illumina” l’esercizio di tale potere. […] Il Diritto consiste in un comando sovrano, che è atto di volontà di un potere che lo impone: questo comando, essendo frutto di una volontà razionale, darà vita ad un insieme di dettami razionali, chiari e unitari».


Fulcro metodologico del nuovo sistema giuridico che avrebbe mutato tanto radicalmente il profilo sociale europeo divenne pertanto la ‘regola legale’ che si pone ad uguale distanza tra la decisione del Giudice ed il principio generale ed astratto: né troppo casuistica, né troppo generale; tale da non risolvere tutte le questioni possibili ma capace altresì di offrire una serie di regole giuridiche (coordinate tra loro in un “sistema”) tali da fornire in modo semplice e chiaro una soluzione alle questioni che possono presentarsi.


Modello, prototipo e realizzazione ‘tipica’ di questo nuovo strumento legislativo fu (ritenuto) il “Code civil” francese del 1804; in esso i principi ideali caratterizzanti la ‘codificazione’ presero corpo secondo premesse e modalità che ‘fecero scuola’ ad ogni altra codificazione ottocentesca, grazie anche al presupposto fattuale della Rivoluzione francese che aveva tranciato qualunque connessione sociale, culturale ed ideale col passato assetto socio-politico, resettando quasi completamente lo spazio giuridico prima nazionale e poi europeo continentale.


Apice ed emblema, oltre che principio metodologico di base, di questa nuova concezione del Diritto era –finalmente– l’uguaglianza dei cittadini davanti alla Legge. L’ideologia ugualitaria, sviluppatasi lungo il ’700 ed arricchita politicamente dalla Rivoluzione francese, era divenuta ormai ugualitarismo giuridico. Il Diritto aveva ora un solo ‘soggetto’: il cittadino, cui il Codice attribuiva ‘predicati giuridici’ in qualche modo validi a-priori e comunque e, pertanto, strutturanti ab origine lo stesso vivere giuridico, ben prima di qualsiasi intervento giurisdizionale semplicemente riparativo (com’è sempre quello del Giudice). In tal modo il Diritto –ridottosi ormai alla sola Legge– disciplinava non più le persone (come nei vari Statuti, personali o corporativi) ma i loro ‘atti’, semplificando una pratica giuridica dipendente, fino a quel momento, dal ceto, dal mestiere, dalla cittadinanza, dalla religione… ecc.

Un solo soggetto, un solo Diritto, un solo (vero) Legislatore: quello formale. L’unicità del Diritto si legava così direttamente all’idea di razionale completezza ed organicità del Codice, che s’impose come lo snodo centrale della giuridicità moderna: il Codice contiene tutto l’universo giuridico ed è atto a risolvere ogni conflitto –anche quello non previsto dal Legislatore–, senza necessità di Fonti suppletive o apporti giurisprudenziali (sempre incerti ed ‘interessati’) privi di valore giuridico, poiché questo risiede solo nel comando degli Organi legislativi dello Stato.


La funzione unificatrice nei confronti di una società ‘unica’ ed auto-nomica (superirem non recognoscens) emerge così come l’elemento peculiare della codificazione, tanto in ambito istituzionale, che geografico, che sociale. Superando il frazionamento giuridico medioevale dovuto alla pluralità delle Fonti normative (diverse per soggetto e territorio), il Codice si sostituisce ad una miriade di Norme sulla base di un modello teorico che riassume e struttura la materia giuridica in un ‘sistema’, che ha come referente unico il –nuovo– Legislatore statale. L’unicità del Codice, pertanto, sopprime tutte le Fonti giuridiche ‘locali’, così come quelle ‘personali’, abolendo i c.d. ‘stati’ (nobiltà, borghesia, clero) all’interno dell’organizzazione sociale post-rinascimentale. La nuova età adulta dell’umanità (‘illuminata’) si fonda sulla perequazione, non patrimoniale –però– ma (solo) giuridica alla quale la borghesia agognava da tempo, senza con questo doversi esporre proprio economicamente.

La brevità e chiarezza delle formulazioni della Norma codiciale, l’assenza di lacune e contraddizioni e la conseguente –pretesa– assenza d’interpretazioni applicative garantiscono ad ogni cittadino il proprio diritto e la propria ‘libertà’, rappresentando anche la miglior tutela da ogni forma di arbitrio personale perpetrabile o perpetrato da chi esercita autorità semplicemente ad personam, poiché la Norma –in sé e per sé– è uguale per tutti. Uguale e, pertanto, certa; certa come l’esito della sua applicazione a chiunque, creando così la vera giustizia che consiste nel pari trattamento di tutti da parte di una Norma ormai finalmente generale, stabile, omogenea ed univoca, senza relativizzare il Diritto o metterne in pericolo la ‘certezza’ attraverso l’interpretazione dei singoli Magistrati che giudicano secondo Norme differenti a seconda di persone e di luoghi.


Sarebbe inutile procedere oltre in tema di codificazione senza considerare come nell’Europa continentale pienamente moderna si fosse ormai innescato un processo concettuale ed operativo indirizzato a spostare irreversibilmente il maggior interesse dell’attività giuridica dalla sua fase applicativo-giurisdizionale a quella genetico-legislativa. Grande importanza in questa prospettiva giocò l’irreversibile mutazione del mondo europeo dal Medio Evo alla Modernità: un vero salto di qualità ‘esistenziale’ che motivò –o forse impose addirittura– la nuova struttura e funzione del Diritto espressasi poi nei Codici ottocenteschi. Il passaggio dalla communitas medioevale alla societas moderna, infatti, aveva mutato radicalmente il ‘protagonista’ del Diritto, ponendo in risalto non più la pluralità corale della vita concreta, ma l’individualità del soggetto/cittadino. I vari Comuni, le molte Civitates e le varie Comunità vennero assorbiti ed unificati nell’una societas necessaria et perfecta ed il “dicere-Ius” (=Iurisdictio) non riguardò più i ‘casi’ della vita concreta ma il funzionamento della ‘società’ come tale, trasformandosi sempre più da Ius a Lex e divenendo appannaggio del Legislatore. Avvicinandosi alla fine del XVIII sec., infatti, il protagonista per eccellenza del Diritto cessava d’essere il Giudice per lasciar posto al Legislatore: unico vero referente del Diritto come tale, cui nessuno poteva sostituirsi. Proprio la contrapposizione teoretica e pratica tra Giudice e Legislatore mise in evidenza l’enorme distanza tra la Norma –di qualunque tipo–, applicata ex post dal Giudice, e la Legge –generale– creata ed imposta ex ante dal Legislatore. Era questo il presupposto che avrebbe cambiato lo stesso ruolo giuridico fondamentale (e strutturante) del Papa nella Chiesa universale: la trasformazione da “Iudex supremus” a “supremus Legislator”!

Ciò pose in risalto anche le problematiche più radicali legate alla gerarchia delle Fonti giuridiche all’interno delle quali la “Legge”, nel suo indirizzarsi ad ogni membro della comunità e generalità di applicazione ad ogni caso concreto, risaltava su tutte le altre, cosicché le Norme individuate come “Legge” (e tale sarebbe stato per eccellenza il Codice) valessero prima e comunque sopra ad ogni altra Norma presente ed attiva all’interno dell’Ordinamento. Fu da questo complesso fenomeno, prima socio-politico che giuridico, che nacque lo stesso concetto di civil Law basato sulla preminenza dell’attività legislativa rispetto a quella giurisdizionale, in aperto contrasto col precedente sistema dello Ius commune, divenuto poi –e rimasto– common Law oltre-Manica. La maggior facilità per i rivoluzionari e gl’innovatori (non meno che per i successivi restauratori) ad assurgere come Legislatori piuttosto che assumere l’esercizio dell’intera Giurisdizione territoriale al fine di cambiare rapidamente ed irreversibilmente le cose, giustifica in modo sufficiente buona parte degli avvenimenti e delle dinamiche così realizzate: Napoleone docet. Non s’ignori neppure in queste complesse dinamiche il ruolo assolutamente ‘fondativo’ connesso (e derivato) alla gestione del potere …ben prima che alla ‘concezione’ del Diritto in sé e per sé.


1.2 Elementi storici di ‘codificazione’ canonica

Senza ripercorrere qui le varie tappe ed espressioni della ciclica consolidazione ufficiale delle Norme canoniche lungo i secoli (Collectio Dionysiana, Collectio Hadriana, Liber Extra, Liber Sextus, Clementinæ), basti dedicare qualche attenzione teoretica e critica ai fattori più significativi che portarono alla redazione e promulgazione del Codice pio-benedettino all’inizio del XX secolo. Utile e significativo in merito risulta quanto espresso –in tempi tutt’altro che sospetti– nel “Dictionnaire de Droit canonique” nell’anno 1942:


«la publication d’un Code de Droit canonique était réclamée depuis le milieu du XIXe siècle par les juristes et plus encore par les membres du clergé. Ces derniers rencontraient en effet de fréquentes et sérieuses difficultés dans la mise en application du Droit. Ces difficultés venaient de ce que les prescriptions légales étaient dispersées dans des Collections de caractère et d’autorité divers, publiées à des époques differentes, de sorte que les spécialistes eux-mêmes avaient peine à démêler dans cet ensemble de dispositions législatives, ce qui était en vigueur et ce qui ne l’était plus».


Un’evidentissima richiesta di stabilizzazione e semplificazione normativa non nuova nella tradizione canonica in quanto già perseguita nel tempo attraverso una tecnica giuridica il cui “prototipo” va sicuramente rintracciato nel Liber Sextus di Papa Bonifacio VIII. Una richiesta diretta più all’individuazione ed organizzazione del Diritto vigente che non alla sua sostituzione.


1.2.1 La lunga inerzia normativa

Giunti ormai alla metà del secolo delle codificazioni statuali la questione della certezza del Diritto vigente era tutt’altro che tranquilla anche per la Chiesa poiché l’ultima Collezione ufficiale di Decretali –le c.d. “Clementinæ”– et similia annesse, era stata promulgata nel 1317 da Papa Giovanni XXII, con un successivo ‘silenzio’ dispositivo generale che alla data della promulgazione pio-benedettina avrebbe visto compiersi 600 anni tondi tondi. Silenzio già ‘assordante’ da secoli se al Concilio di Trento


«affrontando la discussione generale sul grande progetto di riforma nel maggio 1563, uno dei grandi protagonisti dell’assemblea, Nicolas Pellevé, Arcivescovo di Sens, [giunse a chiedere] una revisione ed una codificazione della Legislazione canonica, date le contraddizioni, le sovrapposizioni e le incongruenze».


L’istanza sollevata in quella sede era ben chiara e condivisa tanto che «una edizione di tutti i deliberati del Concilio, comprendente sia le Costituzioni dogmatiche che i Decreti di riforma […] curata da Paolo Manuzio uscì già nel marzo 1564 e ad essa ne seguirono numerose altre nei mesi successivi», rimanendosi tuttavia invano in attesa anche di «un altro volume con gli atti conciliari: “postea alio volumine universa historia imprimetur”». Volume che non arrivò mai, poiché


«il lavoro di redazione della storia del Concilio continua ancora nei mesi successivi ad opera del Segretario ufficiale del Concilio stesso Angelo Massarelli, ma la sua conclusione e la sua pubblicazione vengono vietate: tutto rimane custodito gelosamente e anzi continuerà nei decenni successivi lo sforzo dei Papi per reperire e chiudere sotto stretto segreto tutte le fonti relative alla storia del Concilio sino alla pubblicazione della Istoria di Paolo Sarpi. […] Questa rinuncia e questa chiusura sono da collegarsi con la svolta drammatica che avviene nei primi mesi del 1564 a proposito dei Decreti di riforma e che porta alla riserva al Pontefice e per lui alla nuova Sacra Congregatio Concilii Tridentini interpretum di tutta la materia relativa ai Canoni disciplinari. Mentre le Costituzioni dogmatiche iniziano con le prime edizioni dei Decreti il loro viaggio all’interno della Chiesa cattolica […] per i Decreti disciplinari viene attuato un blocco totale che sottomette ogni singolo problema che nasce dalla loro applicazione al giudizio di Roma».


In tal modo, a seguito della Bolla Benedictus Deus, anche le Sentenze e Decisioni della Congregazione del Concilio non furono mai rese pubbliche: «il divieto assoluto di glosse, commentari ed anche di una Giurisprudenza interpretativa sarà rigidamente mantenuto in tutto il secolo successivo al Concilio», nonostante –per contro– agli inizi del 1564 fosse già stata progettata «la redazione di un nuovo libro da aggiungere dopo le Extravagantes, le Constitutiones Pii IV ex Concilio Tridentino, da inviare secondo l’antica consuetudine ai dottori e agli scolari dell’Università di Bologna», impresa che venne bloccata sul nascere. Cominciava a profilarsi così in ambito canonico un nuovo rapporto dell’Autorità col Diritto: un rapporto di tutela e custodia che ne avrebbe progressivamente fatto una sorta di ‘proprietà/titolarità’; l’intervento dell’Autorità, infatti, non tende più alla ‘condivisione’ del Diritto come nella trasmissione ufficiale delle Decretali autentiche alle Università medioevali, ma alla sua ‘privatizzazione’ ed esclusività. Tra gli elementi notevoli di questa fase va posta anche l’assunzione delle posizioni ‘umanistiche’ contrarie all’attività interpretativa dei Giudici: lo stesso atteggiamento che assunse più oltre il Card. Gasparri quando, ad un testo di Legge ormai ‘pubblico’ come il Codice, imporrà il solo approccio esegetico.


Le conseguenze anche meramente sistematiche e nomogenetiche del radicarsi di questo atteggiamento di isolazionismo giuridico del pontificato post-tridentino furono di tale portata che lo stesso Ugo Buoncompagni, che aveva collaborato al tentativo di ‘divulgazione’ degli inizi del 1564, divenuto Pontefice col nome di Gregorio XIII (1572-1585), non potè/riuscì ad andare oltre la mera «revisione del Diritto canonico classico e all’edizione, ad opera dei “Correctores romani” nel 1582 del Decreto di Graziano e delle Collezioni classiche pontificie, creando per la prima volta in modo formale il Corpus Iuris canonici prima non esistente come tale», e dal quale il ‘nuovo’ Diritto era positivamente escluso. Nessuna menzione delle nuove Norme si ebbe anche nell’altra grande impresa giuridica patrocinata da Gregorio XIII: infatti «la grande collezione di trattati giuridici stampata a Venezia nel 1584, i Tractatus universi Iuris, non contiene alcun riferimento alle nuove Norme e fa emergere un mondo giuridico decisamente pretridentino».


«Anche i lavori proseguiti sotto Sisto V e Clemente VIII per la raccolta dei testi legislativi posteriori al Corpus e che si concludono nel 1598 con la pubblicazione del cosiddetto Liber septimus Decretalium Clementis VIII non ebbero alcuna efficacia: questa raccolta non ebbe mai la approvazione pontificia e non fu promulgata ufficialmente e nemmeno divulgata perchè in essa erano inseriti i Decreti del Concilio che sarebbero stati così inevitabilmente oggetto di glosse e commentari, contro la Costituzione di Pio IV che proibiva ogni commento ai Decreti conciliari».


La linea teoretico-operativa pontificia –e curiale– adottata era chiara: nulla avrebbe tutelato meglio l’accentramento romano ed il suo pan-controllo ecclesiale che l’ignoranza e –più ancora– l’incertezza del Diritto da parte degli ‘esterni’ e dei ‘sudditi’ …ché tale era concretamente considerato l’Episcopato! Un tattica antica e d’indiscussa efficacia già applicata in sede ‘civile’ –p.es.– nella famosa “Carta de Logu” (una sorta di Codice civile e penale più un Codice rurale, degli anni 1389-1392) di Eleonora d’Arborea in Sardegna: la Giudicessa che promulgando le proprie Leggi in lingua strettamente ‘locale’ (=una variante arborense della lingua sarda) utilizzò l’inconoscibilità del Diritto come arma di difesa dagli stranieri. L’atteggiamento, non di meno, non è mai cessato nella Chiesa cattolica che ha visto spesso –anche durante il XX secolo– la comparsa di Norme ‘riservate’ (=non ‘pubbliche’), soprattutto se riguardanti l’operare di specifici Tribunali dicasteriali come quello della Congregazione per la Dottrina delle Fede in materia di graviora Delicta.


Proprio contro tal genere di ‘principi’ e di tattiche s’erano espressamente indirizzate le critiche razionalistiche ed illuministiche ed i diversi ugualitarismi moderni che proclamavano la conoscenza non solo “pubblica” ma addirittura “personale” del Diritto quale unica vera base per uno Stato/societas che fosse davvero “di Diritto” (e non ‘assolutistico’). E proprio alla “certezza del Diritto” era strutturalmente connesso lo strumento chiamato “Codice”.


1.2.2 La nuova necessità normativa

Proprio la puntuale ed intenzionale strategia messa in campo dal pontificato post-tridentino e rigidamente attuata nei tre secoli successivi fino al Concilio Vaticano I, pone però un doppio interrogativo nei confronti della decisione codificatoria dello stesso Diritto –in gran parte ‘pontificio’– ripropostasi in modo pressante al Concilio Vaticano stesso; interrogativi che riguardano [a] il motivo di un così profondo cambio di strategia da parte dei romani Pontefici (e della loro Curia) e [b] la specifica scelta dello strumento codiciale.


Secondo la prospettiva fondamentalmente dottrinale di Fantappiè questa trasformazione del Diritto canonico «da “legislazione e passi giudiziale” a “sistema giuridico”» sarebbe stata


«provocata, dal XVI al XVIII secolo, da una molteplicità di problemi concreti e teorici nascenti dalle esigenze della prassi forense e dall’impostazione dell’insegnamento. Volendo individuare, in via preliminare, i diversi piani su cui dovremo contemporaneamente muoverci nel corso dell’analisi, è necessario distinguere concetti riferentisi: a) alla costruzione dei vari tipi di sistema giuridico; b) alle metodologie didattiche; c) ai modelli di Scienza su cui si fondano gli uni e le altre»;


cosicché questa nuova forma di codificazione sarebbe (o potrebbe essere)


«le résultat d’une évolution de la Science canonique qui, avait son point de départ dans le processus de construction rationnelle de la Science juridique laïque de la phase post-tridentine».


Dal punto di vista metodologico-istituzionale, non di meno, vanno considerati ben altri elementi e fattori di molta maggiore concretezza e ‘presa’ socio-politica, almeno sulla Curia.

Come infatti ormai già verificatosi nelle maggiori tappe della configurazione istituzionale della Chiesa (dall’Editto di Tessalonica, all’incoronazione di Carlo Magno, dalla lotta per le Investiture, alla Controriforma tridentina) il peso preponderante nella scelta di strategie operative e strumenti per perseguirle a livello ecclesiastico non va cercato nel campo teologico (che, invece, fornisce gli ‘obiettivi’ di tali scelte) ma nei rapporti con la società –soprattutto– europea e, in special modo, coi detentori del potere ‘pubblico’ (=politico, economico, militare). Proprio in quest’ambito, però, occorre riconoscere come alla metà del sec. XIX le cose (in Europa) fossero ormai radicalmente mutate rispetto a quasi un millennio di storia precedente.

Va così preso atto che, se la Pace di Augusta (1555) aveva sancito la fine dell’una tota Christianitas europea, il principio del “cuius Regio eius et religio” aveva tuttavia garantito la sopravvivenza di tante Christianitates minores al cui interno si era continuato a vivere ed operare esattamente allo stesso modo che nell’unità del mondo medioevale, anzi: rafforzando la presenza cattolica e pontificia e l’alleanza altare-trono proprio in chiave di necessaria differenziazione (e contrapposizione) rispetto ai Principati scismatici ed eretici. Un atteggiamento che permise ancora di lasciare (come Lutero ed altri riformatori fecero più espressamente) allo Stato molte incombenze organizzative e regolamentari d’interesse e pertinenza pratica anche ecclesiastica: il Diritto beneficiale in primis, così come la tutela penale –e spesso ‘amministrativa’– di molte questioni di natura espressamente ecclesiastica. La situazione non appariva radicalmente diversa nella parte orientale della Cristianità, in cui il cesaropapismo imperiale si era mostrato spesso il vero regime giuridico fondamentale ed effettivo anche per le diverse Chiese, più o meno ‘nazionalizzate’.


Non di meno, la Pace di Vestfalia (1648) sancendo l’esistenza nell’Europa centrale di tre confessioni religiose (cattolica, luterana e calvinista) aveva riconosciuto il diritto dei sudditi a professare una religione diversa da quella dei loro Principi, ponendo così fine al principio dello stretto confessionismo di Stato fissato ad Augusta quasi un secolo prima e privando la Chiesa romana di molte delle precedenti ‘garanzie istituzionali’. Il progressivo affermarsi dei nazionalismi intra-europei, supportati spesso da derive autonomistiche episcopali (gallicanesimo, febbronianesimo, giansenismo) aveva poi avvicinato gli Episcopati locali più al potere civile che al pontificato romano, erodendone la reale presa territoriale ed il prestigio al di là delle Alpi. Lo sfaldamento della –già debolissima– struttura imperiale europea e l’affermazione irrefrenabile delle Monarchie nazionali avevano quindi dato corso ad una pluralità di situazioni giuridico-istituzionali parziali e spesso contraddittorie tra Roma ed i diversi Stati europei, fino alla messa in discussione della stessa legittimità di tali rapporti istituzionali. La progressiva identificazione politica (e militare) del pontificato romano con gli Stati Pontifici ed il potere eminentemente temporale esercitato in essi dal Pontefice, inoltre, ne aveva ormai fatto più un Capo di Stato che il Pastore della Chiesa universale, con la correlata perdita di prestigio spirituale e la riduzione della S. Sede ad entità politica anche ‘antagonistica’ nei confronti degli altri Stati continentali, lungo tutto l’Ottocento, con continuità.


«A complicare drammaticamente la “Questione romana” interveniva, infatti, dopo la guerra franco-prussiana, l’atteggiamento ideologicamente ostile delle principali Potenze europee e l’isolamento pressoché completo del Vaticano nelle relazioni diplomatiche».


È questo il bachground magmatico e plurisecolare da cui aveva preso corpo lo Ius publicum ecclesiasticum, prima a Würzburg (sec. XVIII) e poi molto maggiormente ed irrinunciabilmente a Roma (a fine Ottocento), proprio per offrire supporto teoretico (politico e giuridico) ad una nuova ed inedita stagione dei rapporti tra Chiesa cattolica romana e società politica europea basata non più sui presupposti sacrali del medioevale unum sacrum Imperium e delle due Potestates al suo interno, ma su quelli giusnaturalistici (e secolaristici) delle Societates (iuridice) perfectæ su cui si basava la “Teologia politica” del tempo.


Al di là delle sole ‘tendenze’ e linee evolutive della Storia europea come tale, vanno considerati anche fatti specifici che toccarono sul vivo l’intero establichement ecclesiastico e –soprattutto– pontificio nel secolo che portò dalla codificazione civile per antonomasia (1804) all’intrapresa –anche– di quella canonica (1904); fatti specifici che ebbero lo stesso protagonista: Napoleone Bonaparte.

Non può, infatti, essere ignorato come l’intervento napoleonico, anche in campo internazionale, abbia contribuito in modo eminente ed efficacissimo a sradicare le strutture ecclesiastiche di più espressa referenza pontificia sia dal cuore della vecchia Europa, sia nella stessa Roma (attraverso la c.d. Repubblica Romana del 1798-1799 e l’occupazione francese dal 1805 al 1814), mandando in effettiva crisi molta parte della precedente organizzazione ecclesiastica e –quindi– anche ‘canonica’ in senso proprio. La situazione non migliorò affatto lungo il procedere del secolo quando al despota francese subentrarono nei vari Paesi europei –anche “cattolicissimi”– i non meno destrutturanti regimi giurisdizionalisti come quello austriaco (cattolico) e quello tedesco (protestante) all’interno del quale prosperò la polemica di Rudolph Sohm proprio contro la pretesa cattolica di autostrutturarsi ed autoreggersi indipendentemente dallo Stato: il Kirchenrecht che il luterano Sohm rivendicava all’esclusiva competenza statuale.


Davanti a tendenze socio-politiche ormai così consolidate ed a fatti così ingovernabili per la Chiesa cattolica, emergeva con sempre maggior evidenza il completo isolamento della romanità pontificia rispetto alle strutture e funzioni istituzionali ormai assunte con certezza e determinazione dagli Stati ottocenteschi, più che mai decisi a portare a compimento le proprie aspirazioni nazionali, Germania ed Italia in primis. Allo stesso tempo, dal punto di vista ecclesiale,


«l’esprit centralisateur post-tridentin et les résistances internes aux États avait unifié le panorama segmenté par les différentes Églises nationales et favorisé la naissance de l’organisation internationale de l’Église qui trouvait son chef ultime dans la figure du Pape et qui faisait référence à la Curie de Rome du point de vue disciplinaire, théologique et politique. Le mouvement unificateur avait réussi à absorber les derniers militants gallicans en France et en Allemagne».


Fu così che –probabilmente– la Curia pontificia iniziò a guardare con minor sospetto e sfiducia allo “strumento” che stava ormai permettendo ai “nemici” della Chiesa di consolidare i propri assetti interni, garantendo fondamento ed operatività alle nuove configurazioni istituzionali anche di matrice reazionaria com’erano quelle impegnate nella Restaurazione dell’Ancien Regime dopo il fortunale napoleonico. Uno “strumento”, tra l’altro, che non pareva evidenziare realistiche controindicazioni pratiche dal punto di vista canonico e di cui anche la Chiesa pareva in grado di dotarsi senza eccessivi sforzi: uno strumento chiamato “Codice”. E proprio questa sarebbe stata la realizzazione posta in atto dal Papa codificatore che, pur muovendo dalla cultura “cattolico-intransigente”, si valeva volentieri dell’impiego –anche spregiudicato– di «strumenti, regole, procedure di tipo moderno, da porre al servizio della difesa esterna e della ricomposizione interna della Chiesa», rivolto da un lato «verso il passato, in un atteggiamento di chiusura verso la “Modernità”, dall’altro risospinto verso il presente, nella ricerca degli strumenti più adatti e più efficaci per ammodernare l’apparato» ecclesiastico.


«Les principaux objectifs de ce projet concernaient la consolidation de la structure ecclésiastique et la légitimation du nouveau rôle de l’Église dans la société contemporaine des États. Grâce à la codification, l’Église aurait consacré sur le plan disciplinaire les principes déjà affirmés lors du Concile Vatican I, à savoir, sa centralité institutionnelle ainsi que sa primauté juridictionnelle. De plus, la codification lui permettait de se légitimer sur l’échiquier international en tant qu’organisme juridique autonome et indépendant».


«Avec la codification, la confrontation entre l’État et l’Église apparaît parfaitement dialectique sur le plan des moyens utilisés ainsi que sur celui des objectifs. L’Église imitait l’État, elle se définissait à travers l’État, en tant qu’organisme titulaire d’un “étatisme des âmes”: elle se calquait sur le processus de formation de l’État-nation. Le processus de mimétisme réciproque entre pouvoir spirituel et pouvoir temporel qui avait caractérisé l’histoire de l’Occident depuis ses débuts se renouvelait à cette occasion».


In fondo, si sarebbe trattato soltanto di un mero cambio di tattica in vista del raggiungimento dello stesso risultato di centralizzazione e controllo ecclesiastico-pontificio, dopo aver constatato nei fatti che il nuovo corso giuridico adottato dai regimi statali aveva portato i propri evidenti vantaggi istituzionali di centralizzazione e controllo della periferia. In tal modo la centralizzazione ecclesiastica perseguita per circa quattro secoli attraverso la segretezza delle Fonti normative (tridentine) –costringendo tutti a chiedere sempre al ‘centro’– sarebbe ora stata realizzata attraverso la unificazione –e riduzione– delle Fonti del Diritto vigente. Un/il Codice (moderno) pareva assicurare e garantire al papato un nuovo tipo di (vecchia) supremazia centrale rispetto ad ogni periferia e condizione personale... com’era efficacemente accaduto per gli Stati post-rinascimentali. Sarebbe così giunta finalmente al proprio epilogo la blindatura giuridico-istituzionale post-tridentina che aveva a lungo osteggiato qualunque conoscenza ‘pubblica’ del Diritto applicato dalla Curia Romana per mantenerne la centralità.

Una scelta meramente ‘operativa’ con la quale si ritenne di optare soltanto per lo “strumento” come tale (=il Codice) ma non per la sua reale identità teoretica e fondativa di matrice razional-illuministica e contestataria di ogni arbitrarietà e differenza socio-istituzionale. Tanto meno sarebbero state in discussone dal punto di vista canonico le Fonti giuridiche tradizionali. Risale agli ultimi mesi l’affermazione che


«se puede afirmar, por tanto, que el propósito de quien impusó la elaboración de la primera codificación y promulgó el C.I.C. de 1917, no fue introducir un cambio radical en ele Derecho de la Iglesia, sino solo adoptar un instrumento moderno, más cómodo y eficaz, para dar a conocer y aplicar la disciplina eclesial, manteniendo, al menos en las intenciones, una fiel continuidad con la tradición canónica. […]

Por lo que respecta al plano político, teniendo en cuenta que la opción a favor dela codificación se hizo con una intención eminentemente práctica, queda excluido que la Iglesia adoptase, positiva y consciente, la figura del Código como instrumento al servicio de una visión absolutista de la Iglesia misma, en analogía al Estado absoluto o liberal europeo».


1.3 Elementi strutturali della codificazione moderna

Proprio la sopradetta distanza tra la presunta natura teoretica e la reale funzione del Codice canonicamente inteso e voluto richiede uno specifico approfondimento per ‘verificare’ se anche quella canonica sia stata vera e propria codificazione dal punto di vista teoretico e concettuale o ne abbia soltanto assunto il nome e le fattezze/forme esteriori, oltre che una parte delle conseguenze istituzionali, tanto più se si tiene conto che


«l’esito che è stato storicamente raggiunto non era una conseguenza né necessaria né automatica; è stato, piuttosto, il frutto di una decisione complessa in cui, accanto a motivi giuridici hanno pesato, al pari di quanto avvenuto nelle altre codificazioni, anche ragioni di carattere ideologico-politico in senso largo».


Ciò potrà avvenire prendendo atto e consapevolezza dei principali elementi d’individuazione e caratterizzazione della codificazione normativa generalmente chiamata “moderna”: si tratta di valenze ed elementi ormai assodati, almeno nella loro essenzialità, che congiuntamente offrono l’idea del Codice (in fondo la sua ‘natura’) e delle sue peculiarità.

“Idea del Codice” poiché, come si vedrà, ‘IL’ Codice in realtà non esiste, ma sono esistiti tanti “Codici” più o meno rispondenti a specifici (e spesso parziali) elementi di tale ‘idea’ del tutto teorica; in tal modo anche quella canonica risulterebbe esserne una possibile realizzazione, per quanto assolutamente specifica nelle sue diverse forme: C.I.C. del 1917, C.I.C. del 1983, C.C.E.O. Il parallelo con l’idea di Stato che dalla Modernità giunge fino a noi è certamente proficuo per rendersi conto di cosa significhi l’idea rispetto alle innumerevoli e differenti realizzazioni concrete.


Le caratteristiche ‘codiciali’ più eloquenti dal punto di vista teoretico ed ‘ideale’ configurano un quadro ben definito che avrebbe dovuto caratterizzare –per quanto solo idealmente– il Codice ottocentesco quale “tipo” dell’intero fenomeno codificatorio successivo.


- Unicità: il Codice costituisce una Legge di per sé unica a livello di Fonti del Diritto oggettivo vigente; è il Diritto ordinario per tutti i casi; non esiste ‘altro’ Diritto fuori dal Codice;

- generalità: il Codice vale per tutti i soggetti appartenenti all’Ordinamento; non valgono più i molteplici Statuti personali delineatisi lungo il Medio Evo ed il Rinascimento; “la Legge è uguale per tutti”;

- prevalenza: il Codice è il primo e fondamentale riferimento normativo dell’Ordinamento; la prima e maggiore Fonte del Diritto da cui dipende ogni altra Norma/Regolamentazione, tendenzialmente inferiore;

- completezza: il Codice affronta con integralità le materie trattate; tutte le questioni riguardanti ciascuna singola materia trovano nel Codice la propria trattazione completa ed esaustiva; non c’è necessità alcuna di cercare Diritto al di fuori del Codice;

- sistematicità: il Codice regolamenta tutti gli Istituti giuridici afferenti la stessa materia;

- organicità: il Codice coordina in modo organico tutte le materie dello stesso ambito;

- tipicità: il Codice tratta di Istituti e principi, non di fatti; i fatti concreti devono essere ricondotti (=sussunzione) alle Norme del Codice;

- preventività: poiché il Codice ha carattere legislativo e non giurisprudenziale, il Diritto in esso contenuto è Diritto in sé e per sé (=Legge), prima che esistano i fatti di cui fornisce la regolamentazione;

- esclusività: il Codice è esclusivo rispetto alle Fonti suppletive del Diritto, soprattutto passate; non esiste Diritto præter Codicem;

- stabilità: il Codice, in quanto Fonte unica del Diritto ordinario e generale non è soggetto a mutamenti frettolosi ed estemporanei; eventuali mutamenti dovranno essere inseriti all’interno dello stesso Codice così che esso conservi tutte le proprie caratteristiche formali e sostanziali, senza diluizioni e dispersioni all’interno di altri complessi normativi;

- pubblicità: il Codice è accessibile a tutti, il Diritto non è appannaggio di categorie ristrette di soggetti che se ne servono a custodia delle proprie prerogative; l’ugualitarismo giuridico esige che tutti possano conoscere il Diritto come tale così da poter tutelare e promuovere il proprio diritto;

- semplicità: dal punto di vista del linguaggio il Codice dev’essere chiaro, perspicuo e preciso così che il Diritto sia davvero accessibile per tutti.


Per contro vanno messi in evidenza alcuni elementi concreti che contestano in re quanto presupposto a livello solo teoretico: l’idea stessa, cioè, di Codice.


- Unicità: il Codice non è mai da solo a reggere l’intero Ordinamento, ma esistono più Codici (quello di Diritto privato, quello del Commercio, quello penale, ecc.), cui si affiancheranno poi una pletora di c.d. Leggi speciali; sempre più inevitabili col crescere delle pretese di preminenza almeno operativa dello Stato;

- generalità: per quanto sia vero, in linea di principio, che “la Legge è uguale per tutti” non è meno vero che “non tutti sono uguali davanti alla Legge” (vedasi, p.es., i militari, i pubblici Ufficiali…);

- prevalenza: per quanto il Codice sia la prima e maggiore Fonte del Diritto, con l’affermarsi delle Carte costituzionali esistono almeno ‘principi’ normativi sovraordinati rispetto al Codice; anche l’evolvere delle pattuizioni di Diritto internazionale ha progressivamente introdotto Fonti giuridiche di fatto sovraordinate rispetto al Codice stesso;

- completezza: se questo criterio può valere, sempre in linea di principio, tra i cittadini come tali, in realtà l’attività statuale nelle sue diverse articolazioni interferisce spesso con quanto previsto nel ‘solo’ Codice ed il “bene comune” prevale in varie materie (proprietà privata in primis); anche solo il concetto e l’esistenza del c.d. Diritto pubblico contraddicono le pretese del Codice come tale;

- sistematicità ed organicità: in realtà la crescente articolazione della Pubblica Amministrazione e di altri Organi e poteri dello Stato –Demanio e Fisco in primis– rendono spesso insufficiente o comunque incompleta la normazione stabilita a livello codiciale;

- tipicità e preventività: al di là dell’assioma sulla ‘sufficienza’ del Codice a contenere e normare tutta la vita giuridica dell’Ordinamento, la ricchezza e complessità del vivere rimane sempre più ampia e bisognosa di ulteriori criteri operativi ed Istituti giuridici di cui sono sintomo le lacunæ Legis;

- esclusività: in realtà almeno la dottrina e la Giurisprudenza, coi loro ragionamenti intorno al Diritto, ai suoi principi ed alla mens del Legislatore, non sono mai eliminabili nella comprensione e formazione del Diritto stesso; inoltre: la vita concreta stessa continua a conservare vaste aree di Diritto ‘consuetudinario’ in ambiti irraggiungibili per qualunque Codice (come accade spesso in ambito agrario e marittimo);

- stabilità: caratteristica che, a volte, rasenta il puro nominalismo poiché le successive revisioni ed integrazioni dello ‘stesso’ Codice in realtà lo rendono sempre meno ‘identico’ a se stesso;

- pubblicità: la Giurisprudenza comunque derivante dall’applicazione del Codice e di fatto attiva nella pratica forense costituisce un mare magnum concretamente irraggiungibile alla maggior parte dei soggetti, ritrasformando il Diritto in un hortus conclusus cui solo qualche categoria professionale può concretamente accedere.


Proprio la diversa presenza e modulazione di questi elementi di delineazione ed identificazione teorica del Codice come tale servirà da metro di paragone per verificare se, quanto e come la codificazione canonica sia stata davvero ‘tale’ dal punto di vista teoretico ed ideale …e, quindi, sostanziale …per quanto sulla (sola) ‘forma’ ci sia ben poco da discutere.



2. LA CODIFICAZIONE CANONICA IN

2.1 I prodromi ottocenteschi

Alle opprimenti circostanze esterne che da ogni parte rischiavano di schiacciare la Chiesa romana del XIX sec. si unirono ben presto anche le non meno pressanti richieste interne all’Episcopato cattolico affinché si procedesse a dotare il governo ecclesiale di una nuova e più concreta efficacia pratica, tanto ad extra che ad intra; efficacia pratica che, ormai, si era ben consapevoli non poteva essere conseguita se non attraverso la vera grande forza di quello stesso secolo: una nuova efficacia (ed effettività) del Diritto: elemento/fattore mostratosi ancora una volta in grado di contendere risultati agli stessi eserciti nazionali… per quanto a prezzi di gran lunga inferiori.


Fu così che già nel 1864 durante i lavori preparatori del Concilio Vaticano I venne costituita una “Commissione speciale” per la preparazione di progetti di riforma della disciplina ecclesiastica, mentre molti Vescovi in varie circostanze ed anche attraverso proposte tecniche differenti continuarono a chiedere che si rendesse più agevole e sollecita la trattazione delle Cause e più spedita l’applicazione del Diritto canonico. Addirittura, il 19 febbraio 1870, «trentatre Vescovi di varie Nazioni sottoscrissero un’istanza al Papa per la compilazione di un Codice da promulgarsi dal sommo Pontefice», comprovando che 


«le Code pio-bénédictin trouve ses racines dans la culture intransigeante du Concile Vatican I qui voyait dans la codification un instrument efficace afin d’éliminer les Droits particuliers des Églises nationales et affirmer –en accord avec la constitution Pastor Æternus– la primauté du Pape au sein de l’Église universelle (voir les canonistes Pillet, Périès, Deshayes)».


Se le mutate condizioni della Sede apostolica romana (dopo la debellatio dello Stato Pontificio) non permisero d’intraprendere una tale opera, ciò nonostante la profonda istanza di riordino normativo, divenuta ormai irrinunciabile, cominciò a portare frutti attraverso una serie di nuove Norme pontificie promulgate nell’arco di una trentina d’anni che semplificarono e riorganizzarono ampi settori del Diritto canonico. Ad esse si affiancarono già durante i lavori codificatori diretti dal Gasparri il Decreto “Ne temere” (2 agosto 1907), e il Decreto “Maxima cura” (20 agosto 1910) in materia di ‘forma’ della celebrazione del Matrimonio canonico e di rimozione amministrativa dei Parroci.


Negli stessi anni un certo numero di autori ‘privati’ si cimentò in Italia e Francia nella redazione –sperimentale– di “Codici” canonici di diversa natura ed estensione: un’attività ancora del tutto ‘dottrinale’ e ‘scientifica’ poiché


«bien que plusieurs auteurs aient réalisé de véritables codifications; bien que depuis 1891 on ne cessait pas de présenter aux Congrès catholiques internationaux des rapports démontrant la nécessité de reviser et de codifier le Droit ecclésiastique, il ne semblait pas qu’un Code dût être officiellement rédigé de sitôt».


Mentre, infatti, la reformatio Iuris canonici si era già praticamente avviata dal punto di vista emotivo e –parzialmente– pratico, lo stesso non poteva ancora dirsi dal punto di vista strettamente teoretico e strumentale, né tanto meno si poteva ancor essere certi che si sarebbe trattato proprio di una ‘codificazione’. Le vivaci discussioni e le perduranti incertezze metodologiche di quegli anni lo testimoniano con chiarezza soprattutto nel costante tête-à-tête tra la Commissione cardinalizia e l’inarrestabile Card. Gasparri nella disputa –teoretica e metodologica– tra Collectio e Codex. La stessa volontà pontificia in merito alla ‘natura’ dell’opera da intraprendere non era evidente poiché «dal motu proprio Arduum sane munus” non appariva chiaramente se si avesse intenzione di redigere un vero e proprio Codice, o un’altra Collezione come le antiche»: ambiguità e polivalenza che, non solo non approdarono ad alcuna soluzione ‘esclusiva’ (aut Codex aut Collectio), ma finirono per complementarsi (et Codex et Collectio), infatti


«la lettera del Segretario della Commissione alle Università cattoliche, in data 6 apr. 1904 (Acta Sanctæ Sedis, 37 [1904-1905], pp. 130-31), toglieva ogni dubbio. In tale lettera veniva tratteggiato a grandi linee il piano dell’opera, suscettibile di emendamenti, e si diceva che il lavoro da compiere era duplice: il Codice, da redigersi in Canoni o Articoli come i recenti Codici civili, e la raccolta degli Atti legislativi posteriori al 1317, ossia la Collezione delle Fonti».


L’evidente ‘praticità’ e ‘concretezza’ di approccio alla tematica sia da parte di Papa Pio X che del Card. Gasparri completano tale quadro di riferimento e comprensione.


2.2 Pio X, Benedetto XV, il Card. Gasparri ed il Codice latino

2.2.1 Giuseppe Sarto - Pio X

Quanto sin qui illustrato evidenzia come il vero problema che occorre porsi ancor oggi a riguardo dell’identità/natura della codificazione canonica non riguardi tanto la sua sostanza e finalità (=la restauratio Iuris e non la sua renovatio) ma la sua concreta ‘forma’ e ‘modalità’ (=Codice sì, Codice no). In quest’ottica espressamente operativa, d’altra parte, si collocava esplicitamente il m.p. “Arduum sane munus” con cui Pio X diede convinto inizio all’opera, anche se il solo fatto che alla fine del XIX secolo moltissimi all’interno della Chiesa auspicassero una riforma globale della Legislazione ecclesiale universale a causa dell’incertezza data


«dalla molteplicità e dispersione delle Fonti, dalle deroghe, abrogazioni e correzioni introdotte attraverso i secoli, dalla inutilità di non poche disposizioni non più applicabili alle mutate circostanze soprattutto nelle relazioni tra Autorità ecclesiastiche e pubblici poteri, dalle lacune e insufficienze della Legislazione di fronte ai nuovi problemi»,


 non era sufficiente né a definire ‘come’ questa riforma fosse possibile, né che proprio un ‘Codice’ potesse risolvere la questione. Come, infatti, è stato ben osservato: in primo luogo «i legami causali tra la decisione a favore del Codice e il compito precedentemente svolto dall’Autorità ecclesiastica, dai canonisti, dai Legislatori e dagli interpreti emergono pienamente solo a posteriori» mentre, non di meno,


«gli atti posti in essere di volta in volta, da questi Soggetti non necessariamente corrispondevano, sempre e comunque, alle intenzioni o agli scopi originariamente da loro perseguiti, anche se successivamente sono andati a costituire, nella mente degli studiosi, una serie più o meno connessa di relazioni causali».


Di fatto, poiché la vera e propria ‘passione’ di Pio X per il Diritto canonico nasceva dallo zelo pastorale e dalla pratica di governo episcopale, sarebbe stato ben difficile trovare in essa qualcosa di ‘teoretico’ e forse –tanto meno– di espressamente ‘canonistico’, tanto più a riguardo dell’importanza delle Fonti storiche rispetto all’applicabilità immediata delle Norme. Il suo era l’atteggiamento strumentale del ‘pratico’ che si accosta al Diritto per trarne ‘qualcosa’ di immediato ed efficace, con una predilezione per l’aspetto ‘applicativo’ che mira a ricondurre sotto il controllo istituzionale buona parte del quotidiano, in una visione ‘pastorale’ delle strutture ecclesiastiche. D’altra parte egli


«come sacerdote e pastore aveva sempre constatato l’impossibilità di governare bene con Leggi complesse ed antiquate e con un cumulo di Decreti e di disposizioni che erano lungi dall’essere sempre in armonia fra loro o dall’essere confacenti con le nuove condizioni dei tempi».


In tale prospettiva occorre evidenziare la specifica forma mentis di chi, attraverso l’attività di Curia e più genericamente di governo istituzionale, acquisisce del Diritto una visione ‘strutturante’, capace cioè di conferire a priori stabilità agli Atti di governo in modo tale che la loro applicazione risulti chiara, efficace e definitiva, senza lasciare adito a possibili questioni, querele e distinguo che rendono pressoché impossibile la guida pastorale della Comunità ecclesiale (soprattutto ai Vescovi). È la forma mentale di chi utilizza il Diritto per “reggere” anziché “cor-reggere”… esercitando la potestà esecutiva piuttosto che quella giudiziale: le Leggi, d’altra parte, si fanno per ben governare non per dimostrare la propria cultura, né per sanare le contese!

Si colloca probabilmente in quest’ottica anche la scelta –riduttiva– di procedere alla sola ‘codificazione’ del Diritto canonico tralasciando, invece, la Collezione dei documenti normativi precedenti, come invece suggerito e propugnato dalla maggioranza dei Cardinali (canonisti), la maggior parte dei quali, non di meno, non era neppure completamente fornita di un’educazione giuridica ‘moderna’ mentre alcuni ne erano anche interamente privi. La miglior parte della dottrina canonistica del XIX sec., infatti, legata alla c.d. Scuola storica di origine tedesca, si era manifestata ben poco sensibile alle istanze teoretiche e metodologiche ‘codicistiche’ maturate in ambito soprattutto francese.

Ciò che, tuttavia, viene spesso trascurato a proposito del dibattito su codificazione e/o compilazione intrattenutosi tra la Commissione cardinalizia e lo stesso Pio X (oltre che col Gasparri e gli altri fautori della codificazione tout-court) è lo ‘snodo’ intorno a cui lo stesso Pontefice riuscì a far ruotare l’intero ‘sistema’ pur di giungere all’agognato risultato: il Codice non avrebbe sostituito né il Corpus Iuris canonici, né i documenti normativi successivi poiché avrebbe dovuto essere soltanto ‘prevalente’ e non ‘esclusivo’ rispetto alle vigenti Fonti normative; esso infatti ne avrebbe semplicemente ‘condensato’ ed armonizzato il contenuto normativo effettivamente in vigore, rendendone più agevole l’utilizzo soprattutto ai fini del governo ecclesiastico. Un vero e proprio Breviarium applicativo della Legge canonica già esistente, tanto più utile quanto maggiore ne risultava l’urgenza!

Nessuna chiusura, dunque, verso il passato normativo ecclesiale (che sostanzialmente non interessava a Pio X), ma una sua riorganizzazione funzionale in chiave di espressa attualità operativa. Un ‘principio’ che vale da solo a differenziare irriducibilmente la codificazione canonica dalla quasi totalità di quelle statuali: un nuovo strumento giuridico, ma un non nuovo Diritto! Questo a livello di presupposti, intenzionalità, volontà, metodo di lavoro. Altro sarà –invece– il ‘modo’ della sua proposizione ed applicazione… e qui si porrà la maggior parte dei problemi!


2.2.2 Giacomo Della Chiesa - Benedetto XV

Gli oneri pontifici della codificazione canonica, però, non possono ricadere soltanto sul suo iniziatore e propugnatore, fu infatti Benedetto XV a portare a termine l’opera ed a renderla realtà effettiva ed efficace nella Chiesa condizionandone profondamente l’identificazione (=cosa è un Codice di Diritto canonico), l’utilizzo (=come si usa il Codice) e, perché no, la stessa idea e concezione… visto che mai prima la Chiesa aveva avuto ed utilizzato un tale strumento.

Proprio questa consapevolezza rende necessario ricordare come Benedetto XV –a differenza di Pio X– fosse un giurista a tutto tondo, in possesso di una ‘vera’ formazione giuridica, articolata e completa, sia civile che canonica. Prima di intraprendere gli studi ecclesiastici infatti si era laureato in Legge a Genova (1871-1875) con una Tesi su “L’interpretazione delle Leggi”, risentendo inevitabilmente dei retaggi della giuridicità statuale ‘napoleonica’. Tanto basta per rendersi conto che molte delle ‘accuse’ di ideologia genericamente attribuite alla codificazione intrapresa da Pio X riguardano in realtà Atti ed atteggiamenti di Benedetto XV o comunque del suo pontificato; tale è infatti la disposizione della S. Congregazione per i Seminari e le Università circa l’adozione esclusiva del metodo esegetico nell’insegnamento (e quindi nel successivo uso) del ‘nuovo’ Diritto canonico; tale è, ancora maggiormente, il m.p. “Cum Iuris canonici” con cui tale Pontefice intese prevenire il ‘discredito’ del Codice appena promulgato fissando i criteri e le modalità per la sua ‘integrazione’; nella stessa linea si colloca anche la contestuale istituzione della “Commissione per l’interpretazione autentica del C.I.C.” ed il divieto alla Curia Romana di emanare troppo facilmente disposizioni generali che non fossero meramente ‘attuative’ del Codex, dovendosi limitare a semplici “Istruzioni”.

A latere, ma non inutilmente, anche la considerazione circa la “proprietà” del testo della Legge codiciale: «la même préoccupation a conduit le Pape à réserver au Saint-Siège la propriété du texte» cosicché nessuno potesse utilizzarlo in alcun modo senza le dovute autorizzazioni(?!) pontificie. Il fatto merita specifica nota teoretica poiché l’Atto pubblico per eccellenza che è la Legge venne protetto col dispositivo giuridico privato per eccellenza: la proprietà, trascurando così completamente il vero fulcro (teoretico ed ideologico) della codificazione: l’autorità!


Semplici osservazioni e considerazioni che rendono però evidente la profondissima differenza tra i due Pontefici che tennero ‘a battesimo’ l’opera codificatoria; una differenza che li colloca a grande distanza proprio nella concezione dello strumento codiciale e del suo conseguente utilizzo: punto di arrivo pratico per Pio X, punto di partenza teorico per Benedetto XV. Riassunto pratico-operativo delle Fonti tradizionali, per il primo, nuovo inizio giuridico, per il secondo; un mondo che si concentra ed un mondo che si proietta, tutto attraverso 2.414 Canoni incapaci, in realtà, di contenere entrambi quei due mondi. D’altra parte, la formazione giuridica del nuovo Pontefice, avvenuta all’interno di un contesto ancora entusiasta della codificazione moderna (il Regno sabaudo, assoluto ed ‘illuminato’ in pieno Risorgimento), lo avvicinava decisamente ad un genere di ‘idee’ che mai si sarebbero potute conciliare coi presupposti dottrinali antimodernisti di Pio X, che aveva iniziato la propria opera su ben altre premesse e con ben altri scopi.


2.2.3 Il Cardinal Pietro Gasparri

Anche allo strutturarsi (ed irrigidirsi) del pensiero ‘reale’ del Card. Gasparri, vero motore e realizzatore di tutto quell’immenso lavoro, occorre dedicare qualche attenzione più profonda di quanto solitamente accada, ciò soprattutto nella ‘tensione’ tra Fonti (antiche) e sistema codiciale (nuovo). Non si può infatti trascurare, proprio nell’intento di penetrare il suo pensiero profondo a riguardo della componente più ‘ontologica’ del Codice (=lo Ius come tale e le sue Fonti), il fatto che


«en qualité de Président de la Commission des Consulteurs, Mgr. Gasparri fit édicter par le Pape à la date du 11 avil 1904, une Instruction où se trouvaient formulées les principales directives se rapportant au texte du futur Code et à la méthode des travaux qui le préparaient.

1. Le Codex ne renfermera que des prescriptions disciplinaires ce qui n’exclura pas, le cas échéant, l’énonciation de quelques principes quæ ad Ius naturale vel ad ipsam idem referrentur. Le Code présentera ainsi un caractère nettement juridique. […] Des dispositions de caractère dogmatique entreront seulement dans le Codex, celles qui sont en rapport étroit avec les Institutions juridiques.

2. Les Sources où puiseront les rédacteurs sont le Corpus, les Décrets du Concile de Trente, les Actes des Papes, les Décrets des Congrégations romaines et des Tribunaux romains. En puisant dans ces documents, ils formuleront des Canons qui solam Legem partem dispositivam continerent. Ces Canons pourront être divisés en paragraphes.

3. En rédigeant un nouveau Canon l’auteur devra dans la mesure du possible employer les termes des textes anciens sur lesquels il s’est basé. De plus il devra indiquer strictement la Source de la nouvelle rédaction d’une prescription en citant l’édition, le numéro du volume et la page de l’œuvre qui a été utilisée.

4. Si des différences d’opinions s’élèvent au sujet de l’interprétation des Lois les plus importantes, le Consulteur est requis d’adopter un point de vue personnel et déterminé.

5. S’il juge desirable ou indispensable de modifier une règle du Droit en vigueur, il indiquera que son Canon introduit cette modification et ce changement. De même devront être indiquées et motivées toutes les innovations introduites dans le projet par rapport à l’ancien Droit.

6. Le latin sera la langue du Code».


Una linea metodologica e operativa di assoluta chiarezza circa il rapporto di dipendenza diretta della nuova ‘forma’ dal ‘contenuto’ tradizionale (anche a livello terminologico -sic). Una metodologia da cui non si potrà poi prescindere nel valutare il ‘prodotto’ realizzato in tal modo.


In tale prospettiva diventa –forse– necessario rileggere non senza un certo ‘sospetto’ metodologico la figura del Card. Gasparri all’interno del contesto post-codificatorio che lo vedeva ormai ultima ‘musa’ di tutta l’opera e suo indiscusso teoreta –a posteriori– oltre che ‘custode’, corifeo e promotore della codificazione stessa, tanto nello stendere l’enfatica Prefazione al C.I.C. che, più generalmente, nel trasmettere alla storia il proprio punto di vista sulla codificazione realizzata, che nell’imporre la propria concezione del Codice a Papi e Commissioni pontificie, oltre a forzare i documenti interpretativi in chiave esegetica.

Giovi in questo l’osservazione che, nonostante «selon la vulgate, comprendre Gasparri signifiait en quelque sorte comprendre le Code»: ‘il’ Codice non fu Gasparri né Gasparri fu ‘il’ Codice. Tanto più dopo la recente “conclusion” di Fantappiè secondo cui –a differenza delle svariate ‘codificazioni’ private messe in opera da singoli studiosi sul volgere del secolo– «le Code canonique n’est pas ce qu’on pourrait appeler “un Code d’auteur”: il s’agit plutôt d’une “grande entreprise juridique collective” dirigée par Gasparri».


Sull’atteggiamento di fondo ed i ‘presupposti’ ideologici del Cardinale marchigiano, d’altra parte, Paolo Grossi aveva già messo in luce come,


«in Gasparri, più che in una vocazione personale, è l’ideologia che conta, e la convinzione che su quell’ideologia poggia. Per lui il sistema è uno strumento difensivo, e la tecnica giuridica è il cemento che dà straordinaria compattezza al sistema, soprattutto quando si tratti di un istrumentario di eccezionale validità e refrattario a ogni usura temporale come quello romano e romanistico. La pura giuridicità, che il sistema filtra depurandola da troppe e ingombranti scorie storiche, è una garanzia, appunto una difesa. L’ideologia di Gasparri, che scrive a fine Ottocento i suoi tractatus, è veramente tridentina, e tridentino è il personaggio, e tridentina è la cifra per la comprensione del canonista, del politico del Diritto, del futuro Legislatore. Il Concilio che premerà sui confini e modellerà l’architettura del primo CodexCodice che Gasparri orienta e determina nelle sue scelte di fondo– non è infatti tanto il Vaticano Primo, semplice occasione –anche se storicamente preziosa– di un discorso nuovo sulle Fonti canoniche, quanto il Concilio di Trento con tutto il suo bagaglio di certezze, di definizioni, di anatemi, di armature disciplinari. Cedendo alla foga del discorso, non sarebbe scorretta l’anacronica rilevazione che Gasparri è l’ultimo dei Padri Tridentini».


Un atteggiamento ‘dogmatico’ ed espressamente finalizzato, ben più attento alle proprie affermazioni che alla loro reale veridicità e fondatezza, come ben emerge anche dalla lunga ed articolata ‘presentazione’ della sua “esperienza” didattica proposta da Fantappiè per


«far luce sulla posizione che Gasparri assumerà, in primo luogo, nei confronti della Scuola storica del Diritto, […] divenuta una vera e propria discriminante metodologica in alcuni ambienti accademici cattolici, come l’Ateneo parigino dove egli insegnava. A questo proposito andrà verificato quale grado di apertura e di sensibilità Gasparri sarà disposto a concedere nei suoi trattati alla dimensione storica, anche per determinare se la sua impostazione faccia posto ad essa e le riserbi un ruolo attivo o, invece, tenda a collocarsi sul piano giuridico o teologico-giuridico».


L’esito di tale indagine, ed il profilo metodologico e scientifico del grande codificatore che ne emerge, sarà però ben triste in proposito:


«tra le componenti del Trattato la prospettiva storica risulta la più sacrificata, nonostante le integrazioni apportate in nota nella terza edizione e poi significativamente soppresse nella quarta pubblicata dopo il Codice. […]

Gasparri ignora sostanzialmente i tre rilevanti indirizzi di studio che si erano sviluppati in Germania negli anni o decenni immediatamente precedenti […].

Non meno problematico è il rapporto di Gasparri col Diritto romano. I rimandi ad esso sono spesso di seconda o di terza mano e scaturiscono dalla convinzione che esso rifletta la ragione naturale –secondo un convincimento largamente diffuso dal Giusnaturalismo laico sei-settecentesco–; questo presupposto lo porta a trattare le Fonti romanistiche come un corpo astratto di dottrine, e quindi a travisarne l’evoluzione interna e il significato. Egli non mette a profitto né le ricerche filologiche sugli Istituti d’interesse specifico (la conventio in manum e la deductio), né le sintesi storiche o i contributi originali italiani sul Matrimonio romano. […]

L’aver trascurato o omesso questi nuovi indirizzi di ricerca storica ha contribuito a operare nel Trattato di Gasparri alcuni travisamenti concettuali. […]

Infine Gasparri non tiene conto neppure degli apporti che alcuni storici del Diritto italiano come Salvioli e Brandileone avevano dato alla chiarificazione dei motivi e degli effetti del decreto Tametsi con i loro lavori sulla celebrazione del Matrimonio prima e dopo il Concilio di Trento. Si deve concludere che a Gasparri sfugge quasi tutta la letteratura storica prodotta sul Matrimonio tra il 1865 e il 1889».


Un atteggiamento ‘dogmatico’ ed espressamente finalizzato che lascia trasparire dall’elemento didattico quello teoretico sottostante: il ‘pratico’ che –come Gasparri– insegna lo fa cercando di far capire i ‘come’ e fondare i relativi ‘perché’ alla luce dell’operatività concreta o, se si preferisce, della prassi giuridica vigente, cosicché il suo modo di pensare ed illustrare sistemi, logiche, presupposti e finalità risulta assolutamente diverso da quello dei ‘teorici’ (i ricercatori ed autori della dottrina).

Non di meno: si è messo in chiarissimo risalto come, almeno per l’epoca parigina, sembri «da escludere che il metodo di cui si serve Gasparri sia derivato o abbia un rapporto genetico significativo con la Scienza civilistica dell’epoca». Elemento importante in vista delle ‘teorie’ che dovrebbero trovarsi dietro/sotto la spinta codificatoria canonica, tanto più che:


«negli anni parigini non ci è dato conoscere né un’opera né uno scritto minore né una lettera privata in cui esprima l’idea di riforma del Diritto canonico. […] Ma è indubbio, come si avrà agio di mostrare più avanti, che tre anni dopo, nel 1904, Gasparri si mostrerà uno dei sostenitori più ferventi e decisi della codificazione canonica. Dunque: se resta un punto fermo la data di approdo, resta invece altamente problematico stabilire i tempi della sua evoluzione verso il Codice»;


e, probabilmente, non solo i tempi ma anche le circostanze concrete.


A tal proposito andrebbe adeguatamente considerato come sia stato l’essere prima di tutto “uomini di Curia” –che accomunava Gasparri e Pio X– a far la differenza concreta tra loro e tutti i ‘teorici’, per quanto competenti e geniali, buona parte dei quali furono anche loro collaboratori nell’opera codificatoria stessa.

Per Gasparri e Pio X il Diritto come strumento di lavoro è una cosa radicalmente diversa da quello come oggetto di cultura e teoresi: l’esperienza operativa personale è il vero discrimen nella concezione stessa del Diritto e dell’attività ad esso connessa… il ‘resto’ risulta poco più che Letteratura: ‘sistematiche’ e ‘dogmatiche’ comprese, o in primis.


2.3 Il mito canonico della codificazione

Un discorso sulla codificazione canonica pio-benedettina ed in particolare sulla “questione codificatoria” come tale non può tuttavia essere correttamente svolto se ci si limiti al solo periodo ed alle sole attività di codificazione materiale e si trascurasse, invece, il ben più ampio spazio della sua promulgazione e vigenza, quasi che queste non appartenessero alla sua stessa ‘natura’; tanto più che spesso una Legge finisce per non identificarsi con la propria origine ma –molto maggiormente– con la propria vigenza ed applicazione, risultandone anche radicalmente stravolta.

È questo il caso del primo Codice canonico la cui maggior identità finì per derivargli non tanto né solo dal suo ‘testo’ in sé e per sé (contenuti e forma) ma dall’utilizzo che ne venne fatto: da qui, infatti, prese corpo l’idea a cui esso avrebbe dovuto corrispondere e che –soprattutto– era ormai chiamato a realizzare. In proposito: se risponderebbe ai fatti –e più ancora ai personaggi– l’osservazione che una certa componente ideologica codificatoria si sia diffusa nella Chiesa cattolica del XX sec., allo stesso tempo bisognerebbe altresì riconoscere contestualmente che questo accadde sostanzialmente dopo il 1917, lasciando così impregiudicata l’ispirazione e la ‘natura’ dell’opera giuridico-pastorale di Pio X.


Fu, infatti, proprio –e principalmente– all’interno della recezione codiciale che prese vigore e si sviluppò nella sua maggior portata il c.d. mito della codificazione di cui il Codice pio-benedettino fu sia il risultato (parziale) che l’origine: il risultato quanto a compimento di desiderata ed aspirazioni, l’origine quanto a realizzazioni e nuove ‘pretese’.

D’altra parte, che cosa il Codice fosse e dovesse essere in sé e per sé non fu questione tanto della sua fase redazionale –principalmente metodologica e pratica– quanto di quella applicativa (ben più ideale). Fu infatti nell’illustrazione e descrizione delle caratteristiche e proprietà del Codice e nelle Norme per la sua applicazione che venne in luce che cosa se ne dovesse pensare e come lo si dovesse accostare. La lunga sopravvivenza del Card. Gasparri (+1934) agli altri ‘protagonisti’ della stessa codificazione permise anche a lui stesso di convincersi (oltre che –voler– convincere) che le cose erano sempre state così come le si vedevano al tempo in cui se ne parlava… come accade sempre nelle epopee dei reduci a distanza di decenni dalla fine della guerra che li aveva visti –allora– poco più che ingenui ragazzini in lotta con la (propria) morte.

A tal proposito si è già accennato come molto di quanto ‘recepito’ e quindi ‘creduto’ circa la natura del Codice sia derivato quasi esclusivamente dalle prescrizioni e disposizioni di Papa Benedetto XV che promulgò ed applicò per primo tale Codice, ‘insegnando’ alla Chiesa tutta –da giurista qual era– che cosa fosse e come si dovesse usare un tale nuovo strumento giuridico.


«En el plano de la concepción jurídica […] sí hubo una esplícita aunción de los principios subyacentes a la técnica codificadora, que acercó la codificación canónica a la llevada a cabo en los Estados. Prueba de ello fueron algunos de los documentos que acompañaron la promulgación del C.I.C. del 1917, ademas de Provida Mater Ecclesia y del prólogo del Código».


Di tutta evidenza quanto imposto in tema di insegnamento, interpretazione, modifica ed integrazione del Codex.

- Il nuovo Codice andava insegnato in modalità testuale (=schola textus): bandita ogni esposizione per materie o Istituti; cassate le Institutiones, le Prælectiones e qualunque altra forma di sistematizzazione non rispettosa di quanto ‘scritto’ nel testo di Legge. Il Diritto, così, diventava la Legge e la Legge era il –solo– Codice.

- Il nuovo Codice andava semplicemente ‘applicato’: bandita ogni forma d’interpretazione tanto dottrinale che giurisprudenziale; il Codice, in quanto identificato con il Diritto, contiene tutto quanto concerne la vita della Societas iuridice perfecta, nulla escluso. Ogni elemento di vita dev’essere sussunto all’interno della Legge. Se proprio avvenisse che qualche formulazione risultasse davvero dubbia si dovrà ricorrere allo stesso Legislatore o a suo delegato che interpreterà in modo “autentico” (=con valore di Legge) la Norma in oggetto.

- Il nuovo Codice andava considerato la Fonte unica del Diritto della Chiesa: bandite altre forme legislative che potessero metterlo in ombra anche solo in parte. Se fosse stato necessario si sarebbe dovuto procedere alla ‘integrazione’ del Codice stesso con le nuove Norme in modo che il Codice rimanesse il Diritto per antonomasia.


In quanto, poi, supremo atto di volontà del sommo Pontefice –rafforzato e riqualificato dalle attribuzioni personalissime del Concilio Vaticano I– il Codice finì ben presto per divenire regula et mensura di tutto quanto nella Chiesa doveva avere e mostrare certezza, attraendo così a sé sia la Morale che la Teologia dogmatica e sacramentaria che, per decenni, si gloriarono della loro ‘corrispondenza’ al Codice stesso.


Non di meno, in realtà, la normale vita ecclesiale continuò a scorrere negli antichi alvei –solo parzialmente costretti all’interno del nuovo argine– e quasi immediatamente la stessa Curia Romana riprese la propria attività nomogenetica e giurisprudenziale continuando ad emanare Norme di portata generale che si affiancarono al Codice stesso in forma di ‘subordinate’ “Istruzioni” aventi comunque nei fatti forza e valore di Legge… e così effettivamente –ed ipocritamente– considerate.

Allo stesso tempo si dovette ben presto correggere anche l’indirizzo didattico esclusivamente esegetico improvvidamente imposto nel 1917 riproporzionando vari settori della docenza canonistica.


D’altra parte già Mario Falco nel 1925 aveva rilevato come lo stesso Papa Benedetto XV avesse esposto –proprio nella Costituzione di promulgazione del C.I.C., “Providentissima Mater Ecclesia”– idee e convinzioni erronee circa la ‘portata’ del nuovo strumento giuridico, indicato –enfaticamente– come “novum totius canonici Iuris Codex”, come se ‘altri’ Codices (contrapposti a novum) ci fossero stati in precedenza.

Allo stesso tempo non era corretto neppure affermare che si trattasse del Codice “di tutto il Diritto canonico” (universale o commune, che dir si voglia), data la grande quantità di Norme della stessa ‘forza e valore’ esplicitamente lasciate extra Codicem (Cfr. Cann. 1-6) e/o contestualmente promulgate (=le otto Costituzioni pontificie collocate nello stesso volume degli Acta Apostolicæ Sedis). Nella stessa direzione l’enfasi del breve discorso, tenuto in Vaticano nella vigilia dei Ss. Pietro e Paolo nella cerimonia di presentazione ufficiale del nuovo C.I.C., conferma ed amplia i medesimi presupposti: il Codex contiene tutte e sole le Leggi che reggono oggi la Chiesa!

Non meno che ‘misterioso’ –ma altrettanto eloquente– rimane poi il significato dell’affermazione pontificia «ci proponiamo di zelarne la fedele osservanza, chiudendo l’orecchio ad ogni domanda di qualsiasi deroga»; sul suo esempio anche altri Prelati dimostrarono pubblicamente di ‘non sapere’ con precisione cosa fosse ciò di cui andavano tessendo le lodi.

Il pregiudizio teoretico ‘codicistico’ era evidentemente forte… non attribuibile, però, a Pio X che, nel dare inizio all’opera codificatoria, nulla aveva espresso circa il Codice in se stesso –o la sua ‘teoria’– contentandosi di illustrarne l’urgente necessità. Lo stesso dicasi dell’instancabile ‘direttore dei lavori’.


Al di là dei trionfalismi ecclesiastici che accompagnarono l’evento ed i primi due decenni di applicazione della nuova forma normativa canonica, occorre però prendere atto che il valore quasi ‘mitologico’ del Codice, che avrebbe dovuto –come di fatto fece in ambito statuale– spazzar via le innumerevoli vestigia di un passato giuridico ormai ‘indegno’ della Modernità, si ridusse di fatto a ben poca cosa quando si consideri ‘serenamente’ che cosa fu in realtà il Codice pio-benedettino in sé:


«il Codice costituisce, però, una novità solo relativa perché può essere considerato l’esito finale di quel plurisecolare processo di razionalizzazione del Diritto canonico nella Scienza canonica e della progressiva riduzione di quest’ultima a sistema che aveva trovato il suo incunabulo nelle già ricordate Institutiones Iuris canonici del Lancellotti, dove la materia canonica era stata assimilata e disposta logicamente entro lo schema gaiano-giustinianeo».


«Sotto il profilo della tecnica giuridica il Codice canonico è stato concepito e presentato dalla maggioranza dei Consultori come l’adeguamento della forma del Diritto canonico ai progressi della Scienza giuridica lasciando inalterata la sua sostanza […]

Si potrebbe quindi supporre che i codificatori del 1917 abbiano agito sul presupposto che l’assunzione della forma Codice potesse essere considerata meramente estrinseca e strumentale, necessaria per risolvere nel miglior modo il problema pratico di rendere conoscibile e applicabile la disciplina ecclesiastica, ma ininfluente rispetto alla materia e allo spirito del Diritto canonico».


Tanto più che «la rédaction du Code était cependant, en premier lieu, une œuvre d’érudition», non meno di com’era stata l’opera dei Correctores romani del Corpus Iuris canonici, quasi quattro secoli prima: praticità (ecclesiastica), non nuova fondazione (moderna) della storia e della società.


2.4 Note sulla codificazione orientale

L’evidente risultato pratico e funzionale che il Codice pio-benedettino stava costituendo per la Chiesa occidentale già dai primi momenti della sua promulgazione non lasciò indifferenti molti Gerarchi delle Chiese cattoliche orientali che nel nuovo Ius commune canonicum latino videro una concreta prospettiva –soprattutto metodologica– anche per il mondo cattolico orientale, principalmente in ragione dell’innovativa gestione delle Fonti del Diritto canonico antico, applicate ormai in modo assolutamente efficace attraverso la codificazione della loro parte maggiormente dispositiva. Si trattava, con evidenza, di un risultato invidiabile dal punto di vista tecnico poiché permetteva –finalmente– di applicare in modo efficace proprio quel Diritto che, completamente disperso nelle proprie innumerevoli Fonti, risultava spesso addirittura sconosciuto agli stessi Gerarchi che avrebbero dovuto applicarlo ed urgerne l’applicazione.

La nuova tecnica di unificazione e conoscenza normativa espressa nel Codice avrebbe offerto anche alle Chiese cattoliche orientali vantaggi pratici di tutto rilievo in vista dei quali, in realtà, si stava già lavorando –per quanto indirettamente– da vari decenni.


Come forse non risulta generalmente conosciuto, la codificazione canonica orientale ebbe infatti i suoi primi passi strutturali prima di quella latina, nelle decisioni assunte da Papa Pio IX a riguardo della (raccolta e) revisione del Diritto delle Chiese cattoliche orientali in chiara funzione di accentramento pontificio. Nel 1853 era stata infatti eretta la “Sezione orientale della S. Congregazione de Propaganda Fide” e dal 1862 si fece sempre più forte la tendenza alla ‘latinizzazione’ della disciplina, sostenuta dall’opera solerte del Card. Barnabò (Prefetto della stessa Congregazione dal 1856 al 1874) che aveva preparato anche schemi di appositi Decreti per il Concilio Vaticano I, discussi nel VI Congresso della Commissione delle missioni e delle Chiese orientali, sulla base dei voti espressi anche da alcuni Prelati orientali.

Per quanto al tempo dominasse –soprattutto in Curia– la “præstantia Ritus latini”, ed in tale direzione si premesse anche dal punto di vista del riordino giuridico, non di meno si pose subito grande attenzione alle Fonti giuridiche proprie delle Chiese orientali, come dimostra il fatto che


«Pio IX il 1° ag. 1858 già aveva incaricato il benedettino G. B. Pitra, poi Cardinale, di raccogliere i testi delle Fonti del Diritto canonico orientale; e lo stesso incarico aveva anche affidato alla S. Congregazione di Propaganda Fide pro negotiis Ritus orientalis, nella Lettera apostolica del 6 genn. 1862, con cui la costituiva».


Una raccolta che ben testimonia già in quel contesto la consapevolezza che non poteva farsi uno Ius novum senza il vetus e che, comunque, canonicamente non si dà rottura né discontinuità tra le Fonti giuridiche sostanziali.


I veri lavori per la codificazione canonica orientale, però, iniziarono di fatto solo nel dicembre 1929 con l’insediamento della Commissione per gli studi preparatori presieduta dal Card. Gasparri e coadiuvata da esperti (giuristi e storici), competenti nelle varie materie orientalistiche, la maggior parte dei quali delegati dai rispettivi Ordinari ed appartenenti alle diverse Chiese sui Iuris.

In realtà occorre anche riconoscere come il nuovo secolo avesse portato alla causa orientale un diverso atteggiamento da parte della più alta gerarchia latina, fino alla fondazione –il 15 ottobre 1917– del “Pontificio Istituto Orientale”, voluto da Benedetto XV quale «sede propria di studi superiori nell’Urbe concernenti le questioni orientali», romana e pontificia. Una scelta che contribuì non poco a (far) riconoscere la grande ricchezza storica, spirituale, liturgica e disciplinare di quella parte di cristianità, creando attorno al tema della ‘codificazione’ del Diritto orientale una sorta di grembo che ne avrebbe favorito la conoscenza e la stima, anche tecnico-scientifica… fino ad introdurne –nel 1931– l’insegnamento accademico (pur facoltativo) nelle varie Facoltà di Diritto canonico.


Occupazione principale del futuro Card. Acacio Coussa (1897-1962), già assistente della “Commissione pontificale per la codificazione del Diritto canonico orientale” e poi Segretario della “Commissione per la redazione del Codice di Diritto canonico orientale”, fu quella di continuare la raccolta e l’organizzazione delle Fonti giuridiche orientali, seguendo di fatto un metodo ormai assodato ma soprattutto i presupposti da cui esso originava: la sostanziale riorganizzazione del Diritto esistente in vista di una sua maggior conoscibilità e fruizione. Questo, infatti, era ormai chiaramente il senso canonico della codificazione, assolutamente lontano da quello statuale ed in decisa continuità col proprio passato normativo, pazientemente raccolto in decine e decine di volumi di Fonti, contro i soli otto volumi del Card. Gasparri per il Diritto latino.


Che, comunque, si trattasse per la Chiesa di utilizzare semplici modalità ‘metodologiche’ in sede di redazione delle Norme più che di avventurarsi negli spazi ignoti della ‘novità legislativa’ che la sola idea di Codice moderno tendeva a sollecitare, risulta evidente anche nella modalità di promulgazione della c.d. codificazione orientale: non un Codice unitario, ma progressive promulgazioni di Normative parziali (materia per materia), spesso neppure immediatamente applicabili poiché ‘schermate’ dalla concreta sopravvivenza di ampi spazi dello Ius proprium delle singole Chiese sui Iuris non ancora sostituito o integrato. Per quanto possa apparire contraddittorio: l’attività codificatoria orientale non fu affatto ‘codificatoria’ nel senso di offrire un unico testo organico e completo di Legge (il Codice, appunto), smentendo in re ipsa la maggior parte delle convinzioni e presupposizioni –gratuite ed infondate– tardivamente attribuite alla codificazione canonica come tale (v. supra). Valga in tal senso l’osservazione di Pio Ciprotti a riguardo dei Canoni promulgati sul Matrimonio canonico col m.p. Crebrœ Allatæ del 22 febbraio 1949: «come si vede dall’esame del loro testo, è stato in larga misura utilizzato il C.I.C., soprattutto per quanto riguarda la tecnica legislativa». E proprio di “tecnica” si trattò in tutta la codificazione canonica, tanto originaria che nella sua revisione post-conciliare.



3. APPROCCIO TEORETICO ALSISTEMA CODICIALE CANONICO

Quanto sin qui illustrato sul ‘fatto’ della codificazione canonica come tale, pur senza voler risolvere univocamente la ‘natura’ più profonda del C.I.C.-17 (Codice, sì, Codice, no), si apre ora a qualche considerazione ‘tecnica’ circa alcune delle sue maggiori conseguenze di ordine generale e sistematico sulla vita e la strutturazione giuridico-istituzionale della Chiesa, ponendo in risalto soprattutto elementi che, poiché non appartenenti né al cammino codificatorio già illustrato, né ai suoi presupposti dottrinali e sistematici né, pare ad oggi, alle sue maggiori conseguenze ordinamentali, costituiscono forse la vera ‘novità’ della presente riflessione. Si tenterà in tal modo di offrire spunti di riflessione e consapevolezza sull’attività codificatoria, proprio in vista di una sua eventuale attuazione (per quanto su scala ridotta).


3.1 Il sistema codiciale

Il profondo cambiamento introdotto nella vita giuridica ecclesiale dalla codificazione del Diritto canonico all’inizio del XX secolo non ha mutato soltanto [a] il modo ‘tecnico’ di scrivere il Diritto, ma [b] la sua stessa funzione, oltre [c] alla percezione della giuridicità canonica in quanto tale. Pur ritenuta, infatti, e presentata come un mero fatto tecnico-letterario riguardante il solo modo di ‘formulare’ le Norme, la codificazione canonica ha segnato profondamente la giuridicità ecclesiale costituendone concretamente un fattore di radicale mutamento strutturale ormai irreversibile: «codificatio in Ecclesiæ Iure est factum, et quidem, post Codicis piani-benedictini recognitionem, firmatum». Non è infatti discutibile né dubitabile che


«la codification n’est pas à considérer comme un pur instrument technique, neutre et privé de prémisses et de conséquences idéologiques, comme le supposaient certains auteurs du Code (in primis Gasparri) qui prétendaient pouvoir séparer le “contenu” de la Loi de sa “forme” législative».


Questo, tuttavia, pone altre e ben più profonde istanze di natura prettamente metodologica e strutturale di cui neppure il ‘codificatore’ post-conciliare fu consapevole: si pensi, p.es., alla leggerezza con cui –nel gennaio 1966– si affermò che l’assenza di uno ‘schema/indice’ per la redazione del nuovo Codice latino (comunicato solo il 20 aprile 1968) non avrebbe condizionato la trattazione delle materie del nuovo Codice, già individuate per via ‘tradizionale’.


a) La riflessione sul modo di scrivere il Diritto appare, probabilmente, la più immediata: scrivere una singola Decretale e scrivere un Canone di un Codice non è affatto la stessa cosa. Affastellare per data o per materia disposizioni conciliari insieme a minacce di scomunica (gli “anatema sit” dei Canoni dogmatici dei Concili) ed a Sentenze, non è come strutturare la disciplina di un’intera materia (come in un Titolo o Articolo di un Codice). Raccogliere ed ordinare le Decretali e le eventuali Sentenze ‘apostoliche’ su di una determinata materia non è come tracciare il quadro organico della stessa. È questo il primo approccio in qualche modo ‘tecnico’ alla problematica della codificazione. Non per nulla la redazione dei Codici canonici del Novecento ha richiesto decine di anni di lavoro da parte di decine/centinaia di persone… quando nell’epoca ‘classica’ –pur in assenza di molti dei mezzi moderni– a compilare una Collezione bastava una persona per lo spazio di qualche mese. Allo stesso tempo non va dimenticato come, già durante i lavori per l’edizione critica del Corpus Iuris canonici, si fosse iniziato ad approcciare il Diritto canonico in modo differente: attraverso le Institutiones, le Prælectiones, i Manualia, anziché le precedenti Summæ. Era, in fondo, la sistematica che cominciava ad affacciarsi all’orizzonte, polarizzando crescenti attenzioni ed aspirazioni soprattutto in parallelo al progressivo rendersi più articolata e complessa della vita ecclesiale. Il –successivo– mito/miraggio idealistico ottocentesco del “sistema” non risparmiò nessuno, neppure tra gli ecclesiastici più retrivi, come ben dimostrano le espressioni e ‘realizzazioni’ della c.d. neo-Scolastica. Il Codice divenne così –nel Diritto– l’espressione del sistema e la sua concretizzazione reale, al punto da non permettere quasi più di pensare alle Norme giuridiche singolarmente, le une accanto alle altre com’erano (state) le Fonti giuridiche accumulatesi lungo la storia, ma di ragionare sempre in modo correlato così che da ogni punto si possa passare ad un altro in modo logico e seguente, all’interno di una sensazione di organicità, in realtà già espressa liminarmente nel concetto stesso di Corpus. Interessantissimo sotto questo profilo ‘teoretico’ il fatto che il Concilio Plenario Latinoamericano dell’anno 1899 emanò, secondo la mentalità e percezione del tempo, ben 998 Decreti: uno per ciascuna Norma!


b) Proprio l’idea stessa di sistema ha progressivamente acquisito importanza funzionale per il Diritto canonico dell’ultimo secolo divenendone, in realtà, l’anima stessa anche grazie alla sostituzione del concetto di “Ordinamento giuridico” alla precedente “societas iuridice perfecta”, questione non puramente terminologica. L’approccio alla Chiesa come societas iuridice perfecta, infatti, concentrava l’attenzione sulla sua legittimazione ‘ontologica’ (oggetto della Teologia politica) al pari e sul ‘modello’ delle altre societates perfectæ quali erano (solo) gli Stati post-rinascimentali: una questione di principio a livello fondazionale che, tuttavia, non riguardava quasi in nulla le strutture e le funzionalità interne alle stesse societates, poiché ciò che rilevava era il rapporto di corrispondenza tra fini e strumenti specifici di ciascuna di esse (=la ‘perfezione’). La societas che possedesse in piena autonomia tutti gli strumenti atti a perseguire i propri fini, senza doversi mai rivolgere ad altri (il “superior” tanto aborrito), era iuridice perfecta e, come tale, legittima poiché auto-noma (=fonte del proprio nomos). Un approccio meramente esteriore e formale che aveva permesso agli stessi Stati di evolversi in modo così radicale (dal sec. XVII al XX) senza contraddire in nulla la propria (presunta) ‘essenza’, permettendo anche alla Chiesa cattolica di assestarsi all’interno di tale schema (venuto davvero meno solo col Vaticano II).

La comparsa, però, del concetto di Ordinamento giuridico (primario) praticamente in contemporanea con la promulgazione del Codice pio-benedettino doveva rimettere in gioco molti elementi e fattori della precedente Teoria politico-istituzionale. Il fatto è tanto più chiaro se si opera il parallelismo semantico tra le due formule: “societas iuridice perfecta” e “Ordinamento giuridico primario”, in cui l’elemento giuridico non rileva specificamente poiché presente in entrambe, mentre le caratteristiche di “perfezione” e “primarietà” riguardano sostanzialmente l’elemento auto-nomico (=superiorem non recognoscens), non ponendo problemi di sorta. L’elemento evolutivo della nuova concettualizzazione si trova, invece, nella discontinuità sostanziale tra i concetti di “societas” e di “ordinamento”: formale il primo, strutturale il secondo. È in quest’ottica, infatti, che muta radicalmente il ruolo, la collocazione, la funzione e la natura stessa, del Codice quale strumento legislativo. In fondo se anche i Principati seicenteschi erano “societates”, e così la stessa Chiesa, solo gli Stati tardo ottocenteschi potevano delinearsi come “ordinamenti”, non tuttavia la Chiesa coeva. Questo, però, poneva in evidenza un nuovo orizzonte di comprensione del Diritto e della sua funzione: un orizzonte tanto nuovo quanto era diverso il Principato teocratico rinascimentale dall’ottocentesco Stato di Diritto… un orizzonte in cui il funzionamento prevaleva ormai sull’identità, finendo –soltanto– per arricchire o impoverire gli elementi e fattori ordinamentali con la presenza o assenza di specificità più o meno singolari e caratteristiche. L’esperienza europea continentale –dalla quale il Diritto canonico non riuscì a prendere sufficienti distanze– fu così trascinata –anche dal Codice– verso l’Ordinamento, al cui centro fu posto proprio il Codice stesso che ne divenne la chiave di volta all’interno di una progressività in campo statuale che non ebbe –invece– parallelismi in campo canonico per il quale, al contrario, si trattò di un vero capovolgimento della funzione propria del Diritto che da rimediale (=ex post) divenne strutturante (=ex ante).


c) Dal punto di vista della percezione del Diritto canonico è forse opportuno anche porre in evidenza il radicale salto di consapevolezza attuatosi, p.es., circa i termini “Legge” e “Diritto” ed i loro rapporti. A ben vedere, per quanto la dottrina canonistica classica abbia fatto uso abbondante del termine “Lex” nel significato di Norma, con tutte le ambiguità del caso (S. Tommaso e gli scolastici fanno scuola -sic), senza distinguere comunque in modo tecnico le varie tipologie di Leggi e di Norme e Precetti e Decisioni (=Decretum), finendo di fatto per identificare Lex, Norma, Ius, la prima vera “Legge canonica” nel senso oggi tecnico fu proprio il Codice pio-benedettino, polarizzando su di sé molti secoli di concetti e linguaggi variamente problematici. Forse anche –o proprio– questa fu una delle cause/ragioni della sopravvalutazione assiologica cui il Codice dovette sottostare canonicamente, finendo per godere stime e pregi non davvero suoi ma dell’idea/concetto (filosofico-teologico) di “Legge” come tale. In una mentalità, infatti, in cui la Legge è parte o espressione della Morale ed il precetto appare la categoria concettuale originaria cui va ricondotta tutta la comportamentalità umana (=omnis Lex est præceptum), la reale e concreta distinzione –giuridica– tra Legge e Diritto non appare né semplice né davvero possibile, facendo del Codice il referente pressoché unico della comportamentalità ecclesiale: un ‘valore’, quindi, cioè il Diritto come tale …prima che uno strumento.

Proprio, tuttavia, tale apprezzamento assiologico contribuì ulteriormente a pre-porre il Codice –ed il Diritto come tale– alla vita ecclesiale facendone in qualche modo il modello ed il palinsesto strutturante da cui tutto il resto avrebbe dovuto dipendere e prendere le mosse, mutando la giuridicità ecclesiale in un vero ‘ordinamento’ volto ad impostare correttamente le relazioni istituzionali intraecclesiali già dal loro sorgere.


Non si trascuri in questo il mutamento funzionale cui il Diritto canonico dovette soggiacere nel progressivo differenziarsi delle due societates post-medioevali: quella ‘laica’ e quella ‘ecclesiastica’, differenziarsi che vide la Chiesa stessa sempre più sguarnita e finanche totalmente priva di una serie di importanti apporti istituzionali e dispositivi ai quali invece per vari secoli aveva provveduto il Legislatore civile –almeno da Giustiniano in poi– giustificando in buona misura la configurazione prettamente e storicamente ‘rimediale’ del Diritto canonico. Per la Chiesa cattolica il –nuovo– dover provvedere completamente a se stessa, senza più l’apporto preponderante del Diritto beneficiale (civile) che reggeva la quasi totalità degli Uffici ecclesiastici in Europa, rendeva necessario configurare maggiormente la struttura e soprattutto la funzionalità attraverso un apporto differente da parte del Diritto… un apporto più sistematico e strutturante al quale il Codice offrì –almeno di fatto– un’efficace risposta, per quanto non intenzionale.


Ulteriore nota critica in tema di mutamento del Diritto canonico e del suo ruolo/funzione ecclesiale attraverso la codificazione, è il passaggio dal “Diritto comune” canonico al “Diritto universale”; passaggio che denuncia un radicale cambio di prospettiva circa la ‘natura’ stessa del Diritto canonico. Mentre, infatti, l’espressione “Diritto comune” evidenziava la sua polivalenza e multifunzionalità in quanto capace di servire più ambiti della vita ecclesiale, all’interno di un quadro giuridico complesso popolato di vari Diritti “propri” o “singolari” (qual era stato appunto lo Ius commune), l’espressione “Diritto universale” pone in deciso rilievo che si tratta del Diritto ‘unico’ valevole per tutti nella generalità delle circostanze, pur senza negare –canonicamente– tutte le altre forme tradizionali di Diritto proprio/speciale. Davanti all’universalità del Diritto, non di meno, nulla restava escluso e nulla poteva svolgersi senza un suo previo ‘intervento’ ed una sua strutturante applicazione, ciò che portò ad un evidente cambio di ‘qualità’ del Diritto canonico stesso che passò dall’impostazione sostanzialmente giurisprudenziale del periodo classico (analoga al common Law) a quella sostanzialmente strutturante e definitoria del periodo codiciale (più prossima al civil Law).

Non senza semplificare –ma questo è tipico e proprio degli approcci metodologici– si potrebbe anche dire che alla fin fine la forma codiciale si articola secondo uno specifico percorso (piuttosto rigido) scandito dalla dinamica: quid, quis, quomodo (materia, agenti, regola) lasciando di fatto cadere il quia, così importante invece per il Diritto delle Decretali che, in quanto risposte puntuali a questioni singole, erano invece scandite dalla dinamica: an, quia, quomodo (problema/dubbio, riferimenti, soluzione). Il fatto che sia la “regola” sia la “soluzione” (=quomodo) si configurino essenzialmente come “Ius” non è senza ambiguità nell’esplicitare di ‘quale’ Ius si tratti; ed è proprio questo a fare la vera differenza tra la formulazione ‘classica’ dello Ius e quella codiciale. Allo Ius inter partes generalizzabile nei suoi ‘riferimenti’ (=i quia) e nelle rationes decidendi, si sostituì uno Ius pro omnibus, generale nelle sue indicazioni e regole, indirizzato a strutturare e gestire più che a sostenere ed accompagnare la vita ecclesiale.


Questo, tuttavia, nulla toglie –ancor oggi– all’abbondanza d’interventi giuridici ecclesiali in via ‘successiva’ e stratificante cosicché i Provvedimenti della Curia Romana (e non solo), spesso amministrativi singolari, in determinate materie finiscono per creare veri spazi di prassi giuridica consolidata funzionanti –dapprima– in modo non troppo dissimile dal common Law, finché qualche circostanza non porti a ‘consolidare’ in Norma preventiva (=a-priori) quanto ormai da decenni regolarmente effettuato, concesso o deciso. L’inserimento di tale Norma consolidata all’interno di un Codice o di altre disposizioni normative più o meno generali non fa che completare l’iter di statuizione normativa in chiave preventiva confermando così la dinamica nomopoietica post-codiciale.


3.2 La perfezione dell’Ordinamento

Come già accennato, la condizione della Chiesa cattolica (romana) agl’inizi del XX secolo appariva di disperato e drammatico isolamento, non potendo più contare che sulla propria forza interna, sulla coesione della fede e della disciplina. È pertanto plausibile che secondo il Pontefice della “restauratio omnium in Christo


«fosse necessario promuovere il momento giuridico, prescrittivo, normativo, rafforzando l’autoconsapevolezza e la certezza della Chiesa come Istituzione autonoma, libera, padrona di se stessa, capace di proporsi nei confronti del mondo quasi come uno “Stato d’anime”».


«Perché non può e non deve fare la Chiesa, nella sua veste –ormai acquisita alle certezze del Diritto canonico– di societas iuridice perfecta quanto hanno compiuto gli Stati, entità parimenti qualificabili nel loro ambito come societates iuridice perfectæ? Il Codice, cioè, si proponeva agli occhi dei sostenitori come l’affermazione e la dimostrazione coram omnibus del raggiungimento riconosciuto di quella perfectio».


Sulla scorta di tali finalità, tra i risultati concreti perseguiti e conseguiti dalla codificazione canonica nel suo insieme va collocata in primis la reale unificazione giuridico-normativa della Chiesa cattolica latina. La codificazione infatti, aveva profondamente ridimensionato l’importante distinzione strutturale tra Ius commune canonicum (in realtà solo europeo continentale fino al 1909) e Ius missionale: il Diritto canonico fu unificato anche su base territoriale divenendo ‘uno’ per l’intera Chiesa, com’era accaduto per gli Stati moderni, per quanto alle Circoscrizioni ecclesiastiche non ancora ‘complete’ si continuò ad applicare un’ampia serie di Norme specifiche configurate in gran parte come “Facoltà speciali” concesse alla Congregazione di Propaganda Fide (così è ancor oggi).


La ‘rincorsa’ teoretico-istituzionale allo Stato moderno europeo continentale da parte della Chiesa post-rinascimentale iniziata a Würzburg nel XVIII sec. –da cui era nato lo Ius publicum ecclesiasticum soprattutto externum– sembrava aver trovato nella codificazione canonica la propria tappa di eccellenza: la societas iuridice perfecta, infatti, avrebbe goduto –attraverso il Codice– i vantaggi della ‘perfezione’ anche strumentale e non solo ontologica: autoreferenziale dal punto di vista fondativo esterno (superiorem non recognoscens) ma autoreferenziale anche dal punto di vista giuridico interno attraverso l’unificazione codiciale dell’Ordinamento giuridico. La Chiesa, infatti, era concepita 


«una società vera e autonoma, ossia una società giuridica e non puramente morale, come voleva lo Stato liberale: detentrice per sua natura del dirito di esistere e di agire conformemente al suo fine, dotata di pieni poteri legislativi, giudiziari e coercitivi in grado di obbligare i fedeli tanto nel foro esterno quanto nel foro interno e, quindi, anche di imporre ad esi doveri giuridici che lo Stato deve riconoscere come tali».


Se in passato l’Autorità (pontificia) aveva gerarchizzato de facto la molteplicità delle Fonti imponendo come unico utilizzo legittimo ed efficace quello corrispondente alla sua ‘prassi’ –comunque ultimativa–, al presente e per il futuro sarebbe stata la Fonte legislativa pontificia unica ed universale (=il Codice) a garantire la preminenza della stessa Autorità in un mondo ormai non più riconducibile alla societas medievale, né capace d’intendere quel tipo di logiche istituzionali e giuridiche. Infatti era ormai lo “Stato” moderno e non più il “Regnum” medioevale a fare da paradigma (=analogatum princeps) socio-istituzionale di riferimento. Diceva già nel 1892 l’allora Patriarca di Venezia:


«come ogni società bene ordinata ha le sue Leggi, così la Chiesa istituita da Cristo società perfetta da qualunque altra distinta e indipendente ha le proprie Leggi, che nel loro complesso costituiscono il Codice del Diritto canonico».


Interessantissimo risulta in tal senso l’interrogativo di Fantappiè circa il riferimento a un determinato modello giuridico ed organizzativo nel promuovere un insieme di riforme di così altro livello di strategia ed organicità:


«un’ipotesi è che la concezione della sovranità posta alla base dello Stato accentrato europeo abbia, per certi aspetti, funzionato come un modello di “imitazione per contrasto” nella scelta della codificazione e nella strategia di riorganizzazione della Chiesa. Tratto dall’arsenale dello Ius publicum ecclesiasticum, il principio della perfectio o autarchia della Chiesa sembra avere ricevuto con Pio X una trasposizione compiuta di carattere spirituale nell’Ordinamento canonico e nella struttura ecclesiastica».


In tal modo Pio X decidendo per la codificazione del Diritto canonico mostrava consapevolezza che questa opzione –come già per le codificazioni statali moderne– diventava una scelta strategica ed un atto qualificante non solo per il governo della Chiesa universale, ma anche per la sua stessa ‘natura’ e percezione, grazie ai vantaggi più generali che potevano derivare tanto da un rinvigorito confronto ideale con gli Stati moderni, che da un accentramento romano della struttura ecclesiastica.


«La codificazione canonica s’inserisce appieno nel programma di riforma e restaurazione della Chiesa da parte di Pio X, consistente nel potenziamento dei controlli degli “organi centrali” della Chiesa sulle Chiese locali, nell’accentramento dei Seminari e delle Università, nella capillare regolamentazione di nuovi ambiti fino allora relativamente autonomi dal Diritto canonico: Catechismo, Liturgia, Musica, Sacramenti, Vita dei Fedeli, del Clero e dei Religiosi».


Nella stessa direzione si muove la “Prefatio” del Card. Gasparri allo stesso Codice, ma più ancora la sua stessa convinzione che l’opera codiciale


«sia talmente completa ed esauriente da non esserci bisogno di adattamenti alle situazioni particolari o alle diverse circostanze di luogo e di tempo, infatti alle stesse Sacre Congregazioni della Curia Romana era proibito emanare nuovi Decreti generali».


La funzionalità pratica, se non proprio la sistematizzazione e ‘correttezza’ teoretica, delle intuizioni collocate alla base della codificazione pio-benedettina conseguì poi i frutti sperati anche al livello più altro della ‘piramide’ giuridica: la recezione ab externo di quanto codificato ad intra. Di fatto


«grâce au Codex, le Droit canonique a fait sentir son influence bien au delà des limites de la société religieuse. Dans son œvrage sur la conception de la nullité de Mariage en Droit civil français et en Droit canonique moderne, Paris, 1938, p. 11, M. Pierre Berton relève l’influence surprenante qui a été accordée à la Législation canonique dans les différents Concordats conclus et Conventions passées après la guerre par le Saint-Siège avec les puissances séculières; Concordats et Conventions qui introduisent dans la Législation des États signataires plusieurs dispositions importantes du Code de Droit canon».


Il presupposto per un nuovo rapporto tra societates e non (più) tra Stati era posto. E quanto avrebbe contato di fatto proprio nel rapporto tra/con gli Stati (=le “Potenze”) lo si vide –nonostante tutto– di lì a poco attraverso l’instancabile attività ‘politica’ di Papa Benedetto XV in connessione alla conclusione del primo conflitto mondiale. Non di meno i Concordati assunsero un loro specifico profilo anche teoretico nelle relazione inter Societates (perfectæ).


3.3 Codificazione e storicità del Diritto

Tra gli elementi che hanno concorso in modo sostanziale a livello teoretico all’istanza codificatoria canonica offrendole un fortissimo pre-supposto teoretico –ed ideologico– pare ormai necessario (e finalmente possibile) collocare anche uno dei maggiori problemi teologici propri della Modernità e del c.d. post-moderno: il rapporto –della Teologia e mediatamente della Chiesa– con la Storia. La questione è chiara dal punto di vista della Teologia fondamentale, mentre non lo era affatto per l’Apologetica tradizionale: la storicità è dimensione ‘ontologica’ della creaturalità, appartenendo alla struttura (o ‘forma’) stessa degli esseri creati –e dell’uomo in quanto persona– e non, invece, agli accidentes che –più o meno– fortuitamente finiscono per ‘rivestire’ la realtà stessa, com’era considerato aristotelicamente (e, quindi, scolasticamente) il tempo. La stessa salvezza cristologica (=la Redenzione) si è realizzata ‘attraverso’ la storia e non solo al suo ‘interno’ come in un mero ‘contenitore’.

La deriva storicistica (e relativistica), però, imboccata dalla Teologia liberale (protestante -sic!) della seconda metà dell’Ottocento indussero nel pensiero cattolico una vera censura circa tale dimensione strutturale anche dell’ambito teologico, ponendo i chiavistelli alla c.d. Scuola cattolica di Tubinga ed imponendo forti limitazioni al pensiero filosofico-teologico non sufficientemente ‘metafisico’ e, perciò, ‘eterno’ (=atemporale, astorico).

Ne derivò da parte degli ambienti ecclesiastici occidentali della fine del XIX sec., una radicale difficoltà e sfiducia di principio verso ogni mutevolezza ed incostanza della ‘realtà’ –e della vita e riflessione ecclesiale– lungo lo scorrere del tempo che portarono ad una vera e propria frattura tra la dimensione/componente storica (tra l’altro in via di crescente affermazione lungo l’Ottocento) e quella filosofico-teologica. La recezione dogmatizzante –intensiva ed estensiva– della “Æterni Patris”, ben presto strappata al suo originario e necessario indirizzo ‘razionale’ ed ‘anti-fideistico’ e brandita a due mani per interrompere comunque qualunque elemento e/o velleità di ‘non-eternità’ connessa in qualche modo all’ambito cattolico ne sono triste esito. Non si ignori a tal riguardo come la codificazione canonica rientri perfettamente tra i molti strumenti della “tolleranza zero” verso il c.d. modernismo concepiti ed attuati dalla stessa paternità. Né, pertanto, come qualunque idea di “novità” o separazione dalla “sacra Tradizione”, strutturalmente presupposta alle codificazioni statuali, potesse essere né accolta né tollerata.


Pur non essendo certamente queste le premesse filosofiche da cui aveva mosso la codificazione civile ottocentesca (che, anzi, le contraddiceva programmaticamente), non di meno, un certo numero di sue caratteristiche apparentemente ‘tecniche’ si mostrava però altamente compatibile con le contingenze ecclesiastiche del momento: prima tra tutte la rottura con la casistica ed il dominio dell’operatività che il Codice napoleonico aveva espresso senza esitazioni. In tal senso il 


«cambio della forma dei Canoni dall’enunciazione della Norma nella forma casistica delle Decretali –dove la finalità era di dirimere un determinato caso speciale e da cui il privato Giusperito doveva dedurre una Norma generale da applicare– ad una enunciazione chiara e concisa – dove la Norma era espressa in modo generale e astratto, escludendo l’esposizione di tutti i principi e motivi nonché le considerazioni storiche»,


rispondeva proprio alla necessità di ‘fissare’ il Diritto al di là della storia. Il passaggio codiciale da “cose e fatti” a “principi e regole” rispondeva, infatti, perfettamente alla «visione oggettivante della fede e della Chiesa, secondo un modo di comprendere già assimilato sul terreno filosofico dalla Neoscolastica di fine Ottocento» in chiave razionalista e positivista. In tal modo si portava a compimento


«un processo plurisecolare in base al quale si abbandona definitivamente un concetto storico ed ordinante di Norma della Chiesa, contraddistinto da una singolare plasticità nell’applicazione al caso concreto –come ancora si trova nelle Compilazioni medioevali–, e le si attribuisce un carattere atemporale e uniforme promanante, secondo la concezione volontaristica moderna, dalla più alta Autorità umana nella Chiesa».


Quanto un Codice di Diritto canonico formalmente rispondente alle caratteristiche ideali(stiche) già indicate potesse ‘convenire’ o corrispondere a tale impostazione e linea programmatica non è difficile da immaginare: unicità, generalità, prevalenza, completezza, sistematicità, organicità, tipicità, preventività, esclusività, stabilità, pubblicità, semplicità, erano proprio gli ingredienti necessari per blindare le vie d’accesso alla turris eburnea ecclesiastica che ancora riusciva –fino a quando?– a levarsi al di sopra delle brume di tempi così nefasti e bui per la ‘vera religio’.

Che cosa, di più e di meglio, poteva chiedere un ‘Curio/Parochus’ posto a guardia dei guadi di frontiera di fronte all’incalzare del nemico? E fu proprio da una sacrestia parrocchiale che iniziò il lungo cammino che avrebbe portato a forgiare per ciascuno di tali ‘guardiani della fede’ (=i Parroci) uno degli strumenti più efficaci nell’incalzare della battaglia: il Codice: uno, generale, prevalente, completo, sistematico, organico, tipico, preventivo, esclusivo, stabile, pubblico, semplice… pontificio!


Di pari passo vanno poste e considerate le questioni connesse all’imperatività ed autoritarietà del fondamento del Diritto come tale: le stesse che troveranno poi in Hans Kelsen (1881-1973) il proprio maggior esponente e teoreta con la sua “Dottrina pura del Diritto” (dell’anno 1934); imperatività ed autoritarietà non certo estranee alle concezioni più espressamente ‘romane’ del ministero ecclesiastico e papale in particolare, aggiungendo alle caratteristiche codiciali già menzionate per l’inizio del secolo XIX quella dell’autoritarietà, un secolo dopo. Un’autoritarietà che in campo statuale risultava sempre più un ‘dato di principio’, essendosi progressivamente spostata dal Principe rinascimentale al Parlamento di metà Ottocento al popolo di fine secolo; un’autoritarietà che, invece, in campo ecclesiastico era divenuta sempre più un ‘dato di fatto’ collocata e blindata al vertice della gerarchia quale attribuzione ‘personalissima’ di quella suprema potestà pontificia che nel Concilio Vaticano I aveva celebrato i propri (ultimi) fasti anche dogmatici. Un Codice pontificio di Diritto (canonico) –come variamente richiesto in quei decenni– avrebbe goduto (e godette di fatto!) di prerogative metagiuridiche –cioè ontologiche e metafisiche– senza pari nella storia della Chiesa. La connessione ed interdipendenza, d’altra parte, tra una societas ed il ‘suo’ Codice non era dubitabile


«nel sapere e nel sentimento giuridico dell’età formativa dei Codici, che vi scorse alcunché di inerente alla stessa essenza unitaria del corpo civile, o meglio a processi di unificazione in pieno corso, e dunque un urgente problema intellettuale e politico».


3.4 Caratteristiche codiciali acquisite

La riflessione sulle nuove caratteristiche assunte dall’Ordinamento canonico in seguito alla codificazione porta a mettere in luce alcuni fattori che da quasi un secolo possono ritenersi assodati nella Chiesa cattolica risultando difficilmente rinunciabili in futuro. Si tratta, in primis, di preventività e generalità del Diritto, quali caratteristiche ormai acquisite anche per la vita giuridica della Chiesa: preventività intesa come capacità di ordinare le cose nel loro ‘farsi’, generalità come orizzonte a-specifico in grado di contenere a-priori ogni azione dei soggetti dell’Ordinamento giuridico, affinché nessun comportamento posto in essere dal singolo possa incrinare il necessario equilibrio che s’instaura tra i diversi membri della Comunità ecclesiale.

Tali caratteristiche però, oggi indiscusse, non sono sempre appartenute alla normatività ecclesiale, né costituiscono la sua unica ‘anima’ giuridica.


La questione è interessante poiché la storia del Diritto canonico antico e poi classico ha mostrato come le caratteristiche giuridiche funzionali originarie della Chiesa fossero di per sé tipicamente a-posteriori: come nel common Law. Il “Diritto delle Decretali” infatti era “on demand” e “on time”: accompagnava la vita, mantenendosi –non senza significato ‘ontologico’(!)– in coda alla vita, così come accade ancor oggi –genericamente– negli Ordinamenti anglo-sassoni, dove la ‘sede’ propria del Diritto non è il Parlamento ma il Tribunale, ed il Diritto traspare non tanto nella sua portata ‘costitutiva’ ma nella sua funzione prettamente ri-ordinativa e pacificatoria della vita quotidiana, ritrovando la propria autentica sorgente nell’Actio ben prima che nella Lex: nei singoli fatti della vita ‘vissuta’ e non nella generalità della vita ‘pre-vista’ o ‘pre-ordinata’. Al Diritto si ricorreva solo in caso di necessità… per ristabilire l’ordine ecclesiale violato, per risolvere qualche controversia, per chiarire definitivamente elementi contestati, in una concezione e funzione ‘rimediale’ –anziché strutturante– del Diritto, ancor oggi propria dei sistemi giuridici di common Law, sviluppati sul principio remedies precede rights”, corrispondente alla massima di Diritto romano “ubi remedium, ibi ius .

Il Diritto canonico codiciale, per contro, si è mostrato spesso un Diritto “off time”: pre-esistente, pre-scindente, pre-sumente, un insieme di species-facti astratte e di principio già date –come a-priori– alle quali la vita deve adattarsi (sul letto di Procuste del “dura Lex sed Lex” o dello “Ius quia iussum”) per poter essere presa in considerazione (attraverso la “sussunzione”) e sperare di trarne qualche esito concreto.


«En d’autres termes, la codification transpose le Droit du plan de l’expérience –selon le modèle du Droit romain classique qui adhérait à la réalité et cherchait la solution du cas dans la nature des choses en harmonie avec la tradition et les exigences supérieures de la justice– au plan de la construction abstraite - là où la solution du cas vient d’une norme déjà constituée dans un système dans lequel prédominent les relations logiques entre les “parties” et le “tout”. Dans cette perspective, le Code de 1917 se pose en nette rupture avec la tradition canonique, la Common law et les autres cultures juridiques qui ne dérivent pas du Droit romain».


Negli ultimi secoli, per di più, la vita ecclesiale è divenuta notevolmente più articolata e soprattutto attiva che in passato, e nell’ultimo secolo ancora maggiormente, ponendo in modo strutturale l’istanza organizzativa ecclesiale come prevalente rispetto a quella rimediale o pacificatoria di fatto sufficiente per il mondo pre-moderno o, se si vuole, per la situazione di c.d. Christianitas in cui il Diritto canonico classico si era sviluppato. Proprio questa, anzi, potrebbe rivelarsi un’adeguata chiave di lettura dell’evoluzione funzionale –e quindi metodologico-istituzionale– del Diritto canonico verso l’attuale configurazione codiciale, ‘giustificando’ come e perché si sia passati in modo apparentemente così repentino dalla precedente forma ‘giurisdizionale’ all’attuale forma legislativa (=codiciale) della giuridicità della Chiesa.


«Com’è stato possibile che la Chiesa abbia adottato –anche se a un secolo di distanza– la forma Codice che aveva trovato il suo indiscutibile modello in quel Code civil uscito dalla Rivoluzione francese e dallo statalismo di Napoleone. Non c’è in questo una contraddizione patente? In una recente sintesi storica sui Codici, Paolo Cappellini ha osservato come “il concetto di Codice modernamente dispiegato” presupponga “il radicale esaurimento per estenuazione dei “diritti di Dio”, il radicale accantonamento del binomio “Dio e il Diritto” e, a sua volta, implichi “il tentativo di offrire un vero e proprio “libro sacro” secolarizzato e contemporaneamente un “breviario” della nuova “religione civile” del citoyen (in parte, ma solo in parte, anche definibile quale “religione dei diritti dell’uomo” o della libertà [...]”.

Dunque: per quali vie e modi, con quali intendimenti e distanze critiche la Chiesa del Sillabo di Pio IX e del “nuovo Sillabo” (il decreto della S. Congregazione del Sant’Uffizio Lamentabili sane exitu, 3 luglio 1907) di Pio X ha potuto adottare e imitare uno strumento che era considerato il simbolo per eccellenza tanto della secolarizzazione del Diritto, della società e dello Stato, quanto della negazione quasi assoluta della sfera di vigenza del Diritto canonico negli Stati dell’Europa e dell’America Latina?»


Un’attenzione di carattere sociologico alla Storia dell’Europa moderna potrebbe indicare quale via di risposta la secolarizzazione (in realtà: de-cattolicizzazione) della Societas christiana che per oltre dieci secoli aveva goduto del supporto istituzionale e normativo della struttura ‘civile’. In una società naturaliter religiosa come quella antica e poi medioevale, le vere quæstiones disputatæ cui l’una societas come tale non fosse in grado di rispondere erano davvero poche, cosicché le necessità reali del vissuto ecclesiale in attesa di soluzione giuridica espressamente ‘canonica’ si riducevano a pochissime, tranquillamente gestibili in via giurisdizionale (pontificia) quasi-suplettiva. D’altra parte, p.es., la riserva di Foro o i Tribunali dei pari non applicavano Diritti diversi da quello ‘comune’ vigente.

Come già detto: all’interno della Societas christiana in cui gli elementi normativi tendevano ad una sostanziale unitarietà –come d’altra parte la stessa società civile-religiosa– a molti ambiti di vita dei Christifideles (che coincidevano coi Cives) provvedeva la giuridicità ‘ordinaria’: quello Ius commune in grado di trovare soluzioni per quasi qualunque vicenda potesse turbare la quiete della società e/o della comunità anche ecclesiale. La commistione dei poteri civile e religioso risultava normalmente sufficiente a gestire praticamente ogni circostanza, così come l’abbondante Normativa –che oggi chiameremmo “ecclesiasticistica”– sia giustinianea che carolingia comunque ‘contenuta’ nelle basi normative ‘civilistiche’ dell’unum Imperium. Solo le questioni più complesse e di specifica natura ‘ecclesiastica’ (per quanto nelle materie più differenti, ed anche bizzarre) necessitavano di una specifica istanza pontificia: la Decretale, appunto.

Proprio ‘questo’ stato di cose –a forte ‘esternalizzazione’ normativa e coattiva– potrebbe essere riconosciuto anche alla base del rifiuto luterano di un vero Diritto all’interno della Chiesa, in quanto risultava già comunque sufficiente l’intervento ordinario del ‘Principe’ (sempre e comunque ‘cristiano’) a risolvere i diversi problemi concreti. Lo stesso principio di regionalizzazione religiosa attuato dalla Pace di Augusta (1555) favoriva tale configurazione anche giuridica della vita ecclesiale.

Non di meno, molti degli elementi che già strutturavano l’Ordinamento ecclesiale in modo ‘preventivo’ si trovavano non nella ‘Legge’ ma nella Consuetudine progressivamente sorta e stabilizzatasi luogo per luogo, spesso secondo la logica intrinseca del Diritto consuetudinario per la quale ciò che non crea alcun problema giuridico finisce per non ‘risultare’ neppure a livello di Diritto come tale: nulla quæstio = nullum Ius.


La graduale secolarizzazione e laicizzazione della società europea con le fragorose rotture francese, italiana e prussiana, ha però progressivamente messo in evidenza il bisogno per la Chiesa cattolica di dotarsi di una sorta di sistema giuridico preventivo in grado di guidare a-priori la vita comunitaria ecclesiale cercando d’impedire addirittura l’insorgenza di problemi e dispute che –ora– sarebbero stati ben più difficili da gestire e risolvere in rapporto o relazione con una pubblica Autorità statuale sempre oscillante tra il disinteresse e l’ostilità nei confronti della Chiesa e delle sue istanze.


«Nell’Ottocento il Diritto canonico vive una profonda crisi per varie ragioni esterne e interne alla Chiesa. Quelle esterne sono il progressivo costituirsi dello Stato liberale che non riconosce il valore giuridico delle Norme della Chiesa, e il diffondersi in Europa di un anticlericalismo radicale. Le ragioni interne della crisi si possono riassumere in una sola: l’insinuarsi nella formazione soprattutto dei chierici (per i quali lo studio del Diritto era un’appendice della Teologia morale) dello spirito di episcopalismo, gallicanesimo e giuseppinismo. Soltanto la dichiarazione definitiva sul primato e l’infallibilità del Papa del Concilio Vaticano I allontanò le concezioni giuridiche influenzate dal gallicanesimo e dal febbronianesimo, sollevando l’esigenza di riformare la Legislazione della Chiesa o mediante la codificazione oppure con la revisione del Corpus Iuris canonici».


Quanto il Codice di Diritto canonico abbia costituito una vera e propria chanche per la Chiesa cattolica in tale prospettiva di prevenzione non appare difficile da immaginare. Fu pertanto l’unificazione ‘teoretica’ dell’Ordinamento ecclesiale divenuta necessaria durante l’Ottocento a rendere inevitabile l’assorbimento (e non l’esclusione!) della maggior parte degli ambiti di Diritto comune e consuetudinario all’interno del Codice, in ragione della sua generalità.


«D’autre part, il ne faut pas isoler le changement de paradigme de la norme canonique par rapport au contexte qui l’a produit et ce en raison des liens étroits entre les différents niveaux de la forme “Code” et les changements internes à la progressive constitution de l’Église. Il faut souligner que la codification a favorisé la centralisation de la législation et des organismes du gouvernement de l’Église, et a fait progresser le processus de romanisation des Églises particulières».


Né risulta difficile ad oggi comprendere come poco probabilmente si potrà recedere da tale strumento normativo.


3.5 Autonomia e peculiarità del Codice canonico

Quanto tuttavia la prospettiva teoretica ed ‘ideale’ effettivamente recepita nella codificazione canonica guidata dal Card. Gasparri fosse e sia stata radicalmente diversa dalla Teoria codificatoria statuale ottocentesca lo si può cogliere, a partire da alcune considerazioni strutturali –e perciò sfuggite o non evidenti al suo ‘nume’– nelle quali traspare con chiarezza come l’opera del Card. Gasparri non sia, in realtà, un “Codice”! O, almeno: se lo è secondo profili di qualche significato “formale”, non lo è certamente nella sostanza e tanto meno nei presupposti, come visibile nella considerazione delle principali istanze codiciali.

Ciò sposta però la questione sull’inadeguata dialettica tra forma e sostanza –tipica della Modernità ma– non accoglibile né dal punto di vista ontologico (ogni ‘ente’ infatti è materia+forma), né da quello complessivo-valutativo poiché non risponde conclusivamente alla domanda: Codice sì o Codice no?


a) La prima e maggiore caratteristica codiciale moderna è la esclusività: è questa l’elemento decisivo nella caratterizzazione del Codice ottocentesco; essa infatti opera il vero salto di qualità per l’identità del Diritto che il Codice conterrà: non più ricezione immediata dell’ordinamento vitale storico (vario e plurimo) proveniente dalla Consuetudine o dal Diritto comune o dalle altre Fonti suppletive (tra cui il Diritto romano, il Diritto naturale e forse anche il canonico) ma imposizione autoritaria di un “nuovo ordine” sovrano e totalizzante, rispondente a principii, criteri, parametri e valori giudicati ‘nuovi’ rispetto al passato, in una discontinuità di principio che vorrà imporsi anche all’incontestabile continuità –invece– del vivere secundum Ius a livello sociale. Osserva in merito lo stesso Fantappiè come


«la distanza del suo modo di vedere [di Gasparri -ndr] tanto dall’orientamento giansenistico-illuministico del Code Napoléon quanto da quello positivistico del BGB […] resta comunque assai grande. Inoltre va considerato che la tendenza verso la formalizzazione del Diritto canonico era, per tanti aspetti, implicita nella sua evoluzione storica».


b) Il secondo grande principio codiciale va ravvisato nell’unicità: la Legge è uguale per tutti.


«Il rapporto fra principio di uguaglianza e codificazione del Diritto è evidente: i cittadini, per essere uguali fra loro, debbono essere assoggettati tutti ad una medesima Legge; e la Legge, per essere uguale per tutti, deve essere formulata nei termini più generali ed astratti: riferirsi, senza discriminazione, a chiunque e riguardare, senza distinzione, qualsiasi fatto».


Che questa non potesse certo essere la prospettiva ‘ecclesiologica’ del Gasparri o di Papa Pio X all’interno dell’orizzonte (tridentino e) antimodernista, pare assolutamente incontrovertibile, tanto in linea di principio per cui chierici e laici non erano ‘trattati’ allo stesso modo (principio della societas inæqualium, cfr. C.I.C.-17, Can. 107), tanto in linea di fatto nella limitazione intrinseca alla portata legislativa del Codice pio-benedettino stesso che «ipse tamen unam respicit Latinam Ecclesiam, neque Orientalem obligat, nisi de iis agatur, quæ ex ipsa rei natura etiam Orientalem afficiunt» (C.I.C.-17, Can. 1). Un incipit che suona come espressa sconfessione del principio di unità dell’Ordinamento (per quanto, allora non ancora chiamato così) da concretizzarsi attraverso l’unicità del Codice. Non meno parzializzanti risultavano i Cann. 2-5 dello stesso Codice coi quali se ne escludeva: [a] il Diritto liturgico come tale, [b] il Diritto concordatario, [c] i diritti e gli ‘Statuti’ individuali, [d] una parte significativa del Diritto consuetudinario.

Di fatto, poi, canonicamente era certo che l’una societas –inæqualium– era retta da almeno due complessi legislativi ‘ordinari’ differenti, uno soltanto dei quali (quello latino) sottoposto a codificazione… almeno al momento.


c) Il nuovo Stato ottocentesco, per di più non è solo ‘uno’, ‘unitario’ ed ‘egualitario’ (a differenza del Regnum medioevale) ma è anche “etico”: fonte autopoietica, cioè, del –proprio– buono e giusto e suo totale garante, indipendentemente dalla propria origine e legittimazione, sia essa ‘rivoluzionaria’ o di Ancién Regime. Nel Codice è l’assoluta autoreferenzialità assiologica a regnare sovrana ed in modo costitutivo e ciò al prezzo e sul presupposto della nuova origine del suo Diritto –superiorem (vetus) non recognoscens– per una nuova (o rinnovata) società, mettendo al bando ogni elemento o fattore ‘metagiuridico’ e/o storico. D’altra parte il Codice di matrice razional-illumistica vorrebbe essere un vero sistema geometrico, calcolato e misurato in tutto, frutto di ragionamenti rigorosi e deduzioni immediate dai principi primi della stessa “Ragione”. Null’altro che la ragione alla base del Codice, concepito come strumento sacrale affidato dalla stessa dea al vate e sacerdote dell’Autorità statuale per iniziare –finalmente– un’era nuova dell’umanità ormai adulta e libera dalle fasce tiranniche delle antiche nutrici (ecclesiastiche). Il Giusnaturalismo rinascimentale [sec. XVI] (proto-razionale e volontaristico) era ormai divenuto Giusrazionalismo [sec. XIX], prima dell’ulteriore metamorfosi nel Giuspositivismo volontaristico [sec. XX, prima metà] per giungere all’attuale Giuslegittimazionismo in cui il Diritto è ostaggio delle volontà di massa nel quotidiano baratto tra ‘diritti’ e Politica.

Per quanto riguarda il Codice canonico va osservato che, nonostante il forte prezzo ‘formale’ pagato alla fondazione giusnaturalistica della “società ecclesiale” –secondo un movimento di radicale ‘naturalizzazione’ della Normativa giuridica ecclesiastica progressivamente allontanata dalla Teologia e portata ad assumere Istituti e linguaggi propri della giuridicità civile coeva–, la portata e la radicalità del contesto spiritualistico e moralistico ecclesiastico generale (il c.d. intransigentismo) in cui tale ‘strumento’ s’inseriva non possono certo essere messe in discussione.


Si concluda pertanto serenamente che


«codificatio igitur in Ecclesia propriam formam habet, præsertim quia, statice et simul dynamice, ex integro obsignatur Legis divinæ sigillo […] inter Ecclesiæ et Rei Publicæ codificationes non potest tanta similitudo notari, quin inter eas maior sit dissimilitudo notanda»!


Per contro, e senza possibilità di facili ridimensionamenti, va riconosciuto come ben poca parte di tali presupposti e caratteristiche sia stata accolta e realizzata nella prima codificazione canonica che espressamente e tecnicamente conteneva quasi solo “Ius vetus” –per quanto parzialmente integrato secondo le necessità dei tempi–, contraddicendo nei fatti la linguistica utilizzata dopo la sua promulgazione; linguistica secondo cui lo “Ius Decretalium” sarebbe stato “vetus” e quello del Codexnovum”.

Il fatto non va sottovalutato a livello metodologico e sostanziale poiché in realtà lo “Ius novum” del Codice è soltanto quello “vetus” riassunto e riformalizzato secondo la sistematica dello strumento codiciale anziché quella delle Decretali, non costituendo in tal modo alcuna reale ‘novità’ sotto il profilo dell’origine del Diritto, delle sue Fonti effettive e dei suoi contenuti ormai assodati.

Nonostante infatti nelle intenzioni del Pontefice la codificazione non fosse soltanto «un semplice riflesso del Ius constitutum, ma anche un’operazione di Ius condendum, un processo ad un tempo di selezione e di rinnovamento delle Norme», tale «reformatio Iuris di Pio X rientrava perfettamente nella tradizione giuridica della Chiesa allorché mirava a combinare il vecchio e il nuovo complesso normativo, secondo una tecnica ampiamente collaudata nell’esperienza medievale» che aveva visto il Legislatore formale (il Papa) ‘produrre’ nuove Norme ad hoc su richiesta espressa del Legislatore materiale che stava elaborando lo status quo del Diritto vigente …togliendo contraddizioni e colmando falle. Un’attività del tutto simile –ed in continuità– a quella di Raimondo di Peñafort per Gregorio IX, quando raccolse e riorganizzò il ‘corpus’ legale delle “Quinque compilationes antiquæ” nel Liber Extra tagliando, cucendo ed integrando il Diritto sostanziale giunto a quel momento… come avrebbero fatto qualche secolo dopo le c.d. codificazioni consuetudinarie rinascimentali anche in ambito civilistico. Non di meno furono più di uno i Provvedimenti generali promulgati da Pio X durante i lavori codificatori in modo da fornire al Gasparri il materiale dispositivo ‘attuale’ con cui integrare le parti ormai carenti dello Ius vigens .

Proprio in questo stesso ‘spirito’ –presupposto, e perciò praticamente mai dichiarato dai suoi protagonisti– «le processus de simplification, d’homologation ainsi que d’unification de la variété des Normes ecclésiastiques», rigorosamente essenziale alle codificazioni civilistiche, non fu in realtà realizzato che moderatamente in campo canonico ed in chiave prevalentemente logico-sistematica.


«La prise de distances envers la version totalisante des codifications civiles s’opère à travers une utilisation modérée des processus d’abstraction et de logicisation, ainsi que grâce à la référence au Ius vetus (Can. 6) et à certaines soupapes de sûreté, c’est-à-dire les principes de Droit divin, naturel et positif, le Droit non écrit et en dehors du Code».


E proprio sul Diritto extra-codiciale occorre soffermare l’attenzione; infatti


«ciò che […] impedisce radicalmente un’assimilazione di queste costruzioni normative ad un Codice (inteso nel senso tecnico moderno del termine) è sopratutto il fatto che esse presuppongono necessariamente la sopravvivenza del Diritto comune e dei Diritti particolari, e da queste Fonti tollerano di essere sistematicamente integrate nei casi e nelle materie non direttamente disciplinati. In sostanza esse non si sostituiscono al regime di Diritto comune, ma pur rimpiazzandone una parte cospicua, si inseriscono nel pluralistico sistema di fonti in cui quel regime si sostanzia. È qui assente un tipico requisito moderno, vale a dire la non eterointegrabilità del Codice».


Ma è nell’ambito del rapporto con le ‘Fonti’ giuridiche pregresse che il Can. 6 del primo Codice latino apporta le novità più considerevoli rispetto alla presunta ideologia codificatoria canonica: la Legislazione ‘particolare’, oggetto in ambito civilistico della più viva opposizione da parte del Codificatore statuale che pretese di eliminare ogni ‘altra’ Fonte del Diritto, non viene eliminata dal Codice canonico –che quindi riduce grandemente la propria pretesa ‘esclusività’– se non quando contraria all’attualità espressa dal Codice stesso, che potrebbe, tuttavia, anche disporre diversamente in casi specifici (cfr. Can. 6, 1°). Anche lo Ius vetus in sé e per sé non perde molto del proprio valore, almeno interpretativo, come ben dimostra la gravosa attività –risultante palam dello stesso Card. Gasparri– della predisposizione della raccolta delle Fonti dopo il 1917, tanto più che al n. 4° dello stesso Canone si afferma che, in caso di dubbio per la discrepanza tra la Norma codiciale e quella precedente: «a veteri Iure non est recedendum»! 


In tal modo il Can. 6 del Codice gasparriano saldava ex Lege la continuità strutturale ed ‘ontologica’ tra l’origine sostanziale del Diritto codiciale (=il Diritto canonico ‘classico’) e la sua espressione formale nel Codice. Come anche già accaduto in precedenza per il Liber Extra ed il Liber Sextus: le Norme rimangono le stesse, ne cambia l’autorevolezza ed il bilanciamento reciproco a causa dell’intervento diretto del Legislatore che ne parifica la ‘qualità’ originaria e le rende ‘contemporanee’, mentre nelle diverse Collectiones ogni Norma conservava la natura ed autorevolezza a lei proprie in ragione dell’origine: proprio ciò a cui cercarono soluzione sia Ivo di Chartres con la sua consonantia che il Magister Graziano con la sua concordia (discordantium Canonum).


«L’autorità del C.I.C. è definita nella citata costituzione Providentissima. Ai termini di essa, il C.I.C. deve dirsi una Collezione autentica, universale ed esclusiva. Tutte le Leggi pertanto che vi sono contenute sono obbligatorie per tutta la Chiesa latina, né importa se in precedenza fossero Leggi particolari generali o Norme consuetudinarie, o se la loro provenienza sia da fonti spurie. Le Leggi contenute nel C.I.C., anche se sorte in precedenza in epoche diverse o di diversi Legislatori, hanno la stessa forza obbligatoria, come tutte promulgate nel medesimo istante. Il C.I.C. può anche dirsi una collezione esclusiva, perché abroga tutte le Norme legali o consuetudinarie che non riproduce esplicitamente o implicitamente (can. 6). Non è però esclusiva in senso assoluto, perché lascia in vigore: il Diritto ecclesiastico orientale; le prescrizioni strettamente liturgiche; il Diritto concordatario; il Diritto consuetudinario immemorabile o centenario, anche se ad esso contrario, purché in tal caso non sia riprovato espressamente e sia tollerato dagli Ordinari; il Diritto particolare anche contrario al C.I.C.; i diritti quesiti, i privilegi e gl’indulti apostolici ancora in uso e non espressamente revocati».


Sarà, invece, il Codice latino del 1983 a non integrare più in modo costitutivo il passato, costituendo un vero “novum”, senza tuttavia escludere lo Ius vetus come tale –considerato in realtà già assunto ed assimilato nei Canoni del primo Codice– ponendolo a livello di mens Legislatoris per l’interpretazione per le Norme provenienti dal Diritto canonico ‘classico’ (cfr. nuovo Can. 6).


3.6. La seconda codificazione ed il vero “Ius novum”

Realtà assolutamente diversa da quella pio-benedettina e dall’incompleta prima codificazione orientale si rivelò quella messa in moto dal Concilio Vaticano II che, di fatto, impose alla revisione codiciale canonica un radicale salto di qualità rispetto a quello della prima codificazione; salto di qualità che potrebbe apparire almeno in parte ‘regressivo’ dal punto di vista sostanziale rispetto al Codice pio-benedettino a causa del farsi maggior spazio nei Codici revisionati di alcuni degli elementi già individuati come caratterizzanti il Codice come tale, ancora assenti nel lavoro di Gasparri.

I Codici post-conciliari, infatti, mostrano una rispondenza all’idea sostanziale di Codice ottocentesco molto più marcata dei primi Codici canonici, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra Fonti ‘tradizionali’ e novità conciliari. Il numero stesso delle disposizioni codiciali assolutamente nuove è significativo in merito: 415 Canoni completamente nuovi su 1.752 totali del Codice latino del 1983 (circa 23%), nonostante il numero dei Canoni stessi sia diminuito di ben 662 (da 2.414 a 1.752).

Siano permesse due macro-osservazioni in merito.


a) Per quanto riguarda il rapporto con le Fonti tradizionali del Diritto canonico –come già anticipato– il vero “Ius novum” non fu affatto quello contenuto nel Codex Iuris canonici del 1917 (come si sostenne al tempo), ma quello del nuovo Codex promulgato da Giovanni Paolo II. Mentre, infatti, il primo Codice latino riorganizzò le Fonti del Diritto vigente, il secondo riorganizzò la Chiesa stessa attraverso un Diritto rinnovato ed innovatore. Il nuovo Can. 6 ne dà una prova; nella stessa linea va considerata la sorte riservata oggi alla Consuetudine (Cann. 23-28) praticamente eliminata quale Fonte ‘primaria’ del Diritto e relegata a sola “interprete” –per quanto “ottima”– della Legge già autonomamente esistente (cfr. Can. 27).

Da questo punto di vista, la seconda codificazione latina assomiglia molto maggiormente alla riforma ecclesiale operata dai Decreti di Trento che non a quella messa in atto dal Card. Gasparri. Concretamente il moto che si coglie nelle due attività conciliari è lo stesso: dal Concilio alla Chiesa alla Pastorale; operazione che a Trento rimase interna all’Assise conciliare stessa sviluppandosi attraverso l’esecutività immediata dei Decreti di riforma da parte della Curia Romana e che nel sec. XX comportò altri vent’anni di lavoro a Concilio finito, per quanto in realtà le maggiori modifiche all’Ordinamento fossero già state introdotte dai Decreti conciliari stessi (Christus Dominus, in primis); modifiche disorganiche e parziali, poiché spesso solo abrogative o programmatiche, alle quali Paolo VI cercò di conferire organicità e concreta vigenza col m.p. “Ecclesiæ Sanctæ” già nell’anno 1966.


b) Proprio nella linea dell’affermazione di elementi tipici della visione codiciale ‘moderna’ non si può trascurare come nei Codici canonici post-conciliari il principio ugualitario abbia conseguito un ruolo impensabile ai tempi dello Ius publicum ecclesiasticum: l’uguaglianza dei fedeli, infatti, è ormai principio ‘costituzionale’ canonico, fondato su base sacramentale nel Battesimo. Il fatto è di tutta evidenza e costituisce dal punto di vista teoretico e fondativo un altro elemento di forte differenza non solo tecnica rispetto alla codificazione del 1917 tendendo ad avvicinare i Codici canonici attualmente vigenti a quelli statuali non solo nell’aspetto formale. Con ciò non si può certo dedurre che l’uguaglianza tra i fedeli sia un valore rinunciabile, si osserva tuttavia che anche questo elemento contribuisce a distaccare la Normativa canonica attuale da quella ‘classica’ ampliando la distanza sia pratica che teoretica col Codice del 1917 e manifestando in pieno il novum dello Ius post-conciliare. Un novum non ideologico (=come quello giacobino francese) ma dogmatico o, forse meglio, costituzionale che adatta le Norme ordinarie dell’Ordinamento canonico (anche di chiara provenienza storica) alla nuova percezione e concezione di sé acquisita dalla Chiesa conciliare.


Ciò nonostante, non paiono esistere dubbi sul fatto che il salto di qualità delle codificazioni canoniche post-conciliari, possa comportare qualche rischio teoretico o ideologico, ponendosi ormai all’interno di un ambiente culturale completamente depotenziato rispetto all’idea stessa di Codice di un secolo fa; idea divenuta ormai assolutamente ‘tecnica’ e ‘funzionale’, completamente spoglia delle valenze razionalistico-autoritarie ottocentesche, come ben dimostrano le trasformazioni che gli stessi Codici statuali europei della seconda metà del XX secolo presentano rispetto alle proprie prime ‘edizioni’. Non di meno: oggi non esiste più una idea propriamente detta di Codice, né alcuna specifica ‘teoria’ al riguardo: il Codice è semplicemente un modo possibile –e plausibile– di organizzare complessi dispositivi di una certa ampiezza e stabilità che, per loro natura funzionale, costituiscono istanze privilegiate di riferimento dispositivo di portata generale, costituendo di fatto i pilastri di qualsiasi Ordinamento giuridico statuale c.d. di civil Law.


«Durante el siglo XX ha cambiado el modo de concebir esa figura en el ámbito de la doctrina jurídica y en la praxis de los Estados. En efecto, desde hace décadas asistimos a una crisis de la codificación: ed Código no es ya la totalidad, o casi, del Ordenamiento jurídico, sino un elemento más entre muchos, integrado en un conjunto de Fuentes normativas, a menudo de carácter muy sectorial y que se mueven aen diversos niveles».


Si aggiunga a ciò il fatto che il codificatore canonico post-conciliare –a differenza del suo predecessore– non si è posto un concreto problema a riguardo delle Fonti giuridicshe antiche: la loro appartenenza, infatti, all’Ordinamento non può essere messa in dubbio poiché la loro rilevanza sostanziale è ormai pienamente incorporata alle Norme codiciali stesse. Non si sottovaluti neppure il fatto che la ‘nuova codificazione’ si è presentata in realtà –ed è stata concretamente– una ‘revisione’ dei Codici precedenti. Revisione che, a causa della propria continuità col passato, non comporta affatto il rimetterne in discussione i principi ispiratori, né implica scelte teoretico-fondative differenti.



CONCLUSIONE

Rientrando, per così dire, alla base dopo questo lungo tour intorno a vari aspetti della prima codificazione canonica (latina), esaminati nelle loro potenzialità, rischi e peculiarità, diventa necessario consegnare i risultati della propria fatica a chi si trova oggi impegnato proprio nel lavoro giuridico di raccolta e sistematizzazione dello Ius proprium.

Alcuni tratti emergenti dal punto di vista teoretico.


a) Molte delle considerazioni svolte sulla codificazione canonica portano a considerare come oggi il Codice (tutti i Codici) non sia più lo strumento politico ideologico ottocentesco per l’imposizione di un ‘novus ordo’ socio-politico eversivo rispetto a quello precedente (vetus/ancien); tanto più che la Comunità ecclesiale –a differenza di quelle statuali– non può considerarsi tale se non all’interno di una viva Traditio che ne garantisca proprio la continuità dogmatica prima che quella sociale. Dal punto di vista generale va poi considerato che il Codice di seconda generazione –anche canonica– è ormai divenuto soltanto uno “strumento tecnico” di strutturazione funzionale dell’Ordinamento giuridico come tale, il quale in vasta parte ne risulta essere una conseguenza. E lo stesso avrebbe dovuto essere anche quello iniziale.

Per i Codici attuali, inoltre, non si pone più la precedente istanza costitutiva e problematica circa il rapporto inclusivo o esclusivo con le Fonti del Diritto, soprattutto tradizionali e proprie, poiché essi stessi partecipano delle stesse Fonti in modo privilegiato, per quanto non isolato. La concreta portata, poi, della Giurisprudenza (di qualunque ordine e grado) e delle Disposizioni sovra-ordinamentali (p.es.: il Diritto comunitario europeo) azzerano alla radice qualunque eventuale differente pretesa… tanto che oggi riflessioni e questioni come quelle riguardanti la prima codificazione sarebbero assolutamente fuori posto.

In tal modo la codificazione, se con evidenza ha mutato il modo di ‘fare Diritto’ nella Chiesa, non ha però mutato i suoi contenuti più specifici lasciando impregiudicata la dipendenza del Diritto ‘attuale’ dalla sue Fonti tradizionali, risultandone sviluppo ed attualizzazione. È questo che permetterebbe ancor oggi una “codificazione” del Diritto particolare-tradizionale senza timori d’insorgenza di veri problemi sostanziali.

b) In riferimento alle Fonti giuridiche delle Chiese orientali sui Iuris da sottoporre a ‘sistematizzazione’ è necessario distinguere lo Ius proprium dallo Ius traditionale. Mentre infatti il primo (=proprium) indica il Diritto vigente negli ultimi secoli all’interno di tali Chiese, il secondo (=traditionale) indica il Diritto in qualche modo ‘originario’ di tali Comunità prima che gli influssi ed apporti latini o ‘latinizzanti’ post-tridentini e della prima codificazione canonica orientale inserissero nel già amplissimo novero delle Fonti del Diritto orientale anche ciò che “proprio” non era mai stato. La questione è espressamente conciliare –e pertanto sconosciuta alla redazione del C.I.C.O.– poiché fondata sulla prescrizione di “Orientalium Ecclesiarum” n. 6 che sollecita gli Orientali a «conservare i loro legittimi riti liturgici e la loro disciplina […] e qualora per circostanze di tempo o di persone fossero indebitamente venuti meno a esse, procurino di ritornare alle avite tradizioni». Lo stesso Decreto conciliare impone in proposito di distinguere tra una “organica progressio” della tradizione disciplinare (e liturgica) propria ed elementi introdotti dall’esterno, sia per intervento dell’Autorità ecclesiastica che per ‘contaminazione’ socio-culturale, soprattutto nei territori di c.d. diaspora all’interno della cattolicità latina; territori nei quali si esige la necessaria moderazione «nei confronti dei fedeli che per ora, eventualmente, fossero meno preparati ad abituarsi ad un repentino cambiamento» di abitudini (soprattutto liturgiche) ormai quietamente assunte, per quanto non rispondenti all’ethos della propria tradizione.

c) Non di meno potrebbe valer la pena chiedersi oggi se sia proprio una “codificazione” l’attività normativa da porre in atto in sede locale/particolare.

Come visto, infatti, l’idea di “codificazione” suppone e comporta orizzonti di organicità, completezza e sistematicità non sempre ipotizzabili in ogni campo del Diritto, soprattutto quando/dove esista già un Codice di Diritto comune (il C.C.E.O.) all’interno del quale la Normativa propria deve comunque collocarsi, pur con tutte le proprie peculiarità. L’appartenenza, inoltre, di una Chiesa sui Iuris ad un contesto ‘rituale’ più ampio già dotato di un proprio Ius commune ‘proprium’ specifico della Tradizione di riferimento rende ancor più complessa tale attività soprattutto in ragione della condivisione con altre Chiese sui Iuris della maggior parte delle Fonti dispositive tradizionali che dovranno, pertanto, essere utilizzate in modo più omogeneo e condiviso possibile. Per questo dover delineare ed armonizzare le Norme del Diritto tradizionale vigente in modo da renderle organiche tra loro così da poter dare corpo ad un ‘Codice’ del Diritto proprio, potrebbe creare nella fase elaborativa problemi metodologici e pratici di grande rilievo difficilmente risolvibili da parte di una sola Chiesa all’interno della koiné rituale.

In questo caso la vera alternativa metodologica non si pone –come alle origini– tra Collezione e Codice, ma tra compilazione ed integrazione: autonoma la prima, dipendente la seconda, rispetto alla struttura ed ai contenuti del C.C.E.O.



Dal punto di vista prettamente operativo si possono dare qui soltanto alcuni suggerimenti tecnici, in qualche modo complementari a quanto già più ampiamente delineato dal prof. Péter Szabó nel suo intervento in occasione del ventesimo anniversario delle promulgazione del C.C.E.O.


a) La prima attività cui porre mano con scrupolo ed attenzione consiste nella raccolta completa e nella verifica delle Fonti del Diritto tradizionale/proprio –Consuetudini comprese– senza che il valore specifico (=auctoritas) delle singole Norme di riferimento possa influenzarne la concreta presa in considerazione.


b) Un tale lavoro non può essere adeguatamente distinto –né tanto meno disgiunto– dalla meticolosa raccolta ed organizzazione anche del materiale d’interesse storico riguardante la Chiesa sui Iuris di cui ci s’interessi. Sono stati spesso i fatti storici, infatti, a generare specifiche situazioni del tutto particolari di una Eparchia o altro territorio o Comunità di fedeli che hanno poi portato all’adozione (attiva o passiva) di determinati Provvedimenti dispositivi (favorevoli o restrittivi) entrati a far parte –almeno– della prassi condivisa e, spesso, ininterrotta. Allo stesso modo, lungo i secoli sono stati spesso Provvedimenti di natura civile a condizionare lo status e quindi l’operatività di diversi soggetti, tanto persone che enti/Istituzioni. La conoscenza consapevole delle cause e delle circostanze delle Norme, oltre all’effettiva potestà normativa in Ecclesia di chi le ha emanate, saranno di grande aiuto per valutare la loro –effettiva– attuale vigenza.


c) L’elemento più specifico della codificazione canonica è stato senza dubbio quello concettuale: la ‘scelta’, cioè, della parte dispositiva contenuta nei testi antichi/tradizionali e la sua riformulazione in termini di principi dispositivi generali ed astratti attraverso formulazioni brevi e chiare, eventualmente correlate tra loro. In tale attività può essere utile riferirsi alla terna sistematica che guida il passaggio logico dalla Fonte tradizionale (spesso discorsiva) alla Norma di stampo codiciale: “quid-quis-quomodo”. 


d) La scelta della “compilazione” dello Ius proprium dovrà avvalersi di un metodo (classificabile come ‘induttivo’) che partendo dalla lettura attenta di tutte le Fonti tradizionali del Diritto proprio ritenute vigenti ne estragga e formuli il singolo contenuto dispositivo.

Le Norme così ottenute andranno poi suddivise per materia ed armonizzate tra loro per costruire un vero e proprio ‘sottosistema’ giuridico in qualche modo autonomo (=Ordinamento giuridico secondario) proprio della Chiesa sui Iuris in questione; ‘sottosistema’ giuridico che andrà poi correlato con quanto già fissato a livello di Diritto comune nel C.C.E.O. (v. infra).

Un tal genere di attività, pur presentando un valore scientifico indiscutibile (corrispondendo alla metodica applicata anche nella codificazione pio-benedettina), non riuscirebbe tuttavia di grande efficacia pratica, comportando un lavoro complesso ed esteso e lasciando intravedere parecchie dispersioni, risultando alla fine sovradimensionato ai soli fini specificamente normativi, soprattutto a causa del rapporto di non prevalenza di molte delle Norme così emerse rispetto al C.C.E.O.


e) La scelta di sistematizzare lo Ius proprium in modalità “integrativa” dovrà avvalersi di un metodo, più semplice (classificabile come ‘differenziale’), che partendo dalla lettura attenta di tutte le Fonti tradizionali del Diritto proprio ritenute vigenti le suddivida per materia secondo la sistematica del C.C.E.O., Titolo per Titolo, verificando di Fonte in Fonte l’esistenza di Disposizioni ‘proprie’ differenti rispetto a quelle del Diritto comune già codificato; successivamente si provvederà ad estrarne e formularne il singolo contenuto dispositivo che si porrà a completamento o specificazione di quanto già disposto dal C.C.E.O. Ciò tenendo espressamente conto sia [a] delle materie in cui la Legislazione ‘propria’ è espressamente prevista come obbligatoria da parte del C.C.E.O., sia [b] per le materie in cui la Legislazione ‘propria’ –pur formalmente non obbligatoria– risulti opportuna o necessaria. Nel caso emergessero materie del tutto ‘proprie’, andranno sistematizzate secondo la modalità ‘compilativa’.

Si tratta di un lavoro più semplice che, tuttavia, alla fine produrrà gli stessi risultati normativi concretamente utili alla Chiesa sui Iuris.


f) In entrambe le metodiche operative le differenze emerse rispetto al disposto del Diritto comune vigente andrebbero poi suddivise in modo ‘gerarchico’ a seconda che siano: contrarie al Diritto comune o comunque gererchicamente ‘superiore’ (=contra Legem), complementari (=præter Legem) o integrative (=infra Legem), così da poter verificare in ciascun caso se, cosa, come, procedere al loro coordinamento con le Norme comuni codificate, secondo il disposto del Can. 6 del C.C.E.O. La questione riveste specifica importanza poiché è in questo che consiste essenzialmente lo stesso concetto di Ius proprium che non può ridursi alla pura ripetizione di Norme ‘superiori’ (pertanto già autonomamente vigenti);


«giova [infatti] ricordare che la Legge particolare deve sempre aver qualche elemento additivo: specificazione, complemento, adattamento, ecc., cioè una funzione propria e specifica, in mancanza della quale non avrebbe neanche una vera ragion d’essere».


g) Le Norme ottenute attraverso il secondo procedimento indicato (quello ‘differenziale’) verrebbero così a configurare un apparato normativo di secondo livello, anche se di natura e portata legislative, del tutto complementare a quanto già disposto –in modo sommario e spesso indefinito e generico– dal C.C.E.O. e/o dalla Legislazione particolare sovradiocesana, ponendosi a livello e con funzione di ‘specificazione’ ed ‘integrazione’ della Normativa comune. Ciò permetterebbe di conservare vigenza all’interno della singola Chiesa sui Iuris a quanto ormai assunto attraverso i secoli, almeno ai livelli operativi ‘inferiori’, senza discostarsi in modo irragionevole neppure da quanto ormai ritenuto e qualificato come patrimonio comune di tutte le Chiese cattoliche orientali, rendendo non solo possibile ma anche davvero auspicabile ed utile la ‘sistematizzazione’ del Diritto proprio delle singole Chiese in una prospettiva che –dal punto di vista meramente pratico– non si discosta radicalmente da quanto accade in Occidente per il c.d. Diritto complementare delle Conferenze episcopali.




in: EASTERN CANON LAW, II (2013), 1, 19-130.