Bilancio canonistico della Settima Giornata canonistica interdisciplinare



Sommario:

1. Co-relatività di giuridicità e linguaggio. 2. Ius proprium di origine ‘culturale’. 3. Dialogicità dell’ambito giuridico. 4. Diritto, parola e persona. 5. Diritto e sue concettualizzazioni. 6. Consistenza linguistica e concettuale delle norme. 7. Il concetto di Morale e di Diritto. 8. Linguaggio, concetti ed analogia. 9. Il concetto di Legge naturale.

Summary:

1. Co-relativity of juridicity and language. 2. Ius proprium of ‘cultural’ origin. 3. Dialogicity of the juridical setting. 4. Law, word and person. 5. The Law and its conceptualization. 6. Linguistic and conceptual solidity of the norms. 7. The concept of Morals and Law. 8. Language, concepts and analogy. 9. The concept of natural Law.



Il percorso intrapreso nella Settima Giornata canonistica interdisciplinare si caratterizza e distingue – come i precedenti – per l’ampiezza della tematica proposta, come ben emerso dall’apporto di tutti gli interventi, sia quelli giuridici che filosofici, tanto europei che non, evidenziando una volta in più l’estrema complessità di quell’humanum che progressivamente ha assunto – soltanto in alcune delle sue espressioni operative – le forme della giuridicità e del Diritto, per quanto in modalità anche molto differenti tra loro, com’è stato ben mostrato dagli apporti d’origine africana e dagli elementi di common Law.


Senza ‘riassumere’ qui le singole tappe del percorso, ci si accontenterà di porne in luce le maggiori evidenze utili alla concezione ed alla fruizione – presenti e future – del Diritto canonico soprattutto per quanto riguarda il reale “contenuto” dei concetti da cui dipendono poi sia (più in generale) gli Istituti giuridici che (in specifico) le singole Norme che di volta in volta (o di luogo in luogo) li regolamentano.

L’esempio dei “bona Matrimonii” è del tutto emblematico in merito: a seconda, infatti, di cosa s’intenda (si debba e/o si voglia intendere) con tale formula ed il correlato concetto gli elementi della vita di coppia e/o famigliare che verranno presi in considerazione (giudiziale) per verificare, valutare e decidere dell’eventuale nullità del Sacramento nuziale potranno essere (e lungo i secoli sono già stati) anche molto diversi tra loro… senza, tuttavia, potersi limitare al solo fattore diacronico (=lungo i secoli: prima e dopo Trento, prima e dopo il Vaticano II, ecc.) ma dovendo altresì dare adeguato rilievo a quello sincronico (=oggi in diversi luoghi: Chiesa latina o Chiese orientali, Africa, Asia, Americhe, ecc.). Non, tuttavia, per “latitudinarismo” (come lo chiamava Pio IX nel “Syllabo” per indicare le differenze culturali) ma per la consistenza stessa dell’agire umano: di quell’agire che dev’essere sufficientemente conscio ed informato, finché – almeno – volontà e conoscenza continueranno ad essere irrinunciati elementi di identificazione dell’agere humanum. Se, infatti, secondo la miglior Scolastica, “nihil volitum quin præcognitum” la conoscenza del singolo rimane costitutiva della sua volontà e, di conseguenza, dello scopo del suo agire… tanto più in campo giuridico. Ma il cognitum individuale passa attraverso l’esperienza del singolo ed assume intelligibilità attraverso la sua concettualizzazione, la quale a sua volta dipende dal linguaggio anche solo simbolico disponibile al singolo; a maggior ragione quando, invece, si tratta del cognitum collettivo nelle sue differenti forme: cultura, formazione, comunicazioni sociali, magisteri… uguale per tutti – alla fonte (=dictum) – ma spesso inesistente per molti in sede recettiva (=intentum/conceptum).


1. Co-relatività di giuridicità e linguaggio


Il primo elemento da porre in luce quale conseguenza immediata della costitutiva connessione tra giuridicità e linguaggio è l’assoluta co-relatività della prima al secondo. “Co-relatività” da intendere ed assumere nel senso ‘forte’ di una vera e propria struttura bipolare: simul stant aut simul cadunt, mentre purtroppo certi linguaggi del secolo scorso ci hanno spinti/abituati ad intendere la “relatività” come negazione della “assolutezza”: come se l’unico fattore/elemento importante fosse l’essere o no “connesso”, “relato” oppure “sciolto”… presupponendo – poi/anche – che solo lo sciolto, l’irrelato (=ab solutus) abbia e meriti valore. Così è infatti la divinità sia ‘classica’ che ‘moderna’: il “motore immobile” di Aristotele o la “garanzia della nostra conoscenza” di Cartesio… a differenza del Dio biblico (e più ancora cristiano, di Pascal) che si propone – invece – nella luce della relazionalità più radicale: quella sponsale (nei Libri profetici dell’AT) o quella paterna (nei Vangeli). Senza poter giustificatamente cedere alla strumentale differenziazione tra “relato” e “relativo”… assente dal punto di vista semantico.

Di fatto, invece, in tutto ciò che riguarda l’agire umano ben difficilmente è possibile ‘uscire’ da vere e proprie ‘ragnatele’ di legami/relazioni… che portano a ‘stabilità’ ed ‘immutabilità’ ben maggiori di molte ‘assolutezze’ del tutto monadiche.

Poiché, dunque, la giuridicità come ‘interpretazione’ (o qualificazione) dei rapporti inter-soggettivi (=intentum relazionale) non può prescindere dal linguaggio (=dictum relazionale), una delle prime attenzioni e reali “preoccupazioni” del giurista dovrà riguardare in ogni momento la piena ‘comprensibilità’ concettuale (=intentum/conceptum) delle ‘formule’ (=dicta) da lui (e dagli altri) messe in campo. Ciò a maggior ragione per il canonista, sia per l’estensione (pluri-culturale) dell’Ordinamento canonico, sia per la delicatezza e profondità delle questioni (personalissime) che in massima parte si trova a trattare: il ‘fallimento’ matrimoniale in primis, senza però che la Dimissione di un Religioso dall’Istituto o la Rimozione di un Parroco o il non rinnovo di una Convenzione a scopo caritativo o cultuale pongano, in realtà, problemi di minor rilievo anche spirituale.


“Interrogare” o “chiedere”, “affermare” o “spiegare” non sono la stessa cosa né sortiscono effetti equivalenti… raccontare fatti ed emozioni e compilare questionarii, non ‘funziona’ – antropologicamente – allo stesso modo! «Usare le parole implica una significazione che porta con sé un diverso apprezzamento, una diversa valutazione assiologica»: non è solo una questione di “modi di esprimersi”.


2. Ius proprium di origine ‘culturale’


La portata strutturale e strutturante degli elementi ‘culturali’ (=quotidianità, lingua, linguaggi, concetti) offre, non di meno, l’occasione per poter (o forse addirittura dover – sic) riflettere più adeguatamente sul fenomeno (per molti solo ‘fattuale’) dell’esistenza nell’Ordinamento canonico di due macro-espressioni giuridiche concomitanti ma non identiche, per quanto realmente equivalenti: il c.d. Diritto della Chiesa latina (CIC, in primis) e quello delle Chiese orientali (CCEO, in primis). In un approccio semplicistico la questione è soltanto ‘storica’, imponendosi ab extrinseco alla volontà della Chiesa stessa: poiché le ‘Tradizioni’ rituali (in senso ampio) dell’Oriente cristiano non sono successive a quella latina, risulta possibile/necessario mantenerle e ‘preservarle’… La ‘contemporaneità’ d’origine infatti non permette di ‘qualificarle’ come ontologicamente inferiori in quanto semplicemente ‘sopravvenute’.

Non di meno: quanto contenuto ed espresso (e vissuto) nelle cinque Tradizioni delle Chiese orientali (anche non cattoliche) ha, in realtà, tutt’altra consistenza ed identità proprio a partire dai linguaggi e dai concetti di Comunità di vera fede cattolica-ortodossa (si può rimanere in questo all’interno del primo millennio cristiano) espressi e ‘modellati’ a livello di ‘esecuzione’ in modi differenti: medio-orientali e greci, anziché latini e germanici… con l’interessantissima doppia ‘versione’ romana ed alessandrina dell’Africa mediterranea.


La questione che ne emerge – per l’oggi – è di tutta consistenza: si tratta di Archeologia o di Antropologia? Nel primo caso: “rien ne va plus: les jeux sont faits” poiché la storia è ‘finita’ iniziando e le sei “Tradizioni” sono fisse! Nel secondo caso: la totale irrilevanza concettuale-istituzionale-normativa degli elementi antropologici ‘locali’ rischia di essere non solo anti-realistica ma anche anti-veritativa. Né pare possa offrire adeguato ‘bilanciamento’ a questo elemento/fattore ‘differenziante’ l’osservazione che – in fondo – l’America latina ha recepito con sostanziale serenità il Diritto canonico latino, poiché i fattori in gioco sono ben differenti: [a] l’ispanizzazione/latinizzazione dell’America del Sud fu un fenomeno completamente diverso dalla colonizzazione dell’Africa prima di tutto ed essenzialmente dal punto di vista culturale, [b] buona parte del nucleo più ‘stretto’ del Diritto canonico latino in America latina è di fatto inosservato, quando non anche concretamente inapplicabile ai livelli più ‘basici’ del vivere personale e sociale, [c] l’attuale crescere della cristianità e cattolicità nell’Estremo Oriente – a cinque secoli circa di distanza dalla colonizzazione africana – pone con prepotenza ed ineluttabilità lo stesso interrogativo: si tratta di questione storico-archeologica o antropologica? Che dire – poi – della sopravvenutissima “Tradizione anglicana” nella sua recente accoglienza in seno alla latinità? Anche all’interno delle Chiese orientali sui Iuris se ne sono sviluppate negli ultimissimi secoli di ‘nuove’ non tanto a livello di Circoscrizioni ecclesiastiche ma cultural-antropologico, come la Chiesa Greco-cattolica Ungherese (di/in ‘lingua’ ungherese) e quella Greco-cattolica Slovacca (di/in ‘lingua’ slovacca) ‘provenienti’ da quella Rutena.


3. Dialogicità dell’ambito giuridico


Altro elemento di grande rilievo da considerare ormai come ‘acquisizione’ definitiva per la consapevolezza (e la riflessione) canonistica è l’intrinseca dialogicità reale dell’ambito giuridico (e delle questioni che lo riguardano). L’elemento non è, però, come potrebbe apparire a prima vista basato sulle diverse forme/istanze di dibattimento o contraddittorio deresponsabilizzante, ma sulla differenza irriducibile tra “parlare a” e “parlare di”. In particolare lo Ius dicere dovrebbe sempre essere inteso e colto – e vissuto – come “dire a” anziché “dire di”, ponendo in risalto assoluto l’importanza della ‘oralità’ della pratica giuridica, il primato del detto sullo scritto: il necessario coinvolgimento delle persone come tali. L’elemento non è privo di un rilievo del tutto specifico in campo giuridico poiché, anche se dal punto di vista logico (e filosofico) il “dire che/di” non può essere scisso dal “dire a”, il parlare potestativo in genere (tanto politico che legislativo …che magisteriale) mostra spesso come siano possibili ‘anche’ soliloqui autoritari o semplici proclami incentrati unicamente sul “loquente”, senza considerazione alcuna dei ‘necessari’ destinatari: “affermazioni” e non “comunicazioni”. Semplice potere del dire, non efficacia del comunicare.

Giungono così nuovi elementi a favore della concezione dibattimentale e dialogica dell’attività giuridica in sé, non solo di quella processuale, ma anche di quella di governo e perfino di quella legislativa. Chi, infatti, dà una disposizione, tanto individuale (=Atto amministrativo singolare) che generale (=Atto normativo) o risolutoria di questione disputata (=Sentenza) compie essenzialmente un atto comunicativo che s’indirizza alla comprensione, valutazione, assunzione ed osservanza da parte di altre persone (=i destinatari) in qualche modo ‘coordinate’ con il ruolo e la funzione di colui che “dice a”, ben prima di “dire che”.

Un ordine, una Norma, una Sentenza non prendono esistenza e corpo al di là di ‘qualcuno’ che li ‘ascolti’… che li ‘senta detti a sé’ ed in essi e per essi si senta ‘chiamato’ ed impegnato come destinatario. Il linguaggio giuridico, pur “performativo” nella sua capacità di “creare” anche ex nihilo nuove realtà giuridiche o sociali, non è comunque in grado di far nulla senza la presenza almeno di qualcuno che ‘ascolti’. La comunicazione, dunque, è la prima e vera dimensione costitutiva del Diritto. La ‘forza’ del Diritto stesso – infatti – non sta nell’autorità come tale, e neppure nella potestà (sacra o meno) che lo realizza, ma nel loro riconoscimento e nella loro accoglienza ed “osservanza” all’interno di un comune orizzonte valoriale: nel caso della Chiesa, l’adesione al Vangelo ed il cum-munus della missio Ecclesiœ. Dove, infatti, tale comunanza assiologica fosse assente non resterebbero altro che [a] la forza bruta o [b] il mero interesse a sostenere l’esercizio autoritativo, rendendone ogni manifestazione o esercizio puramente estrinseci rispetto alla vita delle persone coinvolte (o sottomesse!).

È significativo in merito il riferimento di Papa Francesco al dialogo col Superiore caratteristico della Compagnia di Gesù:


«Il Gesuita deve “manifestare la sua coscienza”, cioè la situazione interiore che vive, in modo che il Superiore possa essere più consapevole e accorto nell’inviare una persona alla sua missione».


Gli spazi – teorici e pratici – che, però, si aprono in questo modo sono radicalmente diversi da quelli supposti, immaginati, prospettati – ed imposti – anche teoreticamente sino ad oggi. Si pensi, p.es., ad una visione/comprensione del Diritto che sia confronto e dialogo personale tra opinioni e valutazioni differenti che riguardino il ‘significato’ comune e condiviso da riconoscere ai comportamenti personali che ‘segnano’ o ‘intaccano’ la Comunità esistenziale di adesione/riferimento: uno Ius che non ‘esiste’ in sé come un’essenza trascendente che dev’essere individuata e portata alla luce (come un ‘reperto’ di altra storia!) o semplicemente posta “in atto” (essendo già “in potenza”), ma che prende corpo nel reciproco riconoscimento dell’altro anonimo (=il non-tu che è il terzo) dandogli voce ed accogliendo tale voce e facendo i conti con essa.

Cosa rimarrebbe, in tale prospettiva, delle “rivendicazioni” di ogni e ciascun “individuo” come tale? La questione non è per nulla teorica poiché il Diritto tradizionale africano si muove proprio lungo questa direttrice in cui l’altro – qualunque ‘altro’ – è prima di tutto un ‘con-dividente’ il dono della stessa vita, un ‘con-partecipante’ alla stessa impresa esistenziale. Una persona che ha ‘diritto’ di vivere poiché a ciò chiamata da Dio stesso… una persona che non può essere/rimanere esclusa, fuori dal mondo umano e dalle sue relazioni vitali.


4. Diritto, parola e persona


Tra le ‘ipotesi’ emergenti dai diversi contributi della Giornata e che meritano approfondimenti ulteriori si pone anche quella che vede la giuridicità (quindi, alla fine, lo stesso Diritto in sé e per sé) in modo non diverso da una specificissima modalità relazionale: quella, appunto, connessa alla valutazione – anche morale – di volta in volta dello specifico comportamento, e non incanalata in una qualche formalizzazione di ‘species’ (civil Law) o di ‘facta’ (common Law) che in qualche modo decidono dell’ultimo evento in base ad ‘altri’ eventi ritenuti in qualche modo ‘omogenei’ (=la Norma o il Precedente), senza che sia e/o possa essere la persona come tale a rendere conto e ragione di sé e della propria condotta attraverso il racconto e la spiegazione dei fatti (=parola).

La questione non è semplicisticamente indirizzabile verso la prospettiva della c.d. soft Law rispetto alla dura Lex, ma pone una radicale diversità circa ‘ciò’ da cui prende origine il fenomeno giuridico stesso non solo “incentrato” e “fondato” sulla persona… come non è difficile affermare in linea di principio, ma “prodotto” dalla relazionalità/comunicazione stessa tra le persone: una relazionalità/comunicazione che solo in ultimissima istanza deve ricorrere al Diritto per “imporre” (nel senso più vero del termine) al non-rapporto (=la non-parola/non-comunicazione) quella ‘paritarietà’ e reciprocità che nessun’altra modalità relazionale è riuscita a sviluppare. Extrema ratio dopo il fallimento interpersonale ed intersoggettivo, il Diritto appare come “rimedio” anziché come “costituente”: constitutum o constituendum anziché constitutivum. “Categoriale”: fu la conclusione della Prima Giornata canonistica interdisciplinare.

È, in fondo, la prospettiva tutoria del common Law, derivante da quella vetero-canonica pre codiciale: lo Ius Decretalium, prima che il Diritto canonico da Ordinamento osservato diventasse Ordinamento da osservarsi.


Per quanto possa trattarsi anche solo di una ‘suggestione’ e non ancora di un elemento di Teoria generale del Diritto (canonico), ciò deve costituire però per il giurista – il canonista soprattutto – una consapevolezza importante per non correre il rischio di curare la malattia anziché il malato. L’afflato kantiano in merito, infatti («fiat iustitia et pereat mundus»), è palesemente ‘incompatibile’ con quello evangelico.


5. Diritto e sue concettualizzazioni


La dinamica linguaggio-concetti offre al giurista spunti di riflessione su vari aspetti, anche ‘imprevedibili’, tra i quali il ‘concetto’(!) stesso di Diritto, soprattutto nella sua delineazione come “suum” di ‘qualcuno’. Non si può, infatti, non osservare (anche sotto questo profilo) come tale concezione fatichi, in realtà, a conseguire una sufficiente consistenza concettuale – almeno esplicativa e comunicativa –, rimanendo di fatto troppo indeterminata: un ‘dictum’ ad ‘intentum’ variabile che, non esprimendo puntuali contenuti oggettivi, finisce per risultare non sufficientemente utile all’attività giuridica. La questione è di grande portata ‘fondativa’ poiché alla formale monoliticità ed oggettività (“realismo” secondo i fautori di questa dottrina) di tale concetto di Diritto non è ben determinabile cosa possa concretamente corrispondere. Se si può accettare qui un’immagine (visum anziché dictum): è come un container in viaggio da un capo all’altro del mondo, tra camion, treni, gru e navi… qualcosa di assolutamente ‘oggettivo’ per chi non se ne serve ma semplicemente lo ‘movimenta’ (e ci sono pure strutture di stoccaggio e custodia con assicurazioni e servizi e tanto di documenti di accompagnamento e consegna e presa in carico) ma che, una volta aperto – quando giunga a chi deve servirsene(!) – risulti assolutamente vuoto: del tutto inutile, nonostante si sia trattato di qualcosa di estremamente ‘reale’ ed ‘oggettivo’. D’altra parte: se


«il concetto serve a rivelare la cosa che appare per poter avere a che fare con essa in maniera adeguata. Ha natura strumentale e pratica. E questo perché la conoscenza è funzionale all’agire nel mondo»,


non si crea un concetto attraverso un aggettivo possessivo (=suum).


Non di meno, una Teoria fondazionale del Diritto e dell’attività giuridica basata sul semplice “cuique suum” rischia di rimanere meramente proposizionale: basata su di un assioma originario non adeguatamente consistente che, però, finché non venga verificato, risulta concretamente ‘capace’ di reggere l’intero impianto deduttivo. Un po’ (ancora esemplificativamente) come un giro di operazioni e garanzie patrimoniali basate sulla iniziale iscrizione a Bilancio di un credito – in realtà – inesigibile: la mera ed inoppugnabile validità di tutti i Contratti economico/patrimoniali successivi, infatti, non basta a renderli ‘consistenti’ poiché il primo che vorrà riscuotere il “suum” si accorgerà che questo – pur “dovuto” ed anche “esistente” in ragione di beni/servizi/diritti effettivamente ceduti a terzi – non esiste affatto… come nell’Acquisto “a non domino” o nel Fallimento: né l’Obbligazione né la Responsabilità – infatti – creano la res!


6. Consistenza linguistica e concettuale delle norme


Quanto emerso soprattutto a livello ‘culturale’ africano ripropone anche il grande problema mai risolto – poiché forse mai adeguatamente posto – della confusione (prima linguistica e poi concettuale) tra “illecito” morale e giuridico: questione che dal punto di vista ecclesiale non è affatto trascurabile ma che, in realtà, ha potuto assumere visibilità solo dalla tarda Modernità quando il c.d. Stato etico – positivista e totalizzante – ha di fatto spezzato la quasi-identificazione del Diritto (in realtà principalmente quello dei ‘privati’) con la Morale cristiana (identificata nei Dieci Comandamenti). Una rottura che si è consumata lungo il secolo scorso e non ha ancora permesso – soprattutto a certi ‘ambienti’ – di rendersene adeguatamente conto ed affrontare non tanto la questione… ma la realtà!

Si tratta, concretamente, del concetto di “illiceità”: come concettualizzare, cioè, in modo adeguato il comportamento “illecito”? È sufficiente la sola violazione di una norma comportamentale, senza che in sé rilevi la sua ‘qualificazione’ come morale, giuridica, religiosa, strumentale, ecc.? Gli “illeciti” sono tutti uguali? Il “lecito”, di conseguenza, coinciderebbe col “possibile”?


Per cogliere la radicalità della questione (e l’assoluta inadeguatezza delle non-risposte ancor oggi ‘disponibili’) si pensi, esemplificativamente all’uso del verbo “potere”: cosa significa dal punto di vista del concetto (=intentum) l’affermazione “io posso” o “si può”? Il primo screening logico porta a dover distinguere l’operatore della ‘possibilità’ da quello del ‘permesso’ da quello della ‘potenzialità’: un comportamento ‘possibile’, uno ‘permesso’ ed uno ‘potenziale’ non sono equivalenti! Un conto, infatti, è la ‘possibilità’ in quanto libera opzionabilità (=posso prendere un gelato oppure una birra), cosa diversa è il permesso di agire (=posso uscire di casa perché la mamma lo permette), cosa ancora diversa è la effettiva potenzialità (=posso prendere l’aereo ma non posso volare).

Non di meno: se già l’approccio ‘positivo’ appare articolato e problematico, quello negativo (“io non posso”, “non si può”) è di gran lunga molto più complesso, complice il medesimo ed identico esito finale che – unico – sembra rilevare in modo concreto nell’assumere o meno una determinata condotta: farlo o non farlo. Quanto, poi, in termini di effettività dei comportamenti il “non si può” differisce realmente dal “non si deve”?  E quando, anziché dinnanzi ad un (semplice) “non licet”, ci si venisse a trovare innanzi ad un “nefas est”? Che dire in merito a proposito del Can. 927 (CIC) che ‘qualifica’ come “nefas” la consacrazione, qualunque consacrazione, di una sola delle specie eucaristiche? Non “si può”? Non “si deve”? Non “è valida”?

L’ampio orizzonte, anche specificamente giuridico, dell’obiezione di coscienza è solo uno dei campi applicativi più vistosi di questa problematica, per quanto la ‘resistenza’ etica o spirituale ad una imposizione legale sia solo una delle possibili manifestazioni concrete della profondità del problema. È palese come la maggior parte delle attuali problematiche connesse al c.d. Biodiritto si collochi proprio a questo livello e su questa base.


Nella stessa prospettiva si colloca la grande ambiguità (in realtà si tratta spesso di vera equivocità) tanto di linguaggi che di concetti che continua a caratterizzare l’ambito comportamentale (“deontico”, per l’esattezza): Etica, Morale, Diritto... e la loro prescrittività. I linguaggi e concetti di necessità, obbligo, dovereutilità, opportunità, convenienza, ecc. risultano di fatto sempre più indeterminati ed indeterminabili proprio perché non – adeguatamente – concettualizzati.

Per parte propria alcuni ambiti culturali (concettuali e linguistici) hanno saputo evidenziare anche semanticamente differenze sostanziali che molti altri continuano bellamente a trascurare; il Tedesco – p.es. – ha distinto tra dovere ontico (=müssen) e dovere deontico (=sollen), indicando già col verbo la natura e portata intrinseca della prescrizione comportamentale. Molte culture, al contrario, continuano a far forza sul “dovere” senza nulla indicare [a] né circa l’effettiva libertà di coinvolgimento e/o condivisione richiesta ai destinatari del “dovere” medesimo [b] né circa le reali ‘credenziali’ che debbano supportare tali adempimenti.

Non stupisca – di conseguenza – se concetti quali autorità, potestà, governo, obbedienza, soggezione, comando… rimarranno assolutamente ‘relativi’ e claudicanti finché l’intero problema non trovi una sufficiente soluzione davvero concettuale.


7. Il concetto di Morale e di Diritto


Sulla stessa linea, ma ben più in profondità, si pone l’estrema difficoltà – ancora attuale – a delineare un adeguato concetto di Morale insieme e rispetto ad un altrettanto adeguato concetto di Diritto – anche canonico – .

La riflessione ‘tradizionale’, sulla scia di sant’Agostino, trattava infatti le questioni relative a questa tematica dal punto di vista del “malum” (come “privatio bonis”) percepito quale elemento/fattore centrale e, comunque, di maggior importanza: un “malum quoad rem” (aspetto oggettivo) ed un “malum quoad agentem” (aspetto soggettivo). Nella sua teorizzazione del tema san Tommaso rimase fedele a tali presupposti ragionando delle conseguenze della “mala actio” in capo all’agente, per cui il male oggettivo voluto dalla “creatura razionale” costituisce per essa la culpa ed il male soggettivo non-voluto ma subito in sua conseguenza costituisce la pœna che, spesso, affliggendo immediatamente l’agente ne manifesta la culpa quale causa originante.

La dottrina, tuttavia, del “fine” che ogni creatura deve raggiungere secondo la propria “natura” favorì la progressiva lettura del “malum” e della “mala actio” come sviamento dal fine proprio della creatura stessa (=mancanza di perfezione); fine proprio indicato e tutelato – ai vari livelli ‘ontologici’ – dalla “Legge”: quella eterna, quella naturale, quella divina, quella ecclesiastica, quella umana … Una “Legge” che per san Tommaso era essenzialmente “ordo” che esplicitava la norma (=direzione) e la regola (=misura) affinché ogni creatura raggiungesse la propria piena realizzazione: ordo ‘partecipato’ alla creatura razionale e liberamente assumibile dal suo intellectus/ratio. Una prospettiva sostanzialmente ontologica/metafisica.

Dalla Seconda Scolastica, invece, la Legge diventò “præceptum” originato dalla “voluntas” (divina) ed indirizzato alla “voluntas” (umana)… mentre la “ratio” rimase solo una delle “caratteristiche” di tale voluntas, sia in Dio che nell’uomo. Il baricentro passò così dalla “mala actio” in quanto “malum” alla “mala actio” in quanto “violatio Legis”. Non si trattò più del “malum” connesso alla libera volontà dell’agente (cfr. Agostino - Tommaso), ma del “malum” connesso all’altrui volontà obbligante: il “præceptum”; e tale è ogni e qualsiasi Legge… “omnis Lex est præceptum”. La Seconda Scolastica, d’altra parte, aveva di fatto sostituito il “De malo” col “De Legibus et de Deo Legislatore”. “Culpa” e “pœna” traslarono così le proprie referenze alla Lex ed alla sua violatio cosicché: la violazione della norma sub specie culpæ (o in culpa) finì per attivare l’ambito morale e quindi il peccato, la violazione sub specie pœnæ (o in pœna) finì per attivare l’ambito giuridico e quindi il Delitto/Reato/Crimine… E così è rimasta di fatto la concezione cattolica fino alla trattatistica morale e giuridica della metà del secolo scorso; si legge(va) infatti che la colpa (morale):


«Consiste essenzialmente nell’atto della volontà libera in opposizione all’ordine razionale. Essendo questo tutto fondato sull’essenza divina, la colpa morale è un atto libero contrario alla Legge divina»;

[mentre la pena] «è, in generale, la sofferenza (privazione o diminuzione di un bene individuale) comminata dalla Legge a colui che viola un comando della medesima […] malum passionis quod infligitur ob malum actionis».


Ciò pose in difficoltà lo stesso Card. Gasparri quando dovette reperire i ‘criteri’ secondo cui trarre dall’infinita quantità di divieti e proibizioni di cui rigurgitava la precettistica cattolica di fine Ottocento, quanto avrebbe dovuto diventare “giuridico” attraverso la codificazione canonica. Tra gli estremi della “culpa” e della “pœna” il pratico canonista scelse la “disciplina” quale discrimen della giuridicità, concettualizzando così – dal proprio punto di vista – il Diritto come “disciplina”.


Non dovrebbe pertanto destare stupore il fatto che i canonisti del Novecento non siano giunti ad una ragionevole individuazione/formulazione del “concetto di Diritto”, continuando a dibattere se accoglierne o no mere concezioni formali e strumentali o sposare quelle ‘fondazionali’… trascurando spesso il reale status quæstionis ben più fondante.


8. Linguaggio, concetti ed analogia


Tra gli elementi che ricadono necessariamente sotto le considerazioni sin qui sviluppate in riferimento a linguaggi e concetti si pone anche il procedimento intellettuale dell’analogia, molto spesso utilizzato in campo teoretico per mostrare ed anche per di-mostrare ‘conseguenze’ di altri elementi/fattori…

Le considerazioni svolte sull’intrinseca instabilità e co-relatività di linguaggi e concetti evidenziano la difficile fruibilità dell’analogia in campo giuridico a livello teoretico, poiché si rischia fortemente di ritenere assimilabili (anche solo parzialmente, ma ciò basta) elementi appartenenti a linguaggi diversi o a concetti non comparabili, cadendo in veri e propri errori già al solo livello ‘logico’.

Non a caso i Legislatori (canonico e civili) delineano con precisione le sole ‘analogie’ possibili nella pratica giuridica: quella Legis e quella Iuris… Norme simili, situazioni simili (cfr. Can. 19).

Operare, infatti, analogie sul vissuto personale individuale laddove l’intentum/conceptum che porta ad agire dipende da troppi elementi e fattori rispetto anche ad un dictum teoricamente chiaro e condiviso, risulta di fatto sconsigliabile. Similitudine di situazioni, infatti, similitudine di linguaggi e/o parole, similitudine di concetti, non sono immediatamente inter-operabili, per quanto possano sollecitare nuove piste d’interpretazione e ricerca… innescando, non concludendo, il ragionamento ipotetico.


9. Il concetto di Legge naturale


Le consapevolezze sin qui acquisite circa la reciprocità tra linguaggi e concetti possono gettare nuova luce anche su di una problematica cara al pensiero cattolico ma ormai divenuta pressoché infruibile a causa del cambio di dominio linguistico-semantico introdottosi negli ultimi secoli a proposito del termine/concetto di “Legge” dal punto di vista comportamentale. Di fatto l’ormai inscindibile associazione esistenziale e semantica tra “Legge” e “Diritto” e tra questo e “Legge positiva” degli Ordinamenti di civil Law, consolidatasi nella cultura c.d. occidentale, non permette più un uso tranquillo – e condiviso – della formula testuale/concettuale di “Legge naturale” secondo il costante intendimento della dottrina e Tradizione cattolica. Nel contesto post-moderno, infatti, parlare di “Legge” inserisce univocamente nel dominio semantico (ed assiologico) di un’attività dispositiva completamente umana gestita dalle Assemblee parlamentari o governative a suon di maggioranze, emendamenti, referendum… secondo l’articolarsi e/o lo scontrarsi di interessi materiali o esistenziali, non meno che di vere e proprie ‘visioni del mondo’ e della vita, tanto religiose che ideologiche, cangianti a seconda delle maggioranze socio-politiche del momento. A partire da questi presupposti, che ‘esista’ una “Legge naturale”, eterna e non-negoziabile, risulta addirittura meno comprensibile che ammissibile.


Senza nulla togliere, però, né alla realtà come tale (=la Legge naturale) né alle (attuali) circostanze storico-culturali, anzi, valorizzandone una differente fruibilità (oggi maggiore di ieri), si potrebbe – forse – spostare il dominio semantico della “Legge naturale” da quello giuridico a quello scientifico-naturalistico in modo che l’elemento semantico cui fanno riferimento la comprensione e l’intendimento ‘comuni’ di “Legge” divenga la c.d. “legge di natura”: quella, cioè, secondo cui ‘funzionano’ le cose del mondo, indipendentemente da ogni ‘apporto’ umano, soprattutto volontaristico a livello assiologico; nell’ordine d’idee della legge di gravitazione universale, per esemplificare in modo univoco. Ciò non significa affatto, tuffarsi nei vari determinismi o casualismi o strumentalismi che anche le diverse Teorie scientifiche propongono, ma soltanto accogliere il concetto di una “regolarità fisiologica strutturale” (espressamente detta “legalità” in ambito di Epistemologia scientifica) appartenente alla identità (=id est) stessa delle cose. In tal modo la “Legge naturale” si porrebbe a livello della struttura e ‘fisiologia’ (=identità) ontologica e metafisica della persona in quanto tale come ‘dato’ incondizionato e – umanamente – non-volontario, da conoscere sempre meglio (come fanno le Scienze con la realtà) ed a cui corrispondere in funzione e vista della piena realizzazione di ciò che l’uomo “è” in modo più radicale e profondo… in riferimento a Dio.

D’altra parte oggi ciò che comunemente si percepisce come ‘inderogabile’ (è questo l’intentum) non è affatto il Diritto né quanto lo riguarda, ma la Scienza: concetti radicalmente mutati negli ultimi cinque secoli a fronte di parole che paiono invece stabili, per quanto entro linguaggi del tutto differenti.


in: APOLLINARIS, LXXXVI (2013), 445-462