Titoli di responsabilità dei Superiori generali degli IVC in ambito extracanonico


PREMESSA ILTITOLODIRESPONSABILITÀ

Trattare dei “titoli” di responsabilità costituisce un gradino necessario, e previo, per avvicinarsi in modo tecnicamente corretto all’amplissimo campo della “responsabilità” come tale che, tuttavia, non risulta mai affrontabile in modo generale ed esaustivo a causa delle diversissime ‘fonti’ da cui essa deriva nei diversi Ordinamenti giuridici, soprattutto statuali.

Trattare dei “titoli” di responsabilità, inoltre, permette di impostare il quadro generale di riferimento all’interno del quale muoversi in modo metodologicamente corretto per delineare, caso per caso, non tanto di quale tipo di responsabilità si tratti ma, piuttosto, per quali motivi essa sorga in capo a qualche soggetto (persona fisica o giuridica, o altro). Come, invece, essa venga gestita (o possa essere gestita) è questione assolutamente ‘locale’ e specifica che non potrà essere affrontata in queste note proprio a causa della sua strettissima collocazione territoriale (v. infra: 5). Dalla territorialità, non di meno, dipenderà anche la portata effettiva della responsabilità contestata, in base anche allo specifico sistema processuale in uso Stato per Stato oltre che al Diritto civile e/o penale da applicarsi.

Entrando nel tema va osservato preliminarmente come, nonostante la grande utilità pratica sotto il profilo dell’analisi metodologica, il “titolo di responsabilità” (in sé e per sé) non risulti materia ordinariamente trattata a livello giuridico generale. La voce “titolo”, infatti, degli strumenti giuridici generali di ricerca rimanda sempre ai c.d. titoli di credito ed equivalenti e connessi, mentre quasi nulla si riscontra in tema di “titolarità” vera e propria.

Occorre pertanto, per illustrare la tematica qui affrontata, far riferimento ad alcuni concetti presenti nel linguaggio giuridico comune quali: “titolo di proprietà/fruizione” oppure “titolo di competenza” o anche, derivatamente, le formule “non aver titolo” o “essere titolare”, “avere la titolarità”, attraverso le quali –normalmente– s’indicano la referenzialità, la riconducibilità, l’intestazione –più o meno univoca– di qualcosa a qualcuno. La formula, invece, “a titolo di responsabilità” indica sostanzialmente la conseguenza di un qualche “danno” cui far fronte (di solito economicamente). Il “risarcimento” economico, d’altra parte, è il modo ormai standardizzato di gestire la responsabilità (sempre più spesso, coincidente col danno …ed il suo necessario risarcimento, essendo caduta di fatto la distinzione tra “causa” –il danno– ed “effetto” –il suo risarcimento–).

Nella prospettiva che qui interessa il “titolo” (di responsabilità) indica genericamente la “relazione”, la “connessione”, che lega dal punto di vista strettamente giuridico (e quindi espressamente e quasi esclusivamente formale) un soggetto ad un bene o ad un diritto o ad un dovere/onere (di cui si risulti titolari); “relazione/connessione” che –in sé– non coincide affatto col bene o diritto o dovere/onere di cui si tratta.

In tal modo il “titolo di responsabilità” non riguarda la responsabilità come tale (cioè il rapporto causa-effetto sottostante la dinamica del danno-risarcimento) ma le sole “connessioni” attraverso le quali si può incorrere nella responsabilità stessa o attribuirla a qualcuno. “Connessioni” o “motivazioni” che indicano il “perché” qualcuno –e non qualcun altro (Tizio e non Caio)– debba “rispondere” di determinati “atti” o anche soltanto “fatti” subendone le conseguenze negative. Ciò che, quindi, conta nella prospettiva dei “titoli di responsabilità” non sono né gli atti, né i fatti, né le loro conseguenze negative sui terzi, né quanto o come si debba risarcire: tutte questioni variabili da Ordinamento ad Ordinamento, da Stato a Stato, ma solo le cause/modalità di coinvolgimento ‘passivo’ di qualcuno in “atti” e/o “fatti” anche non suoi.

Detto altrimenti: per quanto riguarda il “titolo di responsabilità” ciò che conta è la mera –ma effettiva– possibilità o meno di essere chiamati a rispondere di una determinata “situazione” (di solito spiacevole), pur senza aver compiuto nulla. Una “situazione” (si badi bene!) e non –principalmente– “atti”, “condotte”, “realizzazioni”, con una irriducibile prevalenza degli elementi oggettivi e fattuali rispetto a qualunque apporto soggettivo che –al contrario– entra spesso in gioco proprio perché ed in quanto assente… in ragione cioè del “non aver evitato”.

L’esempio, purtroppo, è classico: giunge la chiamata a comparire davanti all’Autorità giudiziaria ad una persona del tutto ignara di c’entrare qualcosa con un fatto verificatosi anche a sua insaputa ma nel quale è stata coinvolta in modo semplicemente ‘formale’ (ecco il “titolo”) per –mere– ragioni giuridiche. Ed è questa la condizione in cui si sono trovati già parecchi Moderatori supremi (ma anche Superiori maggiori in genere) di IVC/SVA negli ultimi decenni soprattutto nel mondo “occidentale”.

La domanda sul “titolo di responsabilità”, pertanto, coincide col “perché” tale persona venga coinvolta in atti e fatti che, come è capitato, spesso non conosce neppure.

In altri termini, dal punto di vista della concreta comprensione del concetto: si tratta d’individuare la connessione solitamente utilizzata dagli Avvocati per “fare Causa” al maggior numero possibile di soggetti implicabili in qualunque modo (cioè a qualunque “titolo”) nel danno subito dal loro cliente in modo tale che almeno qualcuno di loro debba pagare qualcosa… anche soltanto per “omissione”. Gli Ordinamenti giuridici, d’altra parte, tendono a (voler) tutelare sempre colui che –senza c’entrare nulla con l’attività o la condotta di qualcun altro– ne abbia tuttavia subito conseguenze variamente negative: una sostanziale ‘invasione’ o ‘violazione’ del proprio patrimonio giuridico individuale, spesso anche profondamente personale come accade quando il danno non riguardi “cose” ma la persona stessa nella sua incolumità od integrità fisica o morale, nella sua salute, nelle sue relazioni familiari, ecc. In tale prospettiva è il favor offensi che fonda, regge e guida l’intera dinamica della responsabilità come “ristabilimento” o, più spesso, “risarcimento”. Ciò che fonda tanto la categoria di responsabilità extra-contrattuale (a livello civile) che oggettiva (a livello penale).

1. AMBITI DI RESPONSABILITÀ E LORO INDIVIDUAZIONE

In prima approssimazione si può affermare che i “titoli di responsabilità” dei Moderatori supremi (ma dei Superiori maggiori in generale) sono essenzialmente tre, sussistenti allo stesso modo (anche se con gestioni e conseguenze diverse) sia a livello canonico che statuale: a) titolo d’Ufficio, b) titolo di Rappresentanza, c) titolo personale. Tre diversi “rapporti giuridici” con persone e cose che generano differenti tipologie di –possibili– responsabilità che non dipendono in sé e per sé dal mero atto personalmente (non) posto in essere.

La questione fondamentale da porre e da porsi a questo proposito è pertanto quella che riguarda la distinzione tra le diverse motivazioni (=titoli) –e derivate modalità– di coinvolgimento del Moderatore supremo di IVC/SVA nella varie attività che lo possano in qualche modo “chiamare in Causa” (nel vero senso del termine), anche indirettamente: la “ratio” cioè del suo coinvolgimento e, di conseguenza, le implicazioni che ne derivano nei due Ordinamenti (quello canonico e quello statuale) in ragione [a] degli specifici ruoli ricoperti, o anche solo [b] di “attività” concretamente svolte, com’è normalmente in campo penale (sempre “personale”). 

Da questo punto di vista gli ambiti di responsabilità di chiunque governi nella Chiesa –e non solo dei Superiori religiosi– sono fondamentalmente due: le “persone” e le “cose”. Nei confronti delle persone si attua “a titolo d’Ufficio” attraverso la potestà di governo ecclesiale a norma di Diritto canonico, universale e proprio. Verso le cose si attua “a titolo di Rappresentanza” ed il Diritto canonico tende a canonizzare (cioè “importare” ed “applicare” come proprie) le Norme civili dei singoli luoghi di attività dell’Istituto (secondo il principio “locus regit actus”), creando situazioni giuridiche anche molto diverse da Stato a Stato, nonostante si tratti delle stesse attività svolte dallo stesso soggetto. Si pensi –non banalmente– alla gestione di una clinica ospedaliera o di un orfanotrofio o di una scuola in Europa occidentale, in America latina, in Africa o Asia, condotta dalla stessa Provincia religiosa (=soggetto conduttore) o dall’Istituto come tale attraverso, casomai, Delegazioni o Missioni.

Non è questa, però, la distinzione –pur sostanziale– che fa la vera differenza in termini di “titoli di responsabilità” ma il fatto –più profondo e radicale– che sulle persone fisiche si attua in quanto Superiori dell’Istituto, sulle cose, invece, come Rappresentanti e/o Amministratori di una o più persone giuridiche (non sempre né solo canoniche) spesso anche distinte dall’Istituto come tale: Fondazioni, Associazioni, Enti strumentali di vario genere, con o senza autonoma personalità giuridica nei diversi Ordinamenti.

Ciò pone in luce una caratteristica tipicamente canonica –non sempre percepita neppure da parte di un certo numero di esperti, ma– di grande rilievo proprio in questo genere di tematiche, e cioè: la radicale distinzione tra le funzioni di “governo delle persone” e quelle di “amministrazione delle cose”.

- Il governo delle persone (e la correlata responsabilità) si esercita in dipendenza dalle Costituzioni degli IVC/SVA, di per sé conformi al Diritto canonico universale, e corrisponde alla potestà di governo ordinariamente riconosciuta al Moderatore supremo in tutte le materie di sua competenza all’interno dell’Istituto e per tutto l’Istituto.

- L’amministrazione delle cose (e la correlata responsabilità), invece, funziona in modo assolutamente diverso, dovendosi riferire di volta in volta ai singoli Enti (=persone giuridiche, o no) di cui –eventualmente– il Moderatore supremo sia Rappresentante e/o Amministratore, spesso con le ricadute civilistiche o penalistiche più diverse da Paese a Paese.

La distinzione tra governo delle persone ed amministrazione delle cose (a questo livello) è fondamentale nell’Ordinamento canonico poiché in esso –di norma– non si dà un rapporto organicistico (=di immedesimazione organica) tra persone ed Enti (soprattutto “pubblici”) in ragione del quale le persone agiscono come “Organi” dell’Ente stesso che realizzano finalità proprie dell’Ente utilizzando un potere che è ad ogni effetto “proprio” dell’Ente e non della persona fisica concretamente operante. Ciò che accade, solitamente, negli Stati che abbiano una Pubblica Amministrazione fatta di “Enti pubblici” dotati di potere di governo, anche settoriale: in essi i Funzionari apicali (Prefetto, Presidente, ecc.) esercitano un potere che non è loro “proprio” (in modo personale) ma è dell’Ente pubblico di cui sono “Organo”. In ambito canonico infatti, vige una struttura essenzialmente per “Uffici” anziché per “Organi” (secondo le espressioni utilizzate in campo civilistico italiano) in modo tale che


«l’Ufficio in senso giuridico non è strumento ai fini dell’imputazione, ossia ai fini dell’essere l’Ente soggetto giuridico. Il concetto di Ufficio è neutro rispetto all’ordine delle imputazioni […]. Strumento ai fini dell’imputazione è invece l’Organo, e sono Organi solo quegli Uffici che le Norme indicano come idonei ad operare l’imputazione giuridica all’Ente».


Non è dubitabile, infatti, che canonicamente la potestà –sempre connessa all’Ufficio come tale– sia di per sé personale (e così viene conferita e gestita) di chi ricopre gli Uffici di vertice, come avviene per i Moderatori supremi ed i Superiori maggiori ed i loro Vicari, questi infatti esercitano una potestà che, per quanto non “propria”, è ancora una volta ‘personalissima’, conferita da persona a persona senza che alcun Ente possa giocare elementi di alcun rilievo. L’Ufficio e non l’Organo governano dal punto di vista canonico gli IVC/SVA (e l’intera Chiesa nelle sue diverse Circoscrizioni anche gerarchiche) realizzando una prospettiva del tutto irriducibile a quelle civilistiche, sia in termini di imputazione che –conseguentemente– di responsabilità. Snodo della problematica, infatti, è la c.d. imputazione di fattispecie che nell’Organo


«è la più ampia delle imputazioni giuridiche pensabili dopo quella della persona fisica: è più di un’imputazione di atti, in quanto si estende agli stati soggettivi, ai comportamenti e ai fatti volontari, e coinvolge i fatto involontari se e in quanto produttivi di conseguenze o effetti in capo ad un soggetto. Essa vale quindi a determinare le differenze con le imputazioni del rappresentante, dei sostituti, e con quelle che strutturalmente si concretano in soggezioni di responsabilità per fatti non propri. […] Non è dunque che gli atti dell’Organo si considerano “come se” fossero della persona giuridica […] è che le fattispecie giuridiche poste in essere o subite dall’Organo, che la Norma dica rilevanti per l’Ente, si imputano all’Ente».


Esattamente quanto non può avvenire in campo canonico. Basti in merito la chiarissima statuizione del Can. 1281 §3 secondo cui gli atti invalidi degli Amministratori ricadono sulle Persone giuridiche solo nella misura in cui le stesse ne abbiano tratto vantaggi.

Questo, tuttavia, difficilmente è recepito in campo statuale poiché risulta molto più comodo applicare anche agli Enti canonici le logiche e Norme già vigenti –di Paese in Paese– per quelli civili, creando così un evidentissimo disallineamento tra i due generi di Ordinamenti e, anche, tra diversi Ordinamenti statuali in contemporanea sulla stessa questione, come potrebbe capitare per una Provincia religiosa o l’intero Istituto a riguardo di vicende che abbiano motivi legali di connessione coi territori di vigenza di più Ordinamenti.

A queste difficoltà deve aggiungersene un’altra, non minore, derivante dal –puro– fatto che l’effettiva responsabilità dei Moderatori supremi (e dei Superiori maggiori) degli IVC/SVA per quanto riguarda le attività dei loro Istituti, seppur fondata unicamente ed esclusivamente nel Diritto canonico, finisce però per concretizzarsi giuridicamente in massima parte in base al Diritto civile che regola le attività/circostanze per le quali tale responsabilità possa sorgere. Si pensi –per capire– ad una circostanza in cui in occasione di un’attività che coinvolga un certo numero di persone insieme a religiosi, casomai fuori dalla Casa religiosa di appartenenza (com’è un pellegrinaggio), qualcuno si faccia male o scoppi una lite. All’arrivo delle Forze di Polizia l’Ufficiale chiede: «chi è qui il responsabile?», inteso come referente istituzionale dell’attività che si sta realizzando, visto che non si tratta di persone singole autonomamente ritrovatesi nello stesso luogo per svolgervi un’attività semplicemente concomitante. Dal punto di vista della Legge civile si tratta di una domanda che non ha risposta, poiché nessuna Legge civile è in grado –dall’esterno– di determinare quale sia la “scala gerarchica” (o la “catena di comando”, per usare una terminologia civilistica estranea alla sensibilità canonica ma chiaramente perseguita dalle Autorità civili) di una comunità religiosa. Il Magistrato sarebbe costretto a ricorrere al Diritto canonico per individuare chi sia “il responsabile”, fatto ciò, tuttavia, applicherebbe comunque il solo Diritto civile nell’individuare e perseguire gli eventuali profili di responsabilità in capo al responsabile così individuato.

Quanto illustrato comporta che non sia possibile definire e descrivere i titoli di responsabilità in modo generale e generico (=a priori) al di fuori degli Ordinamenti/Stati in cui sorgano gli elementi di responsabilità concretamente implicati di volta in volta. Si procederà pertanto nelle presenti note delineando la tematica a partire dal campo canonico, valido per tutti gli Istituti, per passare poi al campo statuale dando attenzione a problematiche soltanto generali (non comparatistiche) che possano dare una ragionevole idea delle questioni in gioco.

2. TITOLO DI RAPPRESENTANZA

Per semplicità di trattazione –ma anche teoretica– si preferisce iniziare dall’amministrazione delle cose anziché dal governo delle persone; amministrazione delle cose che si concretizza, a livello di responsabilità, in massima parte nell’Istituto giuridico della Rappresentanza degli Enti almeno dal punto di vista canonico, per quanto –in realtà– gli IVC e le SVA si caratterizzino in questa materia per la possibilità di non avere come responsabile delle cose (=diritti ed attività) il responsabile delle persone, cioè il Superiore (religioso) come tale.

Da questo punto di vista si parla di responsabilità “a titolo di Rappresentanza” quando la relazione, la connessione, tra la persona fisica che esercita la Rappresentanza di un Ente e qualche atto/fatto di rilievo giuridico lesivo di terzi e/o loro beni/diritti si fonda sulla Rappresentanza dell’Ente stesso, agendo in nome e per conto suo; poco importa se come Ufficio o come Organo. Tale Rappresentanza, però, va distinta dall’Amministrazione dell’Ente stesso, poiché si tratta di attività che, pur connesse, sono assolutamente distinte: l’Amministrazione, infatti, fa decidere l’Ente, mentre la Rappresentanza lo fa operare giuridicamente, soprattutto verso l’esterno… a livello contrattuale. A questo proposito la dottrina civilistica italiana precisa la corretta portata della terminologia normalmente utilizzata, specificando che

«l’Organo o gli Organi aventi la legale Rappresentanza non sono affatto dei Rappresentanti: è rimasta solo l’antica denominazione, perché in realtà sono Organi che la Norma, per ragioni di certezza dei rapporti giuridici, designa come assegnatari esclusivi della funzione attinente alla dichiarazione esterna, nelle vicende dei rapporti intersoggettivi: la funzione ha rilievo preminente nei rapporti patrimoniali –ossia una competenza alla dichiarazione negoziale, alla conclusione di contratti, a ricevere dichiarazioni negoziali altrui– e in quelli processuali –ossia è competente a stare in Giudizio nelle liti attive e passive–»;


la Rappresentanza normalmente intesa, infatti, si colloca nella linea della volontarietà e non-esclusività, mentre la specifica di “legale” rimanda all’origine a Iure (se non proprio ex Lege) dell’Istituto giuridico qui in esame. La questione rileva in modo particolare proprio in rapporto alla responsabilità poiché questa nella sua componente essenzialmente ‘passiva’ –a differenza dell’attività contrattuale (attiva)– ricade sempre con ineluttabilità su colui che il Diritto ha indicato come “legale Rappresentante”, né può essere demandata ad altri come può, invece, avvenire per il compimento di qualche contratto o attività assimilabile. Ciò, tuttavia, non significa in nessun modo che la persona fisica debba farsi carico (né venga caricata) individualmente di quanto contestato all’Ente come tale, poiché


«non ha fondamento l’idea che l’Organo dell’Ente avente la Rappresentanza sia il responsabile di ogni fatto dell’Ente, altro essendo la responsabilità altro l’esser convenuti in Giudizio per fatti dell’Ente».

La summenzionata prassi di distinguere il Superiore (religioso) dal legale Rappresentante dell’IVC/SVA come tale o sue porzioni (Province, ecc.), liberando così quasi sempre i Moderatori supremi da questo genere di rischi, non esime in questa sede dall’esposizione di alcuni elementi semi-pratici che comunque concorrono alla delineazione ed insorgenza del titolo di responsabilità per Rappresentanza col quale –in ogni modo– gli IVC/SVA devono fare conti molto precisi, sia direttamente che indirettamente.

Il titolo di responsabilità per Rappresentanza degli IVC/SVA sorge, come per qualsiasi altro soggetto, nelle due declinazioni di base della [a] Responsabilità contrattuale e di quella [b] extra-contrattuale (detta anche aquiliana) in base alla natura del rapporto tra l’autore della lesione e la sua vittima: [a1] un Contratto, più o meno ‘tipico’, oppure [b1] qualunque altra forma/modalità di relazione o anche non-relazione (come nell’incidente stradale).

Gli esempi coinvolgenti gli IVC/SVA nell’uno e nell’altro campo sono molteplici poiché quasi sempre chi ‘opera’ all’interno degli Istituti lo fa nel contesto di attività dell’Istituto stesso oppure utilizzando risorse, mezzi e strumenti di proprietà dell’Istituto (autoveicoli, fabbricati, ecc.); non di meno le stesse attività poste in essere dai membri degli IVC/SVA come scuole, cliniche et similia, non lo sono a titolo ‘personale/privato’ dei singoli operatori ma dell’Istituto come tale. Il ‘gioco’ e le problematiche connesse alla responsabilità a titolo di Rappresentanza si fa più complesso quando lo svolgimento delle attività dell’IVC/SVA comporti altresì l’assunzione e direzione di lavoratori dipendenti che partecipino alla realizzazione delle attività dell’Istituto (scuole e cliniche in primis).

Non di meno è necessario considerare che in tutte le circostanze in cui si erogano servizi (dopo-scuola, mense, assistenza infermieristica…) occorre ragionare sempre in termini di responsabilità contrattuale (la più stringente) poiché chi riceve il servizio viene ormai identificato come “utente”, potendo giovarsi delle garanzie e tutele previste per il più ampio spazio dei “consumatori” di cui si tutela l’affidamento verso l’erogatore di tali servizi… presumendo –almeno di fatto– l’insorgenza di un rapporto di “obbligazione” di natura contrattuale, per quanto variamente atipico. Ciò a maggior ragione se e per quanto tali servizi per poter essere lecitamente erogati richiedano specifiche Certificazioni di competenza o professionalità o anche soltanto Autorizzazioni amministrative o sanitarie (p.es.: produzione e distribuzione di pasti).

Poiché normalmente non si tratta del reintegro in forma specifica di un bene danneggiato ma del mero risarcimento economico del suo valore (spesso solo presunto), la conseguenza immediata della responsabilità a titolo di Rappresentanza ricade direttamente non sul Rappresentante ma sulla dotazione patrimoniale dell’Ente in oggetto: l’Istituto religioso come tale o sua porzione giuridicamente autonoma. Si pone così la questione correlata della “limitazione di responsabilità” dei soggetti impegnati in tal genere di attività, consigliando –non solo la distinzione tra le persone di Superiori e legali Rappresentanti ma pure– una radicale distinzione e separazione tra tali soggetti e l’Istituto in sé e per sé attraverso la creazione di c.d. Enti strumentali connessi per via di “volontà politica” all’IVC/SVA anche non dotati di personalità giuridica canonica, come potrebbe essere per Fondazioni o Società cooperative o altre figure civilistiche di natura patrimoniale o commerciale attraverso le quali l’IVC/SVA gestisca specifiche attività soprattutto rivolte ad extra (scuole, cliniche, ecc.).

Salvo ‘leggerezze’ e vere e proprie imprudenze, pertanto, il titolo di responsabilità per Rappresentanza, che può portare sull’orlo del ‘fallimento’ un IVC/SVA, non toccherà il Moderatore supremo nell’esercizio della sua peculiare funzione riguardante essenzialmente non le cose (in quanto Organo di un Ente) ma le persone in ragione dell’Ufficio ecclesiastico ricoperto.

3. TITOLO D’UFFICIO

Già si è detto come l’effettiva responsabilità dei Moderatori supremi (e dei Superiori maggiori) degli IVC, seppur fondata unicamente ed esclusivamente nel Diritto canonico, finisca però per concretizzarsi molto spesso in base al Diritto statuale che trae, almeno di fatto, conseguenze del tutto “proprie” dalle condotte (attive od omissive) di coloro che canonicamente sono intervenuti –o avrebbero dovuto farlo– in vicende che abbiano comportato qualche lesione a terzi e/o loro beni/diritti.

Allo stesso tempo si è posta in evidenza la distinzione strutturale tra “Organi” (di Enti) ed “Uffici” (all’interno degli stessi Enti), per quanto tale distinzione –tutta civilistica– rimanga assolutamente inadeguata all’interno dell’Ordinamento canonico a causa dell’assenza di “supremazia” delle Persone giuridiche pubbliche canoniche rispetto agli altri soggetti ecclesiali. A tal riguardo è stata espressa anche la specificità di allocazione della potestà ecclesiale nelle persone e non  negli Enti, essendo tale potestà conferita ed esercitata in modo personalissimo (=“proprio”) da coloro che ricoprono gli Uffici apicali di governo ecclesiale e non esercitata da essi quali “Organi” di Enti dotati di supremazia/imperio, in totale indipendenza –per di più– dall’eventuale Rappresentanza (contrattuale) degli Enti stessi (v. supra).

A partire da queste premesse, si parla di responsabilità “a titolo d’Ufficio” quando la relazione, la connessione, tra la persona fisica che ricopre un “Ufficio ecclesiastico” in senso vero e proprio e qualche atto/fatto di rilievo giuridico lesivo di terzi e loro beni/diritti si fonda sull’esercizio dell’autorità di governo, inteso principalmente nella sua componente potestativa nei riguardi di persone che si trovano soggette alle “decisioni” di tale Autorità/Superiore.

A livello canonico, d’altra parte, non è possibile esercitare sulle persone altro che decisioni che le coinvolgano in determinate attività o da esse le escludano. Nella vita consacrata, a maggior ragione. L’assegnazione ad una Casa religiosa e, in essa, ad una specifica attività/mansione da svolgervi è, infatti, ciò in cui consiste la quasi esclusività delle incombenze d’Ufficio dei Superiori maggiori verso gli altri membri dell’IVC/SVA.

Non di meno per i Moderatori supremi tale attività risulta spesso del tutto marginale poiché si svolge in massima parte a livello di Provincie dell’Istituto e coloro che operano al livello “generale” dell’IVC/SVA lo sono normalmente per scelta di altri: Elezioni, Presentazioni, ecc.

Ciò nonostante qualche riflessione su questo titolo di responsabilità risulta utile poiché, quando si tratti di vicende che comportino una componente –spesso purtroppo– principalmente penalistica, anziché civilistica (=economica), sono proprio elementi e fattori connessi all’esercizio dell’Ufficio apicale ad entrare in gioco aprendo la strada alla “responsabilità oggettiva” di cui l’attuale Diritto penale (statuale) si pasce… almeno in chiave deterrente e preventiva, implicando spesso anche i profili del titolo personale di responsabilità (v. infra).

Due risultano essere le responsabilità fondamentali imputabili “a titolo d’Ufficio”: [a1] la responsabilità in eligendo e [b1] la responsabilità in vigilando; tipologie che potrebbero essere distinte come [a2] responsabilità in ragione delle persone (quella in eligendo) e [b2] responsabilità sulle persone (quella in vigilando). Due responsabilità piuttosto diverse nel loro delinearsi ed articolarsi soprattutto in ragione della qualità dell’apporto di coloro a cui possano venir eventualmente contestate: [a3] maggiormente attiva quella in eligendo, [b3] tendenzialmente passiva quella in vigilando. Col fatto, però, che in sede giudiziale le cose si capovolgono poiché, se possa essere dimostrata [a4] la non possibilità d’intervenire efficacemente in sede di designazione delle persone, [b4] l’inerzia (=il non aver fatto) verso condotte problematiche risulta sempre riprovevole. Anche l’oggetto specifico di attenzione, a ben vedere, risulta diverso nelle due responsabilità: [a5] le caratteristiche della persona, in eligendo, [b5] le sue condotte, in vigilando.

Sempre a livello generale previo è necessario specificare con chiarezza che in campo canonico il titolo di responsabilità d’Ufficio sorge solo ed esclusivamente nei confronti delle persone membri dell’Istituto, poiché nei riguardi dei non-membri i legami non possono mai essere “potestativi” (derivanti cioè dalla potestà di governo ecclesiale esercitata ratione Officii) ma saranno sempre e comunque di natura espressamente “civilistica” in base alla tipologia di tali rapporti ed al luogo in cui essi prendano corpo.

3.1 La responsabilità in eligendo

Si tratta della responsabilità che prende corpo in modo quasi esclusivo in sede di “designazione” delle persone a ruoli, compiti, funzioni, incarichi, che i Superiori degli IVC/SVA sono chiamati ad affidare all’interno della vita ed attività dei propri Istituti a norma del Diritto sia universale che proprio, soprattutto in rapporto alle specifiche attività svolte dagli IVC/SVA con ricadute all’esterno dell’Istituto stesso. Scuole, orfanotrofi, nosocomi, cliniche, centri di accoglienza, istruzione professionale, editoria… fino all’attività pastorale eventualmente svolta in quanto affidatari di una Parrocchia (secondo il Can. 520 e correlati).

Dal punto di vista canonico si tratta di quanto concerne l’affidamento di Uffici ecclesiastici propriamente detti (nonostante questa concettualizzazione risulti insufficiente per gli IVC/SVA al proprio interno) ma anche intesi in senso lato quali “posizioni operative” all’interno dell’organizzazione ed attività dell’Istituto stesso (dalla cucina alla portineria, dalla contabilità alla manutenzione, dall’insegnamento al supporto didattico, dalla corsia alla sala operatoria…).

Si tratta di un’attività particolarmente delicata poiché riguarda le persone come tali, la valutazione delle capacità, attitudini e qualità, necessarie per ricoprire la “posizione” in oggetto e la reale adeguatezza –intesa come corrispondenza anche psico-fisica– tra la persona e quanto le viene affidato (o richiesto), le sue caratteristiche e quelle della posizione in oggetto. Esistono poi anche elementi di professionalità tecnica (Diplomi o Lauree) e/o di equilibrio psico-affettivo ed esistenziale per poter esercitare attività rivolte soprattutto a terzi, tanto più se in condizioni di ‘minorità’, di ‘limite’ o ‘disagio’ più o meno diretto o anche solo potenziale (sanità, istruzione... pastorale).

Faciloneria, pressapochismo, superficialità… necessità (!!!), urgenza, si oppongono sempre alla natura stessa di un’adeguata designazione ed a quanto richiesto in questo ambito anche a livello giuridico: canonico in primis. Proprio, però, l’inosservanza sostanziale –anche e soprattutto– sia delle Norme giuridiche specifiche (canoniche) che della più generale ragionevolezza e senso della realtà saranno valutate in sede giudiziale extracanonica per imputare in modo personale all’Autorità ecclesiale de qua le sue responsabilità giuridiche.

Anche se la responsabilità in eligendo si caratterizza in modo specifico per la sua collocazione temporale molto limitata, riducendosi ai Procedimenti di designazione e conferimento delle “posizioni” dei membri all’interno della vita ed attività (diretta o indiretta) dell’IVC/SVA, essa tuttavia non si estingue in riferimento alle persone stesse ma assume pure un carattere in qualche modo permanente ed incrementale ogni qualvolta la stessa persona sia destinataria di nuove designazioni (tanto confirmatorie che innovative).

Fatti e circostanze delle persone, però, non sono stabili nel tempo in modo che: semel aptus semper aptus. Età, salute, competenze, attitudini, abilità, cambiano col tempo ed il ‘migliore’ quarant’anni fa non lo è certo più oggi. Nel tempo, però, mutano –o possono mutare– anche le condotte delle persone… e qualcuno potrebbe essersi manifestato palesemente non-adatto ad esercitare determinate funzioni o attività, soprattutto in contesti specifici.

In tali casi, riconferme o semplici déplacements potrebbero, invero, generare specifiche responsabilità in eligendo proprio a causa dell’evidente non-considerazione accordata alla –più o meno– evidente mancanza di adeguatezza alla “posizione” in oggetto… soprattutto nel caso in cui la nuova designazione faccia seguito a comportamenti quantomeno problematici nella materia specifica… ciò che attiverebbe, però, i profili più tipici della responsabilità in vigilando (v. infra).

Per quanti riguarda i Moderatori supremi degli IVC/SVA –tranne i casi in cui spetti ad essi designare liberamente a qualche “posizione” all’interno dell’Istituto o sue specifiche ripartizioni o Enti strumentali– gli estremi sia generali sia più specifici della responsabilità in eligendo tendono ad attenuarsi fino a sparire quasi. Ciò soprattutto in ragione del fatto che difficilmente ai vertici degli IVC/SVA si accede per cooptazione (o “libero conferimento”) in modo del tutto autonomo e diretto da parte dell’Autorità superiore –per quanto anche dovendo ascoltare specifici “Pareri” (cfr. Can. 127)– ma preferenzialmente attraverso percorsi collegiali di designazione (=Elezione), p.es., capitolare.

In tal modo la responsabilità in eligendo in capo al Moderatore supremo si attenua poiché tali persone vengono in realtà designate da altri… e la suprema Autorità dell’Istituto provvede solo alla loro Conferma (da Elezione) o Istituzione (da Presentazione) dopo che la valutazione delle capacità, attitudini e qualità, necessarie per ricoprire la “posizione” in oggetto è stata sottoposta a specifica attività istituzionale di terzi, ad normam Iuris (secondo Statuti, Regolamenti, Procedimenti, Protocolli, ecc.). Canonicamente si parla in tal caso di Provvisione necessaria nella quale il Moderatore supremo, in mancanza di espresse, evidenti ed a lui conosciute, contro-indicazioni non è pienamente libero di non dar seguito a quanto valutato e deciso da altri.

3.2 La responsabilità in vigilando

La responsabilità dei Superiori in vigilando –come già accennato– si delinea come responsabilità sulle persone principalmente in ragione delle loro condotte nelle “posizioni” as esse assegnate attraverso la dinamica della designazione-conferimento sopra indicata.

Si tratta di una responsabilità difficile da delineare nei propri elementi e confini poiché quanto generalmente –e spesso anche solo genericamente– indicato a livello di “vigilanza” soprattutto in campo canonico soffre non solo di indeterminatezza ma, molto maggiormente, di reale inconsistenza scivolando spesso nella parenesi o nella “pastoralità” inconcludente del “laissez faire”… fino a quando qualcuno non faccia “scoppiare qualcosa” attraverso i media o addirittura in Tribunale.

Per contro, in ambito canonico, la “vigilanza” si è espressa tradizionalmente prima di tutto con la “visita” (canonica) ed il “controllo” tanto delle persone, che delle strutture, che delle attività, all’interno di una prospettiva espressamente disciplinare volta alla concreta verifica del reale funzionamento sia della vita (consacrata, in questo caso) che delle attività poste in essere al suo interno o in occasione di essa. La figura tradizionale del “Visitatore” (capitolare) nella vita religiosa ricopriva un ruolo tutt’altro che secondario o di semplice emergenza.

Si è accennato ad una prospettiva tendenzialmente passiva della responsabilità in vigilando (v. supra) così da porne in luce l’elemento di maggior fragilità e debolezza strutturale: la “vigilanza” –infatti– non s’impone a colui che ad essa sia tenuto (=il Superiore) il quale, spesso, è più portato a ritenerla una facoltà piuttosto che un vero e proprio dovere d’Ufficio… al punto da farne, troppo spesso, un’attività del tutto straordinaria, da “minacciare” verso qualcuno anziché da realizzare verso tutti.

Ciò porta spesso all’instaurarsi di cattive-pratiche (=il contrario delle “best practices” di cui tanto oggi si favoleggia nella Teoria dell’organizzazione) che diventano veri e propri standard negativi in cui prosperano scorrettezze, arbitrii, interessi, quando non anche malversazioni, illeciti ed abusi… tanto in modo individuale (=di qualcuno) che istituzionale (=degli Enti come tali).

La mancata vigilanza, soprattutto contro le Norme giuridiche che la impongono a specifici Uffici come dovere istituzionale, risulta sempre oggetto d’imputazione di responsabilità; tanto più spesso a livello penale che non semplicemente civilistico. La non-vigilanza da parte di chi esercita autorità di governo, infatti, tende ad implementare i profili della negligenza grave e –più ancora– del mancato impedimento alla commissione di Delitti o Reati, fino a scivolare addirittura nel favoreggiamento (o anche complicità) nei casi in cui emerga la conoscenza certa di condotte inadeguate o riprovevoli, insieme all’evidenza del non aver provveduto con l’utilizzo di tutti i mezzi materialmente e moralmente a disposizione per farle cessare ed impedirle anche in futuro.

La responsabilità a titolo d’Ufficio in vigilando risulta più prossima ai Moderatori supremi degli IVC/SVA rispetto alle varie fattispecie sin qui menzionate, poiché li coinvolge sempre in modo diretto e personale in linea di principio (ed in via pregiudiziale) in ragione della præsumptio Iuris che tutto quanto il Diritto assegna, riserva o riconosce all’Ufficio di governo supremo dell’Istituto sia in effetti realizzato in modo congruo e scrupoloso. La prova contraria –sebbene ‘incriminante’– è fornita dai fatti, che spesso palesano almeno vere e proprie “omissioni” di gravi doveri d’Ufficio.

La posizione di responsabilità dei Moderatori supremi si aggrava spesso, in quest’ambito, in ragione e funzione delle conoscenze che gli stessi abbiano effettivamente e concretamente ricevuto circa atti e condotte di membri dell’IVC/SVA (o di attività di Enti facenti capo all’Istituto stesso) in qualunque modo, momento e circostanza ciò si sia realizzato. Il principio giuridico ormai generalmente recepito ed applicato –soprattutto in ambito statuale– è perentorio: chi sa deve impedire! Chiunque sappia deve adoperarsi per impedire! Certamente in modo ‘proporzionato’… ma quali sono le ‘proporzioni’ proprie del “Moderatore supremo” dell’Istituto? Il Moderatore supremo –secondo il Can. 622– non ha forse «potestà […] su tutte le Province dell’Istituto, su tutte le Case e su tutti i membri»? Come negarlo dinnanzi ad un Giudice?

Questo profilo porta così a quello successivo delle responsabilità a titolo personale.

4. TITOLO PERSONALE

Se, in linea di massima, la responsabilità a titolo di Rappresentanza (di un Ente) risulta essenzialmente civilistica indirizzandosi alla tutela contrattuale ed extra-contrattuale dei terzi (coinvolgendo più spesso l’Ente che non i suoi Rappresentanti o Amministratori), si è già visto –non di meno– come l’eventuale responsabilità a titolo d’Ufficio, soprattutto in vigilando, sia invece adatta a rilevare in campo penale quale condotta di non impedimento della commissione di un Reato. Questo, però, non significa che il “personale” sia necessariamente “penale”… poiché nel “titolo personale” rientrano tutte le condotte individuali di per sé non connesse a ruoli e funzioni istituzionali.

Di fatto si parla di responsabilità “a titolo personale” quando la relazione, la connessione, tra la persona fisica che opera e qualche atto/fatto di rilievo giuridico lesivo di terzi e/o loro beni/diritti si fondi su atti e/o condotte della persona fisica come tale, indipendentemente da quali ne siano le funzioni o ruoli all’interno di qualunque Ente o Istituzione, come avviene –p.es.– col non rispetto del Codice della strada, in rapporto al quale non ha alcun rilievo ‘chi sia’ il conducente di un veicolo coinvolto in un incidente.

La rapportabilità alla figura ed al ruolo di Moderatore supremo di IVC/SVA del grande numero di possibili fattispecie di responsabilità a titolo personale (sia civile, che amministrativa, che penale) non risulta immediata né in ambito canonico né in ambito statuale; né risulta facile indicare principi di massima comunque validi.

Si potrebbe tuttavia indicare quale criterio, poco più che empirico, il considerare la persona del Moderatore supremo come semplice fedele (nell’Ordinamento canonico) o come semplice cittadino (in quello statuale). In tal modo l’eresia o il procurato aborto, vedrebbero il Moderatore supremo (tanto uomo che donna) nella condizione di qualunque fedele, così come l’attentato matrimonio lo vedrebbe nella condizione di qualunque altro religioso; ciò canonicamente.

Non diverse sarebbero –nell’Ordinamento giuridico statuale– la guida in stato d’ebrezza, l’esportazione illegale di valuta, la detenzione di sostanze illegali, le lesioni personali, la diffamazione, il sequestro di persona. La specifica condizione di Moderatore supremo di un IVC/SVA potrebbe semplicemente costituire in qualcuno di questi casi l’occasione concreta che ha generato tale condotta, ma nulla di più. Si pensi al Superiore generale che andando a far visita ad una comunità dell’Istituto fuori dalle aree politico-economiche a più alta regolamentazione finanziaria (Europa, p.es.) porti con sé quantità di denaro –di legittima proprietà dell’IVC/SVA– necessarie alle attività dell’Istituto in terra di missione ma superiori a quanto permesso dalle Leggi del luogo/momento.

Del tutto sui generis e ben difficilmente inquadrabili a priori sono le questioni di carattere penale in campo statuale, soprattutto quelle connesse di per sé al titolo d’Ufficio (di Moderatore supremo dell’Istituto) ma perseguite di fatto in via personale da parte delle singole e diverse Magistrature e Giurisdizioni statuali.

L’esempio delle conoscenze acquisite ratione Officii circa la condotta altamente inadeguata e forse pure delittuosa di un membro dell’Istituto, utilizzate dal Magistrato per contestare al Superiore generale “connivenza” o “ostacolo alla giustizia” è palese nella sua complessità. Complessità che aumenta quando tale Moderatore supremo avesse già a sua volta tentato d’intervenire nei confronti della stessa difficile situazione attraverso gli strumenti giuridici canonici, sia disciplinari che penali, ma invano a causa dell’insufficienza dell’impianto accusatorio o comunque delle Prove di effettiva colpevolezza del religioso.

Non di meno questo genere di questioni pone ben altri motivi di attenzione, quando non anche di seria preoccupazione circa, p.es., l’adeguata collocazione della “sede” giuridica –con annesso Archivio– della Curia generalizia dell’IVC/SVA e la residenza ufficiale del Moderatore supremo. Tale Sede, infatti, in quanto comunque appartenente ad uno specifico territorio risulta immancabilmente soggetta alle Leggi dello Stato competente; soggezione che comporta anche la possibilità di accesso giudiziale (e sequestro di materiali e documentazione) da parte della Magistratura locale.

Non meno rilevante –agli  stessi effetti– è la cittadinanza del Moderatore supremo dell’IVC/SVA: da essa potranno dipendere, infatti, molti elementi e fattori connessi alla sua responsabilità (soprattutto penale) a titolo d’Ufficio perseguibile però solo personalmente. Cittadinanza e residenza (di Diritto e di fatto) si intrecciano spesso in modi altamente intricati permettendo o negando accessi, arresti, estradizioni… elementi tutti che giocano sovente ruoli decisivi soprattutto nelle vicende più spiacevoli per la Chiesa tutta.

Si ricordi –solo esemplificativamente– quanto accaduto in Belgio nel luglio del 2010 quando la Magistratura fece mettere sottosopra –in modo assolutamente discutibile– la cattedrale di Saint Rombout a Malines, violando le tombe dei Cardinali Desiré-Félicien Mercier, Jozef-Ernest Van Roey e Léon-Joseph Suenens, oltre all’abitazione del Cardinale Godfried Danneels e alla sede della Commissione indipendente creata dalla Chiesa belga per indagare sugli abusi sessuali (sequestrando 475 dossier) alla ricerca di documentazione su abusi sessuali della metà del Novecento.

5. ALTRI ELEMENTI DI RILIEVO GENERALE

In chiusura –per quanto non “a conclusione”– del percorso sin qui realizzato pare opportuno segnalare qualche ulteriore elemento che merita considerazione in tema di responsabilità dei Moderatori supremi di IVC/SVA principalmente in campo extra-canonico.

1) La portata reale, concreta ed effettiva –oltre alla specifica ‘natura’– delle responsabilità che possano essere imputate ad un Moderatore supremo di IVC/SVA al di fuori dell’ambito canonico sono connesse quasi esclusivamente –e dipendono– in massima parte dalla possibilità di essere posti in stato di accusa da qualche Magistratura, soprattutto penale, in grado di eseguire non tanto il Processo ma la successiva eventuale condanna. Come sopra accennato, questo dipende prima di tutto dalla Sede della Casa generalizia e dalla Cittadinanza del Superiore generale, visto che le Leggi penali di qualsiasi Stato devono fare conti molto precisi con quelle degli altri Stati e che nessun Paese tende in questa materia ad essere troppo remissivo o acquiescente. Unica variante significativa sono gli Accordi ed i Trattati (spesso bilaterali) di Estradizione da e per determinati Paesi. Elementi e fattori che superino la portata della giustizia penale ‘ordinaria’ non rientrano nel concetto di “responsabilità” sin qui considerato.

2) Nella stessa linea sostanzialmente ‘geografica’ si pongono pure alcune delle questioni rilevanti in materia finanziaria e fiscale, non tanto del Moderatore supremo ma dell’Istituto come tale; materie in cui –comunque– possono darsi elementi di responsabilità in qualche modo a lui riconducibili, soprattutto in ragione del titolo di Rappresentanza, se effettivamente presente oppure se gestito in sede statuale su altre basi di riferimento giuridico generale (v. infra).

Si tratta del patrimonio finanziario (o di una sua parte) dell’Istituto e del regime tributario applicato ad esso e/o alle attività svolte dall’Istituto stesso, normalmente presso la Sede della Casa generalizia: la Legislazione finanziaria e tributaria in materia di capitali ed attività economiche che l’IVC/SVA possa detenere e gestire potrebbe comportare o anche escludere specifiche responsabilità in capo ai vertici dell’Istituto stesso.

3) Altro elemento di grande rilievo in questo genere di materie, per quanto solitamente non considerato, è la differenza di concezione e presunto funzionamento giuridicamente rilevante tra il “trust” tipico dei Sistemi di common Law e la “persona giuridica” dei Sistemi di civil Law: differenza che può annullare completamente le questioni (e tutele) legate all’Istituto giuridico della Rappresentanza così come gestita in ambito europeo continentale (e più sopra indicate). Il mondo anglosassone, infatti, molto meno formalistico di quello latino-germanico guarda con più immediatezza alla realtà di implicazione, coinvolgimento ed attività di chiunque all’interno delle vicende a risvolto giuridico-economico privilegiando quasi esclusivamente gli elementi ‘oggettivi’ rispetto a quelli formali. È questo uno dei motivi della gravissima crisi patrimoniale che ha colpito le Diocesi statunitensi in conseguenza delle diverse condanne per abusi da parte di chierici negli ultimi vent’anni. In common Law non esistono sistemi economico-patrimoniali “isolati” e “stagni” ma: dove le persone ‘comunicano’, ‘comunicano’ anche i patrimoni e viceversa.

4) Ultimo elemento generale da considerare, in qualche modo come corollario, è la dimensione dell’IVC/SVA intesa dal punto di vista geografico. Le cose, infatti, cambiano radicalmente quando si passa da un IVC/SVA internazionale (ed inter-continentale) ad uno intra-nazionale: per quest’ultimo –infatti– non valgono le considerazioni appena svolte nei punti 1-2-3, visto che tutto ricade all’interno di un unico Ordinamento giuridico statuale. In tal modo praticamente tutte le responsabilità imputabili al Moderatore supremo saranno solo quelle possibili all’interno di quell’Ordinamento giuridico, senza alcuna reale incertezza in merito.


Non si affrontano in questa sede, poiché, tematiche comunque non ‘generali’: la c.d. responsabilità dell’Organizzazione né la responsabilità oggettiva attraverso cui un numero sempre maggiore di Ordinamenti giuridici statuali intende offrire comunque qualche tutela a chi in qualche/qualunque modo possa essere stato (ingiustamente) danneggiato nel rapporto con qualunque tipo di Organizzazione.


in: COMMENTARIUM PRO RELIGIOSIS ET MISSIONARIIS, LXXXXV (2014), 31-55.