La didattica nell’insegnamento del diritto canonico

 

Paolo Gherri

 

 

Premessa

Introduco il mio apporto alla riflessione del G.I.D.D.C. su “l’insegnamento del diritto canonico” in Italia oggi, con la precisazione che non sono un “didatta” (uno specialista, cioè, della Teoria dell’insegnamento) ma solo un “docente” che ha fatto sulla propria pelle l’esperienza dell’insegnamento del diritto canonico in tre delle quattro sedi/tipologie nelle quali viene insegnato a livello ecclesiastico (interno, cioè, alle strutture accademiche della Chiesa cattolica[1]). Un docente che in queste riflessioni condivide la propria esperienza d’insegnamento del diritto canonico (la didattica, appunto) e non parla, invece, di come oggi il diritto canonico viene concretamente insegnato[2].

E proprio da non-specialista –consapevolmente– non mi avventurerò in nessuno dei campi specifici della didattica, né della sua dottrina, né della sua letteratura, preferendo attuare ad alta voce una riflessione auto-critica sul mio modo d’insegnare, ed in particolare i suoi presupposti e le scelte effettuate in merito, secondo il metodo cartesiano dell’analisi consapevole del come si sono conseguiti i propri migliori risultati[3].

 

Per quanto riguarda, poi, la didattica come tale ho la convinzione che le questioni che la riguardano siano dello stesso ordine di quelle riguardanti il metodo (di studio e ricerca), su cui ancor oggi regna una ‘dialettica’ mai sopita tra ‘categorialisti’[4] (che postulano un metodo ‘proprio’ per ogni disciplina o sapere[5]) e ‘trascendentalisti’ (che professano un unico metodo generale e ‘strutturale’ di apprendimento, studio e conoscenza[6]) …riferendomi in questo alla riflessione ‘metodologica’ di B. Lonergan[7], che assumo pleno corde.

Ciò che vale dal punto di vista metodologico (nel quale mi professo assolutamente ‘trascendentalista’[8]) credo possa (o debba) valere anche a livello didattico[9]: la didattica è unitaria e non muta sostanzialmente, né in funzione delle specifiche discipline né ai diversi livelli di docenza… per quanto sia palese che insegnare chimica inorganica o letteratura cinese tradizionale ha e comporta –ma solo sul piano pratico– elementi, fattori e strumenti del tutto differenti, non privi di ‘presupposti’ anche a livello teoretico, per quanto –in realtà– ciò consegua in massima parte dai differenti statuti epistemologici e dalle diverse metodologie adottate all’interno anche delle stesse discipline: da ciò che, in un altro eone epistemologico, veniva chiamato “obiectum formale quod”. Di conseguenza ritengo che non si possa (né si debba) parlare di una –espressa– “didattica canonistica”, come qualcosa di specifico, quanto piuttosto che si debbano conoscere e valutare un certo tipo e numero di istanze espressamente canonistiche di cui la didattica dovrà tenere adeguatamente conto per rispondere alle esigenze specifiche sia della conoscenza e dello studio del diritto canonico, sia degli studenti che in esso si occupano, sia dei suoi futuri ‘operatori’.

 

Detto ciò a livello di presupposti soggettivi[10], non credo che a livello di contenuti oggettivi il mio possibile apporto –nonostante il titolo assegnatomi– possa o debba essere ridotto ai meri strumenti materiali e tecnici –del tutto generali, generici e ‘qualunquistici’– a disposizione della didattica attuale: multimedialità, telematica, e-learning, ecc. che, per altro, in parte utilizzo da anni (pur senza esserne uno specialista, poiché sono e rimango un autodidatta) con qualche efficacia pratica ma senz’alcuna enfasi teoretica… anzi, con non poche perplessità gnoseologiche rispetto all’efficacia certa dei ‘vecchi’ metodi didattici –il frontale in primis– attraverso il quale è passata al mia stessa formazione.

 

Mi pare, invece, più interessante, proprio in questa sede, riflettere sulla didattica in quanto “struttura e progettazione dell’insegnamento”, nell’ottica della progettazione del corso, della sua strutturazione globale e dell’articolazione interna; elementi che comportano prima di tutto l’aver presente sia [a] il target che [b] la tipologia dei destinatari della docenza stessa. Ciò in modo specifico per i vari livelli d’insegnamento istituzionale ecclesiastico, tenendo conto soprattutto delle loro specifiche ‘destinazioni’ post-didattiche (più o meno ‘professionali’): ciò a cui il diritto canonico studiato servirà nella vita degli studenti stessi all’interno di un orizzonte che va dagli insegnanti di religione cattolica delle scuole italiane, a quelli delle facoltà teologiche e dei seminari e/o degli istituti/Studi teologici loro connessi, a quelli che insegneranno nelle facoltà di diritto canonico o, nell’assoluta maggior parte, eserciteranno attività giuridica pratica in curia o in tribunale ecclesiastico. Non verranno effettuate, invece, considerazioni sull’insegnamento del diritto canonico in sedi accademiche non-ecclesiali, quali sono le facoltà pubbliche o private inserite nel circuito universitario nazionale, nelle quali tale insegnamento riguarda solo pochissimi corsi curricolari o opzionali spesso anche solo monografici e, ad oggi, in costante regressione rispetto ad altre discipline, prima tra tutte il diritto ecclesiastico (dello Stato in materia di religioni e di culti[11]).

 

Proprio in chiave di struttura e progettazione dell’insegnamento credo si possa convenire facilmente sul fatto che la trattazione del [d] come si insegna (=la didattica) non possa prescindere [a] dal cosa si insegna (=la disciplina), né [b] dal perché lo si insegna (=il target), ma neppure [c] dal dove lo si insegna (=la struttura accademica); senza confondere la “didattica” in sé e per sé con quelli che sono–e rimangono– soltanto “strumenti della didattica”.

 

E proprio alla didattica come tale indirizzerò la mia maggior riflessione mantenendomi in ambito espressamente tecnico, non potendo –purtroppo– valorizzare direttamente le suggestive parole con cui Pavel Florenskij parlava della (sua) “lezione”.

 

«La lezione non è un tragitto su un tram che ti trascina avanti inesorabilmente su binari fissi e ti porta alla meta per la via più breve, ma è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale ben preciso, o meglio, su un cammino che ha una direzione generale ben precisa, senza avere l’unica esigenza dichiarata di arrivare fin lì, e di farlo per una strada precisa. Per chi passeggia è importante camminare e non solo arrivare; chi passeggia procede tranquillo senza affrettare il passo. Se gli interessa una pietra, un albero o una farfalla, si ferma per guardarli più da vicino, con più attenzione. A volte si guarda indietro ammirando il paesaggio oppure (capita anche questo!) ritorna sui suoi passi, ricordando di non aver osservato per bene qualcosa di istruttivo. I sentieri secondari, persino l’assenza di strade nel fitto del bosco lo attirano col loro mistero. In una parola, passeggia per respirare un po’ di aria pura e darsi alla contemplazione, e non per raggiungere più in fretta possibile la fine stabilita del viaggio, trafelato e coperto di polvere. Allo stesso modo, l’essenza della lezione è la vita scientifica in senso proprio, è riflettere insieme agli uditori sugli oggetti della scienza, e non consiste nel tirar fuori dai depositi di un’erudizione astratta delle conclusioni già pronte, in formule stereotipate. La lezione è iniziare gli ascoltatori al processo del lavoro scientifico, è introdurli alla creazione scientifica, è un modo per insegnare attraverso l’evidenza e addirittura sperimentalmente un metodo di lavoro; non è la semplice trasmissione delle “verità” della scienza nella sua fase ‘attuale’, ‘contemporanea’»[12].

 

Per quanto io ritenga che queste considerazioni non siano oggi concretamente applicabili alle lezioni curricolari che ci viene chiesto (o imposto?) di tenere in ambito accademico[13], ma debbano comunque caratterizzare la ricerca in sé e per sé per evitarle di essere brutalmente ridotta alle sole bibliometrie ed indicizzazioni dell’industria del sapere (e del suo finanziamento)[14], non nascondo che il fascino di questa “passeggiata” è quello che spesso cerco di sollecitare anch’io mentre passeggio in aula ‘commentando’ le slides che gli studenti seguono anche ripiegati individualisticamente sui propri tablets, smartphones o net-books, senza neppure alzare lo sguardo al più ampio schermo del video-proiettore. Non di meno, proprio nella stessa circostanza li ‘rimprovero’ spesso per la smania di copiare su carta slides che possono tranquillamente scaricare dall’internet, anziché ascoltare liberamente e lasciarsi accompagnare nell’itinerario –la passeggiata, appunto– nella quale pretenderei comunque di guidarli …in qualche modo.

 

Veniamo, dunque, alla trattazione affidatami[15].

 

 

1. Cosa si insegna

1.1. diritto canonico

Senza voler entrare qui nel dibattito –ancora ampiamente aperto– sulla teologicità o meno del diritto canonico, è comunque irrinunciabile porre un punto fermo che ritengo acquisito (e che potrebbe essere un buon inizio di ‘stabilizzazione’ dell’intera tematica) a riguardo della ecclesialità della canonistica[16] –e subordinata sua docenza– in quanto scienza del diritto canonico.

La questione, al di là delle anche aspre polemiche della metà del secolo scorso, è risolvibile (e non potrebbe comunque risolversi prescindendo) dal punto di vista epistemologico attraverso l’adozione del principio d’indeterminazione di Heisenberg che riconosce comunque l’appartenenza dell’osservatore allo stesso ‘sistema’ che egli pretenda osservare e misurare. Il principio fisico d’indeterminazione ha il proprio corrispettivo nel –pressoché coevo– concetto di “circolo ermeneutico” di Heidegger e Gadamer e trova conferma nelle stesse vicende della canonistica italiana del periodo post-codiciale, segnate dal delinearsi e proficuo operare della c.d. scuola canonistica laica[17] che operò all’interno –principalmente– delle università statali italiane, non senza un’evidente contrapposizione alla c.d. scuola curiale, inadeguatamente indistinta all’interno dello spazio accademico ecclesiale del tempo[18].

 

In questa prospettiva è necessario iniziare senza esitazioni affermando e –al contempo– prendendo atto che l’insegnamento del diritto canonico a cui si fa riferimento in queste note è senza dubbio un’attività ecclesiale: se il diritto canonico, infatti, costituisce la ‘grammatica’ della vita ecclesiale[19], il suo insegnamento è attività specifica della Chiesa e nella Chiesa. Il diritto canonico va insegnato in Ecclesia e cum Ecclesia, non meno della liturgia; qualunque altra ‘collocazione’ potrebbe offrire spunti interessanti di riflessione ‘critica’ ma sarebbe in ogni modo decontestualizzata …e ciò per il diritto non è mai possibile in quanto il diritto costituisce –di per sé– una delle dimensioni viventi della cultura e della socialità: fuori da esse diventerebbe un semplice insieme di fatti o di condotte, potenzialmente unilaterali ed autoreferenziali. Proprio come una ‘grammatica’ fuori della lingua di cui si tratta.

 

Quanto accadde nel Novecento ad opera della scuola canonistica laica italiana è assolutamente significativo in merito: la sostanziale assenza di adeguata e specifica considerazione strutturale ed originante (=costituzionale) della dimensione espressamente ecclesiale del diritto canonico ha infatti portato quegli autori a dover ‘condensare’[20] gli elementi vitali dell’ordinamento giuridico della Chiesa in ‘elementi’ funzionali (in qualche modo dogmatico-ideologici) ‘proprietari’ quali: la salus animarum, la ratio peccati vitandi, ecc. con un risultato teoretico –ed epistemologico– tutt’altro che pacifico e, almeno oggi, non certo accoglibile acriticamente[21]. Il forte riduzionismo contrappositorio, p.es., tra ‘privatezza’ e ‘pubblicità’ del diritto canonico che accese gli animi di Pio Ciprotti e Pio Fedele indica con efficacia la strutturale non appropriatezza di quella prospettiva epistemologica[22].

 

1.2. Contesto teologico

Poiché il diritto, nelle sue strutture e dinamiche di base, è un ‘fenomeno’ pienamente umano[23], non meno della morale e della liturgia che allo stesso titolo appartengono al più vasto ambito ‘deontico’ e non a quello metafisico[24], anch’esso è dotato di una specifica connessione con la comunità che lo ‘osserva’[25]; una connessione che lo modella dall’interno stesso e lo struttura, rendendolo spesso assolutamente diverso da una comunità d’osservanza all’altra. Inutile, infatti, voler pensare –o supporre– che morale, diritto e liturgia come tali nascano col cristianesimo o con la “rivelazione cristiana” o, più ampiamente, con l’esperienza religiosa biblica… Sono, invece, [a] la teologia morale, [b] la liturgia cristiana e [c] il diritto canonico a nascere all’interno stesso della vita ecclesiale –non meno della Tradizione e, in essa, dei testi ‘sacri’–, ad esprimerla e strutturarla in una dinamica di coessenzialità e reciprocità che solo a lungo andare si rende parzialmente visibile permettendo d’individuare specifiche ‘osservanze’ sufficientemente differenti nella propria caratterizzazione (così da poter essere come ‘isolate’ e studiate individualmente) per quanto né autoreferenziali, né indipendenti, né pienamente autonome. I dieci/quindici secoli che sono stati necessari alla Chiesa per mettere a fuoco –a partire dalla grande scolastica– i diversi ambiti disciplinari testimoniano con efficacia tale dato, che rimane comunque di natura epistemologica e non puramente fattuale.

 

Teologia morale, liturgia cristiana e diritto canonico costituiscono specifiche concretizzazioni della fides quærens actionem[26] che spinge i discepoli di Cristo (=i christifideles) a portare nella quotidianità personale e comunitaria gli esiti, gli effetti e le conseguenze di quanto individuato, indagato ed accolto dalla fides quærens intellectum che, misurandosi col depositum fidei, con la traditio, col magistero e la teologia riconosce in essi la propria regula et mensura[27]: la norma fidei Ecclesiæ[28].

 

È in quest’ottica che il diritto canonico, pur nella propria piena categorialità e storicità[29] e nel pieno rispetto delle dinamiche prettamente ‘giuridiche’ proprie di ciascun gruppo socio-istituzionale[30], non solo [a] non può essere posto né approcciato al di fuori della vita della Chiesa, ma [b] neppure può essere posto o approcciato al di fuori della fede viva della Chiesa, unica vera ratio essendi, faciendi et decidendi dell’ordinamento canonico come tale[31]. Chi ‘applica’ una regola giuridica (=norma) infatti –ed ancor più chi la ‘elabora’ e la ‘impone’– non ha nulla in comune con chi immette ‘dati’ in un elaboratore finché il ‘gioco’ delle regole (=algoritmo) restituisca la soluzione corretta del problema in ipotesi… Solo l’adesione convinta ed attiva alla fede ed alla vita della Chiesa permettono di approcciare correttamente la sua dimensione giuridica… allo stesso modo in cui nessuno potrebbe arbitrare una partita di uno sport che non conosce, non ama e non lo appassiona! Il mero conoscerne le regole non è per nulla sufficiente. Qualcosa in più al proposito si dirà più oltre in tema di ‘metodo’ (v. infra: 3.3).

 

1.3. Contesto pastorale

Senza entrare qui neppure nell’ampia secolare discussione sulla c.d. teologia pratica al cui ambito il diritto canonico potrebbe o dovrebbe appartenere più o meno legittimamente, non si può tuttavia ignorare come proprio il diritto canonico rappresenti e costituisca addirittura forse la maggior formalizzazione o istituzionalizzazione della pastorale ecclesiale stessa.

Le regole e le misure, i dosaggi cioè, del corretto attuare di ciascuno e di tutti all’interno della comunità di fede nelle sue diverse ed articolate espressioni, strutture e funzioni, in riferimento a quelli che sono ‘beni’ di grazia affidati da Cristo alla sua Chiesa (la Parola di Dio ed i sacramenti in primis, come afferma il can. 213) non costituiscono una realtà autopoietica, originaria ed autoreferenziale all’interno della vita ecclesiale ma derivano dalle scelte –prima dogmatiche e poi pastorali– operate dalla Chiesa stessa lungo i secoli e, soprattutto, nei momenti di crisi[32].

 

La prima vera norma giuridica ecclesiale, il “canone di Gerusalemme” che si legge in At 15, 28-29 sulla non necessità della circoncisione per aderire alla Chiesa e farne pienamente parte ad ogni effetto (anche nella condivisione dell’unica mensa eucaristica), mostra in modo evidentissimo questo rapporto strutturale tra dogma (teologico), pastorale e diritto canonico. Ho già avuto modo di affermare (in una sede simile a questa) che

 

«l’agire ecclesiale appare […] come un ‘pendolo’ continuo tra pastorale e teologia, in un ciclo che ha come prima fase (semionda negativa) la problematica differenza tra i diversi modelli di azione pastorale –passaggio dalla prassi pastorale alla teologia– e come seconda fase (semionda positiva) la soluzione ‘unitaria’ indicata attraverso la norma canonica –passaggio dalla teologia alla prassi pastorale–»[33].

 

Si potrebbe anche dire che il diritto canonico si presenta come uno specifico approccio alla vita ecclesiale per la stabilizzazione della pastorale (=sua regula et mensura) in modo che quanto la cura della comunità di fede cerca di attuare nella concretezza di ogni circostanza di tempo e di luogo, il diritto canonico lo ‘fissi’ nelle proprie coordinate funzionali di base[34], perché l’estro, l’entusiasmo, la dedizione, la consapevolezza, di qualcuno non diventino motivo d’inautenticità e di rottura nella comunità di fede, ma risorse per il bene comune[35] e la prosecuzione della missione ecclesiale. L’ampia tematica del necessario discernimento dei carismi –individuali e collettivi– costituisce ad oggi uno degli ambiti certamente di maggior espressione di tali caratteristiche.

 

Espresso così, per sommissimi (e personalissimi) capi, cosa sia ‘ciò’ che s’insegna, occorre passare al secondo dei presupposti indicati per la didattica canonistica: i suoi destinatari.

 

 

2. Destinatari

2.1 Le sedi istituzionali di docenza del diritto canonico in Italia

Un’adeguata trattazione della tematica dei “destinatari” della docenza canonistica è certamente irrinunciabile ai fini della correlata didattica poiché le differenti sedi di docenza presuppongono e comportano pure differenti contenuti e modalità di loro trasmissione. Pare condivisibile in proposito l’osservazione che tra gli elementi costitutivi della didattica canonistica le tipologie delle sedi di docenza ricoprano il primo posto per importanza strutturale dell’insegnamento stesso: sono infatti le offerte formative delle differenti istituzioni accademiche (Ordinationes o piani degli studi o Rationes) a predeterminare ‘quanto’ diritto canonico si deve e si può insegnare proprio in ragione dei destinatari di tale insegnamento. Sarà lo stesso quantum, non di meno, a decidere ‘quale’ diritto canonico insegnare (inteso come ambiti e tematiche da illustrare) e ‘come’ farlo (inteso come esiti da conseguire).

Si è già accennato alle quattro tipiche sedi ecclesiastiche italiane di docenza canonistica: [a] istituti superiori di scienze religiose, [b] seminari e istituti/Studi teologici, [c] facoltà di teologia, [d] facoltà di diritto canonico; ad esse andrebbero aggiunte –per completare il quadro italico– le [e] facoltà di giurisprudenza (e similari) delle università italiane[36].

Pur segnalando l’importanza didattica dell’elemento luogo/sede, non si tratterà qui tale tematica poiché la specificità delle diverse istituzioni accademiche italiane è tema di autonome trattazioni di questa stessa settimana di studio e ad esse si rimanda[37].

 

Le sedi di docenza, tuttavia, non sono importanti in sé e per sé ma per la specifica ‘finalità’ che ciascuna di esse deve perseguire: ciò (e come) ciascuna Istituzione accademica insegna dipende, infatti, più o meno esplicitamente ed immediatamente dall’utilizzo che i suoi destinatari potranno o dovranno fare di tali informazioni o competenze a seconda che si tratti [a] della formazione cristiana adulta, [b] dell’attività ecclesiale istituzionale, o [c] dell’attività di governo ecclesiale.

 

2.2. La finalità formativa cristiana adulta

L’attività formativa cui è indirizzata la docenza negli ISSR si rivolge in massima parte ad operatori pastorali (catechisti, animatori liturgici, della Parola…), futuri lettori, accoliti e diaconi permanenti, insegnanti di religione cattolica. Una tipologia di studenti molto diversificata sia nella provenienza (anche culturale), che nella destinazione (ministeriale e/o professionale), che nelle concrete attitudini e capacità di studio ‘superiore’ (diplomati, laureati), che negli effettivi tempi di studio (lavoratori o studenti) ed obiettivi formativi (conseguire una qualifica professionale, o arricchire la propria formazione cristiana di base[38]).

Cosa significa e comporta, dunque, insegnare diritto canonico a questi destinatari? Cosa e come insegnar loro di diritto canonico in un unico corso dell’estensione di soltanto 24 o 32 ore di lezione?

La risposta a queste domande ‘didattiche’ può risultare da una miglior domanda di carattere funzionale: che uso dovranno fare del diritto canonico questi studenti all’interno della loro (presente e futura) quotidianità? La risposta pare abbastanza semplice: orientarsi! Orientarsi nel leggere il giornale, orientarsi nel discorrere con familiari, amici, colleghi ed alunni, orientarsi nelle attività parrocchiali… Un orientarsi che significa sapere che [a] nella Chiesa esiste un punto di riferimento operativo e funzionale chiaro e stabile, [b] esistono delle ‘coordinate’ precise di individuazione di quanto ‘popola’ l’orizzonte ecclesiale (=chi può/deve fare che cosa e come), [c] esistono dei ‘meccanismi’ specifici per risolvere determinati problemi ricorrenti nella vita ecclesiale (p.es.: validità dei sacramenti, definitività delle decisioni, ecc.), [d] esistono anche –in Italia– ambiti e materie della vita ecclesiale in cui (specie attraverso il concordato) la regolamentazione è avvenuta in collaborazione tra Chiesa e Stato (insegnamento della religione cattolica, matrimonio ad effetti civili, beni culturali…). Il diritto canonico da conoscersi a questo livello è quello necessario ad una consapevole vita intra-ecclesiale che, come ne conosce e forse sconta anche i problemi, allo stesso modo sa che la Chiesa come tale ha già fissato sia i punti di non ritorno che le prospettive di sviluppo affinché né la ricchezza né la povertà dell’esperienza umana siano in grado, in sé e per sé, di falsificare la vita ecclesiale[39].

 

In tale orizzonte sarà, allora, necessario (o almeno plausibile) illustrare dapprima che cosa sia il diritto come tale, da dove sorga il diritto canonico, che cosa esso sia, come si sia sviluppato e consolidato lungo i secoli, a che cosa esso serva… In un secondo momento (e sarà questo il cuore del corso) andranno presentate –anche singolarmente– le diverse materie regolamentate dal diritto canonico, principalmente quelle codiciali, così da informare gli studenti delle ‘cose’ di cui la Chiesa si occupa più espressamente ed in modo diretto, oltre che delle disposizioni vere e proprie che regolano l’operare sia di singoli che di gruppi che di istituzioni. Una panoramica pastorale e giuridica che permetta di conoscere che molti comportamenti nella Chiesa sono ‘dovuti’, altri sono ‘esclusi’, che nella Chiesa esistono precise responsabilità e competenze in capo a diversi soggetti, che nella comunità cristiana non ogni condotta ed ogni atto sono indifferenti, che davanti ad anomalie della condotta ecclesiale esistono anche ‘rimedi’ istituzionali cui poter ricorrere.

Poche cose, poco tecniche, ad ampio spettro… per indurre ed accrescere consapevolezza di identità ed appartenenza, volte ad evitare molte credulità e superficialità ed inutili turbamenti, incomprensioni e scandalo, davanti a ciò che persone e media raccontano del vivere –soprattutto– degli uomini di Chiesa o dell’Istituzione come tale.

 

2.3. La finalità istituzionale

La proposta formativa specifica degli istituti/studi teologici dei seminari si caratterizza per essere indirizzata a futuri ‘operatori’ –per quanto non strettamente tecnici– del diritto canonico: i presbiteri, parroci in particolare, che faranno da ‘filtro’ tra il vissuto più comune dei fedeli e delle comunità cristiane ed i ‘livelli’ più istituzionali della vita ecclesiale, rappresentati dalle curie diocesane. Sono due gli elementi che appaiono più specifici e significativi di questa tipologia di docenza canonistica: la comune base culturale –almeno a livello fondamentale– degli studenti e la comune fruizione applicativa, in quanto ministri ecclesiali, delle competenze acquisite. Si tratta qui di formare non tanto gli ‘operatori di base’ del diritto canonico, ma i suoi primi reali fruitori in quanto –comunque– referenti istituzionali della vita cristiana di singoli e comunità in ciascuna delle sue espressioni di base: munus docendi, munus sanctificandi, munus regendi, il cui corretto esercizio nella quotidianità ‘pastorale’ è affidato proprio ai presbiteri.

In questa prospettiva –e con questa consapevolezza– i corsi di diritto canonico impartiti nel quadriennio teologico dovrebbero permettere di presentare con una certa precisione gli ambiti fondamentali della vita cristiana ed ecclesiale come regolamentati prima di tutto dal codice di diritto canonico, oltre che dalla Conferenza episcopale, dal concordato e, eventualmente, dal diritto proprio delle circoscrizioni ecclesiastiche interessate[40].

I futuri ministri ordinati devono imparare non solo ad ‘orientarsi’ all’interno della sconfinata attività ecclesiale, ma a sapersi muovere –almeno– correttamente al suo interno poiché proprio in questo consisterà la maggior parte del loro ministero soprattutto in ambito parrocchiale. I presbiteri come tali, ed i parroci in specifico, dovranno assicurare sia al proprio vescovo/ordinario sia alle comunità o persone loro affidate l’identità e la correttezza dello svolgimento dell’attività ecclesiale: annuncio della Parola di Dio, santificazione del popolo cristiano (principalmente attraverso liturgia e sacramenti), guida della comunità ecclesiale, azione pastorale, missionaria e caritativa della comunità cristiana. Non di meno: proprio a queste specifiche funzioni ed attività s’indirizza la maggior parte delle norme canoniche codiciali[41], quelle che il parroco/presbitero dovrà quotidianamente ‘applicare’ nell’amministrare (e dispensare) i beni spirituali e materiali della Chiesa affidati al suo ministero attraverso l’ufficio ecclesiastico conferitogli. Rimane significativa a questo proposito l’osservazione di F. Ruffini che –probabilmente in ragione della maggior parte dei contenuti– identificò il codice pio-benedettino come “un […] manuale per parroci e confessori”[42]. Difficile negare che, ancor oggi, ne siano questi i principali destinatari[43]… o, almeno, i maggiormente coinvolti[44].

 

La questione si pone in modo abbastanza diverso –e non senza reali problemi ad oggi ancora irrisolti[45]– per l’insegnamento del diritto canonico nelle facoltà di s. teologia nelle quali i corsi impartiti sono soltanto due: uno generale ed uno speciale (solitamente di diritto matrimoniale). Ancora una volta, quanto/quale diritto canonico insegnare dipende dall’uso che ne dovranno poi fare gli studenti. Qual è, pertanto, l’uso del diritto canonico necessario al “teologo”? Il curriculum formativo dei futuri dottori in s. teologia risulta inequivocabile: si tratta di conoscenze (e non competenze); poche e generalissime, più rivolte a globalità d’informazione che di specifica formazione. A ciò si aggiunga che il forte contesto teologico all’interno del quale tale docenza si svolge porta sicuramente a privilegiare gli aspetti fondativi e generali rispetto a quelli più concreti e pratici.

 

2.4. La finalità di governo ecclesiale

Lo scenario didattico delle facoltà canonistiche si presenta in modo radicalmente diverso da quanto sin qui delineato, in ragione soprattutto del loro essere “la” sede per eccellenza dell’insegnamento del diritto canonico. Una sede in cui l’amplissimo spettro della giuridicità ecclesiale viene come scomposto attraverso il ‘prisma’ delle diverse materie e specialità tecniche, tanto dirette ed espresse (=le c.d. materie codiciali) che indirette e complementari, di decine di corsi lungo anni di docenza e studio superiore.

Anche in questo caso il cosa/come insegnare dipende non solo dal quanto/quale diritto canonico insegnare, ma dall’uso che ne dovranno fare gli studenti della specializzazione (licenza e dottorato): un uso connesso e funzionale al governo ecclesiale (=munus regendi) nella complessità –soprattutto– dell’esercizio della sua funzione esecutiva e giudiziale (=curie e tribunali), cui si affianca –per una ridottissima quantità di studenti– l’insegnamento della stessa disciplina nelle varie sedi/istituzioni accademiche sin qui considerate.

In questa prospettiva l’obiettivo della docenza canonistica è –e deve essere– espressamente la “formazione” del futuro canonista in quanto tecnico competente e capace della vita giuridica ecclesiale; un tecnico che non potrà evitare specializzazioni funzionali ed applicative (diritto processuale o amministrativo, a seconda dell’attività forense o curiale) ma che dovrà comunque essere in grado di rivolgersi indifferentemente a qualunque ambito della vita istituzionale della Chiesa, tanto particolare che universale, che alla vita consacrata, non importa se in modo potestativo (giudice o ordinario) oppure no (officiale o patrono).

Obiettivo esplicito ed intenzionale di tale formazione sono sia le competenze teoriche che le capacità operative, poiché la concreta attività canonistica si snoda costitutivamente su alcuni binari: [a] quello giuridico-fattuale (in Iure - in facto), [b] quello sostanziale-formale (in decernendo - in procedendo), [c] quello dottrinale-autoritativo (dottrina - giurisprudenza/prassi), senza che nessun approccio possa legittimamente prevaricare sugli altri, né la linea pratica possa prescindere da quella teoretica o viceversa. Oltre a ciò, al di là dei corsi normativamente prescritti per conseguire i “titoli accademici”[46], ogni facoltà di diritto canonico dispone della libertà sia [a] di ‘inquadrare’ tali corsi all’interno di cornici teoretiche, filosofiche, teologiche… fondative e prospettiche anche molto diverse tra loro, sia [b] di complementare il percorso ufficiale con l’offerta di corsi rispondenti a precisi indirizzi teoretici, storici, sociologici, antropologici, culturali, operativi… Fattori che costituiscono ad oggi le maggiori peculiarità e differenze tra le diverse facoltà canonistiche, condizionando in modo anche radicale il ‘risultato’ della formazione così impartita[47].

 

 

3. Come (=didattica). Struttura

Quali strumenti, come, perché, quando… in tema di insegnamento (del diritto canonico), costituiscono questioni di tutta soggettività che ciascun docente di fatto risolve in base ai criteri o principi o parametri più differenti, non ultimo il tipo di corso da offrire[48].

 

3.1 Questioni fondamentali (della didattica in generale)

Occorre chiedersi innanzitutto cosa significhi e comporti “insegnare”: questione non puramente formale poiché ogni modo d’insegnare sarà una sostanziale risposta proprio a queste istanze costitutive. Qual è, infatti, lo scopo che s’intende raggiungere con la propria attività didattica?

 

In questa prospettiva si è consapevoli ormai da tempo che trattare di didattica comporta innanzitutto differenziare tra due possibili declinazioni dell’insegnamento[49]: informazione e formazione; una distinzione che risulta tanto più appropriata –e determinante– nell’orizzonte delle già indicate tipologie accademiche ecclesiastiche e dei correlativi programmi degli studi. È infatti il numero di corsi a disposizione e delle ore per tenerli che di fatto decide tra le due tipologie di proposta didattica, com’è evidente nel confronto tra gli ISSR e le facoltà di diritto canonico. Una distinzione tanto più necessaria ed appropriata per la didattica canonistica rispetto alla generalità delle discipline teologiche, proprio in base alla natura ‘pratica-pratica’[50] del diritto, anche canonico.

Sotto questo profilo si possono individuare tre elementi fondamentali che –almeno canonisticamente– distinguono l’informazione dalla formazione, caratterizzandone la rispettiva struttura: che, perché, come.

 

- Al livello dell’informazione l’elemento dominante è il “che”: sapere che. “Informare” significa e comporta “far sapere che”; correlativamente, “essere informati” significa e comporta “sapere che”. Oggetto della trasmissione/docenza di questo tipo sono delle semplici (per quanto a volte numerose) “nozioni”[51]. In base poi ad elementi di miglior individuazione e specifica del tipo di informazione da trasmettere, si potrà attivare anche un secondo elemento più o meno ampio: il “perché”, anche se –in questo contesto– in fase tipicamente e prevalentemente eziologica (=come mai e/o per quale motivo si è giunti a tale status delle cose e/o delle norme). Tali nozioni possono poi essere di carattere dispositivo (=le norme vigenti) o istituzionale (=gli istituti giuridici)[52].

Scopo di tal genere di didattica è corredare lo studente di un numero minimo di nozioni (spesso di qualità minimale) adatte e sufficienti a poter contestualizzare e decodificare un certo numero di comportamenti istituzionali ecclesiali più o meno tipici del suo ambito ordinario di vita, ecclesiale e non[53].

- Il livello della formazione, invece, è caratterizzato dal “come”: sapere come. “Formare” significa e comporta “far sapere come”; correlativamente, “essere formati” significa e comporta “sapere come”. A questo livello l’oggetto della trasmissione/docenza non sono più delle nozioni ma delle (anche semplici) “abilità”[54]. In base poi ad elementi di miglior individuazione e specifica del tipo di formazione da attuare –anche in vista dell’attività ecclesiale da svolgere– sarà necessario attivare in modo più o meno profondo l’elemento del “perché”, non più però in chiave eziologica ma fondativa: quale motivo/finalità, cioè, fonda il comportamento proposto/disposto… oppure: qual è il ragionamento (o la dinamica) che rende possibile, utile o necessario, tale comportamento.

Scopo di tal genere di didattica è dotare lo studente di un numero adeguato di abilità applicative adatte e sufficienti a poter operare in prima persona quale ‘agente’ consapevole e responsabile delle funzioni istituzionali più o meno tipiche del suo ruolo ecclesiale.

 

A questa prima specifica (da cui dipenderà però l’intera attività didattica) se ne può aggiungere una seconda che integra i livelli più alti (o profondi) della formazione: il rapporto tra “sapere” e “saper sapere” o quello –in fondo equivalente– tra “imparare” e “capire”[55]. La tematica si colloca al livello più alto della didattica canonistica, condizionandone non poco la concezione e le modalità attuative, motivando per esempio la differenziazione strutturale tra corsi istituzionali obbligatori, corsi opzionali, seminari di approfondimento. Sapere, saper sapere, saper fare, sono infatti targets formativi radicalmente diversi che preludono a –o dovrebbero comportare–didattiche –e loro strumenti– completamente differenti. Si pensi anche solo alla differenza tra un seminario di approfondimento dottrinale o teoretico ed uno di prassi.

 

Proprio il rapporto tra “imparare” e “capire” costituisce e concentra in sé le problematiche connesse a: [a] contenuti, [b] fondamenti, [c] metodo, [d] progettazione dei corsi[56]; senza dimenticare che proprio sulla differenza tra “imparare” e “capire” si gioca anche la differenza –peculiare della didattica in sede di specializzazione– tra “studio” e “ricerca”.

 

3.2 Contenuti e fondamenti

Come già detto: non pare possibile individuare una didattica canonistica ‘unica’, standardizzata ed in qualche modo a-priori, non solo perché ciascun docente nella propria attività dovrebbe rispondere ad esigenze differenti in base alla propria utenza del momento, ma –molto più radicalmente– perché ogni docente nella propria attività porta e gioca se stesso, ‘rispondendo’ prima di tutto ed essenzialmente a presupposti e convinzioni personalissimi dei quali –tra l’altro– non sempre è pienamente consapevole.

 

Il primo ambito fondamentale con cui ogni docente deve misurare se stesso[57] e la propria consapevolezza è quello dei contenuti: che cosa, cioè, trattare attraverso il corso, al di là di quanto eventualmente fissato a livello istituzionale o addirittura normativo per le diverse istituzioni accademiche ed i diversi livelli di studio/docenza (Rationes studiorum).

 

Si tratta della differenza sostanziale tra contenuto ed argomento, dove quest’ultimo indica –di solito a grandissime linee– di che cosa trattare (=il titolo del corso), mentre il primo aspetto concerne piuttosto il come farlo… ed è proprio questo ‘come’ la prima vera questione espressamente didattica per il canonista, poiché dal ‘come’ si affrontano le tematiche dipende il tempo necessario per tale trattazione, ma dal tempo disponibile dipende il numero di argomenti che sarà possibile trattare e da questo dipendono o [a] il livello di approfondimento che si potrà proporre, oppure [b] l’estensione della materia che verrà esposta. Si tratta del ‘punto di partenza’ da cui scaturiranno le conseguenti tappe ed articolazioni contenutistiche del corso: il suo programma.

 

Tre sembrano essere le maggiori opzioni in merito: partire [a] direttamente dal diritto canonico vigente, oppure [b] dal diritto canonico come tale, con un po’ di sua storia ecclesiale, oppure ancora [c] dal diritto in senso proprio per passare poi all’evoluzione giuridica della vita ecclesiale (=storia) ed alla sua concreta vigenza normativa.

 

Riferirsi o meno al diritto canonico come tale o al diritto in senso proprio significa però affrontare la questione dei fondamenti, la cui appartenenza o non-appartenenza ai contenuti della didattica canonistica rappresenta un’opzione del tutto individuale[58], oltre che sollevare altre problematiche a proposito del [a] dove collocare i fondamenti e [b] quali fondamenti proporre.

- La strutturazione del corso dovrà stabilire innanzitutto se i fondamenti vadano posti [a] prima, [b] dopo o [c] all’interno della trattazione dei singoli argomenti; se [d] in modo cumulativo per l’intero corso o [e] separatamente per ogni tematica. Le strutture didattiche ed i loro esiti mostrano in effetti differenze nell’articolare e proporre percorsi che [a1] partano da lontano ed arrivino ad esporre la materia nella configurazione vigente, oppure [b1] esponendo questa e motivandola poi a ritroso nelle proprie tappe evolutive, oppure ancora [c1] ‘glossando’ di volta in volta gli elementi espositivi che abbiano alle proprie spalle questioni, circostanze, cause, motivazioni teoretiche o dogmatiche specifiche che li giustifichino in modo tendenzialmente singolare. Anche [d1] l’unitarietà e gradualità di esposizione dei fondamenti e della materia stessa nelle sue diverse articolazioni offre opportunità diverse rispetto a [e1] frazionare le tematiche ed introdurle e svilupparle separatamente.

- Meno formale della loro collocazione all’interno del corso è la scelta del tipo di fondamenti da proporre, anche qui all’interno di una dialettica spesso polarizzata e polarizzante tra visioni ‘trascendentali’ di stampo deduttivo-teologico, oppure ‘categoriali’ di stampo induttivo-antropologico[59]; dogmatiche le prime, socio-storico-culturali le seconde[60]. Opzione in cui il ruolo giocato da discipline espressamente teologiche risulta tutt’altro che secondario e trascurabile; in particolare –oggi– la teologia fondamentale e l’Ecclesiologia, mentre in passato si trattò preferibilmente della Soteriologia e della teologia morale. Dalla teologia fondamentale, infatti, e dall’ecclesiologia professate –o inconsapevolmente adottate– dipendono la maggior parte delle scelte relative a contenuti e fondamenti della didattica canonistica. Basti considerare in merito la polivalenza che l’incarnazione assume quando sia professata come [a] ‘mistero’ da contemplare, soprattutto nella sua dimensione di kenosi da parte della divinità, [b] ‘circostanza’ meramente fattuale in cui l’Eterno entra nel tempo per ‘consegnare’ la rivelazione definitiva di se stesso, oppure ancora [c] vero e proprio ‘principio’ operativo stabilmente assunto da Dio quale regula e modus per l’azione redentrice della storia.

 

Per quanto ciò possa non apparire immediato, tali opzioni (soprattutto tra categorialità e trascendentalità del diritto, non solo canonico) si pongono in realtà per ogni e ciascun corso e tipologia di corso ed insegnamento: tanto introduttorio (=l’ISSR con un solo corso nell’intero triennio), che generale (=l’istituto/studio teologico nel primo corso di quattro previsti), che tecnico e specifico (=la facoltà di diritto canonico nell’illustrazione dello statuto epistemologico di ciascuna delle ‘materie’ tecniche da insegnare). Non di meno ciò risulta proficuo sia per chi non sa nulla di diritto, sia per chi è già laureato in giurisprudenza; sia per i neofiti, sia per gli iniziati[61].

 

3.3 Il metodo della didattica canonistica

Il secondo presupposto didattico canonistico può essere facilmente individuato a livello ‘metodologico’ e si articola secondo tre diversi approcci sostanziali, per quanto molto spesso non applicati in modo ferreo ed ineluttabile (=uno contro tutti gli altri) praticamente da nessuno: [a] esegetico-testuale, [b] sistematico-ordinamentale, [c] dogmatico-concettuale, a seconda della relazione espressa e gestita, tanto teoreticamente che praticamente, tra lex e ius.

 

- L’approccio esegetico-testuale, normalmente chiamato “schola textus”, concentra l’insegnamento canonistico sul testo normativo, finendo per identificare la giuridicità col dettato testuale stesso: insegnare diritto (canonico) significa fare l’esegesi dei testi normativi… libro per libro (del codice), canone dopo canone. Una tale concezione del diritto (canonico) lo fa dipendere completamente dalla lex e dal suo testo, senza del quale il metodo stesso risulterebbe privo della propria materia prima. Si tratta, concretamente, del metodo esegetico impostosi durante l’Ottocento in ambito francese come la modalità appropriata per gestire la giuridicità codiciale moderna ed imposto alla didattica canonistica ecclesiastica nel settembre del 1917 con le disposizioni del “De novo iuris canonici codice in scholis proponendo” che prevedevano “nullo ceterum libro præter Codicem”, imponendo addirittura di “sancte retinere” l’ordine stesso di titoli, articoli e canoni del codice appena promulgato[62].

- L’approccio sistematico-ordinamentale offre una visione più ampia del diritto (canonico) come tale e del suo insegnamento ponendo quale primo referente della giuridicità stessa e della conseguente didattica non il singolo textus legis ma il, ben più ampio ed articolato, complexus legum col quale –in modo organico– la giuridicità sostanzialmente finisce per identificarsi. Dal punto di vista teoretico e didattico anche il metodo sistematico ha necessità della lex, per quanto non rigorosamente del suo textus, poiché è dall’insieme degli istituti giuridici e delle norme vigenti che diventa possibile ‘ricostruire’ e quindi anche sistematizzare ed –eventualmente– bilanciare le norme vigenti e reperire i modi adeguati per mantenere efficiente l’ordinamento stesso nonostante il variare nel tempo di un certo numero di situazioni e fattori.

- L’approccio metodologico dogmatico-concettuale allarga ancora maggiormente gli orizzonti e gli spazi della giuridicità, non limitandosi all’ordinamento canonico come tale ma collocando il giuridico ecclesiale all’interno dell’intero fenomeno giuridico così come messo in atto e vissuto dall’umanità nelle sue diverse forme di organizzazione e gestione istituzionale. Dal punto di vista didattico l’approccio dogmatico-concettuale si pone ad una ulteriore distanza dalla lex poiché la ritiene semplicemente l’attualizzazione (hic et nunc) dello ius, in qualche modo atemporale poiché presieduto più dalle rationes agendi che dalle voluntates disponendi [63].

 

Le tre metodologie così sommariamente abbozzate comportano, com’è evidente, modalità didattiche radicalmente diverse tra loro tanto [a] nella struttura delle lezioni che [b] negli strumenti della didattica (testi codiciali in primis); non di meno: “imparare” e “capire” verranno declinati in modo diverso sia in sé e per sé che reciprocamente.

 

Trattando di ‘metodo’ nell’insegnamento del diritto canonico non può tuttavia trascurarsi il fatto che lo stesso Concilio Vaticano II si espresse in modo chiaro al riguardo quando, al n. 16 del decreto Optatam Totius sulla formazione sacerdotale[64], stabilì che nell’esposizione del diritto canonico –così come nell’insegnamento della Storia ecclesiastica– si sarebbe dovuto «aver presente il mistero della Chiesa, secondo la Costituzione dogmatica “De Ecclesia” promulgata da questo Concilio». Un’indicazione chiara circa il necessario radicamento del diritto canonico proprio all’interno della Chiesa e non ‘parallelamente’ (=a latere) ad essa, com’era accaduto in modo più o meno espresso nello Ius publicum ecclesiasticum con l’emergere di volta in volta d’indirizzi giusnaturalistici o normativistici o positivistici, quando soprattutto la filosofia prevaleva sulla teologia nelle questioni fondative[65].

E proprio a quell’indicazione espressamente ecclesiologica si riferì, per quando non in termini di docenza e didattica, Giovanni Paolo II nella costituzione “Sacræ Disciplinæ Leges” di promulgazione del codice latino del 1983 quando affermò:

 

«lo strumento, che è il codice, corrisponde in pieno alla natura della Chiesa, specialmente come vien proposta dal magistero del Concilio Vaticano II in genere, e in particolar modo dalla sua dottrina ecclesiologica. Anzi, in un certo senso, questo nuovo codice potrebbe intendersi come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico questa stessa dottrina, cioè la ecclesiologia conciliare»[66].

 

Un’affermazione che, poiché definisce la ‘natura’ dello strumento principe dell’ordinamento canonico, non può lasciare indifferenti coloro che ne trasmettono la conoscenza e le competenze necessarie al corretto utilizzo.

Riferendosi in modo più generico e ‘globale’ alla Sacræ Disciplinæ Leges, un certo numero di autori individua come decisive per la didattica canonistica le tre linee portanti che emergono dalla Costituzione stessa: S. Scrittura, Concilio, codici, culminanti nella ‘celebre’ immagine del triangolo prospettata da Giovanni Paolo II[67].

 

3.4 La progettazione del corso

3.4.1 Struttura generale del corso

Quanto sin qui esposto offre la maggior parte degli ingredienti necessari alla vera e propria ‘alchimia’ da cui dovrebbe scaturire un corso di lezioni di diritto canonico. “alchimia” e non “chimica” poiché i riferimenti, le proporzioni, le sensibilità, le convinzioni, i presupposti, ecc. di ciascun docente non permettono certo di applicare nessun ‘meccanismo’ né alcun algoritmo capace di fornire un risultato in qualche modo ‘certo’.

Nonostante ciò, non si può negare che esistano elementi formali espressamente connessi col genere letterario “lezione accademica”: elementi molto concreti che vincolano in modo stretto la struttura generale di qualunque corso di lezioni si debba tenere[68].

 

- Il primo elemento da considerare è il tempo a disposizione: le lezioni hanno la durata di 45’ ciascuna e spesso risultano disposte a coppia (45’ + 45’) all’interno di un calendario semestrale che prevede dalle 12 alle 14 settimane di docenza, configurando così uno sviluppo didattico articolato in circa 13 unità didattiche.

Le cose che si possono dire in 45’ di esposizione frontale non sono molte: supponendo la fedele lettura di un testo dattiloscritto[69] si dovranno calcolare al massimo 25.000 caratteri (spazi inclusi, senza note). Se però si tiene conto del tempo per scrivere qualcosa alla lavagna, o illustrare qualche ‘lucido’ o slide, il testo scritto di riferimento dev’essere proporzionalmente ridotto. L’utilizzo, poi, di uno stile interlocutorio anziché frontale riduce il tempo effettivo di esposizione anche alla metà di quello teoricamente disponibile.

- Il secondo elemento da considerare è il programma del corso: la lezione costituisce una tessera di un mosaico all’interno del quale la struttura dell’unità didattica (generalmente di 90’) corrisponde a circa il 10% della materia da trattare. Ne deriva la necessità di stabilire uno ‘schema’ rigoroso del corso, suddiviso in dieci ‘unità didattiche’ principali (più una di introduzione e una di congedo), cui dovrebbero corrispondere dieci tematiche abbastanza ‘autonome’, per quanto incrementali, suddividendo eventualmente ciascuna tematica in altre due che corrispondano ad ogni singola ora di lezione, raggiungendo così le circa venti tematiche ma di 45’ ciascuna. Come si vedrà più oltre, è fondamentale che ogni unità didattica si ‘apra’ e ‘chiuda’ in modo autonomo, per quanto correlato, rispetto all’intero corso: ogni lezione deve avere un proprio argomento.

In base, poi, a: argomenti, contenuti, fondamenti e metodo scelti secondo quanto illustrato più sopra si dovrà decidere che cosa sia concretamente possibile realizzare all’interno del corso.

- Il terzo elemento da considerare in sede progettuale è il target informativo o formativo del corso e, in sua funzione, determinare (se non lo sia già stato fatto a livello normativo) i temi concreti delle singole lezioni. Come già sollecitato: l’unico corso (anche di 36 ore) all’ISSR non permetterà certo di utilizzare né temi né metodiche dei livelli superiori di docenza accademica.

 

3.4.2 Finalità specifica delle lezioni

Al di là della già espressa differenza tra informazione e formazione, al di là cioè dei contenuti immediati da trasmettere, la lezione in quanto tale si caratterizza per alcuni elementi che, in ogni modo, la devono strutturare e caratterizzare nel suo svolgersi; sono elementi di comunicazione, di attenzione, di feedback, di comprensibilità, ecc. Elementi che la differenziano radicalmente da molti altri modi sia di comunicare sia di trasmettere contenuti. È proverbiale l’inettitudine didattica di un certo numero di specialisti, ricercatori e scienziati, del tutto incapaci di ‘trasmettere’ ad altri i contenuti di cui sono, spesso, apprezzatissimi referenti. In modo non paradossale: una buona lezione non presuppone un’altrettanto buona conoscenza dei contenuti anche tecnici da trasmettere, ma una loro buona ‘organizzazione’ e –più ancora– ‘prospettazione’, cose –però– non possibili ai mestieranti.

 

Dal punto di vista pratico, infatti, la finalità specifica della lezione non è tanto quella di fornire con immediatezza ‘dati’ e ‘conoscenze’ (che si trovano già praticamente tutti nei libri[70]) quanto piuttosto un’efficace chiave di lettura della tematica in oggetto in modo che le pagine che dovranno essere studiate sui libri non appaiano tutte ‘uguali’ tra loro ma gli studenti sappiano orientarsi tra i diversi ‘livelli di valore’ dei contenuti proposti alla loro conoscenza. Seguire una lezione deve servire a qualcosa dal punto di vista di comprensione –e quindi assimilazione– della tematica: i ‘dati/contenuti’ –infatti– si potranno sempre consultare ed acquisire sui libri… anche attraverso estenuanti ripetizioni. È, invece, la loro organizzazione ed esposizione logicamente convincente che costituisce il quid pluris della lezione rispetto alla struttura e all’esposizione anche del miglior manuale possibile.

Di fatto nella lezione prende corpo e predomina l’anello generalmente più rigido della comunicazione, cioè il ‘contenitore’ del messaggio: una lezione è, in fondo, un’operazione di marketing! Non importa ‘cosa’ si voglia o si debba ‘vendere’, importa il riuscirci in modo convincente e con soddisfazione del destinatario: gli studenti devono sperimentare il vantaggio e la soddisfazione dell’essere venuti a lezione! In questo confesso la mia tristezza nel vedere, durante le ore di lezione, studenti che in biblioteca ‘leggono’ su un manuale o un trattato quello che un docente dovrebbe proporre loro in aula a quella stessa ora.

 

In questa prospettiva espressamente ‘promozionale’ delle tematiche e dei contenuti trattati nelle lezioni va senz’altro confermato come una materia venga o meno recepita, apprezzata ed ‘amata’, in base a come il docente ne parla e la espone e, più ancora, in base all’esigenza che fa sorgere negli studenti di interessarsi a quella materia e conoscerla, qualunque essa sia… proprio come fa la pubblicità quando suscita il ‘bisogno’ di acquistare anche cose del tutto inutili (absit iniuria verbis).

 

3.4.3 Struttura specifica della lezione

La promozionalità della lezione dal punto di vista didattico (cioè il ‘perché’ si va a lezione) pone però in risalto non tanto il modo di tenerla, che è spesso questione di temperamento personale ed è diversissimo da un docente all’altro, ma la struttura stessa della lezione, in una prospettiva diversa da quella dei suoi necessari contenuti, solitamente già scritti e fissati con abbondanza e precisione nei testi didattici adottati.

 

A questo livello deve cambiare il genere letterario di riferimento che non deve più essere quello adottato nello strutturare i contenuti del corso –e casomai la dispensa di supporto (v. infra)– ma deve diventare più simile a quello della illustrazione, dominata principalmente da ‘immagini’, anche solo letterarie o narrative, su cui attirare l’attenzione degli ascoltatori. Che si utilizzino oppure no vere ‘immagini’ (slides, lucidi, lavagna) non fa in questo nessuna differenza poiché è lo scorrere stesso della lezione che dovrà articolarsi ‘per immagini’: poche, chiare, progressive.

Se non proprio la ‘passeggiata’ di Florenskij che ho ridimensionato in partenza, certamente potrebbe essere usata l’immagine di chi da un terrazzo panoramico indica ed illustra ai visitatori che cosa si vede da lì e di che cosa si tratta. Si tratterà di alcune ‘emergenze’, di alcuni elementi soltanto tra gli svariati che popolano quell’orizzonte …e moltissimo resterà non visto ed invisibile da quel punto d’osservazione; come gli interni delle chiese o dei palazzi di cui, in distanza, si veda solo il campanile o la torre… toccherà proprio agli studenti aprire i libri per vedere quegli interni, nella misura in cui li interessino.

 

Dal punto di vista operativo questo comporta che ogni lezione (o unità didattica) abbia una struttura precisa, fatta di [a] un avvicinamento al tema da trattare, [b] la proposta di alcuni –e solo alcuni– elementi di rilievo[71], [c1] un congedo oppure –e sarebbe molto meglio– [c2] un rinvio… come l’appuntamento ad un altro terrazzo panoramico da cui continuare a rendersi conto di che cosa c’è intorno.

 

- L’avvicinamento al tema da trattare è una sorta di ‘accoglienza’ ed ‘invito’ all’interesse prima e all’attenzione, poi; qualcosa che deve sollecitare la curiosità di chi ascolta. Qualcosa di pungente o di problematico che smuova l’ascoltatore e gli ponga un problema, una domanda[72]… meglio ancora: un dubbio che gli dica “non puoi sottrarti!” Nulla di nuovo rispetto a quanto la scolastica –prima di diventare un ‘contenuto’ rattrappito e sterile– offriva proprio come metodo didattico (scolastica = modo di far scuola): i “dicta” del magister Gratianus o i “videtur quod” di Pietro Lombardo, Pietro Abelardo, Tommaso d’Aquino. Questo incipit è assolutamente fondamentale, è come l’esca sull’amo o il gancio di traino di un locomotore: occorre sempre un punto di giunzione per trascinarsi dietro qualcosa o qualcuno. Dev’essere, però, un gancio, non un assedio: non un’introduzione di 20’ per circuire i presenti (e perderne l’attenzione: sic!) ma un lampo… due battute, il tempo di un’affermazione, di un “videtur quod”… come un titolo di cronaca sulla locandina di un giornale… come la celebre frase del film “Apollo 13”: «Huston, abbiamo un problema». E su quel problema si lavora!

- La proposta dei principali elementi di rilievo è il cuore della lezione e della stessa didattica: è la delineazione del campo di gioco, è la scansione ordinata del pensiero su di un certo tema/argomento. Si tratta di un’attività assolutamente ‘gerarchica’, per questo non riesco a far completo tesoro della ‘passeggiata’ di Florenskij. Far lezione è scandire una gerarchia; è intagliare dei gradini su di un pendio ripido; è offrire un corrimano su di un terreno scivoloso… perché è proprio questa la difficoltà degli studenti: ordinare nozioni, competenze, abilità… quelle nozioni che trovano accatastate nelle pagine dei libri, quelle competenze che solo ipoteticamente saranno il frutto delle nozioni acquisite, quelle abilità che sulla carta sembrano banali da esercitare. Gerarchia ed ordine significano, però, priorità. E la lezione è tale proprio se mette in risalto delle priorità… se offre la chiave di lettura, se illumina la via d’uscita. Quante sono, però le ‘priorità’ che si possono proporre in 40’? Poche. Tre, forse quattro… come i campanili o le torri che svettano sull’orizzonte; e non basta indicarle né denominarle soltanto. Vanno ‘presentate’ e concretizzate. Spesso non occorre né vale la pena descriverle (per questo ci sono già i libri), ma è fondamentale prospettarne la consistenza e l’importanza… ed anche questo si fa con tre/quattro sottolineature, come stilizzando una forma che possa essere espressiva e rimanere impressa ma che deve poi essere arricchita e complementata dallo studio personale. Tre/quattro priorità per tre/quattro sottolineature ciascuna danno corpo a dieci/quindici ‘centri’ d’interesse e trattazione. Di più non è possibile fare in 40’. Ed è proprio qui che s’inserisce l’opportunità dell’uso della grafica vera e propria: lavagna tradizionale, lucidi, slides. Ma è qui, anche, che trova il suo senso e valore maggiore la ripartizione interna della materia: i titoli dei paragrafi e dei sottoparagrafi delle dispense o l’indice del libro utilizzato come testo o manuale.

Ancora una volta, nulla di diverso da quanto facevano i maestri della scolastica: il dictum, il videtur quod, erano seguiti da alcuni elementi (pochi ma emblematici) a favore, da alcuni contro e, soprattutto, dal ragionamento (l’argumentum) del maestro che riorganizzava il tema (enfatizzando e scartando elementi) ed indicava le vie di soluzione.

- La conclusione (o il rinvio) non è meno importante dell’incipit, poiché se lo studente non percepisce –almeno– il cammino fatto o non ne vede l’utilità per futuri sviluppi avrà l’impressione di aver perso tempo: ha girato intorno, ha visto farfalle e fiorellini… ma non gli è cambiata la vita: non ha acquisito nulla, non ha ‘capito’ nulla… non è più informato, non è più competente, non è più abile: era meglio starsene a casa e leggersi le 20 o 30 pagine della dispensa o del manuale. Invece: si deve andare a lezione –da ‘quel’ docente– perché lì si ascolterà quello che nessun altro ha detto o dice altrove!

 

 

4. Come (=didattica). Strumenti

4.1 Il testo di legge

Il primo tema che merita d’essere affrontato a livello di strumenti della didattica canonistica è, senza dubbio, quello del testo di legge; tema non pleonastico poiché la questione non riguarda solo [a] ‘quale’ testo di legge utilizzare ma, più profondamente, [b] ‘se’ utilizzare un testo di legge. La scelta concretizza con immediatezza l’istanza metodologica già presentata più sopra (3.3) nell’articolazione tra approccio esegetico-testuale, sistematico-ordinamentale e dogmatico-concettuale.

 

4.1.1 L’utilizzo del testo di legge

- Per l’approccio esegetico il testo di legge, cioè il codice (per quanto non sempre e non solo quello latino) è irrinunciabile. Il codice è l’obiectum formale quod, la res de qua, intorno a cui si svolge, si sviluppa e cresce la didattica canonistica intesa come schola textus. Ciò non senza specifiche esigenze e problematiche: quale codice utilizzare? Solo quello ufficiale (quindi in latino), oppure un testo bilingue, o anche solo in lingua corrente? Cosa dire, poi, dei codici commentati?

La questione a questo livello pare riguardare più le convinzioni personali (o di ‘scuola’) che non la didattica in sé e per sé, anche se non si può ignorare il livello accademico a cui si svolge la docenza. All’ISSR la scelta non può fissarsi sul codice solo latino, mentre la versione bilingue potrebbe permettere di evidenziare –solo però qualche rara volta– eventuali diverse prospettive tra il testo promulgato e la sua traduzione. Nella generalità dei casi all’ISSR può bastare il solo testo in lingua corrente (se si trovi), mentre la scelta per un codice commentato risulta maggiormente pedagogica che didattica, nel senso di far acquistare agli studenti uno strumento che possa poi accompagnarli –non inutilmente– anche nel futuro. Il codice bilingue, eventualmente commentato, pare una buona scelta per gli Studi teologici dei seminari e per le facoltà di teologia, offrendo di fatto i vantaggi già illustrati. Le cose mutano, in questo approccio, per le facoltà di diritto canonico dove il solus textus possiede l’autorità necessaria per l’applicazione del metodo esegetico… almeno quello ‘puro’, in una prospettiva che rende pressoché inutile il ‘commento’ poiché le capacità personali che si maturano a tal genere di scuola superano di gran lunga l’apporto del ‘commento’; se, tuttavia, il commento non è solo tale ma allarga al coinvolgimento di altre norme e ad esemplificazioni pratiche potrebbe rappresentare un’opzione da considerare.

- L’approccio sistematico e quello dogmatico si muovono spesso in tutt’altra prospettiva non assegnando molto valore alla ‘tipologia’ di codice quanto, molto di più –eventualmente– al resto delle norme in esso contenute come “allegati” ed “aggiornamenti disciplinari”. In quest’ottica il livello accademico di base (l’ISSR) potrebbe indurre qualcuno a non utilizzare neppure il codice, mentre in facoltà di teologia pur con solo due corsi a disposizione vale certamente la pena farne un uso anche modesto, sempre per finalità pedagogiche (=possiedano un codice di diritto canonico); nei seminari, invece, vale la pena dare dimestichezza con lo strumento che nel ministero ordinato sarà spesso (o dovrebbe esserlo) fonte di consultazione. Lo stesso dicasi, a maggior ragione, per le facoltà di diritto canonico, per quanto con le differenze metodologiche già indicate per i diversi approcci.

 

4.1.2 Il non utilizzo del testo di legge

Dal lato opposto, l’approccio ‘dogmatico’ al diritto canonico ed al suo insegnamento[73], risulta molto più attento alla struttura giuridica come tale ed alle sue logiche, dinamiche ed interazioni interne (e spesso anche esterne), che non al ‘solo’ dettato della norma di turno, tendendo così a prescindere dall’uso didattico dei testi di legge, senza una sostanziale distinzione tra i diversi tipi di target e di destinatari nelle diverse tipologie accademiche di docenza[74].

In tale prospettiva, d’altra parte, il diritto è concepito e presentato sostanzialmente come una ‘struttura’ di relazioni… una rete –si dice più facilmente oggi– di connessioni e relazioni funzionali organizzate gerarchicamente, oppure –ancora maggiormente– una rete di reti di relazioni in cui non conta tanto conoscere ciascuna singola e specifica rete o sotto-rete di relazioni (come potrebbero essere il diritto universale o quello particolare o quello proprio o quello speciale…), ma il funzionamento di interi ‘settori’, soprattutto quelli a tema specifico (=le diverse ‘materie’ giuridiche), indipendentemente dalla loro concreta distribuzione e stratificazione[75]. In fondo sono solo i singoli ‘protocolli’ operativi che cambiano[76], mentre la struttura (=la rete di reti), che è per sua natura olistica[77] e sistemica[78], tende ad autoconservarsi metabolizzando molti dei cambi di protocollo che possono segnare anche in modo molto pesante specifici ambiti di connessione/relazione. In questa prospettiva è sempre l’approccio generale a dover essere compreso ed interiorizzato, lasciando i singoli ‘protocolli’ alla specifica e puntualissima applicazione di ogni singolo caso concreto[79].

 

4.2 Il testo di docenza

Risolta –o almeno gestita– autonomamente per ciascun docente la questione “codice sì” “codice no” e “quale codice”, si pone in modo più generale la tematica degli altri strumenti testuali o “testi di docenza” attraverso i quali sostenere e realizzare la didattica: ciò che va sotto le tipologie pressoché standard di manuali e dispense[80].

 

4.2.1 I manuali

Senza poter entrare qui nella descrizione del ‘manuale’ come strumento didattico in sé e per sé così come strutturatosi a partire dal XVII sec. dando addirittura corpo ad un vero e proprio genere letterario[81], si accennerà ad alcuni strumenti specifici propri della didattica canonistica odierna in Italia, rendendo prima di tutto merito proprio all’attività del “Gruppo Italiano Docenti di diritto Canonico” che in tale settore ha esercitato un ruolo assolutamente fondamentale e decisivo in questi quarant’anni.

 

- L’opera fondamentale ed ‘unica’ in Italia ancor oggi (=il manuale per eccellenza) è “Il diritto nel mistero della Chiesa” in quattro volumi originarii curato dal “Gruppo Italiano Docenti di diritto Canonico” per seminari e facoltà canonistiche, edito la prima volta negli anni 1979-1981 e rivisto ed aggiornato nella seconda edizione in tre volumi degli anni 1990-1996 ed ancora nella terza edizione nel 2004[82], a cui oggi si sta lavorando per aggiungere un –innovativo– quarto volume dedicato proprio al nuovo risalto che la “prassi amministrativa” sta assumendo, soprattutto dopo che il decreto “Novo Codice” ha rivoluzionato la struttura degli studi canonistici superiori, ai quali il quarto volume è espressamente diretto.

L’identità e le specificità dell’opera si confondono e s’identificano in gran parte con quelle del “gruppo docenti” che proprio attorno alla necessità di un nuovo strumento didattico sorse e si concentrò in modo pionieristico durante gli anni della dispersione dottrinale e normativa post-conciliare e, più ancora, dello sconforto didattico della maggior parte dei docenti di diritto canonico –tanto dei seminari che delle facoltà sia ecclesiastiche che civili[83]– negli anni della revisione del codice[84]. Tali peculiarità non permettono di trattare qui presupposti, ruoli, idee, concezioni, dinamiche, sottesi all’opera, né di ‘descrivere’ l’opera stessa …tra l’altro ben nota alla maggioranza di chi ha studiato diritto canonico in Italia negli ultimi quarant’anni. Allo stesso modo sarebbe fuori tema l’analisi della dinamica connessa all’esistenza e persistenza all’interno del ben più ampio ed articolato mondo canonistico italiano di uno specifico ‘gruppo’ di docenti, qual è il nostro[85].

- Alla “versione maior” del manuale italiano per eccellenza si è affiancata dall’anno 2005 una versione ‘ridotta’ in un solo volume intitolata “corso istituzionale di diritto canonico indirizzata specificamente alla docenza canonistica nelle strutture accademiche che dispongono del minor numero di ore di lezione: ISSR, facoltà ed istituti teologici[86].

- Discorso a parte, ma solo parzialmente, è costituito dalla didattica canonistica svolta nelle università civili italiane i cui docenti hanno progressivamente creato e pubblicato i ‘propri’ strumenti didattici adatti allo specifico status accademico del diritto canonico all’interno degli studi giuridici italiani, che lo vedono in parallelo o complemento all’insegnamento del diritto ecclesiastico dello Stato, con un numero ridotto di ore e, spesso, specifici indirizzi tematici più attenti alla dimensione ‘pubblicistica’ ed inter-ordinamentale del diritto della Chiesa che non a quella specificamente intra-ecclesiale.

 

A quarant’anni da quell’inizio, occorre –non di meno– prendere atto che il nuovo millennio (stabilizzata ormai la base normativa ecclesiale generale ed ordinaria con la promulgazione dei due codici giovanneo-paolini) evidenzia nuove circostanze per l’insegnamento del diritto canonico in Italia; insegnamento in cui si sono inseriti nuovi attori[87] e che ha visto un notevole cambio generazionale dei propri protagonisti, riconcentrando su Roma e le sue facoltà di diritto canonico un certo numero di significative attività editoriali connesse alla didattica canonistica in lingua italiana. Ne sta derivando –poiché il fenomeno è in corso in questi stessi anni– un evidente ampliamento dell’offerta di strumenti didattici accademici di livello superiore nati all’interno delle stesse facoltà pontificie romane e destinati prevalentemente agli studenti di tali –singole– istituzioni, con un’evidente frammentazione o pluralizzazione di una docenza canonistica che per alcuni decenni si era –invece– mostrata (e percepita) abbastanza unitaria.

Risulta piuttosto evidente, d’altra parte, che la ri-stabilizzazione del diritto canonico degli ultimi trent’anni ed il crescere di un nuovo complesso dottrinale ad esso espressamente riferito abbiano ormai fatto superare a molti docenti –soprattutto ‘giovani’– i timori e le esitazioni degli anni Settanta del Novecento, stimolando e favorendo il consolidarsi di ‘proprie’ personali (e personalissime) visioni dottrinali e proposte teoretico-didattiche. A ciò si aggiunga anche il progressivo miglior delinearsi delle istanze dottrinali ‘di scuola’ ancora embrionali (per quanto chiaramente delineate) nel periodo conciliare …oltre al sorgere (o rifiorire) di prospettive dottrinali di fatto assenti (o poco rilevanti) in tale periodo[88].

Non di meno, appare ragionevole –e fors’anche inevitabile– che dopo dieci/quindici anni di docenza di una specifica materia, i contenuti, l’organizzazione, la teoria generale, siano –ed appaiano– maturi per una loro autonoma proposta al mondo accademico, tanto dottrinale che didattico. Esattamente quanto sta accadendo oggi ad opera anche di un certo numero di membri del “gruppo docenti” che si propongono all’editoria non solo con opere di ricerca ed approfondimento tematico e specialistico ma anche di espressa natura didattica. Non si trascuri, in aggiunta, come anche un certo numero di ‘novelli docenti’ di diritto canonico negli ISSR e nelle facoltà ed istituti teologici, formatisi nell’ultimo decennio nelle facoltà romane, tendano quasi naturalmente ad adottare gli indirizzi e gli strumenti didattici dei loro stessi docenti di cui hanno avuto esperienza diretta e, nel caso, convincente.

 

Solo un accenno, in questa sede, ad una tematica –squisitamente didattica– abbastanza sentita in questi ultimi anni tra i docenti proprio a riguardo dei –nuovi– manuali per le facoltà di diritto canonico. Si tratta della questione dell’apparato critico, [a] presente o [b] no, a [a1] fondo pagina o [a2] a fine capitolo, a cui si sta via via sostituendo un più generale e generico “orientamento bibliografico”. La tesi didattica sottostante al nuovo indirizzo editoriale –in crescente affermazione– ritiene che lo strumento didattico debba essere fortemente indirizzato al supporto dello studio della materia e non principalmente alla sua problematicizzazione o ‘fondazione’… come dovrebbe, invece, avvenire per le pubblicazioni tipicamente ‘dottrinali’, rivolte cioè ai colleghi prima che agli studenti[89]. Stanno così crescendo, non senza successo ed apprezzamenti (per quanto anche fortemente discussi), le pubblicazioni –didattiche– praticamente prive di note, articolate come un lungo discorso in cui l’autore –in realtà il docente– illustra ex propria doctrina et auctoritate la materia in oggetto, come se si trattasse della mera trascrizione delle lezioni tenute oralmente. Una scelta che pare rispondere maggiormente ad un indirizzo informativo che non formativo… ad un sapere, più che ad un saper sapere, secondo la pressante richiesta contemporanea, rivolta anche alla docenza accademica superiore, di informazioni, competenze ed abilità, prettamente operative e prontamente spendibili. La necessità e la richiesta in tal senso stanno aumentando in varie sedi didattiche soprattutto con l’aumentare di studenti provenienti da più parti del mondo ed oggettivamente svantaggiati davanti alla complessità imposta da lingua, cultura, preparazione di base. Tale indirizzo metodologico, però, rischia di ridurre ed emarginare l’approccio critico ed il confronto dottrinale, rischiando di aprire a derive semplificazioniste basate su novelli ipse dixit …tanto fruibili quanto ingestibili. La reale necessità degli studenti (molti dei quali ‘stranieri’) di non essere ‘distratti’ nel loro primo approccio di studio da un apparato –troppo– critico e ponderoso potrebbe comunque essere compensata collocando le –necessarie– note (vere e proprie) a fine capitolo… per chi sia ad esse interessato[90].

 

L’affermarsi e consolidarsi di questa ‘nuova manualistica’ user-friendly (“ad usum delphini”, si disse in passato) potrebbe altresì contribuire a ridurre il confronto dottrinale, sempre più delegato (e relegato) ai trattati (sempre meno scritti) e solo ricognitivamente proposto nei generi letterari tipici della ricerca quali sono le Tesi dottorali… lontano però dalla formazione degli studenti.

 

4.2.2 Le dispense

La seconda tipologia di “testi di docenza” continua ad essere costituita dalle c.d. dispense approntate (“pro manuscripto”) dai docenti immediatamente e direttamente per gli alunni dei loro corsi (“ad usum auditorum”). Un’opzione tanto più apprezzata quanto più corrispondente all’effettività dello svolgimento delle lezioni (e della preparazione agli esami); ciò che pone l’ulteriore problema del bilanciamento col manuale eventualmente adottato. La proposta didattica di una dispensa (e/o la sua tipologia), infatti, dipende direttamente dalla scelta di adottare o non-adottare un manuale o altro libro di testo. Si profilano così alcune configurazioni didattiche di una certa tipicità: [a] l’adozione di un manuale da seguire più o meno completamente sia come testo didattico (per le lezioni) che come testo più ampio di studio; [b] l’adozione, sia per le lezioni che per lo studio, di un manuale o altro libro, complementato con apporti esterni, quali stralci di articoli e di saggi ed altro materiale dottrinale, più o meno organizzato nella forma di ‘testi complementari’[91]; [c] l’adozione, tanto didattica che di studio, di una dispensa vera e propria creata appositamente dal docente[92], eventualmente affiancata da qualche lettura complementare.

 

Illustrando per sommi capi questa terza modalità, occorre evidenziare come scopo precipuo della dispensa sia organizzare in un’unica prospettiva organica l’intera proposta didattica per offrirne una strutturazione ed una interpretazione e comprensione sintetica ed armonica che permetta di evidenziare e trasmettere i contenuti fondamentali dell’insegnamento in oggetto, in base all’Istituzione accademica in cui si tiene il corso.

Tenendo conto di quanto già indicato a proposito della singola lezione, per approntare una dispensa didatticamente efficace sarà necessario articolare prima di tutto un quadro didattico (=programma/indice) chiaro che permetta di trattare un singolo tema per ogni lezione (o coppia di lezioni abbinate): tanti capitoli quante le lezioni, tanti ‘temi’ quanti i capitoli.

La forza ed efficacia di una dispensa sta nella sua struttura che dev’essere assolutamente chiara e schematica, con una forte articolazione delle diverse tematiche affrontate, in modo che gli studenti possano individuare sempre e con facilità la precisa ‘collocazione’ di quanto si sta trattando, le sue connessioni col resto della tematica e, più ancora, la ‘gerarchizzazione’ dei contenuti. È questo, infatti, ciò che più spesso risulta loro difficile, tanto affrontando i voluminosi trattati, che specifici approfondimenti specialistici, ma anche un certo numero di manuali rispondenti a presupposti dottrinali e metodologie didattiche diversi da quelli proposti nelle lezioni da loro seguite. Gli elementi strutturali delle singole lezioni devono trovare la propria puntuale corrispondenza nella redazione della dispensa che ‘contiene’ tali lezioni.

 

Intorno al tema delle dispense didattiche ruotano oggi interrogativi (e domande degli studenti) di portata e confini piuttosto nuovi rispetto a quando si potevano utilizzare solo fotocopie e la dispensa era sostanzialmente un ‘libro’ depositato presso il centro stampa dell’istituto o della facoltà e chi lo voleva doveva andare lì e richiederlo, secondo un sistema solo di poco più evoluto della “pecia”[93] in uso presso gli studia medioevali.

Di fatto gli studenti che oggi vengono a lezione col “tablet” chiedono il testo della dispensa in formato elettronico[94]… giustificando la domanda anche col fatto che così spendono meno[95].

In merito valgano alcune sollecitazioni.

 

- In primo luogo esiste un problema espressamente legato al metodo di studio ed alla sua efficacia: un testo cartaceo ha una gestione molto diversa da uno (solo) elettronico ed il modo di ‘farlo proprio’ attraverso lo studio è radicalmente differente. Personalmente per ‘studiare’ ritengo sia ancora necessaria la carta …e non credo si tratti di essere o meno “nativi digitali”, quanto piuttosto di gestire l’apprendimento in modalità radicalmente diverse, con reali conseguenze gnoseologiche che non ci sono ancora sufficientemente note mentre del modo ‘tradizionale’ di apprendere ormai si conoscono con tranquillità molti esiti positivi[96].

- In secondo luogo si pone il problema della ‘protezione’ del testo e –più ancora– del suo autore. Al di là, infatti, della possibile diffusione e copiatura indiscriminata del testo come tale, senza alcuna possibilità di controllarne l’utilizzo[97], si pone anche la questione della ‘qualità’ del testo stesso… Qualità che, in un testo in progress com’è solitamente una dispensa didattica “pro manuscripto” e “ad usum auditorum” (come ci si premura di scrivere sempre sui frontespizi, a propria tutela), spesso non va oltre l’appunto, l’annotazione, la provocazione… Se tali testi –insieme con la loro paternità– iniziassero a vagare incontrollatamente per gli spazi didattici e dottrinali del mondo (accademico)[98] le conseguenze per l’autore potrebbero non essere tra le più auspicabili.

 

4.3 Strumenti operativi di supporto

Quanto già indicato sul genere letterario ‘lezione’ e sulla sua struttura può –ed oggi deve– essere complementato da alcuni ulteriori elementi che riguardano direttamente l’esposizione e le sue modalità, soprattutto a livello di strumenti complementari ed ausiliarii[99] della didattica come tale (quale attività del docente) e non lo studio specificamente canonistico (quale attività degli studenti).

 

4.3.1 Strumenti grafici

La prima attenzione può essere assegnata agli strumenti grafici di supporto alla didattica, ricordando come la percezione e la conoscenza umane siano funzioni multimodali complesse e non attività singole e monadiche. Non di meno, al là dell’enfasi –a volte smodata– sulla ripartizione ed efficacia delle modalità di apprendimento monosensoriali o plurisensoriali: udito, vista, attività[100], va comunque tenuto conto che, p.es., le fattispecie, le norme o gli istituti giuridici non si possono né ‘fare’ né ‘disegnare’… confermando così il primato assoluto della parola, almeno nella didattica accademica giuridica.

In questa prospettiva, tuttavia, la generale possibilità di utilizzare ‘lavagne’, ‘lucidi’ o slides, così come supporti testuali (=manuali e dispense didattiche) in mano ai singoli studenti favorisce un’esposizione più attenta agli snodi fondamentali delle tematiche, con una buona scorrevolezza rispetto ai contenuti meno problematici e significativi ai fini della chiara ed immediata comprensione delle materie esposte. Tanto più se la lezione segue fedelmente il testo didattico di riferimento evitando l’ansia di non riuscire a scrivere tutto quello che il docente dice. Se gli studenti, infatti, possono agevolmente leggere su di un testo scritto gli elementi puramente documentativi, la loro attenzione durante le lezioni può essere efficacemente convogliata verso la –sola– comprensione: l’unica che garantisce la permanenza delle acquisizioni attraverso docenza e studio… diversamente si immagazzinano nozioni solo in vista dell’esame, di cui non resterà nulla.

 

Lo strumento grafico oggi più utilizzato in sede didattica è ormai la c.d. slide (o diapositiva), meglio dire lo “slideshow” (=visione di diapositive); ciò che spesso –per approssimazione– viene chiamato anche “powerpoint”[101] che, in realtà costituisce semplicemente l’evoluzione tecnologica dell’uso della lavagna sulla quale fissare schemi, indici, definizioni, riferimenti. La relativa facilità della loro realizzazione porta molti ad abusarne, mentre altri le rifuggono per la macchinosità del loro utilizzo; in realtà, come per ogni strumento, il bilancio tra pro e contro non è sempre univoco né condiviso.

Lasciando da parte i presupposti strutturali e logistici legati alla presenza o no del video proiettore fisso nell’aula, alla necessità di portare con sé il computer portatile, ecc. mentre per la lavagna bastava un semplice gesso, credo necessario ribadire come –didatticamente– non si tratti di nulla di più della lavagna… e come tale vada utilizzato.

 

- Su di una slide si deve scrivere quello che si scriverebbe sulla lavagna[102]: l’essenziale, la struttura, di quanto si vuole dire. La slide non è ciò che si deve dire (=il contenuto della lezione), ma lo schema di ciò che si sta dicendo: lo schema gerarchico, logico e visibile dei contenuti presenti ed ampiamente illustrati sul manuale o sulla dispensa di riferimento e –casomai– ‘narrati’ dal docente. In questo modo l’immagine offre una visione dell’articolazione logica dei contenuti che dovrebbe orientare il discorso che si ascolta e ‘fissarlo’ in maniera multimodale in più aree celebrali (memoria uditiva e memoria visiva) offrendogli maggior ‘supporto’ nel tempo.

- L’abuso nell’utilizzo delle slides fino al punto di renderle un vero e proprio ‘testo’ da leggere integralmente porta effetti deleteri: una conferenza o una lezione in cui il relatore/docente si riduce a “leggere il powerpoint” diventa insopportabile e non offre alcun aiuto né alla comprensione né all’apprendimento. Spesso, addirittura, l’impegno profuso nella preparazione di tali slides, così ‘complete’, porta alla perniciosa eliminazione delle dispense, rendendo del tutto superflui anche i manuali e gli altri testi di riferimento, poiché “è tutto nelle slides”. La slide invece non dev’essere un riassunto né una riduzione del testo ma solo il suo schema logico che ne aiuti la lettura ed assimilazione.

In proposito è interessantissimo notare come un tal modo di insegnare ed imparare abbia già dato pessima prova di sé a molti livelli, non solo didattici[103].

- La slide ‘giusta’ è quella che visualizza lo schema della lezione: i dieci/quindici punti cui già si è fatto cenno a proposito della struttura della lezione. In tal modo essa offre ottime possibilità di supporto non solo alla didattica ma anche allo studio in quanto gli studenti possono riprodurle secondo necessità su vari tipi di dispositivi elettronici[104]. Molti, poi, le utilizzano come veri e propri ‘schemi’ di studio… col vantaggio –per nulla trascurabile– che si tratta di schemi fatti dal docente!

Questo modo d’insegnare e studiare risulta particolarmente gradito ed utile sia agli studenti non italiani che a quelli senza alcuna nozione giuridica: ai primi semplifica l’improba attività di prendere appunti in una lingua solo parzialmente posseduta e ricca, spesso, di termini assenti sulla maggior parte dei dizionari; ai secondi offre la possibilità di non spaventarsi davanti ai termini tecnici sconosciuti potendosi così concentrare maggiormente sulla sostanza delle cose[105].

 

4.3.2 Supporti telematici

Su di un piano completamente diverso, per quanto spesso complementare poiché fruito attraverso gli stessi apparecchi elettronici, si pongono i supporti telematici alla didattica che qualche docente utilizza soprattutto per facilitare il contatto e, più ancora, il supporto agli studenti soprattutto a livello di documentazione.

La panoramica è ampia ed articolata …e spesso discontinua ed aleatoria.

 

- Una prima opportunità, solitamente di natura istituzionale, è costituita da servizi di informazione e documentazione riconducibili alla c.d. “pagina WEB” del docente collocata sul sito-WEB dell’Istituzione accademica di appartenenza: uno spazio telematico ad accesso pubblico o riservato (o misto) che contiene le informazioni circa la reperibilità del docente (telefono e posta elettronica), gli orari di lezione e ricevimento, i programmi dei corsi, informazioni varie ed ‘avvisi’, files di supporto e complemento allo svolgimento delle lezioni, tra cui (a volte) le slides utilizzate per le lezioni. Difficilmente gli spazi istituzionali offrono molto di più e, spesso, sono molto rigidi e poco versatili per i più intraprendenti, soprattutto perché non permettono ai singoli docenti d’inserire autonomamente i propri materiali. In effetti nella maggior parte dei casi tali “pagine WEB istituzionali” non vanno al di là di quanto già pubblicato in modalità cartacea sull’“Ordo anni academici”, profilandosi più come ‘vetrine’ istituzionali nelle mani di grafici ed Uffici di comunicazione istituzionale, che come strumenti didattici nelle mani dei docenti[106]. I “siti WEB istituzionali”, inoltre, pagano spesso le pesanti limitazioni legali ed amministrative imposte sia [a] dalla necessità di non porre in atto comportamenti illeciti di alcun tipo a carico/danno dell’Istituzione, sia [b] di dover fornire adeguata sicurezza e protezione anche legale ai contenuti che i singoli docenti –soprattutto i meno esperti in campo telematico e pubblicistico– potrebbero inserire sul “sito WEB istituzionale” nelle proprie “pagine”.

- Una seconda opportunità, spesso complementare a questa e di libera iniziativa privata ed autonoma del docente, è costituita dal “sito-WEB” personale (extra-istituzionale) in cui egli abbia convogliato tutto quanto ritenga utile agli studenti o anche, più ampiamente, a chi s’interessi delle sue tematiche di ricerca –prima che di docenza–. Qui si trovano spesso articoli (anche in distribuzione open-access[107]), bibliografie, link tematici, ecc. Un contesto più ampio, versatile e libero di quello istituzionale, ma nulla di più: si rimane sempre nel mondo c.d. “WEB 1”, monodirezionale e statico. Una soluzione efficace consiste nell’inserire nella “pagina WEB istituzionale” il –solo– link al “sito-WEB” personale, permettendo così ai docenti che ne siano in grado (e se ne assumano responsabilità e rischi) di operare più direttamente, senza dover passare sempre attraverso il ‘collo di bottiglia’ dei tecnici e delle regole istituzionali d’inserimento e mantenimento dei dati e materiali.

- Negli ultimi anni hanno preso piede (e sono stati proposti come la vera ‘frontiera’) sistemi telematici di condivisione di contenuti in modo interattivo (enfaticamente chiamati “WEB 2”) caratterizzati dalla possibilità di interazione tra gestori ed utenti. Si tratta in massima parte di “blog”[108] o di spazi “wiki”[109] ad accesso sia libero che regolamentato in cui si possono collocare contenuti –anche solo ‘pensieri’– che gli altri (nel caso gli studenti) possono ‘commentare’, dando così corpo ad una sorta di dialogo anche multilaterale[110]. In questa prospettiva, se il blog permette un’efficace interazione tematica attraverso l’inserimento di “post” (=ciò che uno ha da dire/condividere su un determinato argomento) e loro “commenti” (da parte di chi legge e ‘risponde’), il wiki appare invece più adatto a supportare vere e proprie attività di c.d. e-learning (=insegnamento elettronico, cioè a distanza: la vecchia “scuola per corrispondenza”), potendosi giovare della possibilità di gestire anche apposite aree di “download” in cui depositare dispense, articoli, slides… e quant’altro possa risultare utile agli studenti.

A differenza del blog che funziona come una specie di bacheca o di diario personale (di pensieri ed idee), il wiki offre vere e proprie pagine-WEB statiche nelle quali organizzare e rendere accessibili i diversi contenuti riguardanti i corsi (aula di docenza, orario, calendario, argomento delle lezioni, materiali complementari, slides, aggiornamenti, esercitazioni, ecc.). Il maggior vantaggio di questo strumento si trova nella possibilità d’integrare le lezioni inserendo (quando se ne presenti la necessità) risposte organiche e ponderate a qualche domanda ricevuta in aula, oppure fornire documentazione aggiuntiva; a volte capita di proporre la revisione di una pagina della dispensa didattica integrata o corretta a seguito della lezione e, soprattutto, di questioni poste in essa da parte degli studenti: si  modifica il testo della dispensa, lo si salva in “.PDF”, lo si carica sullo spazio wiki, si manda agli studenti l’avviso che lo possono scaricare, aggiornando così il loro testo al suo ultimo stato di elaborazione.

Gli spazi wiki risultano anche utilissimi per monitorare on-line le ‘posizioni’ dei partecipanti a seminari, esercitazioni, maturazione di crediti formativi ed altre attività extra-curricolari: tutti elementi che difficilmente le segreterie accademiche permettono di gestire; la pubblicazione sul wiki delle ‘tabelle’ contenenti tali prospetti si rivela spesso comodissima[111] …anche per le stesse segreterie.

La principale comodità di questi strumenti sta nel fatto che si tratta di piattaforme WEB-oriented che permettono di essere interamente gestite via WEB, da qualsiasi browser (anche dallo smartphone) permettendo così di aggiornarli e monitorarli quasi in/da ogni luogo. Altra potenzialità interessante è la possibilità per gli utenti di ‘iscriversi’ al blog/wiki così da ricevere in automatico tramite e-mail tutte le variazioni apportate, senza neppure doversi collegare ad esso.

Per quanto il potenziale didattico teorico di questi sistemi appaia molto alto, in realtà gli studenti effettivamente interessati ad andare ‘oltre’ la nuda lezione (ed annesso voto d’esame) ed approfondire qualche tematica sono pochissimi… praticamente nessuno. E questi pochissimi preferiscono il contatto personale o qualche e-mail diretta.

- Altra categoria di strumenti telematici potenzialmente fruibili a scopo didattico è costituita dai c.d. social networks (“facebook” in particolare e “twitter”) sui quali è possibile ‘trovare’ –più che ‘incontrare’– un buon numero di studenti (su facebook quasi la metà). La natura e soprattutto la funzionalità di tali strumenti, tuttavia, non pare adeguata per un reale utilizzo didattico; tuttalpiù, creando un “profilo” molto neutro e formale attraverso cui chiedere la loro ‘amicizia’ si possono utilizzare per inviar loro quelle comunicazioni che non leggerebbero mai da nessuna parte, neppure all’indirizzo istituzionale di posta elettronica che l’università –spesso– attiva all’iscrizione ed utilizza per le comunicazioni ufficiali tra università e studenti (iscrizione agli esami compresa!). In questo modo quando ci siano comunicazioni urgenti oppure ‘utili’[112] si può inviare un twitt (anche dal cellulare) che rimbalza su facebook e si ha una buona certezza che scatti il tam-tam e la notizia passi. Tuttavia nei twitt e negli ‘stati’ di facebook è consigliabile mettere sempre il link alla pagina ‘ufficiale’ del sito wiki, perché è quella che gli studenti devono abituarsi a consultare. Questo, però, non è social networking in senso proprio ma advertising: pubblicità!

- Tra le potenzialità telematiche di facile accesso e fruizione tanto per docenti che per studenti possono collocarsi anche piattaforme di condivisione audio-video come “www.youtube.com”, sulle quali è possibile ‘caricare’ registrazioni sia audio (i c.d. “pod-cast”) che video, corrispondenti, p.es., alle lezioni[113]; in tal modo gli studenti con difficoltà di spostamento o di frequenza potrebbero seguire autonomamente le lezioni –anche in differita– quasi come se fossero in aula. Questo, tuttavia, contrasta espressamente col presupposto ecclesiastico della frequenza obbligatoria[114], valido in tutte le istituzioni accademiche dipendenti dalla S. Sede.

- In ambiti più di nicchia, gestiti spesso direttamente dalle istituzioni accademiche stesse, si collocano poi piattaforme di “e-learning” che, seppure all’interno di sistemi più rigorosi ed attraverso servizi a standard tecnici più elevati[115], offrono di fatto le stesse potenzialità didattiche sin qui illustrate.

- Per quanto riguarda, poi, usi più specifici degli strumenti telematici a servizio della didattica, esistono altre possibilità di una certa efficacia, seppure operanti sempre in modo pressoché unidirezionale (da docente a studenti).

1) La prima possibilità consiste nel ‘condividere’ telematicamente con studenti (ed altri ricercatori) alcune delle proprie risorse di studio e lavoro scientifico attraverso uno spazio-disco virtuale[116] che ‘replichi’ in internet alcune “cartelle” del proprio computer di lavoro: quelle in cui si conservano, p.es., i files delle Fonti normative e magisteriali, le indicazioni per la corretta citazione dei discorsi dei Pontefici alla Rota Romana, le eventuali bibliografie di qualche rivista specialistica, indici e repertori ed altri elementi metodologicamente utili alla scrittura della tesi… In questo modo, in qualunque momento lo studente/ricercatore potrà prelevare tali files di citazioni metodologicamente corrette –ed aggiornatissime (in quanto sono le stesse che il docente utilizza e mantiene sul proprio computer)– da utilizzare per il proprio apparato critico… risparmiando al docente stesso l’estenuante successivo lavoro di revisione radicale della ‘metodologia’ redazionale.

2) Il secondo, sempre connesso all’attività delle tesi, riguarda la loro correzione. Anche in questo caso si può utilizzare uno spazio-disco virtuale nel quale ‘parcheggiare’ la scansione a colori (generata da uno scanner automatico) delle correzioni delle pagine da loro consegnate o inviate per posta. La comodità consiste nel non intasare nessuna casella di posta elettronica e nessun dispositivo mobile con files della dimensione di alcune decine di MB poiché attraverso l’e-mail si inviano semplicemente i link ai file stessi, che gli studenti provvederanno poi a scaricare quando saranno in grado di farlo proficuamente. I vantaggi sono molteplici: a) i tempi per incontrare gli studenti e consegnar loro correzioni ed annotazioni diventano molto più flessibili, b) calendari ed orari di apertura delle sedi di docenza non risultano più preclusivi, c) rimane copia (in files “.PDF”) di tutte le correzioni fatte e richieste.

 

4.3.3 Esercitazioni

Gli strumenti operativi di supporto alla didattica, tuttavia, non sono solo quelli tecnologici; ne esistono infatti anche di ‘tradizionali’, come le c.d. esercitazioni che, almeno in presenza di numeri significativi di ore di lezione, offrono vantaggiose occasioni di apprendimento soprattutto negli ambiti didattici a maggior indirizzo operativo: gli istituti teologici che preparano il futuro clero, le facoltà di diritto canonico che preparano i futuri operatori del diritto.

 

Le tipologie fondamentali di esercitazione didattica canonistica possono riguardare [a] la modulistica dei diversi Procedimenti parrocchiali o giudiziali, oppure [b] la soluzione di alcuni casi pratici.

- La modulistica di curia con cui un futuro parroco dovrà confrontarsi è un buon banco di prova per verificare il livello di conoscenza e comprensione delle norme canoniche e, più ancora, degli elementi sostanziali presupposti. La modulistica matrimoniale costituisce una sorta di ‘classico’, insieme con le varie notifiche e le certificazioni dello status ecclesiastico dei fedeli, senza trascurare la richiesta di Licenze per l’amministrazione straordinaria degli enti canonici. Due i possibili livelli di utilizzo: [1] le norme, [2] l’operatività concreta.

1) Per verificare in re la conoscenza della materia e delle norme fondamentali che la regolano si possono utilizzare i moduli di curia, dopo averne cancellato i numeri dei Canoni di riferimento; l’esercitazione consistere proprio nella ricostruzione dell’apparato normativo pertinente.

2) L’operatività concreta potrebbe, invece, essere messa alla prova attraverso il completo approntamento di una c.d. pratica tipicamente parrocchiale; i livelli di preparazione generale raggiunti possono essere ulteriormente verificati introducendo progressivamente ‘varianti’ a riguardo delle caratteristiche ‘soggettive’ delle persone coinvolte (non battezzato, a-cattolico, formalmente separato dalla Chiesa, irretito da sanzione penale, ecc.).

- Per quanto riguarda l’attività dei Tribunali ecclesiastici le esercitazioni si realizzano, solitamente, secondo la logica e le dinamiche dei c.d. giochi di ruolo: allo studente viene assegnato il ruolo di uno dei protagonisti della vicenda giudiziale (tanto una delle parti private che una delle figure istituzionali del tribunale) chiedendogli di realizzare, via via tutti gli Atti di sua specifica spettanza… tanto quelli dovuti che quelli possibili, all’interno di una cornice fattuale già prestabilita.

- Il livello più alto di esercitazione didattica (per specializzandi) consiste nella richiesta di soluzione di un ‘caso’ pratico… allo stesso modo che avviene in una curia o che potrebbe porsi ad un professionista richiesto di consulenza o di intervento in una questione giuridica canonica. Solitamente non occorre inventare cose strane ed improbabilmente complicate: basta un po’ di pratica personale nella vita pastorale ordinaria oppure, anche, l’attenzione ai fatti di cronaca che coinvolgono chierici o religiosi o enti ecclesiastici…

Uno dei modi più veloci ed efficaci –oltre che verosimili– è la risposta ad una lettera di segnalazione, di denuncia, di richiesta, di proposta o di invito… rivolta all’ordinario su una qualunque delle materie regolamentate dal diritto canonico e presenti nella pastorale. Agli studenti si può chiedere di rispondere in nome e per conto dell’ordinario stesso mettendo ben in risalto: [1] la fattispecie principale di cui si tratta, [2] gli elementi e fattori giuridici di maggior rilievo da doversi utilizzare per valutare la questione, [3] la soluzione possibile a stretta norma di diritto.

 

In tema di esercitazioni è di estrema importanza non tanto la loro valutazione, ma la loro correzione: è questa, infatti, che assume il ruolo fondamentale con –spesso– un impatto formativo multiplo di qualunque lezione teorica. Saranno proprio gli elementi coinvolti nella soluzione dell’esercitazione quelli che rimarranno maggiormente impressi nella mente degli studenti modellandone il modo di ragionare ed operare.

Correggere didatticamente un’esercitazione, però, significa utilizzare almeno la metà di una normale lezione (20-25’) e questo deve già essere stato programmato, diversamente rischia di saltare l’intero piano didattico inizialmente predisposto. È questo il motivo per cui le esercitazioni, almeno nei Cicli di specializzazione, sono generalmente utilizzate all’interno dei seminari.

 

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in: GIDDC, L'insegnamento del Diritto canonico in Italia, coll. Quaderni della Mendola, Milano, 2014, 163-204