testo dell’articolo senza le note - per la versione integrale consultare la versione a stampa


Le figure parrocali del Libro II del Codex Juris Canonici

Da quasi vent'anni ormai, dopo la promulgazione del Codex Juris Canonici del 1983, si assiste alla crescita di studi e pubblicazioni, di natura tanto pastorale che istituzionale, sui temi riguardanti la Parrocchia ed il Parroco; si nota in particolare un sensibile slittamento di interesse verso la Parrocchia[2] come tale, a detrimento del Parroco che viene sempre più colto nella sua relazione (subordinata) alla Parrocchia stessa. Anche all'interno della vita ed organizzazione delle Chiese particolari é molto cambiata la proporzione tra il numero dei Parroci e quello degli altri Presbiteri incaricati di vari generi di ministero nella pastorale diocesana; gli stessi preti giovani non sembrano più aspirare a diventare Parroci col trasporto di mezzo secolo fa.

Il presente lavoro, pur nella sua modestia, intende contribuire a questo confronto attraverso un percorso che faccia emergere la consistenza e portata delle `premesse' istituzionali che la Chiesa si é data in materia attraverso lo strumento codiciale seguito al Concilio Vaticano II.

La metodologia tipicamente giuridica del procedere fornirà, al prezzo di una non particolare specificità teologico-pastorale, gli elementi comunque certi da cui partire per cogliere, al di là dei tanti discorsi possibili, come effettivamente siano stati individuati e fissati gli elementi irrinunciabili di questo `settore' della vita ecclesiale.

A ben vedere, il Parroco é stato oggetto di attenzione parziale già nel Vaticano II dov'é comparso in modo piuttosto marginale: 21 volte (di cui 18 nel Decreto "Christus Dominus", 16 delle quali nei `numeri' dedicati specificamente al suo rapporto con l'Episcopato in ragione della cura pastorale: nn. 30-31); il Codice, pur andato molto oltre per la vastità delle materie da normare, ha proseguito nel `ridimensionamento' della figura del Parroco riducendone notevolmente la `prestanza'.

Di fatto sotto il profilo testuale il CIC 17 aveva 303 ricorrenze della radice `paroch' in 176 canoni mentre il CIC 83 menziona il Parroco solo 162 volte[3], in 99 canoni: una riduzione di quasi la metà delle ricorrenze precedenti.

Uno sguardo complessivo all'utilizzo del termine `Parroco' nel CIC 83 lo mostra presente in tutti i Libri del CIC (tranne il Diritto penale) anche se con notevoli differenze di `concentrazione':

Libro I - Norme generali: n. 6 volte;                                                               
Libro II - Il Popolo di Dio: n. 73 volte, di cui n. 61 volte nel Capitolo "Parrocchie, Parroci e    
Vicari parrocchiali";                                                                               
Libro III - il munus docendi della Chiesa: 7 volte;                                                 
Libro IV - il munus sanctificandi della Chiesa: n. 51 volte;                                        
Libro V - I beni temporali della Chiesa: n. 1 volta;                                                
Libro VII - I processi: n. 24 volte, di cui 19 nella Sezione sulla rimozione e trasferimento dei    
Parroci.                                                                                            

Volendo approfondire il tema principalmente sotto il profilo istituzionale, é necessario concentrare l'attenzione sul Libro II del CIC dove il Parroco non solo é maggiormente presente (73 volte) ma la sua figura é anche posta in relazione col resto della struttura ecclesiastica diocesana; la ricerca prenderà avvio dall'ambito di maggior concentrazione delle ricorrenze testuali per allargarsi in seguito all'intero Libro II.

a) "Parrocchie, Parroci e Vicari parrocchiali" (Cann. 515-552)

Finalmente, dopo secoli di `incuria' sotto il profilo istituzionale, il CIC 83 offre una prima definizione di Parrocchia superando l'impasse normativo e dottrinale che si era venuto creando dagli anni '20 quando uno `scoglio' costante dei canonisti divenne proprio la definizione della natura giuridica della Parrocchia, in quanto il CIC 17 testualmente non considerava la questione. Gli autori erano così divisi tra coloro che, fedeli al Codice, riconoscevano personalità giuridica solo al beneficio parrocchiale annesso all'ufficio sacro, alla chiesa parrocchiale e, se presente, alla fabrica ecclesiæ, non ammettendo tale personalità (a norma di Diritto) per la Parrocchia, e coloro che, `pastoralmente', insistevano nel `creare' una necessaria figura di sintesi: la Parrocchia, appunto[4]. La confusione veniva ulteriormente accresciuta dalla presenza di posizioni ancor più estreme:

<<c'era infatti chi riteneva che nella Parrocchia esistessero tre soggetti: la Parrocchia, la chiesa parrocchiale e il beneficio parrocchiale; chi riteneva ne esistessero due: chiesa e beneficio; chi invece che ne esistesse uno solo: il beneficio>>[5].

I canoni dal 515 al 552 fissano finalmente la natura della Parrocchia ed i principali rapporti al suo interno; ciò che dal Concilio di Trento in poi era rimasto, nonostante tutto, parecchio fluttuante[6] riceve ora per la prima volta una precisa identificazione... sorpassando addirittura le antiche ripartizioni della materia canonica. Caduto infatti il "De Parochis"7, il CIC 83 ha un capitolo intitolato: "Parrocchie, Parroci e Vicari parrocchiali", anche se sostanzialmente la maggioranza dei canoni continua a riguardare il Parroco[8].

Il Can. 515 indica gli elementi basilari cui ricorrere per identificare la Parrocchia, la sua natura, la sua `giuridicità'; recita il canone al suo [[section]]1:

<<la Parrocchia è una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell'ambito di una Chiesa particolare, e la cui cura pastorale è affidata, sotto l'autorità del Vescovo diocesano, ad un Parroco quale suo proprio pastore...>>.

Il testo normativo, pur senza volontà specificamente definitoria, esplicita con chiarezza gli elementi costitutivi della Parrocchia attraverso tre proposizioni: una `principale', una `subordinata relativa' ed una `coordinata', ciascuna con un proprio soggetto che coincide nelle prime due proposizioni ("Parrocchia") e varia nella terza ("cura pastorale"); pur presente, il Parroco non pare aver un ruolo `costitutivo'... egli é semplicemente colui al quale viene affidata in modo del tutto particolare ("quale suo proprio pastore") la "cura pastorale" ...non la Parrocchia.

Il legame tra Parrocchia e Parroco non risulta diretto -in questo canone- ma `mediato' dalla "cura pastorale" che, in quanto soggetto -grammaticale- fa come da `ponte' tra le due realtà che non sembrano corrispondersi esplicitamente[9]; <<la Parrochia appare così costituita da due elementi tra loro profondamente compenetrati: la comunità dei fedeli e il ministero pastorale>>[10]... mentre il Parroco appare `esterno' alla definizione.

Un canone di questo tenore, in apertura di un Capitolo così specifico, ha certamente una funzione fondamentale nell'inquadrare l'intera materia ma, soprattutto, nel dare finalmente consistenza `ontologica' alla realtà Parrocchiale che -solo adesso- possiede ex jure præscripto personalità giuridica propria nell'Ordinamento canonico[11]; questa enunciazione riconosce finalmente nell'elemento personale/comunitario, prima che gerarchico-istituzionale, l'essenza della Parrocchia... così <<la nuova formulazione mette chiaramente in evidenza la qualità di "soggetto" che è propria della Parrocchia, di soggetto attivo nell'azione pastorale>>[12].

Merita attenzione di conseguenza, sotto questo profilo, l'osservare come il linguaggio impiegato dal CIC 83 in questo ambito risulti addirittura involuto rispetto a quello del CIC 17 che utilizzava il termine "rector" tanto per definire la Parrocchia che lo stesso Parroco[13]; un termine con questi `precedenti' avrebbe potuto essere utilizzato in modo più che appropriato quale `corrispondente' a questa visione di Parrocchia[14]: il Parroco come colui che `regge' la Parrocchia... o la `presiede'[15].

E' proprio la non-necessaria `corrispondenza' Parrocchia-Parroco[16] a costituire il presupposto di questa ricerca e riflessione che non intende indagare né delineare la `natura' propria della Parrocchia, ma soltanto verificare (mettere alla prova) se a `questa' Parrocchia-soggetto corrisponda univocamente IL Parroco come `elemento necessario'.

Una scorsa ai canoni del Capitolo "Parrocchie, Parroci e Vicari parrocchiali" sarà certamente utile ad individuare gli elementi che, secondo il CIC 83, entrano a partecipare di questo rapporto così fondamentale ancor oggi, non tanto per la pastorale quotidiana quanto piuttosto per le prospettive strutturali e funzionali che -forse- saremo ben presto chiamati a far nostre a più livelli.

Mentre, come detto, l'essenza della Parrocchia proposta dal CIC 83 non pare ulteriormente `utile' nel delineare il rapporto in esame, é certamente necessario `verificare' la natura propria del ministero parrocale per saggiarne l'effettiva `corrispondenza' a questo genere di Parrocchia che non vede nel Parroco un elemento `forte' della propria definizione; in altre parole: mentre non può esistere Parroco senza Parrocchia, cosa `pensa' il CIC 83 della Parrocchia `senza' Parroco?

Il primo passo necessario é l'individuazione degli elementi costitutivi del `parrocato'.

<<il Parroco si vede affidare la cura pastorale della Parrocchia (Can. 515 [[section]]1). Il canone 526 [[section]]1, come il canone 524, parla di `cura paroecialis' (cura Parrocchiale). Il medesimo canone 526 [[section]]1 utilizza un'altra espressione "cura di Parrocchia/e" che si ritrova con il complemento determinativo al plurale o solo semplicemente al singolare nei canoni 533 [[section]]3; 534 [[section]]2; 544 e 545 [[section]]1. Resta tuttavia il fatto che nei canoni del capitolo VI (Cann. 515-552) l'espressione cura pastorale (della Parrocchia) è la più frequente... L'espressione `cura pastoralis' è usata sedici volte su ventisette per designare la cura pastorale del Parroco (o del Moderator: Can. 517 [[section]]1). L'espressione è sinonima di un'altra più classica: `cura animarum', che ritorna nel Codice dieci volte[17], una delle quali espressamente riferita al Parroco. ... Nel Codice latino però, come nel linguaggio corrente, l'espressione "cura pastorale" tende a soppiantare l'espressione classica "cura d'anime">>[18];

viene così a cadere uno dei presupposti strutturali della precedente impostazione normativa che vedeva proprio nella cura animarum l'essenza dell'ufficio del Parroco; con essa cadono inevitabilmente tutti i presupposti che facevano del Parroco un quis unicus, il cui rapporto con la `sua' Parrocchia non poteva essere supplito in nessun modo.

E' quanto affermato chiaramente dal Can. 515 che `definendo' la Parrocchia indica chiaramente che è la sua cura pastorale ad essere affidata al Parroco ed a quest'azione pastorale parrocchiale il Parroco deve `riferirsi'. Anche il Can. 530, elencando le funzioni affidate in modo speciale al Parroco[19], le mostra nella loro natura `oggettiva' e `funzionale'[20]; allo stesso modo il Can. 533 a proposito della necessaria residenza in vicinanza della chiesa parrocchiale mostra chiaramente come l'unica ratio sia l'adempimento degli incarichi parrocchiali, evidenziando ancora una volta la natura eminentemente `funzionale' dell'ufficio parrocale che, in qualche modo, non pare poter prevalere su altri valori -anche non `pastorali'- quali la vita comune del Clero[21].

In questa prospettiva lo stesso principio secolare "unus Parochus una Paroecia", che pretendeva sancire `nuzialmente'[22] la corrispondenza univoca del binomio Parrocchia-Parroco, manifesta invece la propria `origine' soltanto beneficiale: l'incompatibilità giuridico-equitativa del possesso di più benefici curati (se non `uniti in parità') da parte della stessa persona... la Paroecia indicava infatti con evidenza, in questo contesto, il beneficium curatum.

Oggi, invece,

<<il Parroco è visto come pastore nel senso di colui che mette a disposizione dei Fedeli i beni della salvezza soprannaturale, mediante la predicazione, la celebrazione del culto e gli atti di governo della comunità parrocchiale (Cfr. in tal senso per es. i Can. 515; 519). In secondo luogo non è necessario che ogni Parrocchia abbia un proprio Parroco pastore: è infatti possibile affidare una o più Parrocchie a un gruppo di pastori, i quali agiscano `in solidum' sotto la guida e la responsabilità verso il Vescovo di uno di essi (c.d. `Moderator') (can. 517, [[section]] 1) oppure affidare a un solo Parroco più parrocchie vicine (Can. 526, [[section]]1). Resta comunque escluso che nell'ambito della stessa Parrocchia vi siano due Parroci oppure due `Moderatores' (Can. 526, [[section]]2)>>[23]

semplicemente ed ovviamente per una questione di `certezza del Diritto' che non può tollerare la presenza di due `rappresentanti/responsabili' della stessa realtà giuridico-pastorale, né due legali rappresentanti di un'unica persona giuridica[24]. Allo stesso tempo

<<resta il fatto che i canoni in questione, partiti con una definizione della Parrocchia come comunità di Fedeli, sembrano poi perdere per strada tale ottica squisitamente comunitaria, spostando l'asse del discorso sul Parroco e sulla sua funzione e parlando quindi solo di striscio della comunità Parrocchiale come di soggetto unitario agente>>[25];

questo però rende ancor più evidente il ridimensionamento sostanziale che la figura del Parroco ha dovuto subire proprio all'interno dei `suoi' stessi canoni.

In questa prospettiva si potrebbe addirittura affermare a buon diritto che la Parrocchia non ha tanto bisogno di un Parroco quanto, piuttosto di <<un esercizio appropriato della cura pastorale, cosa che implica l'ufficio curiale ma anche la collaborazione di Chierici e Laici>>[26], in altri termini: <<la presenza di un Presbitero come presidente, appartiene all'essenza della comunità parrocchiale: non si può concepire una comunità parrocchiale senza il ministero del Parroco>>[27], dove ciò che importa non é tanto il Parroco quanto il suo `ministero gerarchico', visto che la Parrocchia, a differenza di altre comunità di Fedeli (quali le associazioni), appartiene alla struttura stessa della Chiesa[28], e la Chiesa si sente impegnata ad assicurarne non solo la consistenza giuridica ma l'esistenza sostanziale[29].

A questo ridimensionamento della figura del Parroco legato alla `natura' stessa della Parrocchia devono aggiungersi altri elementi che la normativa canonica del 1983 ha introdotto o esplicitato quasi sulla `scia' del non più indiscusso ruolo del Parroco: il modello di affidamento della cura pastorale in solidum ed il nuovo statuto dei Vicari parrocchiali.

Circa l'affidamento in solidum (Can. 517), al di là degli aspetti di maggior o minore `ordinarietà' di utilizzo di questo istituto[30] e delle condizioni che lo giustificano, ciò che merita senza dubbio rilievo è il `soggetto' di tale affidamento: "la cura pastorale di una o più Parrocchie"; è questa che può essere affidata, secondo le dovute gradualità e necessità, tanto ad un gruppo di Presbiteri ([[section]]1) quanto ad altri gruppi costituiti o da Diaconi o anche da Laici, singoli o in gruppo ([[section]]2), sempre con la presenza indispensabile di un Presbitero che, in ciascuna di queste situazioni, è comunque il "Moderatore" di tale cura pastorale.

Orbene, che all'interno di un gruppo di Presbiteri non si voglia costituirne uno quale Parroco, ma lo si indichi semplicemente come `Moderatore' (primus inter pares[31]), è comprensibile e giustificato, avendone tutti le caratteristiche necessarie; che invece l'unico Presbitero all'interno di un gruppo `misto' di Fedeli continui ad essere designato semplicemente quale `Moderatore' senza esser riconosciuto Parroco, pur disponendo delle sue stesse facoltà ed essendo l'unico che soddisfi al requisito del Can. 521 [[section]]1[32], risulta quantomeno meritevole di grande attenzione.

Ciò che traspare dai canoni sull'affidamento in solidum della cura pastorale di una o più Parrocchie sembra indicare una vera consistenza giuridica proprio della `cura pastorale' in quanto tale che, a seconda della sua modalità di `affidamento', ad personam oppure in solidum `produce' differenti status giuridici del Presbitero in essa coinvolto che diventa `Parroco' se tutta la cura pastorale gli é affidata personalmente, `Moderatore' se la medesima cura pastorale viene `affidata' ad un coetus in solidum, indipendentemente dalla sua costituzione clericale e ministeriale.

Da ultimo: la cessazione del Moderatore (Can. 544) del gruppo in solidum -in ciascuna delle sue configurazioni- non rende vacante la Parrocchia a causa della semplice mancanza di chi esercita le potestà proprie del Parroco... la `cura pastorale' infatti rimane `affidata' al resto del coetus e la Parrocchia non manca di ciò che la costituisce essenzialmente.

Osserva correttamente Borras che la nozione di Parroco così come viene delineata dal CIC 83 si applica unicamente all'ipotesi in cui un unico e medesimo Presbitero riceva la cura pastorale di una o più Parrocchie[33]; se invece il presbitero non é `solo' in questo affidamento della cura pastorale il suo ruolo diventa necessariamente quello di Moderatore.

Si giunge così alla prova che `falsifica' l'ipotesi della necessaria corrispondenza diretta Parrocchia-Parroco: ciò di cui una determinata comunità di Fedeli stabilmente costituita nell'ambito di una Chiesa particolare necessita essenzialmente non é il Parroco ma l'esercizio effettivo, in essa, della cura pastorale... nella fattispecie: le facoltà del Parroco in ordine all'annuncio della Parola ed alla celebrazione dei Sacramenti e `qualcuno' che sia, anche giuridicamente, `caricato' degli obblighi derivanti da questa cura pastorale[34] secondo quanto stabilito dal Can. 213: <<i Fedeli hanno il diritto di ricevere dai sacri pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla Parola di Dio e dai sacramenti>>.

Ad ulteriore prova di quanto sin qui affermato sulla non necessaria `corrispondenza' del rapporto Parrocchia-Parroco si può addurre quanto coerentemente il CIC 83, secondo lo sviluppo logico di un'idea di fondo che non pare casuale né estemporanea o non sufficientemente intenzionale, prevede ed afferma a proposito dello `statuto' del Vicario parrocchiale (Can. 545): egli non é più un Presbitero `dato' in aiuto al Parroco ma alla stessa comunità parrocchiale o a più comunità parrocchiali contemporaneamente[35].

Ciò però che maggiormente rileva in relazione al rapporto sin qui sottoposto a `verifica' è quanto affermato in chiusura del Can. 548: Vicario parrocchiale e Parroco sono "insieme garanti" della cura pastorale della Parrocchia! La formula "simul sponsores" utilizzata dal Legislatore appare tanto decisa quanto `impegnativa', contribuendo ulteriormente a relativizzare la figura monolitica del Parroco[36].

Completa il quadro la presa d'atto che, secondo quanto espresso dalle Norme generali in fatto di potestà nella Chiesa (Cann. 129-144):

<<ogni competenza del Parroco è pure del Vicario Parrocchiale, in modo tale che alla voce "Parroco" nel Codice e nei testi normativi si debba intendere pure il Vicario parrocchiale. Il Vicario Parrocchiale condivide in tutto il ministero del Parroco e pure le azioni cultuali a lui affidate in modo speciale (Cfr. Can. 530)>>[37]

essendo la sua `potestà' ordinaria (per Ufficio) e vicaria (non propria).

Altra conferma della non diretta corrispondenza tra Parrocchia e Parroco, tanto più importante perché indiretta[38], può essere trovata nel Can. 520 a riguardo dell'affidamento di una Parrocchia ad un Istituto religioso: pur dovendo essere il Parroco una sola persona, la Parrocchia non é però affidata a lui direttamente, bensì all'Istituto religioso di cui é membro. Pur rimanendo questa tipologia di affidamento della Parrocchia del tutto particolare e non assimilabile ad altri modelli, é palese, ancora una volta, come la Parrocchia non `corrisponda' direttamente al Parroco[39].

Conclusivamente, è interessante notare come la maggior parte delle caratteristiche che `marcano' la figura del Parroco con le sue presunte specificità siano in realtà legate alla sola `cura pastorale' verso i Fedeli... Si potrebbe desumere dal CIC che quello che interessa non è assolutamente il Parroco come tale, ma il complesso delle sue `funzioni' che comunque trovano una vasta copertura di `supplenza' per ognuna delle sue possibili assenze o non-disponibilità verso i Fedeli e le loro `richieste' (vedi i canoni sulle sostituzioni e supplenze[40]). Ciò che importa alla normativa canonica è che sempre e comunque i Fedeli sappiano a chi rivolgersi per richiedere ciò che spetta loro per Diritto costituzionale: i beni spirituali della Chiesa, Parola e sacramenti (Can. 213), secondo il principio, tridentino, che il punto di riferimento di questa richiesta non possa essere `incerto' ma attraverso l'attribuzione Parrocchiale (domicilio e simili) ciascuno sappia sempre `dove' rivolgersi legittimamente e con vero diritto di `esigere', poiché ad ogni diritto di qualcuno deve poter sempre corrispondere, all'interno di un ordinamento giuridico, un dovere corrispettivo di qualcun altro.

Parroco, Vicario Parrocchiale, Moderatore, Cappellano, Amministratore parrocchiale... o altro, non fanno nessuna differenza poiché la Chiesa deve mettere a disposizione dei Fedeli la certezza di trovare risposta alla propria richiesta di `cura pastorale'!

Giunti a questo punto non potrà evitarsi l'osservazione che il ruolo del Parroco nel CIC 83 ha subito un'erosione costante[41] e combinata da parte di più fattori concomitanti; in questa prospettiva tutto quanto attribuito al Parroco in ragione di questa esigenza[42], che è quella fondamentale nella Chiesa, non può assolutamente essere ritenuto né specifico, né peculiare unicamente della sua figura ma, più propriamente, esigito dalla natura stessa della Parrocchia in quanto definita a partire proprio dalla `cura pastorale'.

b) "La costituzione gerarchica della Chiesa" (Cann. 330-572).

Quanto sin qui addotto a potenziale `verifica' della `corrispondenza' del rapporto Parrocchia-Parroco nel CIC 83, trova una conferma indiretta -ma non generica- nello status giuridico più generale che compete proprio al Parroco all'interno della struttura istituzionale della Chiesa (particolare); una scorsa sommaria dei canoni riguardanti la costituzione gerarchica della Chiesa è sufficiente a far prendere coscienza come all'esterno del Cap. VI, sin qui considerato, i riferimenti, quantitativi e qualitativi, alla figura del Parroco siano quasi assenti[43] e comunque risulti abbondantemente sconfessata, nei fatti, la pretesa `preminenza' dei Parroci all'interno dell'articolazione del Presbiterio diocesano. In questa linea si erano infatti mossi un certo numero di autori tanto `ante' che `post' conciliari nell'intento di `dimostrare' il ruolo specifico del Parroco all'interno della Diocesi... quasi si trattasse di una `figura' di portata ben maggiore di quella del resto dei Presbiteri[44]; si é affermato in proposito, ricorrendo a CD 29:

<<nel più alto grado della scala gerarchica dei collaboratori diocesani sono i Parroci. Il testo conciliare riserva loro la semplice ma significativa espressione: "i principali collaboratori del Vescovo". Una espressione di tale forza non é stata adottata per nessun altro membro del Presbiterio>>[45].

In realtà all'interno del Libro II del Codice nella Parte intitolata "La costituzione gerarchica della Chiesa:

1deg.) non si parla mai di Parroci nei canoni sulla Chiesa particolare ed il Vescovo diocesano; neppure a riguardo dei doveri del Vescovo e dei suoi collaboratori (Cann. 381-402);

2deg.) anche la costituzione del Consiglio presbiterale non ne tiene minimamente conto (Cann. 495-501);

3deg.) così come quella del Collegio dei Consultori (Can. 502);

4deg.) e del Consiglio pastorale diocesano, per i quali si parla solo di Presbiteri (Cann. 511-514);

5deg.) lo stesso Vicario foraneo non deve necessariamente essere Parroco (Can. 554);

in tal modo nel Codice non emerge nessuna particolarità dei Parroci quali figure di specifico rilievo all'interno della struttura organizzativa e consultiva della Diocesi, mentre ben diversa é la considerazione che il Legislatore ha assegnato ai Vescovi diocesani (veri `pastori' in cura d'anime) all'interno della struttura organizzativa e consultiva della Chiesa universale e della Curia romana[46]... la fondamentalità dei Parroci appare infatti peculiare soltanto dell'ufficio a loro affidato e solo per quell'ambito[47].

c) "Il popolo di Dio" (Cann. 204-746); in specie Titolo III: "I ministri sacri o Chierici" (Cann. 232-297).

Allargando l'orizzonte all'intero Libro II del CIC 83 si deve -continuare a- prendere atto che la presenza testuale del termine Parochus, al di fuori dell'ambito sin qui descritto, è praticamente nulla; nel De Clericis, infatti, ricorre solo due volte (Cann. 233 e 262) a proposito della pastorale vocazionale e dell'esenzione del Seminario dalla `potestà' del Parroco locale.

La sostanziale assenza del termine Parochus negli oltre sessanta canoni sui Chierici non deve tuttavia trarre in inganno poiché proprio in questo ambito normativo potrebbero essere presenti elementi significativi al fine di `verificare' ulteriormente la peculiarità e specificità insostituibile di questa `figura' nella Chiesa.

Dei circa trenta canoni `utili' del Titolo III[48], undici paiono significativi per delineare la figura sostanziale del Presbitero diocesano prima che l'affidamento della cura pastorale di una Parrocchia possa `condizionarne' lo status peculiare; di questi canoni sei riguardano la formazione del Clero, due l'incardinazione, tre i diritti e doveri del Presbitero[49].

Già l'ammissione al Seminario maggiore richiede l'essere stimati idonei a dedicarsi per sempre ai sacri ministeri (Can. 241), con un evidente orizzonte di pluralità (ministeriis sacris) non preclusivo verso nessuna delle possibili specificazioni del ministero stesso; l'intenzione, poi, di coloro che si presentano al Seminario deve essere quella di accedere al sacerdozio come tale (Can. 235) ed essere formati agli officia propria di tale status vitæ nella Chiesa.

Tra le specifiche più salienti va collocata senz'altro la formazione all'esercizio di un fruttuoso ministero pastorale ed allo spirito missionario che deve animare il rapporto con ogni uomo, nell'ottica di un profondo amore e comunione verso la Chiesa e la gerarchia ecclesiastica, in primis il proprio Vescovo di cui saranno -in ogni modo- fedeli cooperatori e gli altri fratelli membri dello stesso Presbiterio diocesano (Can. 245), già dai tempi del Seminario. Tale formazione poi deve preparare i candidati ai sacri Ordini alla consapevole assunzione dei doveri ed oneri propri dei ministri della Chiesa (Can. 247), secondo quanto il Vescovo diocesano riterrà opportuno disporre, tanto a livello di condizioni di vita che tipologia di ministero. Fanno parte di questo `complesso di doveri ed oneri' propri dei ministri della Chiesa cattolica anche la sensibilità e la disponibilità all'esercizio del `proprio' Presbiterato secondo le necessità, non solo della Chiesa particolare di incardinazione, ma anche di altre Chiese particolari che versino in condizioni di necessità (Cann. 256; 257), senza nulla togliere alle istituzioni che nella Chiesa da secoli si dedicano specificamente alla missio ad gentes.

E', anzi, in quest'ottica di cattolicità e `fraternità' intra ecclesiale che si è provveduto alla riforma dell'incardinazione dei Chierici, in modo tale da favorirne la mobilità che le esigenze del ministero ecclesiale possano comportare (Can. 270), sempre con appropriata attenzione alle necessità della Chiesa e del suo servizio (Can. 269).

Circa poi gli obblighi e diritti propri dello status clericalis non si operano distinzioni di sorta tra i diversi officia, ministeria et munera di cui la Chiesa particolare esprima, tramite l'Ordinario, la necessità. Ribadita anzi l'unicità del fine per cui tutti operano, legati da vincolo di fraternità e collaborazione (Can. 275), ogni Chierico è invitato ad accettare ed adempiere fedelmente il munus che gli verrà affidato (Can. 274) per il bene comune, senza distinzione di uffici ecclesiastici né di altre `tipologie' di ministero. Inoltre a sostegno, incremento e tutela di questo atteggiamento di fraterna collaborazione, il CIC non solo ha ribadito l'antica raccomandazione della vita comune del Clero (Can. 280) quale valore `originario' legato allo stesso Presbiterato, ma anche ne ha previsto la possibilità specifica per il Clero in cura d'anime: Parroci e Vicari parrocchiali[50].

Giunti a questo punto è ancora una volta possibile notare come, all'interno di un orizzonte ampio quale il Libro II del Codice, nessuno dei canoni a riguardo dei diritti-doveri dei Chierici ponga in una rilevanza qualsiasi l'ufficio di Parroco rispetto a tutti gli altri che il Vescovo diocesano o il diritto stesso possa/voglia individuare o creare all'interno della Diocesi e per la cura pastorale dei Fedeli. Lo statuto generale dei Chierici li pone tutti esattamente nelle stesse condizioni all'interno del Presbiterio e del servizio pastorale; ogni differenziazione ulteriore a causa dell'ufficio svolto non ha nessuna incidenza sulla condizione propria del Presbitero di essa incaricato, se non in ragione dei diritti-doveri peculiari dell'ufficio. Solo la legittima `provvisione' canonica conferisce una condizione giuridica particolare che il Diritto tutela proprio in ragione della legittimità-certezza della provvisione stessa, della sua utilità per il bene comune dei Fedeli e non del suo destinatario.

Il percorso sin qui articolato lungo il Libro II del Codice permette certamente di inquadrare la figura del Parroco, in rapporto alla Parrocchia, all'interno di uno schema piuttosto differente da quanto normalmente presunto. Il Codice appare molto più `consapevole' di parecchi Pastoralisti e Giuristi -e Vescovi- della possibile molteplicità di figure `istituzionali' attraverso le quali provvedere, in modo del tutto `equivalente', ad assicurare a ciascuna comunità parrocchiale ciò che più profondamente la costituisce: la cura pastorale.

L'orizzonte che il Codice intravede per questa materia, oggi tanto sofferta, é molto più possibilista di quanto si potrebbe pensare e non appare in nulla preclusivo rispetto all'opportunità di configurare la cura pastorale parrocchiale secondo modalità ancora sconosciute -in Italia almeno-.

Ciò che il Codice permette, e forse postula, é il superamento di una concezione ristretta non tanto della Parrocchia quanto, molto di più, della figura del Parroco visto ancora troppo facilmente come `quintessenza' della Parrocchia stessa.

La confluenza e concomitanza sostanziale di tanti elementi `previsti' coerentemente dal CIC stimola un ampliamento del concetto di Parroco basato non più sulla persona singola ma su un insieme di caratteristiche e funzioni che abbiamo indicato come `figura parrocale'; é dal confronto con questa `figura parrocale' che deve sgorgare una nuova impostazione della dinamica di rapporto tra Parrocchie e Presbiteri a vario titolo incaricati della loro cura pastorale.

Prof. Paolo Gherri

Studio Teol. Interdioc. di Reggio Emilia


in: APOLLINARIS, LXXVI (2002), vol 3-4, p. 611-628.