I PROCEDIMENTI PER LA RIMOZIONE E IL TRASFERIMENTO DEL PARROCO

 

Paolo Gherri

 

Introduzione

Le due procedure previste dal CIC sotto il titolo: “Procedura per la rimozione ed il trasferimento dei parroci” (cann. 1740-1752) costituiscono non solo due delle tre espressamente ‘codificate’ (la terza è la dimissione del religioso, ai cann. 694-704) ma anche due eccezioni in materia di provvisione e cessazione degli uffici ecclesiastici, a norma dei cann. 145-196 che contengono la normativa di riferimento per l’intera materia, anche se norme più specifiche per molti uffici vanno rintracciate soprattutto nel Libro II del CIC.

Proprio circa l’affidamento degli uffici ecclesiastici va ricordato come a quelli gerarchici il Vescovo diocesano nomini liberamente; per il parroco, in specifico, la nomina è riservata al solo Vescovo (cf. can. 523, l’Amministratore diocesano solo trascorso un anno, cf. can. 525, 2°). A tale libertà di provvisione iniziale non corrisponde però un’altrettanto agevole possibilità di successivo cambiamento poiché molti uffici risultano di fatto ‘protetti’ nella loro cessazione; quello di parroco in modo tutto speciale. La due procedure in esame, per parte loro, offrono al Vescovo diocesano possibili strumenti di efficace azione di governo, senza imporgli alcun ‘dovere’.

 

A livello generale la rimozione dall’ufficio è un provvedimento di carattere disciplinare che può essere attuato solo in presenza di adeguate ‘cause’ (“gravi” o “giuste” a seconda dei casi, cf. can. 193), nel rispetto di precisi termini ed in modo assolutamente ‘rituale’. L’onerosità del provvedimento per il suo destinatario (anche quando pienamente giustificato) impone alla procedura ogni genere di rigore formale e sostanziale, oltre alla necessità di formalizzazione documentale di ‘cause’ adeguate da parte dell’autorità, insieme al reale coinvolgimento della persona in questione.

 

I. DIRITTO SOSTANTIVO

1. La materia ed i suoi fondamenti[1]

La ‘protezione speciale’ che il diritto riconosce al parroco costituisce un’assoluta particolarità tra gli uffici ecclesiastici ridisegnati dal Concilio Vaticano II e normati dal CIC in conseguenza dall’abolizione del precedente sistema beneficiale (cf. PO 20 / EV I-1312). In tale sistema ufficio e beneficio (congiunti nel titulus ordinationis) erano tutt’uno e la perdita dell’ufficio comportava anche la perdita del sostentamento connesso. La delicatezza della materia fino al Vaticano II, che ha definitivamente distaccato l’ufficio ecclesiastico dal sostentamento dei chierici e reintrodotto l’incardinazione come vincolo ministeriale alla Diocesi anziché ad una specifica ‘sede’ (titulus), motiva la minuziosità di quanto stratificatosi nel tempo a protezione della persona del parroco, rendendo impossibile ogni intervento non espressamente penale (privazione, cf. can. 1336 §1, 4). Di fatto, un tale fondamento ‘soggettivo’ rimane indirettamente attivo ancor oggi in quelle parti del mondo in cui non sia stato realizzato un efficace sistema di sostentamento del clero (cf. can. 1274). In tali Paesi infatti lo status di parroco continua ad assicurare una certa sicurezza di vita connessa alla fruizione di una parte delle risorse della parrocchia (alloggio in primis ed offerte dei fedeli).

Ciò rende difficile comprendere quale sia oggi il reale ‘oggetto’ di protezione giuridica cui s’indirizzano le due procedure codiciali. Alcuni autori continuano infatti a trattare la materia in termini di ‘diritto’ del parroco[2], mentre la maggior parte pensa alla tutela della stabilitas della cura pastoralis (cf. can. 522), che però non riguarderebbe la persona del parroco come tale, né il suo specifico status. Proprio tale status –invece– pare determinante, poiché le due procedure si applicano esclusivamente a coloro che esercitano piena cura pastorale a titolo ‘proprio’, entro la scadenza del loro mandato (=stante munere)[3]: parroco, quasi-parroco, cappellano militare (salvo diritto proprio), moderatore della cura pastorale in solidum, cappellano di “missione sui iuris”, missionario titolare di parrocchia, senza che l’età possa cambiare le cose; esclusi i parroci membri di istituti religiosi e società di vita apostolica (cf. cann. 1742 §2 e 682 §2)[4] ed i fidei donum oltre i termini della ‘loro’ convenzione[5].

 

 

2. I principi normativi

2.1 Principi generali

I tredici canoni sono piuttosto disomogenei: alcuni indicano criteri e cause, altri semplici scadenze o attività; in particolare meritano attenzione i criteri poiché da essi dipende la valutazione in decernendo e la ‘tenuta’ della decisione del Vescovo che il parroco voglia osteggiare.

 

- Per la rimozione, il can. 1740 parla di ministero divenuto “nocivo o almeno inefficace”, individuando due esiti negativi di portata alquanto differente e vaga. Allo stesso tempo il canone pare escludere specifiche ‘azioni’ da parte del parroco in quanto non si richiede in lui una “colpa” ma una “qualunque causa” che sia in grado di comprometterne il risultato ministeriale[6]. Oggetto di verifica e valutazione non è la persona del parroco (sarebbe un procedimento penale) ma l’inadeguatezza del suo effettivo ministerium. Si tratta di un’affermazione di principio contro ogni limitazione pregiudiziale dell’azione del Vescovo diocesano cui spetta il libero conferimento dell’ufficio di parroco: il decreto Christus Dominus era stato assolutamente inequivocabile in merito (cf. CD 31 - EV I-661-663).

 

- Per il trasferimento dei parroci ad altro ufficio (non necessariamente altra parrocchia), le norme si mostrano ancora dipendenti dalla precedente situazione beneficiale in cui cambiare ufficio significava cambiare il titulus ordinationis cioè il beneficium a disposizione per il proprio sostentamento e, quindi, la propria condizione di vita. Un cambio non giustificato se non in meglio; un cambio che non poteva essere imposto dall’esterno e che nel 1742 Benedetto XIV[7] aveva regolamentato attraverso i ‘concorsi’ per attuare almeno qualche selezione e qualificazione tra il clero beneficiale. Il primo CIC aveva suggellato l’impossibilità di trasferire i parroci dalla ‘loro’ sede, di cui rimanevano pieni titolari fino alla morte, indipendentemente dalle eventuali condizioni di salute e soprattutto di ‘efficacia ministeriale’… problemi cui si rimediava con l’affiancamento da parte di un vicario cooperatore che lo aiutasse o sostituisse anche completamente nel ministero (con ‘diritto’ di partecipare proporzionalmente ai redditi del beneficio).

 

- Ultimo canone sostanziale è il 1752 che chiude un capitolo di procedura amministrativa che vede contrapposti due soggetti non paritari: il Vescovo diocesano come vero “pastore proprio” del gregge a lui affidato (cf. cann. 369-370) e la persona del parroco come suo collaboratore (cf. can. 519). In questo contesto è chiaro il valore e significato della norma: deve prevalere il bene comune (salus/bonum animarum); le ragioni del ministero sono superiori a quelle del ministro! Un conto, tuttavia, sono le ‘ragioni’ per poter (o anche dover) procedere alla rimozione o trasferimento, altro conto sono i diversi fattori –soprattutto esistenziali– che riguardano la persona in questione, la quale deve comunque essere tutelata in quanto tale, al di là di tutto (di qui il rimando espresso alla æquitas canonica).

 

- Sempre a livello di principii non si può trascurare il diritto di partecipazione e/o difesa[8] attraverso il quale il parroco possa prender coscientemente ed attivamente parte alla costituzione del proprio futuro, ponendo innanzi al Vescovo le proprie ragioni, motivazioni e difficoltà, affinché se ne tenga conto nel decidere –anche– della sua vita. Mentre nulla è espresso circa la possibilità che il parroco si faccia assistere da persona competente di sua fiducia (patrono/avvocato), la sua esclusione potrebbe invece costituire riduzione della possibilità di partecipazione/difesa, soprattutto quando si tratti di anziani o persone inferme/disabili.

 

2.2 Principi per la rimozione

Quanto già possibile in ragione del can. 1740, viene reso operativo dal canone seguente che indica cinque diverse cause, solo esemplificative, di danno o inefficacia ministeriale suscettibili di rimozione:

 

a) comportamento antiecclesiale,

b) impossibilità fisica o morale di sufficiente esercizio ministeriale,

c) compromissione permanente della minima relazionalità comunitaria,

d) recidività nell’inadempienza grave del ministero,

e) mala amministrazione economica della parrocchia cui non si possa porre rimedio in altro modo.

 

Al di là della minuziosa illustrazione delle singole fattispecie, non tassative, generiche ed indefinite[9], si tratta di circostanze che, pur in sé non letali, a lungo andare possono però diventare serio motivo di danno pastorale.

In vista della rimozione va evidenziato il diverso ‘spessore’ dei due criteri indicati dal can. 1740 rispetto alle cinque loro esemplificazioni: danno ed inefficacia pastorale costituiscono infatti le due fattispecie sostanziali alle quali dovranno sempre essere ricondotte tutte le altre ‘cause’ per poter o dover procedere alla rimozione[10]. Sarà infatti la capacità di esplicitare una di queste due fattispecie (o anche entrambe) che permetterà al Vescovo di operare efficacemente la rimozione, trovandone conferma anche presso gli organi gerarchici e giurisdizionali superiori. È il problema sempre ostico della valutazione “in decernendo” davanti alla quale crollano la maggior parte dei provvedimenti esecutivi episcopali una volta fatti oggetto di ricorso gerarchico. Sarà solo dimostrando adeguatamente danno o inefficacia pastorale che il Vescovo potrà far fronte a tutte le rimostranze e resistenze del parroco in questione; il resto rischia di essere altamente opinabile e, quindi, meramente discrezionale o arbitrario.

 

La procedura strutturata nei canoni ‘operativi’ risulta, di fatto, altamente garantista dello specifico status di parroco, offrendogli opportunità uniche nell’ordinamento canonico quali: [a] la necessaria proposta di potersi dimettere (cf. can. 1742 §1) e [b] il ‘commissariamento’ dell’agire episcopale da parte di altri due parroci (cf. can. 1742 §1) e non semplici presbiteri.

 

II. LE PROCEDURE

1. La procedura di rimozione

La rimozione presuppone ‘nocività’ o ‘inefficacia’ del ministero pastorale del parroco, anche senza sua grave colpa[11]. Per quanto riguarda soprattutto l’inefficacia, infatti, si tratta di fattori di carattere eminentemente pastorale ed ‘operativo’ riguardanti l’esito complessivo di un insieme di comportamenti (ed atteggiamenti), nei confronti della parrocchia, e non qualche singola azione ‘illecita’ da parte del parroco.

 

1) Il primo passo da effettuarsi (cf. can. 1742 §1 in obliquo) è un’istruttoria attraverso la quale il Vescovo (non tassativamente di persona) deve accertare la sussistenza di un “ministerium noxium aut saltem inefficax”. Null’altro si dice a riguardo di questa istruttoria che dovrà comunque essere condotta  secondo le modalità consuete (cf., sostanzialmente, can. 1717 §2), con riserbo e grande attenzione a non pregiudicare né la persona in oggetto (buona fama, equilibrio psichico, relazionalità) né il suo ministero (soprattutto nel caso in cui si decidesse di non procedere con la rimozione –o questa apparisse concretamente irrealizzabile–). Il CIC non dice nulla circa le modalità attraverso cui si giunga ad intraprendere tale istruttoria, ma pare evidente che si possa trattare delle più varie, purché attendibili: la visita pastorale (cf. can. 396) è certamente un’occasione privilegiata per rendersi conto dello stato di ‘salute pastorale’ di una parrocchia, allo stesso modo incontri interparrocchiali degli operatori pastorali o dei catechisti, relazioni da parte degli uffici pastorali diocesani (p.es.: liturgico, catechistico)… non escluse le lamentele fondate di “parrocchiani onesti e seri” (cf. can. 1741, 3°) o segnalazioni di presbiteri viciniori o dello stesso vicario foraneo o dell’economo o ufficio amministrativo diocesano (per la parte economico-patrimoniale).

 

2) Il secondo passo che il Vescovo deve effettuare è la discussione dei risultati dell’istruttoria con due parroci a ciò stabilmente designati dal consiglio presbiterale (cf. can. 1742 §1) che lo assistano nel valutare l’effettiva gravità della situazione pastorale emersa, al fine di valutare con sufficiente cognizione di causa, serenità emotiva ed equilibrio, la necessità o utilità della rimozione, in termini più ‘oggettivi’ possibile.

A proposito dei due ‘parroci assessori’ (così chiamati dalla dottrina ma non dal CIC) non si dice altro se non la modalità della loro designazione: su proposta di un elenco di parroci da parte del Vescovo, il consiglio presbiterale ne ‘costituisce’ (attraverso votazione, per quanto non specificato) un ‘gruppo’ all’interno del quale il Vescovo stesso dovrà tassativamente, ma liberamente, scegliere di volta in volta i due ‘assessori’ con cui collaborare. Logica vuole che si tratti di un ‘gruppo’ di almeno cinque o sei parroci scelti all’interno di una lista di almeno il doppio proposta dal Vescovo così da mantenere un certo spazio di manovra e di libertà nella scelta di collaboratori tanto importanti.

 

3) Nel caso in cui (dopo indagine e consultazione) si giudichi necessaria la rimozione, il terzo passo, è l’invito paterno che il Vescovo deve rivolgere al parroco affinché egli stesso rinunci spontaneamente a tale ufficio, entro quindici giorni (cf. can. 1742 §1). Poiché tale invito costituisce la prima ‘informazione’ e formalizzazione della procedura nei confronti del parroco (l’equivalente sostanziale della prima monitio del can. 1339[12]), esso deve tassativamente indicare per la validità (propria e della stessa procedura) “le cause e gli argomenti” che sollecitano la rimozione intrapresa, dovendo pertanto avere forma scritta. La necessità poi di “convincere paternamente” il parroco a rassegnare spontaneamente le dimissioni impone allo stesso atto episcopale l’utilizzo di un linguaggio adatto allo scopo, senza accontentarsi di una mera comunicazione formale e del semplice elenco dei motivi (per quanto oggettivi). Il contesto ‘pastorale’ della circostanza –in questo momento– rende ragionevole che tale ‘invito’ sia consegnato di persona, all’interno di un incontro riservato, franco e paterno insieme, in cui tra Vescovo e parroco possa svilupparsi una vera comprensione …almeno circa la portata e gravità della situazione e dei diversi elementi e fattori in gioco.

A proposito della richiesta di dimissioni, il can. 1743, tenendo in evidente considerazione le conseguenze concrete che la rinuncia all’ufficio di parroco comporta sempre per la persona e la vita di un presbitero (reputazione, stima, apprezzamento, relazioni, autorevolezza, ecc.), introduce un elemento strutturale di æquitas prevedendo una legittima trattativa circa eventuali condizioni che il presbitero intenda porre per tutelare la propria vita futura e la propria persona. In genere tali condizioni riguardano: la nuova residenza, l’assistenza, il perdurare del sostentamento e tutto quanto possa legittimamente preoccupare chi si venga a trovare in tal genere di circostanze. Di per sé, trattandosi di rimozione, non sarebbe a tema l’affidamento di altro ufficio ecclesiastico poiché questo è proprio del trasferimento. Al di là di questa eventuale ‘trattativa’, rimane comunque dovere grave del Vescovo provvedere in ogni modo alla nuova sistemazione del presbitero ed al suo sostentamento (cf. can. 1746).

 

Il termine di quindici giorni, indicando una ‘scadenza’ per agire (del soggetto cui sta per essere ‘revocato’ l’ufficio ecclesiastico) e non una ‘durata’ (come per un contratto), deve intendersi di ‘tempo utile’ (cf. can. 201 §2 e 1744 §1)[13]. Dell’avvenuta consegna al parroco dell’invito scritto è necessario resti traccia certa: meglio se con la sottoscrizione (con data della consegna) di un doppio ‘originale’ dell’atto da conservarsi presso l’archivio di curia; in caso diverso si richiederebbe la presenza di un notaio di curia per rendere adeguata testimonianza dell’avvenuta notifica, o due testimoni.

 

4) Nel caso il parroco non abbia rassegnato le proprie dimissioni entro i quindici giorni utili[14], il quarto passo da compiersi è un nuovo invito –scritto– con l’indicazione di un ulteriore termine di tempo entro cui dimettersi (cf. can. 1744 §1). Circa la durata di tale tempo utile non esistono indicazioni di legge: dovrà comunque trattarsi di un tempo ragionevolmente determinato in base anche alle circostanze della persona in questione ed al suo atteggiamento già evidenziatosi nelle prime fasi della procedura. Trattandosi di un sollecito (utile più alla tutela delle formalità sostanziali e all’esercizio del coinvolgimento personale, che non ad una reale decisionalità) pare ragionevole possa trattarsi di un tempo inferiore ai primi quindici giorni già concessi. Questa volta l’elemento formale della comunicazione scritta potrebbe prevalere su quello ‘pastorale’, soprattutto nel caso in cui sia già chiara l’indisponibilità del parroco a dimettersi. Di fatto il can. 1744 §2 presume una consegna di tale sollecito secondo le normali modalità di notifica degli atti amministrativi (cursore, raccomandata A/R, intimazione dinnanzi a due testimoni o al notaio di curia).

 

5) Quinto passo (cf. can. 1744 §2): davanti all’inerzia del parroco o al suo espresso rifiuto di dimettersi (adeguatamente formalizzato), il Vescovo può emettere il decreto di rimozione, indicando come di norma: motivazioni e cause a sostegno della propria decisione (cf. can. 51). In tale prospettiva –ed operatività–, mentre dell’inerzia dà testimonianza sufficiente l’inutile trascorrere del tempo assegnato, il positivo rifiuto a dimettersi è invece necessario consti attraverso un’adeguata prova certa (lettera, FAX, dichiarazione in presenza di testimoni, dichiarazione al notaio di curia). Tanto l’una che l’altra forma di rifiuto da parte del parroco dev’essere specificamente indicata –illustrata e valutata– nel decreto di rimozione, insieme alla disamina degli elementi e contromotivazioni eventualmente già addotti dal parroco insieme al proprio rifiuto. Data la natura ‘onerosa’ del provvedimento è doveroso da parte del Vescovo indicare espressamente al parroco anche le possibilità e gli estremi per ‘opporsi’ al decreto stesso, non potendosi escludere l’ignoranza di tale possibilità e, soprattutto, dei suoi corretti modi di esercizio da parte del parroco.

 

6) Davanti al decreto di rimozione legittimamente intimato, il parroco potrebbe ‘accettare’ la decisione ormai assunta dando corso a quanto intimatogli dal Vescovo.

In caso contrario (più facilmente se non ha accettato l’invito alle dimissioni) il parroco può opporsi alla decisione del Vescovo contestando le cause e le motivazioni addotte dal decreto di rimozione, adducendo a propria volta (per iscritto) nuovi “motivi” per sostenere l’inadeguatezza della decisione del Vescovo (cf. can. 1745, inizio, in obliquo). Si tratta di fatto di un supplemento volontario d’istruttoria ad opera del parroco in questione, il quale (cf. can. 1745, 1°) deve “raccogliere in una relazione scritta le proprie impugnazioni ed addurre eventuali prove in contrario”. Nessun elemento temporale specifico è stabilito per queste attività ma è ragionevole attenersi ai dieci giorni utili fissati dal can. 1734 §2 per la contestazione dei provvedimenti esecutivi in genere.

Poiché la presentazione da parte del parroco della propria contrarietà al provvedimento episcopale (effettiva remonstratio, anche se non è chiamata così dal CIC) ha effetto sospensivo della sua immediata esecuzione (cf. can. 1734 §1) la vicenda potrebbe ancora rimanere del tutto riservata e sconosciuta alla maggior parte dei fedeli senza compromettere nulla nel ministero del parroco né la sua buona fama.

Davanti all’opposizione del parroco, il Vescovo ha tre sostanziali possibilità operative.

6a) Prima ipotesi: il Vescovo, riesaminata la questione, convinto della validità dei nuovi elementi addotti dal parroco, emette un nuovo decreto con cui decide diversamente a suo riguardo dichiarando inefficace la rimozione precedentemente operata (autotutela) e cercando di porre rimedio alla situazione relazionale creatasi col parroco in questione.

6b) Seconda ipotesi: il Vescovo, in assenza di nuovi elementi significativi addotti dal parroco, riesaminata la questione ritiene di non dover cambiare la decisione già presa ed emette un nuovo atto a conferma del decreto di rimozione già emanato. Davanti a tale conferma della rimozione il parroco potrebbe sottomettersi oppure adire la Congregazione per il Clero (primo Ufficio: vita e ministero dei chierici) proponendo ricorso gerarchico contro l’atto di conferma del decreto di rimozione (15 giorni di tempo utile come nella procedura ordinaria).

6c) Terza ipotesi: davanti ad elementi effettivamente nuovi e significativi addotti dal parroco per opporsi al decreto di rimozione, il Vescovo deve intraprendere una nuova fase istruttoria per completare la propria cognizione di causa ed orientare la decisione da prendere (cf. can. 1745, 2°). Al termine di questa seconda istruttoria il Vescovo dovrà riesaminare la questione con l’aiuto degli stessi due ‘parroci assessori’ già intervenuti in precedenza per giungere alla nuova decisione che potrebbe consistere in un recesso dalla posizione precedentemente assunta (revoca del decreto di rimozione) oppure sua conferma con nuovo decreto (can. 1745, 3°), aprendo così la possibilità del ricorso gerarchico contro l’atto di conferma giudicato illegittimo o ingiusto.

Per quanto riguarda il ricorso gerarchico, esso può essere inoltrato dal parroco direttamente alla Congregazione per il clero, oppure essere consegnato al Vescovo stesso perché provveda –obbligatoriamente– alla sua trasmissione (soprattutto in quelle parti del mondo in cui il sistema postale presenti difficoltà significative). Questa seconda modalità offre la possibilità automatica di notificare allo stesso Vescovo l’inoltro del ricorso attestandone la validità quanto alla perentorietà dei termini (quindici giorni utili) ed attivando le conseguenze giuridiche del caso (cf. 7b).

 

7a) Scaduti inutilmente i termini per la presentazione del ricorso gerarchico, il decreto di rimozione è da ritenersi efficace ad ogni effetto ed il Vescovo deve provvedere alla dichiarazione della ‘vacanza della parrocchia’ ed alla nomina del nuovo parroco.

7b) In pendenza, invece, di ricorso alla Congregazione (cf. can. 1747 §3) il Vescovo, dopo aver comunque dichiarato la  ‘vacanza della parrocchia’ (poiché dal suo punto di vista la rimozione è stata attuata), nomini solo un amministratore parrocchiale che supplisca il parroco durante il periodo necessario all’espletamento del ricorso stesso.

 

Fuori dalla procedura, il can. 1747 indica le conseguenze della rimozione giunta ad esecutività: a) astensione dall’esercizio delle funzioni di parroco, b) uscita dalla casa parrocchiale, c) riconsegna di tutto quanto in sua disponibilità ma di proprietà della parrocchia (cf. can. 1747 §1)[15].

È prudente che in ogni modo il Vescovo, assieme al decreto di rimozione, tolga immediatamente al parroco rimosso la legale rappresentanza canonica ma soprattutto civile e patrimoniale dell’ente parrocchia (cf. cann. 532 e 1279) e gli precluda la possibilità di operare sui conti correnti bancari (e simili) della parrocchia stessa. Sull’immediatezza dell’uscita dalla casa canonica, pendente il ricorso gerarchico, è meglio essere molto prudenti e non affrettare le cose.

 

 

Qualche esemplificazione in materia di rimozione può risultare utile, distinguendone le due ‘cause’ sostanziali: inefficacia pastorale e danno.

- Per quanto riguarda l’inefficacia pastorale si possono individuare fattori legati [a] alla persona fisica del parroco quali: malattia invalidante, incidente grave con danni psichici o motori, età, oppure [b] alla sua attività, come potrebbe essere il sovraccarico pastorale di chi voglia rimanere parroco nonostante l’esercizio di altri uffici che il Vescovo ritenga più importanti per la Diocesi ed adatti alla persona (docenza, tribunale ecclesiastico, curia…), [c] a fattori ‘civilistici’ (o politici) come la carcerazione per comportamenti non delittuosi dal punto di vista canonico.

- Sul versante del danno pastorale le cose possono essere le più varie (oltre a quelle già sommariamente indicate nel canone): [a] dai reiterati abusi nella celebrazione dei Sacramenti (amministrati estemporaneamente o illecitamente o invalidamente[16], senza preparazione alcuna né adeguate verifiche, anche a non propri parrocchiani), alla ferma opposizione alle linee pastorali diocesane (così da isolare quella parrocchia dal tessuto pastorale vicariale e diocesano), [b] alla compromissione/collusione con malavita organizzata (le c.d. mafie), [c] all’imposizione alla parrocchia di determinate e specifiche forme e modalità spirituali o liturgiche (è ormai noto il caso della rimozione di due parroci di montagna che all’interno della stessa valle, in parrocchie confinanti, avevano imposto la celebrazione della Liturgia e di tutti i Sacramenti secondo la forma c.d. straordinaria, rifiutandosi di celebrare alcunché secondo i libri liturgici vigenti approvati dalla Conferenza episcopale).

 

2. La procedura di Trasferimento

Secondo il can. 1748 si ha trasferimento quando il parroco in questione, pur reggendo “utilmente” la propria parrocchia (presupposto che differenzia radicalmente questa procedura da quella di rimozione motivata proprio dalla non-utilità/danno), risulti maggiormente adatto ad esercitare un altro ufficio. Ciò potrebbe significare l’affidamento di un’altra parrocchia che possa trarre maggior vantaggio dall’attività di quel presbitero[17], ma anche un altro ufficio, come rettore del seminario o direttore di un ufficio pastorale, ecc.

 

Per quanto la formale procedura per il trasferimento dei parroci (non consenzienti) abbia caratteristiche similari a quella di rimozione (a cui si rimanda), a livello sostanziale il trasferimento differisce dalla rimozione negli esiti: mentre infatti la rimozione comporta la –sola– cessazione nell’ufficio, il trasferimento si caratterizza invece per la costitutiva assunzione di un nuovo ufficio. È per questo che [a] la rimozione risulta protetta giuridicamente in modo più articolato e [b] nel trasferimento la cessazione nel precedente ufficio di parroco si configura come conseguenza automatica dell’immissione nel nuovo ufficio (cf. can. 191). A questo proposito, soprattutto la prassi e la giurisprudenza del S.T.S.A. raccomandano l’assoluta correttezza e trasparenza nell’individuare adeguatamente la fattispecie da attuare, evitando l’utilizzo del trasferimento per dissimulare una effettiva rimozione o l’uso di questa per evitare –amministrativamente– un processo penale con esito nella privazione[18].

 

1) Primo passo (cf. can. 1748): il Vescovo proponga per iscritto al parroco in questione il trasferimento, indicando il nuovo ufficio da ricoprire e le motivazioni che lo spingono a ritenere adeguata la proposta sotto il profilo pastorale e giuridico. Da queste motivazioni dipenderà in buona parte il convincimento che il parroco dovrà esprimere nei confronti di quanto prospettatogli. Il CIC usa formule generiche del tipo “lo convinca ad accettare”, “pressanti inviti”, “paterne esortazioni”… senza specificarne il numero, né la forma, né i tempi. È comunque pensabile che si debbano utilizzare modi e tempi analoghi a quelli già previsti per la rimozione, anche se con maggior indulgenza. La forma scritta è cautelativa perché si abbia certezza degli elementi fondamentali che articolano la proposta e non ci si fermi a parole generiche che creano dubbi ed insicurezze piuttosto che convincere le coscienze.

Assolutamente contro la legge la prassi diffusissima di chiedere annualmente ai parroci la ‘disponibilità’ generica al trasferimento senza alcuna reale ‘proposta’ di nuovo ufficio.

 

2) Se il parroco, nonostante tutto, non si ritenesse convinto ed intendesse resistere al trasferimento dovrà comunicare per iscritto (e con ricezione certa) al Vescovo i propri motivi contrari e/o le circostanze specifiche che gli impediscano di accettare la proposta (cf. can. 1749) cosicché sia possibile al Vescovo valutare con maggior cognizione di causa tutti gli elementi che effettivamente contribuiscono a delineare gli effettivi confini della vicenda (cf. can. 50). I termini temporali di questa comunicazione non sono indicati ma si devono presumere non diversi da quelli soliti (o i dieci giorni per la generica remonstratio del can. 1734 §2; o i quindici per le dimissioni volontarie del can. 1742 §1; non escluso altro termine stabilito dal Vescovo nella propria missiva). Come nelle altre fasi della procedura la forma scritta intende evitare incomprensioni e sottintesi che possono sfociare in conflitti o contrapposizioni dovute alla reticenza, alla mancata chiarezza dei diversi termini e della loro portata, all’inosservanza di condizioni, garanzie, ecc.

 

3) Il terzo passo non rappresenta una novità rispetto alla procedura maestra della rimozione: il Vescovo deve valutare e giudicare la questione con l’apporto dei due ‘parroci assessori’ del can. 1742 §1.

Nel caso il Vescovo rimanga convinto (o si convinca ulteriormente) della proficuità del trasferimento deve ricontattare il parroco con “paterne esortazioni” portandolo a conoscenza del suo punto di vista e dell’importanza ministeriale e personale di accettare la proposta rispondendo, se necessario, a dubbi e perplessità che questi abbia manifestato come ostacoli alla sua condiscendenza. Pur non richiesta, la forma scritta rimane inevitabile… anche perché la vicenda pare profilare con sempre maggior certezza un esito conflittuale cui conviene predisporsi opportunamente. È in questa fase che occorre tener conto in modo specifico dell’adeguatezza in decernendo delle motivazioni (e delle risposte) offerte al parroco.

 

4) Il quarto passo (cf. can. 1751) costituisce il vero momento ‘decisorio’ in cui il Vescovo, conscio dei diversi elementi in gioco, decide definitivamente per il trasferimento. L’atto a ciò necessario è un decreto (supportato da tutte le necessarie ‘premesse’ e ‘motivazioni’) col quale al presbitero in questione viene conferito il nuovo ufficio ecclesiastico secondo quanto previsto dai cann. 190 e 191 e dal can. 1747 circa il comportamento del parroco non più titolare (cf. anche can. 1752).

Elemento sostanziale di tale decreto è la fissazione dei termini per l’assunzione del nuovo ufficio ecclesiastico e –conseguentemente– per la vacatio di quello precedente; trattandosi di parrocchia è necessario che tale vacatio sia ‘notificata’[19] in modo espresso così da poter provvedere quanto prima alla nomina del nuovo parroco.

Dalla data delle notifica del decreto di trasferimento decorrono comunque tutti i termini (quindici giorni) e le possibilità previste per adire al ricorso gerarchico, per il quale –di fatto– si è già predisposta una buona base documentale.

 

L’eventuale resistenza del parroco trasferito ad abbandonare la sede a quo non osta alla possibilità/necessità di dichiarare comunque vacante la parrocchia in oggetto (§ 2) anche se, e proprio perché, la mancata effettiva immissione nel nuovo ufficio ecclesiastico non rende automaticamente vacante la parrocchia a qua.

 

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in: GIDDC, Il Diritto nel mistero della Chiesa. IV. Prassi amministrativa e Procedure speciali, Città del Vaticano, 2014, 309-323