L’ordinamento canonico: norme e strutture

 

Paolo Gherri


 

Introduzione - 1. L’ordinamento canonico in sé. - 2. Struttura dell’ordinamento canonico vigente. - 3. Il sistema normativo canonico. - 4. Missione ecclesiale ed uffici ecclesiastici. - 5. Attività ecclesiale e potestà.


 

Introduzione

L’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica è unanimemente riconosciuto come “primario”, secondo la teoria ordinamentale promossa da Santi Romano (cfr. Romano 22-23), esso infatti gode di una propria completezza tanto sostanziale che formale in grado di rispondere efficacemente alle necessità giuridiche della Chiesa stessa attiva nel mondo intero e perciò chiamata “universale”. Proprio il concetto di “ordinamento” permette di riconoscere la piena giuridicità di una struttura e dinamica istituzionale ed organizzativa estremamente distante sia da quelle di molti Stati contemporanei che dai loro Sistemi giuridici, secondo un’idea di giuridicità che – come anche nel diritto internazionale – non risponde a quella degli Stati europei continentali (di civil Law) ma si avvicina maggiormente ai Sistemi anglosassoni (di common Law) e – forse più ancora – a quelli oggi detti “globali”, com’è quello comunitario europeo (cfr. Cassese 13; 99).


In tal senso il diritto canonico non si presenta come un binario (predeterminato) su cui far scorrere la vita della Chiesa guidandola al suo fine costitutivo, secondo la pretesa più profonda dell’ideologia codicistica moderna, ma come una “rete” (a maglie larghe) che regge ed unifica la comune attività di coloro che nel mondo intero intendono condividere la stessa vita secondo il Vangelo di Gesù Cristo (cfr. Martini 133-134). Come in una rete: pochi elementi, stabili ed elastici, in grado sia di reggere che di proteggere, pur lasciando amplissimi spazi d’iniziativa e libertà.

D’altra parte, il paradigma fondamentale dell’organizzazione ecclesiale rimane quello medioevale della comunità di comunità e non quello moderno della società di individui. Un paradigma pluralista ed inclusivo, di grande prossimità alle persone ed alla loro vita soprattutto spirituale, più che ai beni ed interessi – tendenzialmente economici (cfr. Gazzoni 55) – di anonimi “consociati”, come sono i singoli cittadini confluiti nell’unico Stato liberal-borghese.

Bastano questi pochi tratti per delineare la cornice di massima entro cui inquadrare l’intero ordinamento ecclesiale ed il diritto che lo regge. Entro questi pochi tratti saranno di seguito inquadrati anche gli elementi strutturali dell’ordinamento canonico stesso: norme, uffici e potestà, dalla cui interazione continua a prendere corpo – da circa venti secoli – l’intera dinamica giuridica della Chiesa cattolica.

 

 

1. L’ordinamento canonico in sé

La prima istanza da affrontare quando si voglia prendere contatto con l’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica nel suo complesso è la sua architettura di base: come sia costruito, su che cosa appoggi, quali ne siano la fondamenta, le colonne, le forze, che lo compattano e ne permettono la stabilità e l’efficacia. Ciò che, normalmente, viene indicato come il “modello istituzionale” di riferimento.


La questione è molto complessa poiché, in realtà, quale sia il modello istituzionale di riferimento non è mai stata una questione realmente significativa all’interno della Chiesa come tale. Essa, invece, è divenuta sempre più pressante durante il XX secolo soprattutto col crescere della coscienza generale in tema di legittimazione non tanto dei singoli Stati (che, come la Chiesa stessa, sono ormai una realtà indiscussa) ma, molto maggiormente, delle loro strutture e funzionalità interne, sull’onda del Costituzionalismo del Novecento, di cui l’Italia rimane un’espressione emblematica.

Canonisti ed ecclesiasticisti (soprattutto italiani) del secolo scorso non hanno potuto fare a meno di ricondurre anche l’ordinamento canonico al “loro” modello ordinamentale per antonomasia: lo Stato quale entità suprema, centralizzata nelle sue funzioni portanti (per quanto progressivamente decentrata sul piano operativo, attraverso le c.d. autonomie locali) ed unico riferimento per la vita pressoché totale di ciascun cittadino. Ciò ha favorito e confermato (seppur in modi rinnovati) il presupposto dell’intero secondo millennio cristiano: l’unitarietà della Chiesa cattolica, “una” come “uno” era (stato) l’imperium all’interno della “una” societas europea; “una” come ambivano sempre più ad essere i diversi Stati nazionali moderni (Francia in primis, Germania ed Italia solo nell’Ottocento) a partire dal Rinascimento (politico) e dalla – correlata – Riforma protestante (religiosa).

 

Una unitarietà che chiedeva e generava compattezza e centralismo istituzionale e giuridico, che anche la Chiesa cattolica condivise ed adottò con la codificazione del diritto canonico un secolo fa, imprimendo alla propria struttura (e concezione) giuridica una svolta radicale che indirizzò formalmente l’ordinamento canonico nell’alveo di civil Law europeo continentale (su base codiciale) nonostante le sue strutture reali e la vita concreta rimanessero quasi imperturbatamente improntati allo Ius commune, traslocato nel frattempo oltre Manica nei Sistemi di common Law retti principalmente dalla giurisdizione ordinaria e non dalla legge.

 

L’inestricabile ed irriducibile intreccio tra situazioni di fatto (anche forzose, come le guerre, le rivoluzioni ed i cambi di guida politica), modelli socio-politici (concretamente messi in atto Stato per Stato) e paradigmi giuridici adottati (Costituzioni, Codici, parlamentarità, separazione dei poteri) per dare organicità a quanto andava progressivamente realizzandosi all’interno della società europea occidentale – poiché solo questa fu il grembo totale di modellazione della Chiesa cattolica dal punto di vista istituzionale – continuarono a costituire per la Chiesa stessa i principali elementi e fattori della sua funzionalità giuridica di base, come già era avvenuto nel rapporto – ed integrazione – con l’impero tardo romano, e con quello franco-germanico. La “continuità” del diritto canonico con quello romano-giustinianeo, pur attraverso fortissime intrusioni e reinterpretazioni germaniche, non può infatti essere trascurata; tale riferimento, anzi, rimane prevalente rispetto alla stessa modernità giuridica europea (v. infra).

 

Le considerazioni sulla struttura dell’attuale ordinamento canonico, d’altra parte, non possono mai trascurare gli apporti del forte dualismo socio-politico tra Papa ed Imperatore nell’epoca medioevale (Riforma gregoriana e lotta per le investiture), divenuto duro confronto e scontro aperto lungo tutta la Modernità (Riforma, guerre di religione, rivoluzione francese, secolarizzazione liberale) soprattutto con l’affermarsi delle nuove forme di potere politico europeo, prima unitario e poi nazionalistico.

Ne è derivata per la Chiesa una continua rincorsa teoretica per giustificare la necessaria persistenza di un ordinamento giuridico (cattolico) autonomo, la cui legittimazione doveva derivare dalle stesse fonti e presupposti degli avversari: gli Stati moderni di matrice razionalista e secolare. Una situazione che finì per far trascurare completamente le componenti teologiche a vantaggio di quelle politico-filosofiche, adottando nel Medioevo l’idea di “potestà di giurisdizione” (in parallelo ed a complemento della potestà d’ordine) e nella Modernità quella di “societas (necessaria) iuridice perfecta”, da cui derivò la dottrina del “diritto pubblico ecclesiastico” seguita fino al Concilio Vaticano II.

Il crescere, durante l’Ottocento, dei contrasti ideali – più che temporali, ormai in irrimediabile declino – tra Chiesa (romana) e Potenze liberal-borghesi europee spinse il papato ad una decisa centralizzazione giuridica della Chiesa sul modello – allora vincente – dello Stato unitario europeo continentale. La promulgazione del Codice di diritto canonico nel 1917 parve confermare questo indirizzo strutturale anche dal punto di vista teoretico, dando spazio alle dottrine che modellavano l’ordinamento canonico su quello statuale di civil Law.


Il secondo dopoguerra, però, ha visto una forte evoluzione sia del diritto internazionale sia degli ordinamenti giuridici europeo-continentali soprattutto in funzione e conseguenza dell’affermarsi del c.d. diritto comunitario (europeo) che, di fatto, ridimensiona molti dei caratteri – e correlati presupposti – politico-giuridici dello Stato ottocentesco (unitario e sovrano). In tale prospettiva si parla ormai correntemente di “ordinamenti giuridici globali” o anche solo “complessi” (cfr. Cassese) aprendo la strada a nuove concezioni sia del diritto che dei suoi presupposti all’interno di orizzonti nei quali né lo Stato come tale né la legge in sé e per sé costituiscono più gli ingredienti di base dell’ordinamento.

La nuova situazione teoretica così inaugurata permette finalmente alla Chiesa di ricuperare quegli elementi – addirittura costitutivi – della sua struttura istituzionale ed annessa funzionalità giuridica che l’avevano caratterizzata in modo fortemente comunitario nel primo millennio cristiano ma che dalla Riforma gregoriana erano stati accantonati de facto, mentre con la Controriforma tridentina lo furono anche de Iure e con la crisi modernista rischiarono di diventarlo quasi de fide (Pio IX e Pio X).


All’inizio del terzo millennio cristiano – dopo un’apnea teoretica e concettuale di quasi mille anni – appare finalmente possibile guardare all’ordinamento giuridico ecclesiale non più nella sua paragonabilità a quelli statuali (europeo-continentali), quasi fosse questa – alla fine – la sua unica legittimazione giuridica, ma secondo le sue dinamiche interne. È infatti la logica giuridica tipica degli ordinamenti globali/complessi, basata su modelli relazionali “di rete” anziché “di struttura” (cfr. Cassese 21-22), a sostenere ed accrescere l’unitarietà dell’ordinamento nella comune “missione” istituzionale ben prima che nella gerarchia delle Istituzioni, come avveniva nel modello ottocentesco.


Allo stesso tempo l’ordinamento (giuridico) globale/complesso pare corrispondere in modo sufficiente alla prima delle istanze identitarie (teologiche) della Chiesa stessa: la c.d. mutua immanenza tra la Chiesa universale (la Chiesa, cioè come tale, in sé e per sé) e le Chiese particolari (le diocesi e le altre circoscrizioni ecclesiastiche di base) “nelle quali e dalle quali – secondo il Concilio Vaticano II – esiste l’unica Chiesa cattolica” (cfr. LG, 23; can. 368), all’interno di un rapporto che non è né gerarchico, né federativo, ma risponde alla logica de “la parte nel tutto e il tutto nella parte”. Come avviene in qualche modo per gli Stati membri rispetto alla Comunità Europea per quanto, in questo caso per libera volontà degli stessi Stati di “trascendersi” in vista di interessi superiori, mentre per la Chiesa si tratta di una questione ontologica. Presupposti diversi, ma funzionalità comparabili, questo però è ciò che conta nel diritto.


L”abbandono del – rigido – modello statuale e l’adozione del paradigma globale/complesso è utilissimo per comprendere l’esistenza e la funzionalità di un ordinamento giuridico (quello canonico) non basato principalmente sulla individuazione e conseguente separazione di veri e propri “poteri” (da contrapporre istituzionalmente così che l’uno controlli l’altro) ma sullo stretto coordinamento di alcune attività particolari e generali che rispondono alla realizzazione di una missione istituzionale comune e condivisa ai due “livelli” del network operativo (universale e particolare).

Lo stesso paradigma permette d”individuare e riconoscere ambiti e soggetti operativi pienamente giuridici pur se non specificamente dotati del pieno esercizio di tutte le componenti della giurisdizione/potestà moderna (legislativa, esecutiva, giudiziaria) oppure anche nella loro compresenza in capo a singoli soggetti.


Negli ordinamenti globali/complessi, d”altra parte, le stesse “funzioni” – più che “poteri” – non sono equamente distribuite tra i diversi livelli dell’ordinamento, soprattutto poiché si tende a collocare ai livelli superiori la funzione normativa (che si esplica non necessariamente come “legislativa”) mentre a quelli inferiori compete in massima parte quella esecutiva (cfr. Cassese 86). La funzione giudiziaria, non di meno, si sviluppa ed articola autonomamente ai due livelli quale istanza di sostanziale controllo e reintegro nei casi concreti (seppure in modo non gerarchico, poiché le Corti comunitarie giudicano solo gli Stati membri); le decisioni delle Corti europee – inoltre – ricadono sulle normative interne dei singoli Stati membri con portata normativa.


Il percorso istituzionale sopra delineato a livello di architettura ordinamentale va necessariamente completato con la irrinunciabile consapevolezza, sempre meno diffusa, che l’ordinamento canonico ha mantenuto intatto lungo i secoli una caratteristica del tutto peculiare in tema di potestà di governo: la sua “personalità” (v. infra).


Nell’ordinamento canonico, infatti, la potestà di governo (nelle sue varie funzioni ed articolazioni) non deriva dalla supremazia degli enti gerarchici/pubblici (che costituirebbero la struttura stessa dello Stato) di cui le persone risultano semplicemente “organi”. La potestà ecclesiale, infatti, è strettamente “personale” in quanto assegnata e conferita alle persone fisiche in ragione dell’ufficio loro affidato… tanto che – emblematicamente – se si viene “nominati” all’ufficio di vescovo diocesano senza essere già vescovi (come status personale) si viene prima ordinati vescovi per poter esercitare l’ufficio assegnato.


In questo il modello di riferimento è rimasto immutato dal Medioevo, secondo la logica del regnum (quale attività personale) e non dello Stato (come entità astratta). Questo, non di meno, risponde all’origine espressamente teologica degli uffici ecclesiastici di maggior rilievo per il governo ecclesiale, episcopato in primis: l’autorità esercitata nel governo della comunità cristiana infatti fa capo e riferimento diretto a Cristo stesso, da Lui deriva ed in Lui si fonda, all’interno di una vera e propria “immedesimazione” con Cristo di cui si è “immagine” (agendo in persona Christi capitis) anziché con l’ente gerarchico di cui si sarebbe “organo” (come avviene in molti ambiti dello Stato attraverso la c.d. immedesimazione organica).

 

 

2. Struttura dell’ordinamento canonico vigente

La struttura di base dell’ordinamento canonico vigente è articolata e gestita attraverso due Codici di diritto universale (perché validi per tutti i cattolici ovunque si trovino): il “Codex Iuris Canonici” (del 1983) per la Chiesa latina ed il “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” (del 1990) per le Chiese cattoliche orientali e da una legge generale per la Curia Romana (“Pastor Bonus”, del 1988). Tre leggi ordinarie che regolano il funzionamento della maggior parte della vita della Chiesa nel suo insieme.

Ad esse si affiancano un certo numero di leggi speciali (o per materia o per destinatari) con cui si gestiscono alcuni specifici settori ed ambiti della stessa vita ecclesiale: il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica (“Antiqua Ordinatione Tribunalium”, 2008), gli Ordinariati militari (“Spirituali Militum Curæ”, 1986), l’elezione del romano Pontefice (“Normas Nonnullas”, 2013), le canonizzazioni (“Divinus Perfectionis Magister”, 1983), la Liturgia (“Missale Romanum”, 1969), ecc.


Alla base di questo articolato complesso legislativo va riconosciuto il ruolo della Costituzione apostolica “Sacræ Disciplinæ Leges” con cui veniva promulgato il CIC nel 1983 – primo documento legislativo espresso dalla ventennale attività di revisione del CIC del 1917 secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II – quale vero punto di riferimento, teoretico e normativo, dell’intero ordinamento. Secondo l’uso romanistico infatti, adottato costantemente nella Chiesa, è la Costituzione apostolica nella sua formulazione testuale a costituire la legge vera e propria (a cui si aggiungono norme applicative: in questo caso i 1752 Canoni che costituiscono il CIC) indicando soprattutto le circostanze e cause che l’hanno motivata, insieme al disegno ordinamentale sottostante ed alla specifica volontà dispositiva generale del legislatore soprattutto, in questo caso, in riferimento allo stesso ordinamento giuridico canonico.


In tale Costituzione apostolica, primo documento normativo di quella portata dopo il Concilio Vaticano II, Giovanni Paolo II ha offerto esplicitamente e programmaticamente alcuni elementi decisivi per capire che cosa sia ed a cosa serva il diritto canonico attuale: traduzione del Concilio Vaticano II soprattutto nella struttura della Chiesa e nei rapporti al suo interno, in una prospettiva non troppo diversa – quanto a portata – da una vera legge di rango costituzionale che pone e descrive le basi stesse dell’ordinamento dando corpo a valori ed istanze di carattere assiologico della stessa natura e portata di quanto maturato all’interno di un”Assemblea costituente in campo statuale.


Di fatto con la promulgazione del CIC del 1983 in sostituzione di quello del 1917 non è cambiata soltanto la legge ordinaria generale per la Chiesa latina ma l’intero palinsesto dell’ordinamento canonico. Si è passati, infatti, da una strutturazione dell’ordinamento su base dottrinale (= il “diritto pubblico ecclesiastico”) ad una sua costituzione su base teologica (ecclesiologica in particolare) dando finalmente più attenzione alle questioni della vita interna della Chiesa che non a quelle esterne, soprattutto del rapporto con gli Stati secolari (com”era stato – invece – per l’opera legislativa del Card. Gasparri). Il CIC (ed il CCEO in sostanziale parallelo di materie normate) costituisce ad ogni effetto la legge che manifesta la struttura portante dell’ordinamento canonico indicando quali ne siano gli ambiti peculiari di interesse e competenza: struttura della Chiesa, uffici ecclesiastici, istituzioni di base (Libri I e II), evangelizzazione (Libro III), sacramenti e culto divino (Libro IV), ai quali si aggiungono elementi che l’esperienza bimillenaria dell’ordinamento canonico conosce come irrinunciabilmente complementari: beni materiali strumentali (Libro V), diritto penale (Libro VI) e processuale (Libro VII).


Circa il valore e la portata costitutiva dei Codici di diritto canonico per l’ordinamento della Chiesa è necessario non sottovalutarne la natura espressamente “pubblicistica” (a differenza della tradizione napoleonica) poiché rivolti alla delineazione e gestione non di quanto spetti o possa spettare (e venir di conseguenza garantito) ai fedeli in quanto tali ma principalmente alle istituzioni ecclesiali. È ad esse, infatti, che il diritto canonico indica ed impone in qual modo regolarsi sia [a] nei confronti dei fedeli in generale, sia [b] in quanto ad esse specificamente legati attraverso rapporti gerarchici, sia [c] in quanto parte di particolari istituzioni di natura spirituale (come sono gli Istituti religiosi, ed assimilabili).


Col nuovo Codice si passa dall’ordinamento di una “societas (necessaria) iuridice perfecta” intenta a delineare anche verso l’esterno la gestione di “res sacræ” di cui è unica e gelosa depositaria nel mondo, a quello di una comunità di credenti raccolta intorno alla Parola di Dio ed ai sacramenti della propria santificazione. Si pone così in risalto – e viene posta quale finalità dell’ordinamento – la persona del discepolo di Cristo alla cui vita spirituale (presente e futura) è strumentale l’intero ordinamento giuridico in quanto regolamentazione dell’attività di annuncio, promozione e sostegno della salvezza che Cristo stesso ha affidato alla Chiesa come tale. Un”attività essenzialmente istituzionale e pertanto né individuale né solipsistica che la Chiesa nel suo insieme deve coordinare, nella tutela del “deposito della fede” e nella sua comunicazione ad ogni uomo perché, aderendo alla comunità credente, divenga partecipe della salvezza promessa da Cristo a chi ne segue l’insegnamento.


Assecondando tale prospettiva, l’ordinamento canonico derivante dal Concilio Vaticano II ha mutato molti dei propri “capisaldi” tradizionali sorti lungo i secoli all’interno della dialettica spesso contrastata col potere politico (dalla Riforma gregoriana nell’XI secolo ai giurisdizionalismi moderni) o con interpretazioni devianti della Rivelazione (dalla Riforma protestante del XVI secolo al Modernismo di fine XIX) allontanandosi decisamente dai modelli statuali tardo moderni – ormai di stampo individualistico liberale – per ricuperare la dimensione comunitaria più originaria della Chiesa (secondo il significato del termine greco “ecclesia” che significa “convocazione assembleare”). Cardine dell’attività ecclesiale, e quindi sua stessa identità, non è più l’assoggettamento delle anime dei singoli alla rigida ortodossia (dottrinale) ed ortoprassi (morale, liturgica e giuridica) che – uniche – permettono la salvezza eterna (= la salus animarum), ma la santificazione (presente e futura) di coloro che, conosciuto ed accolto il Vangelo, configurano la propria vita a Cristo per partecipare della sua gloria (anche) oltre la morte.

Le norme canoniche, in tal modo, non costituiscono più il nucleo più denso della salvezza individuale (cfr. Corecco 64) ma gestiscono il funzionamento del maggiore strumento per la salvezza dell’umanità intera: la Chiesa in quanto istituzione che perpetua nei secoli l’annuncio e la realizzazione – anche – intrastorica di tale salvezza.


Al di là del conservarsi a tutt”oggi di molte norme pratiche ormai plurisecolari (nate in ben altri contesti), questo cambio sostanziale dei presupposti e delle finalità dell’ordinamento canonico ne offre – ed esige – una rilettura completamente nuova difficilmente riconducibile, soprattutto dal punto di vista dottrinale, alle ecclesiologie (e connesse categorie giuridiche) del passato, come risalta nel chiaro prevalere oggi del concetto di “comunità” rispetto a quello di “società” (cfr. Gherri, 2010, 122-128).

 

 

3. Il sistema normativo canonico

A differenza degli ordinamenti giuridici statuali dell’Europa continentale (civil Law), e con forti similitudini agli ordinamenti internazionale e comunitario (v. supra), l’ordinamento canonico si presenta caratterizzato da un basso livello di formalismo normativo, riscontrabile soprattutto nel limitato numero di leggi ordinarie generali e nella prevalenza (numerica) di forme normative minori, spesso solo esecutorie delle norme di legge vere e proprie (cfr. can. 31): decreti generali, in massima parte a livello di Chiesa universale (aventi per autore la Curia Romana) o di Conferenze episcopali nazionali. A quanto disposto in via ordinaria generale (canonicamente si usa però il termine “universale”) dal legislatore supremo (Concilio ecumenico e/o romano Pontefice) fa eco quanto disposto – subordinatamente – dai legislatori particolari (i vescovi diocesani ed equiparati secondo i cann. 370-371) cui spetta il compito di specificare per il proprio territorio (o circoscrizione ecclesiastica “personale”) le leggi universali vigenti o di darne di nuove – più complete e precise – quando anche le norme esecutorie generali o particolari non risultino sufficienti al buon ordine delle Chiese particolari o risulti necessario regolamentare in modo certo e preciso qualche ambito della vita ecclesiale “locale” troppo diverso da quanto già previsto in modo universale (e generico).

 

Sotto il profilo espressamente normativo l’ordinamento canonico si presenta come un sistema giuridico a basso livello “legislativo” sia a causa del limitato numero di materie regolamentate (v. supra), sia in ragione della marginalità stessa dello strumento legislativo come tale, entrato nell’ordinamento in modo generale solo con la codificazione del 1917 (la prima vera legge generale in senso moderno) mentre in precedenza l’aspetto giuridico era gestito in modo molto simile agli attuali ordinamenti di common Law: tra giurisprudenza e principi del diritto, Statutes/Acts (per quanto non così chiamati a livello canonico) e consuetudini, spesso solo “locali”.

Una configurazione favorita lungo i secoli da due presupposti tanto diversi quanto – alla fine – concordi nei propri esiti: [a] la struttura fortemente decentrata della Chiesa del primo millennio cristiano [b] il paradigma feudale adottato per buona parte del secondo millennio. Nell’uno e nell’altro caso la Chiesa si è sempre percepita e gestita come realtà complessa e fortemente estroversa mai veramente “centralizzata” a livello di strutture istituzionali ma soltanto di referenza potestativa: la Chiesa romana (fino al VI-VII secolo), il romano Pontefice (con l’affermarsi in Occidente del Sacro Romano Impero e la successiva lotta per le investiture). In effetti la bipolarità “Chiesa universale”-“Chiese particolari” – teologicamente irrisolvibile ed istituzionalmente irriducibile – non ha mai permesso il realizzarsi della “centralizzazione” politico-amministrativa-normativa – né della burocratizzazione – che ha caratterizzato i diversi nazionalismi moderni (a partire da quello francese) così da rinchiudere l’intera realtà istituzionale e giuridica entro un unico “contenitore” sovrano e supremo com”era lo Stato ottocentesco superiorem non recognoscens.


Per la Chiesa, infatti, non è mai stato veramente dubitabile che la maggior parte dell’attività giuridica avvenisse (ed avvenga) a livello “particolare” (= la singola circoscrizione ecclesiastica: la diocesi, in primis) in modo sostanzialmente autonomo, per quanto ciclicamente soggetto ad interventi più o meno profondi della – personalissima – autorità pontificia, ritenuta per lungo tempo l’unica vera sorgente di ogni potestà ecclesiastica e sua primordiale legittimazione.

Detto in altri termini: la struttura dell’ordinamento canonico non si è mai esplicata per enti gerarchicamente ordinati (come gli enti pubblici o le “autonomie locali” all’interno degli Stati contemporanei) ma per uffici ecclesiastici – quasi sempre territoriali – affidati a persone le quali, indipendentemente dalla modalità di loro designazione nell’ufficio, hanno sempre operato in ragione di una potestà comunque “personale” (cioè: non dell’ente di riferimento), per quanto spesso ritenuta solo delegata.


Proprio la chiara gerarchia di persone e non di enti – di funzioni e non di istituzioni – ha permesso di far funzionare con una ragionevole efficacia un ordinamento giuridico esteso e complesso com’è la Chiesa cattolica nel mondo pur in sostanziale assenza di un forte e centralizzato “apparato legislativo”, volgendo l’attenzione più alle concrete realizzazioni che non alle speculazioni teoretiche ed ordinamentali.

Ciò ha portato ad utilizzare sempre gli strumenti giuridici più “leggeri” e meno “invasivi” della vita sia delle persone che delle comunità, all’interno di una dinamica di forte sussidiarietà – anche normativa – cosicché quasi mai è apparso necessario ricorrere a leggi vere e proprie, risultando spesso sufficiente un semplice “decreto/precetto” singolare.


Nella Chiesa, in effetti, si legifera formalmente solo per necessità urgente e generale lasciando libero in linea di principio l’esercizio del governo. Non di meno le fonti di vincolo giuridico canonico sono più ampie che in campo statuale, dovendosi correttamente parlare sia di Fonti generali che di Fonti individuali del diritto cui fedeli ed istituzioni sono tenuti. La legge (generale ed uguale per tutti), d”altra parte, non è il presupposto dell’ordinamento ma uno dei suoi strumenti destinato prima di tutto ed essenzialmente a “creare” e “delimitare” lo spazio della giuridicità canonica, mentre la gran parte della vita ed attività ecclesiale si svolge a partire da altri presupposti: spirituali e morali, in uno spazio amplissimo di libertà individuali e comunitarie ancora capace di dare spazio alle consuetudini (locali) quali specifiche norme di portata legislativa.


Dal punto di vista tecnico l’ordinamento canonico utilizza alcuni strumenti normativi di base, in parte peculiari rispetto alle concettualizzazioni statuali: [a] la legge (ordinaria o speciale), [b] il decreto generale esecutorio della legge come tale (simile ad un “decreto applicativo”, governativo o ministeriale), [c] il direttorio (simile ad un “Testo unico” monotematico per materia), [d] l’istruzione (simile ad una “circolare ministeriale”), come Fonti generali. Si è previsto anche un decreto generale legislativo (cfr. cann. 29-30) fino ad oggi non ancora utilizzato. Il privilegio, il decreto singolare, la dispensa, la licenza, la sentenza, l’ammonizione, la riprensione, il precetto, come Fonti individuali (v. infra).


Come già detto, nella Chiesa i legislatori istituzionali sono di due ordini/livelli – universale e particolare – articolati a loro volta in più espressioni concrete: [a] Collegio episcopale e [b] romano Pontefice, a livello universale, [c] vescovi diocesani, [d] loro peculiarissime aggregazioni (= Concili particolari in Occidente, Sinodi patriarcali o metropolitani in Oriente) e [e] romano Pontefice (nei Concordati) a livello particolare. La distanza rispetto agli ordinamenti statuali (anche federali o articolati in autonomie) è somma e risulta irriducibile, ponendo ancora una volta l’accento sul fatto che nella Chiesa contano maggiormente le funzioni (= potestà legislativa) che non le istituzioni (= il legislatore). A questi legislatori istituzionali (corrispondenti alla struttura gerarchica della Chiesa) si affiancano i legislatori non-gerarchici, come sono i Capitoli generali degli istituti religiosi (e realtà ecclesiali equifunzionali) per gli istituti stessi.


Tanto dal punto di vista teoretico che pratico le pochissime leggi canoniche universali funzionano da vere leggi-quadro che fissano gli estremi strutturali all’interno dei quali deve – e può – svolgersi la vita delle diverse comunità cristiane e dei fedeli stessi. Leggi-quadro che richiedono spesso – soprattutto a distanza di tempo o in luoghi specifici – ulteriori indicazioni “esecutorie” che, p.es., strutturino meglio un istituto giuridico o ne dettino una regolamentazione più accurata. Si consideri – in merito – come il Concilio Vaticano II abbia imposto (con valore di fatto costituzionale) la creazione del Consiglio presbiterale (cfr. can. 495) e del Collegio dei Consultori (cfr. can. 502) al posto dei millenari Capitoli dei canonici della cattedrale, così come dei Consigli per gli affari economici diocesani e parrocchiali (cfr. cann. 492; 537), creando così istituzioni di altissimo livello ma assolutamente nuove le cui problematiche funzionali e regolamentari non erano puntualmente prevedibili dal legislatore del CIC 1983.

 

È a questo livello che s”inseriscono gli interventi normativi generali denominati “esecutori” (cfr. can. 31) attraverso i quali le autorità di governo esecutivo (molto più numerose ed articolate dei legislatori) provvedono (attraverso decreti generali esecutori) alla regolamentazione più precisa e pertinente di quanto solo “attivato” a livello legislativo. S”inquadrano in quest”ambito [a] gli interventi della Curia Romana (specifici per Dicastero, in base alle materie di competenza) e [b] quelli delle Conferenze episcopali nazionali (che generano il “diritto canonico complementare”). Gli stessi vescovi, ciascuno nella propria diocesi, possono emettere decreti generali esecutori di leggi universali o di decreti generali universali o complementari; anche i loro vicari (generali o episcopali) hanno la stessa possibilità a seconda della reale estensione della competenza (esecutiva) di ciascuno. In assenza di efficaci norme di livello superiore, il vescovo diocesano può dare nuove leggi anche in materie del tutto nuove (la legge “crea” diritto).


Alle Fonti generali del diritto, si affiancano anche – altra peculiarità canonica rispetto agli ordinamenti statuali – le Fonti individuali che vincolano con valore di norma vera e propria (per quanto individuale anziché generale) singoli soggetti tanto personali che collettivi. Il privilegio è una vera e propria legge ad personam che permette di attuare determinate condotte al di là della legge generale, conferendo particolari diritti o facoltà (come, p.es., la concessione di indulgenze). Il decreto singolare reca una decisione di per sé costitutiva con la quale si dispongono determinate attività (come la creazione di una nuova parrocchia o la sua estinzione) oppure si provvede al conferimento degli uffici ecclesiastici (v. infra). Con la dispensa si autorizza la non osservanza della legge universale o di qualche sua specificazione esecutoria in un caso specifico (= disapplicazione della norma) in vista di un bene individuale che di per sé non confligge con quello della Chiesa come tale (è il caso della dispensa da qualche impedimento matrimoniale). Con la licenza si autorizza il compimento di attività di maggiore importanza che la norme generali hanno in qualche modo assoggettato a specifici percorsi di valutazione (dall’esterno). La sentenza, come in ogni ordinamento giuridico, dispone circa beni, diritti, status, di non pacifico godimento. Ammonizione, riprensione, precetto, sono provvedimenti di carattere disciplinare/penale coi quali è possibile cercare d”impedire – almeno istituzionalmente – la realizzazione di delitti/reati, attività illecite/illegittime, imporre specifiche condotte (generalmente) restrittive.

 

 

4. Missione ecclesiale ed Uffici ecclesiastici

L”attività della Chiesa – e quindi il suo diritto – è fortemente influenzata dalla natura stessa della Chiesa quale comunità di fede e sequela di Gesù Cristo: custode ed annunciatrice del suo insegnamento attraverso la storia in vista dell’eternità. In questo senso la Chiesa non è un”aggregazione spontanea ma una vera e propria “istituzione” che ha preso corpo e si è consolidata – e strutturata – attorno alla missione evangelizzatrice che Cristo stesso ha affidato a coloro che aveva “scelti” e “costituiti” proprio per tale finalità (cfr. Mc 3,13): gli apostoli (= inviati). Una missione affidata ad un gruppo di persone e rivolta all’umanità intera; una missione imperniata su di un annuncio che chiede di cambiare il proprio modo di vivere: «il Regno dei cieli è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15), quel Vangelo che è “di Cristo”, quel Vangelo che “è Cristo” stesso (cfr. Mc 1,1), quel Vangelo che va annunciato e messo in pratica: «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).


Indicazioni costitutive e programmatiche che vengono immediatamente accolte e trattate come vera e propria “norma”: la norma missionis, regola e misura dell’attività degli apostoli di Cristo ma anche di tutti coloro che ne diventano seguaci e discepoli (cfr. Gherri, 2004, 300-302), sia immediatamente che lungo i secoli.


L”originario mandato apostolico iniziò ben presto ad estendersi ad altre persone, discepoli degli apostoli e poi loro successori in molte comunità cristiane sempre più capillarmente distribuite nelle città dell’impero romano ed oltre (la Persia) dando corpo ad una fitta rete di collaborazioni che, pur legandosi progressivamente al territorio, non perdevano mai – né avrebbero perso in seguito – l’espressa componente personale. Ciò che prese corpo, d”altra parte, nei primi tre secoli cristiani (anche a causa delle persecuzioni della nuova religione) fu una rete di comunità (sul modello di quelle giudaiche della diaspora) incentrate su alcuni elementi di carattere celebrativo (non ancora “cultuale”) e comportamentale che avevano nei successori degli apostoli il loro punto certo e fermo di riferimento all’interno di un contesto quasi completamente privo di “strutture” materiali (come gli edifici di culto, p.es.).


Questo favorì una configurazione espressamente funzionale ed operativa tanto della Chiesa stessa che delle “mansioni” svolte al suo interno da vescovi (= controllori, vigilanti), presbiteri (= anziani, referenti), diaconi (= servitori) ed altri ministri della comunità cristiana. Il delinearsi e lo stabilizzarsi degli elementi e fattori funzionali ed operativi portò, per analogia alla struttura socio-politica e militare del tempo, alla nascita – pur embrionale – del concetto di “ufficio ecclesiastico”, con una decisa accelerazione dopo l’Editto di Tessalonica dell’anno 380 con cui Teodosio faceva del cristianesimo la religione ufficiale dell’impero romano, trasferendole molte delle “incombenze” socio-culturali proprie delle precedenti religioni pagane.


A partire da tali elementi di natura originariamente teologica, la preminenza assoluta nella vita ecclesiale della funzionalità ed operatività hanno fatto sì che l’ufficio ecclesiastico sia divenuto – e rimanga – il vero fulcro dell’ordinamento giuridico canonico. I doveri, le incombenze, le responsabilità, le competenze, le modalità, le potestà ed i diritti connessi all’affidamento (= chi, come) ed all’esercizio (= cosa, come) degli uffici ecclesiastici condensano, infatti, la maggioranza assoluta delle norme canoniche intorno a questo nucleo, personalissimo ed assolutamente istituzionale allo stesso tempo. Non di meno: ciò avviene nella Chiesa secondo modalità, logiche – e strutture – ormai del tutto estranee a qualunque ordinamento statuale contemporaneo.


Uffici, dunque, come incarichi – essenzialmente – personali e non come competenze – principalmente – istituzionali, incombenze soggettive prima che funzioni oggettive, affidate espressamente alla persona e non da essa svolte in nome e per conto di un ente/istituzione. Lo si vede bene nelle definizioni di diocesi (cfr. can. 369) e parrocchia (cfr. can. 515) da una parte e delle competenze del vescovo diocesano (cfr. can. 383-400) e del parroco (cfr. can. 528-534) dall’altra: l’ente (diocesi o parrocchia) non ha di per sé alcuna implicazione nell’attività ministeriale/pastorale propriamente detta ed intesa, che s”identifica completamente con l’ufficio ecclesiastico affidato alla persona. Dal punto di vista strettamente giuridico la diocesi e la parrocchia costituiscono, semplicemente, la perimetrazione – generalmente geografica – entro la quale si esplica ed esaurisce la responsabilità diretta di colui che vi esercita l’ufficio ecclesiastico.


In tale prospettiva, poiché gli uffici ecclesiastici sono stabiliti dalla legge o comunque in modo istituzionale (= statutario) quali insiemi di attività a vantaggio di specifici destinatari o all’interno di specifici ambiti (cfr. can. 145), il loro esercizio non è di per sé gerarchico come se l’ufficio superiore contenesse e si realizzasse attraverso gli inferiori (come nella P.A. statuale o nelle gerarchie militari). Gli uffici ecclesiastici non vengono esercitati in nome/conto di qualcuno gerarchicamente sovraordinato ma direttamente in base a quanto stabilito dal diritto (il vescovo diocesano non fa una parte di quello che dovrebbe fare il Papa, né il parroco fa una parte di quanto spetterebbe al vescovo diocesano).

La gerarchia degli uffici, infatti, riguarda i poteri di coordinamento e verifica, oltre alla designazione e conferimento, ma non implica di per sé alcun tipo di “mandato” (= conseguimento di un risultato in nome e per conto altrui). Si tratta di una gerarchia ordinativa, non operativa, tant’è che il vescovo nomina i parroci ma questi esercitano il proprio ufficio/ministero “in nome proprio” fruendo delle facoltà che il diritto stesso annette a tale ufficio (cfr. PCTL).


L”intera materia ha subito una profondissima revisione – e necessaria ri-comprensione – a seguito del Concilio Vaticano II che, eliminando il c.d. sistema beneficiale (di impostazione feudale), ha fondato su basi radicalmente diverse dall’ultimo millennio l’intera struttura degli uffici ecclesiastici attuali, per quanto la rielaborazione concettuale (oltre che terminologica) dell’intera materia sia ancora pressoché inesistente.

Fuori dalla logica beneficiale/feudale, l’ufficio ecclesiastico non è più – oggi – una “posizione” (socio-economica) individuale (e privatistica) che comporta, per essere legittimamente “posseduta” dal punto di vista giuridico, l’espletamento di un certo numero di “funzioni” (sacre e non) annesse al godimento delle rendite della dote patrimoniale del “beneficio curato” (diocesi, parrocchia, altro…). Il sistema beneficiale fissato dal CIC del 1917 rispondeva a questa impostazione prestazionale sinallagmatica dell’ufficio ecclesiastico: chi gode dei frutti (economici) del beneficio (= rendite e tasse di culto) deve corrispondere servizi e prestazioni spirituali a coloro che alimentano il beneficio stesso assolvendo i loro obblighi in materia spirituale – quasi – esclusivamente presso le sedi (beneficiali) di competenza territoriale. In tale sistema il numero degli uffici ecclesiastici finiva per coincidere con quello delle possibili “unità economiche” autosufficienti, tollerando anche “ordinazioni a titolo personale” in cui il chierico si auto-manteneva con proprio patrimonio (di famiglia) senza svolgere alcuno specifico ministero a servizio della Chiesa.


La dismissione del sistema beneficiale ha reso, oggi, gli uffici ecclesiastici indipendenti dal sostentamento del clero portando con sé anche la libertà quasi piena dei vescovi diocesani di affidare gli uffici ecclesiastici in modo “libero” ai chierici incardinati nella loro diocesi senza dover più sottostare a concorsi, giuspatronati, ed altri procedimenti in cui le volontà esterne (individuali, economiche e politiche) la facevano da padrone.


Nell’ordinamento vigente gli uffici ecclesiastici vengono conferiti secondo tre modalità (cfr. can. 147): [a] “ope legis” per elezione diretta ed accettazione (= romano Pontefice, un certo numero di superiori religiosi, presidenze di istituzioni su base collegiale); [b] “conferimento libero” da parte dell’autorità ecclesiale competente per l’ufficio in questione (= la maggior parte degli uffici ecclesiastici, parroci ed addetti di curia e tribunale in primis ); [c] “conferimento necessario” quando l’autorità ecclesiale può solo confermare (dopo elezione) o istituire (dopo presentazione) colui che altri hanno individuato a norma di diritto (= molte cariche istituzionali, come presidenze di organismi, istituti ed associazioni, chierici appartenenti ad istituti religiosi).


La permanenza nell’ufficio ecclesiastico (non più suo “possesso” come nel sistema beneficiale) non è oggi perpetua – come nel sistema beneficiale – ma è indicata, a seconda degli uffici, dal diritto stesso o dal decreto di nomina. Sono previste [a] nomine “ad tempus”, con specifica della durata e scadenza (giudici ecclesiastici, economo diocesano, superiori religiosi, parroci…); [b] nomine “ad tempus indeterminatum” senza un termine prefissato ma con “stabilità” (generalmente i parroci); [c] nomine “ad nutum” senza “stabilità” (vescovi diocesani, amministratori diocesani e parrocchiali, incarichi per loro natura temporanei/sostitutivi, vicari, delegati…).


Entro il tempo di vigenza della nomina e nella condizione di “stabilità” il trasferimento ad altro ufficio (e più ancora la rimozione) sono soggetti a peculiari procedure di tutela delle persone, previste in modo specifico per alcuni uffici (cfr. can. 494 per l’economo diocesano; can. 1422 per i giudici).


Le modalità di cessazione nell’ufficio (non più “perdita”) previste dal CIC sono cinque (cfr. can. 184): [a] dimissioni/rinuncia da parte del titolare dell’ufficio, [b] scadenza dei termini della nomina (dopo, tuttavia, la notifica dell’avvenuta scadenza), [c] trasferimento – consenziente – ad altro ufficio, [d] rimozione dall’ufficio (provvedimento disciplinare, senza assegnazione di nuovo ufficio), [e] privazione (provvedimento di natura penale in seguito a condanna giudiziale).


Pur non esistendo in linea teorica una gerarchia d”importanza degli uffici ecclesiastici (espressamente esclusa dal Concilio Vaticano II), nei fatti alcuni uffici emergono per la loro irrinunciabilità: [a] a livello di governo diocesano: vicario generale, vicario giudiziale, giudici ed altri ministri del tribunale, cancelliere, economo diocesano; [b] nell’attività pastorale ordinaria: gli uffici con piena cura d”anime, come sono i parroci; seguono poi gli altri uffici “complementari” come: docenti, cappellani, rettori… Il conferimento dell’ufficio ecclesiastico – in linea di principio aperto a tutti i fedeli – presuppone sovente il possesso di requisiti soggettivi (p.es.: l’ordinazione episcopale per il vescovo diocesano/ausiliare/cooperatore, l’ordinazione presbiterale per il parroco; così anche per eventuali titoli di studio; l’età minima) e/o oggettivi (p.es.: non incompatibilità con altri uffici già esercitati, rieleggibilità nella carica…) che ne rendono principali, ma non esclusivi, destinatari i chierici (vescovi, presbiteri, diaconi).

Non di meno esistono uffici ecclesiastici di notevole importanza (a livello diocesano) non preclusi ai fedeli laici (di entrambi i sessi): economo diocesano, difensore del vincolo/promotore di giustizia, cancelliere (di tribunale e/o di curia), anche comportanti l’esercizio di potestà, com’è il giudice ecclesiastico.

 

 

5. Attività ecclesiale e potestà

Com’è logico e necessario all’interno di qualunque dinamica operativa e funzionale di natura istituzionale, anche all’interno dell’ordinamento giuridico canonico le funzioni operative indirizzate a conseguire la realizzazione della missione propria della Chiesa (= gli uffici ecclesiastici) sono dotate di caratteristiche giuridiche particolari genericamente espresse dal concetto – molto ampio – di “potestà”. In base ad essa coloro che nella Chiesa esercitano uffici di governo godono del «potere giuridico […] di vincolare altri fedeli, attraverso i propri comandi a beneficio degli interessi generali. […] Tali decisioni hanno carattere di comando giuridico. Sono dichiarazioni di volontà che producono nei destinatari una soggezione giuridica, dovendo sottostare agli effetti dell’iniziativa dell’autorità» (Arroba 86-90).


In tal modo, lungi dall’imporre alcunché alle persone dei fedeli (la reale coercibilità attiva, infatti, dell’ordinamento canonico è praticamente nulla), l’esercizio di potestà ecclesiale sancisce definitivamente la natura e portata dei rapporti giuridici tra i fedeli e la Chiesa nel suo complesso, consegnando alla comunità stessa il risultato – e le conseguenze – della decisione assunta a vantaggio di tutti (cfr. Gherri, 2012, 407-411). Ne deriverà il dovuto comportamento della medesima comunità verso i destinatari di tali decisioni/provvedimenti. Appartengono a questa dimensione: [a] le decisioni circa l’assegnazione degli uffici ecclesiastici (v. supra), [b] le sentenze circa lo stato delle persone (= la dichiarazione di validità o nullità dell’ordinazione o del matrimonio, così come dei voti religiosi), [c] i provvedimenti penali che dichiarino la condizione gravemente difforme dalle norme ecclesiali – e dal Vangelo stesso – in cui qualche fedele può venirsi a trovare per aver assunto comportamenti qualificati come “delitti” in corrispondenza di condotte particolarmente gravi (cfr. can. 1321).


Fondato sui medesimi presupposti dell’esistenza della Chiesa stessa, e pertanto di “istituzione divina” (cfr. can. 129), l’esercizio di questa potestà agisce – ad ogni buon conto – legittimando o delegittimando dal punto di vista della corretta (e salutare) vita ecclesiale condotte – e loro conseguenze – messe in atto dai fedeli. In tal senso la dichiarazione potestativa di conformità o difformità rispetto alla fede (= ortodossia) e/o alla sua corretta concretizzazione in ambito etico e morale (= ortoprassi) di una specifica condotta può incrementare o decrementare (in modo più o meno radicale) la comunione e/o l’operatività, anche giuridica, dei fedeli, sia ampliando che riducendo il patrimonio giuridico individuale (diritti, facoltà, doveri, obblighi, divieti).


Si pensi – p.es. – all’ordinazione presbiterale: in essa, attraverso uno specifico rito liturgico presieduto dal vescovo, un fedele (già ordinato diacono) acquisisce la “abilitazione” sacramentale e giuridica a presiedere l’Eucaristia e (potenzialmente) a dare l’assoluzione sacramentale (cfr. can. 965), attività che nessuno può svolgere se non chi sia stato ordinato presbitero, come tutti i fedeli ben sanno (comportandosi di conseguenza). Il valore anche giuridico – oltre che teologico – dell’ordinazione muta lo status del fedele conferendogli in modo stabile e pubblico abilità e legittimità di condotta fino a quel momento del tutto assenti. L”ordinazione realizzata dal vescovo è un atto di potestà giuridica (oltre che sacramentale) che interviene nella vita del fedele e della Chiesa tutta in ragione e funzione della missione stessa della Chiesa: un atto di potestà che “vincola” la Chiesa come tale al riconoscimento che i sacramenti celebrati da quel fedele così ordinato corrispondono all’attività e missione stessa della Chiesa. Un successivo atto di potestà del vescovo potrà nominare quel presbitero parroco affidandogli stabilmente la cura, anche sacramentale, di una comunità cristiana. In conseguenza di tale nomina centinaia di fedeli, per anni, si rapporteranno a lui riconoscendogli quanto previsto dalla Chiesa – attraverso il diritto canonico – per le funzioni proprie del parroco.


Le cose resteranno in tal modo fino al giorno in cui – eventualmente – una sentenza definitiva (con doppia conformità) dichiarerà la nullità di tale ordinazione, oppure un provvedimento penale di dimissione dallo stato clericale impedirà definitivamente a quel fedele l’esercizio (valido o legittimo, a seconda dei casi – cfr. cann. 290; 292) di quanto per anni esercitato nello status di presbitero. La giuridicità di quest”ultimo intervento potestativo dell’autorità ecclesiale dichiarerà in modo definitivo e senza dubbi di sorta lo stato attuale delle cose riguardo a quel fedele, delegittimando ogni sua condotta che non volesse tenerne conto e comunicando agli altri fedeli la sua illegittimità nello svolgere le funzioni di parroco e l’inabilità a celebrare i sacramenti, cosicché nessuno più si rivolga a lui in tal senso. Analogamente si può ragionare a proposito di vescovi o di religiosi o anche dello stesso status di coniuge (distinguendo il matrimonio dal concubinato); non meno che per i rapporti tra romano Pontefice e Chiesa tutta.


Senza addentrarsi ora nella discussione – del tutto irrisolta soprattutto teologicamente – circa il “numero” e la qualifica delle potestà ecclesiali (ordine e/o giurisdizione, come fu per tutto il millennio trascorso), basti prendere consapevolezza che le attività connesse alla celebrazione della maggioranza dei sacramenti presuppongono una previa abilitazione soggettiva (ontologica) attraverso il sacramento dell’ordine sacro nel grado – almeno – del presbiterato (cfr. cann. 884; 900; 965; 1003; 1012).


Sotto il profilo, invece, dell’esercizio della potestà di governo – tanto ecclesiastico (Papa e vescovi diocesani) che ecclesiale (istituti religiosi, vita consacrata in genere, vita associativa, ecc.) – essa viene oggi ripartita dal punto di vista concettuale secondo la nomenclatura acquisita dagli ordinamenti statuali moderni: legislativa, esecutiva, giudiziale (cfr. can. 135). Tale ripartizione, però, nella Chiesa indica semplicemente delle “funzioni” e non delle “istituzioni”: attività e non soggetti, come sono invece il parlamento, il governo e la magistratura nel c.d. Stato di diritto. Nella Chiesa, infatti, il soggetto di potestà di governo rimane unico: romano Pontefice e vescovo diocesano, cui si aggiungono per la loro parte entità collegiali quali i sinodi patriarcali o metropolitani delle Chiese orientali o i capitoli generali degli istituti religiosi (ed assimilabili in iure).


Il non generare “istituzioni” o “poteri” ma semplici “funzioni”, fa sì che la tripartizione della potestà di governo nella Chiesa serva fondamentalmente – soltanto – a determinare la qualità ed il livello di definitività delle decisioni (generali o singolari) assunte in ragione dell’ufficio esercitato. Un criterio individuativo (e di legittimità) che permette di comprendere davanti a quale tipo di vincolo il fedele o la comunità stessa si trova (vincolo attivo o passivo: potere o dovere). Gli “oggetti” di potestà, d”altra parte, nella Chiesa sono ben specifici e per questo soggiacciono a peculiari norme nella loro gestione, al di là di chi sia concretamente ad esercitarlo (più soggetti o lo stesso soggetto in una soltanto delle proprie funzioni).


La decisione del legislatore vincola l’intera comunità ecclesiale a lui soggetta o la parte soltanto che egli abbia specificato (cfr. cann. 1 CIC; 1 CCEO). Se di legge si tratta non è data libertà dalla sua applicazione: le materie normate devono essere trattate secondo quanto stabilito in modo generale e di principio per l’intera Chiesa.

La decisione di chi provvede alla vita ordinaria di una circoscrizione ecclesiastica attraverso l’esercizio del governo (esecutivo), vincola i suoi membri nell’uso principalmente delle risorse disponibili all’interno della comunità stessa: risorse sia personali (= i chierici) che materiali (= i beni economico-patrimoniali) che spirituali (= sacramenti et similia).


Le decisioni del giudice vincolano le parti per cui sono date nella materia oggetto del pubblico contendere: la causa nel processo.

 

All’interno di ogni ambito ciascuna decisione gode di una stabilità e certezza (= efficacia) proporzionale al suo livello: una sentenza di primo grado ammette un”ulteriore istanza prima di giungere allo stato di res iudicata; due sentenze discordi sulla nullità del matrimonio/ordinazione esigono la doppia conformità attraverso una terza istanza; un decreto generale esecutorio vale entro la potestà (geografica o personale) di chi lo emana e solo in esecuzione delle leggi da cui trae la propria origine in iure; l’affidamento di un ufficio ecclesiastico (o la rimozione o trasferimento da esso) ammette un riesame della decisione ed il coinvolgimento del superiore gerarchico di chi lo ha esperito.


Passando da questo approccio più sostanziale alla dovuta attenzione verso il concreto funzionamento della potestà ecclesiale, l’ordinamento vigente la distingue (cfr. can. 131) principalmente in: ordinaria (spettante cioè in ragione dell’ufficio ecclesiastico di cui si sia titolari) o delegata (conferita, cioè, a qualcuno in ragione di circostanze connesse alla sua persona o a sue specifiche competenze).

La potestà ordinaria, a sua volta, si distingue in propria (attribuita in modo originario ed esercitata a nome proprio, com’è per il Papa o il vescovo diocesano – cfr. cann. 333; 381) e vicaria (quale partecipazione, subordinata e parziale, di quella “propria” di cui si sia vicari, com’è per la Curia Romana, i vicari generali, episcopali, giudiziali, apostolici… – cfr. cann. 360; 391; 371). L”esercizio della potestà ordinaria-propria coincide con la permanenza nell’ufficio ecclesiastico da cui essa derivi (cfr. can. 143); l’esercizio della potestà ordinaria-vicaria è, invece, subordinato alla persistenza della potestà ordinaria-propria da cui si dipende (cfr. can. 481) ed a quanto specificato nella nomina. Per la potestà delegata tutto dipende dalle condizioni e specifiche del suo conferimento (cfr. can. 142).


Concetto peculiare dell’ordinamento canonico in tema di potestà – e suo fondamentale nucleo di referenza – è quello di “ordinario” attraverso cui s”indica il soggetto investito della potestà di governo: «il romano Pontefice, i vescovi diocesani e gli altri che, anche se soltanto interinalmente, sono preposti a una Chiesa particolare o a una comunità ad essa equiparata a norma del can. 368; inoltre coloro che nelle medesime godono di potestà esecutiva ordinaria generale, vale a dire i vicari generali ed episcopali; e parimenti, per i propri membri, i superiori maggiori degli istituti religiosi di diritto pontificio clericali e delle società di vita apostolica di diritto pontificio clericali, che posseggono almeno potestà esecutiva ordinaria» (can. 134).


“Ordinario del luogo”, per parte sua, indica solo coloro che non siano superiori degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica. È agli ordinari che fa riferimento la maggior parte delle norme canoniche riguardanti il governo ecclesiale, soprattutto per quanto riguarda l’amministrazione delle persone giuridiche canoniche e la vita e ministero dei chierici; in essi è concentrato pure la quasi totalità dell’esercizio di potestà nella Chiesa.


Pare utile segnalare, in chiusura di queste note, come la debolezza coercitiva che si riscontra oggi nell’esercizio della potestà ecclesiale derivi dal fatto – del tutto contingente – che per lunghi secoli le questioni pratiche sono state affrontate nella Chiesa non direttamente attraverso il diritto canonico ma indirettamente attraverso il diritto “civile”: da Giustiniano, a Carlo Magno, allo Ius commune, fino ai regimi confessionali del Rinascimento ed a quelli giurisdizionalisti della tarda Modernità. In questo modo l’efficacia dei provvedimenti civili non ha mai generato la necessità ecclesiale di conseguire risultati efficaci attraverso strumenti espressamente canonici.

 



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