Metodo scientifico e metodo umanistico. Con Lonergan verso una nuova metodologia scientifico-umanistica?

 

 

 

PAOLO GHERRI

 

 

 

1. Coscienza del metodo ed efficacia dell’operare

B. Lonergan rappresenta ed in qualche modo esprime in maniera eccellente e tipologica l’elemento irrinunciabile del metodo: la «coscienza del metodo», come direbbe il titolo di un libro uscito qualche anno fa a riguardo di un altro umanista, L. Mengoni, giurista italiano[1]. Quel metodo che oggi concentra in sé la maggior parte degli elementi e fattori che danno corpo alla Scienza – modernamente intesa – ed alla conoscenza che da essa deriva, la così detta conoscenza scientifica.

Prima di entrare direttamente nella trattazione del tema affidatomi esplicito alcune premesse. Vorrei evidenziare il punto di partenza intellettuale e teoretico da cui origina sia il mio interesse per Lonergan che la sua presa sul mio lavoro: esso è la coscienza di me conoscente, dalla quale io non posso prescindere, ma che è pure utile agli altri per capire quanto andrò illustrando ed affermando proprio in tema di metodo e di scienza. A ciò si aggiungano l’attenzione per l’efficacia dell’operare e una vera e propria Weltanschauung cresciuta e consolidatasi negli anni sotto la guida di due domande/principi costanti: il perché delle azioni ed il come dei funzionamenti; consolidando la differenza irriducibile tra l’agire delle persone[2] e l’accadere delle cose[3], la differenza incolmabile tra azione?[4] e fenomeno”[5].

 

2. La questione di fondo

Accetto – per il momento –la provocazione della prima parte del titolo («metodo scientifico e metodo umanistico»), che mi appare inadeguato anche se assolutamente espressivo ancor oggi del pensiero della maggior parte degli studiosi ed autori, che continuano ad identificare la Scienza con le Scienze naturali (o Scienze dure), cosicché tutto ciò che deriva in qualche modo dall’azione umana (i fatti di G.B. Vico, cioè l’agito personale) non sia – proprio per definizione – Scienza. Parimenti, Storiografia, Letteratura, Diritto, Teologia, pur con l’integrazione di altri elementi, non possono essere Scienze.

La questione non si pone solo per le varie tipologie di Positivismo e Scientismo che rifuggono ogni forma non-sperimentale di conoscenza, per quanto molte Scienze attuali non possano certo essere sperimentali in senso proprio: si pensi anche solo all’ Astrofisica. Lo stesso problema, infatti, esiste anche in ambienti radicalmente diversi, come sono quelli ecclesiastici – di per sé tutt’altro che positivisti[6] – dediti in modo quasi esclusivo alla coltivazione di Filosofia e Teologia[7]: la loro pretesa di scientificità, infatti, risulta spesso talmente vaga ed autoreferenziale da non potersi in nessun modo rapportare con le Scienze naturali[8], mostrando così l’evidenza del problema epistemologico (e gnoseologico) di base. Proprio l’orizzonte specifico del sapere ecclesiastico[9] costituirà l’oggetto principale delle presenti note e riflessioni.

Il problema può ricondursi, probabilmente, ad una sorta di peccato originale/originario della tarda Modernità di cui Dilthey (1833-1911) finisce per essere l’espressione più evidente. La distinzione delle «Scienze della natura», Naturwissenschaften, e «Scienze dello spirito», Geisteswissenschaften, depotenziò infatti il secondo ambito distaccandolo dall’esperienza e quindi dalla realtà stessa, estraendone lo scheletro comune ad ogni esperienza umana – compresa l’esperienza di sé – e facendone qualcosa di assolutamente vacuo, per altro senza alcuna credibilità al giorno d’oggi. Lo schema diltheyano si basava sul presupposto idealista di una duplicità ontologica della realtà: natura e spirito (umano); duplicità che, proprio perché ontologica, non sopporta di essere riassorbita in una unicità della conoscenza e, quindi, della stessa Scienza. Tale schema venne di fatto rafforzato dagli apporti positivistici e formalistici del Circolo di Vienna (dal 1924), soprattutto nella distinzione contrappositoria tra natura (fisica) e Metafisica. Separazione che portò la Scienza tardo-ottocentesca[10] su posizioni sempre più fisicistiche, assolutamente inadeguate per le dottrine filosofiche sulle quali si basava – invece – la Teologia cattolica tradizionale.

Per quanto fino ad oggi la consapevolezza risulti piuttosto rara, non di meno va considerato anche come il diktat pontificio della Æterni Patris[11] abbia di fatto completato – legittimandola – la scissione dal punto di vista gnoseologico-epistemologico degli ambienti ecclesiastici e delle Discipline umanistiche in essi coltivate rispetto al resto del mondo scientifico moderno. Tanto più che lo schema diltheyano, opportunamente travisato/incompreso, sembrava addirittura favorire il pensiero neoscolastico (e metafisico in genere) proprio a causa della sua apparente compatibilità con la separatezza della Metafisica dalle Scienze naturali[12], legittimando in tal modo, all’interno della cultura del tempo, l’arroccamento (in realtà l’estraneazione) delle Discipline ecclesiastiche che si auto-comprendevano come «Scienze dello spirito (divino)»[13]. Nonostante nello schema neo-scolastico e nella connessa Apologetica la Teologia fosse una sorta di emanazione deduttiva, spesso solo formale, dalla Filosofia tomistica tardiva e dall’Aristotelismo, va infatti considerato come in realtà il vero paradigma portante del pensiero ecclesiastico cattolico rimanesse quello dualista platonico, egemonizzato dal mondo delle idee e confuso con la dimensione spirituale della realtà, mentre il Tomismo-Aristotelismo svolgeva la mera funzione strumentale di occuparsi più specificamente delle res tutte le volte che ciò diventava necessario, come, per esempio, per i Sacramenti in opposizione alle dottrine protestanti o nella dura tenzone tardo-ottocentesca proprio col Modernismo[14]. Proprio, anzi, le questioni poste così radicalmente sia dalla Riforma luterana che dalla Modernità derivavano di fatto dalla profondissima matrice platonico-agostiniana della dottrina cattolica[15] che non era mai stata superata. Un doveroso riesame delle – ormai non più – famose condanne dell’ Aristotelismo soprattutto parigino che coinvolsero lo stesso Tommaso d’Aquino (anni 1270 e 1277)[16] permetterebbe di far oggi luce su molte questioni che nessuno più vede né può considerare, dopo che la Æterni Patris le ha di fatto cancellate dalla comune consapevolezza soprattutto teologica. Ciò spiega, non di meno, la necessità di ricuperare in modo fermo ed indiscutibile la ragione tommasiana quale antidoto della fede/volontà agostiniana da cui, attraverso Anselmo e Bonaventura, presero poi le mosse Suarez e Lutero e la dominante Filosofia moderna tedesca (Kant, Hegel, Nietzsche…).

Proprio questo isolamento del cattolicesimo ri-fondato (o da ri-fondare) su basi ontologiche completamente diverse da quelle moderne coeve incrementava, a cavallo tra XIX e XX secolo, l’incomunicabilità epistemologica, facendo del mondo accademico ecclesiastico un vero hortus conclusus, segnato da proprie specifiche problematiche e tensioni, così come in seguito da propri – autonomi – spunti evolutivi, uno dei quali sarà costituito dalla riflessione di B. Lonergan.

Per quanto E. Husserl (1859-1938), attraverso la sua Fenomenologia[17], fosse intervenuto a ridimensionare il presupposto ontologico della separazione nell’uomo tra natura e spirito, restituendo agli studi sull’uomo ed il suo agire una sostanziale non-disomogeneità rispetto al resto della realtà – e della Scienza –, si trattò solo di un primo passo che non riuscì ad ottenere risultati concreti al di fuori di alcuni ambiti filosofici che andarono assestandosi lungo il Novecento, con risultati che tuttavia poco apportarono alla Gnoseologia e all’Epistemologia comunemente percepite e sviluppate.

Dal punto di vista sostanziale, invece, la questione delle due conoscenze rimase del tutto problematica lungo il XX secolo e, soprattutto, ancora oggetto di forti pregiudizi reciproci e veti incrociati tra molti dei referenti dei due macro-ambiti gnoseologici, come prova il dibattito sviluppatosi in Europa, dagli anni Sessanta, intorno alle così dette «due culture»[18].

 

«Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l’esistenza di due culture, tanto diverse e lontane una dall’altra quanto la cultura letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà; essa vi segna una frattura che si inasprisce di giorno in giorno, e minaccia di trasformarsi in un vero muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione»[19],

«Letteratura e Scienza: due forme, due atteggiamenti, che a lungo si sono contesi il primato nella nostra cultura, e che entrambe hanno preteso di caratterizzarla; e che ora si trovano ancora di fronte, forse per l’ultima volta, nel grave momento storico in cui sembra decidersi se la civiltà europea debba continuare a vivere, oppure debba voler morire»[20].

 

Si tratta, irriducibilmente, dell’opposizione tra due vere e proprie forme mentali, due rappresentazioni della realtà stessa e delle vie per indagarla e conoscerla, due Weltanschauungen: quella delle humanæ (et divinæ) Litteræ e quella della Scientia nova, ormai definitivamente semantizzate nell’acquisita distinzione tra sciences ed humanities, senza vedere come il primo sia – invariabilmente – un sostantivo mentre il secondo – sia in realtà – un aggettivo.

In particolare, la via umanistica – per la quale il problema scientifico si pone in modo più pressante, ed è ciò di cui ci occupiamo in questa sede – continua ad esprimersi nell’impostazione scolastica che (ancor oggi!) considera scienza ogni conoscenza solo logicamente rigorosa[21], privilegiando un approccio essenzialista, universalista, formalista e deduttivista, accontentandosi spesso di un semplice ed ideale realismo gnoseologico[22] senza poter/voler concretamente andare oltre. È chiara in merito la posizione di S. Tommaso nel suo dimostrare «sacram Doctrinam esse scientiam»[23], pietra miliare ad incontroversa di tale sistema.

L’inconciliabilità di tale posizione coi presupposti della Scientia nova è palese, soprattutto per l’assenza assoluta di qualsiasi riferimento alla realtà cartesianamente extensa: quella, cioè, che si trova fuori della mente umana e che non può essere ricondotta né ridotta ad essa[24]. Atteggiamento affatto superato ai nostri tempi[25]. Dal canto suo Gian Battista Vico (1668-1744) aveva già scritto che: «la scienza umana viene da un’ opera di astrazione, quindi le Scienze singole saranno meno certe, quanto più s’immergeranno nella materia corporea»[26]. In modo simile Immanuel Kant (1724-1804) riteneva che la

 

«Scienza è tale solo in quanto poggia su principi o leggi universali e necessarie; e queste non possono derivare dalla esperienza, poiché l’esperienza ci dà sempre l’essere, il contingente (ciò che è di fatto, non di diritto), mai il dover essere, il necessario e l’universale»[27].

 

In Italia, successivamente, Benedetto Croce (1866-1952) e Giovanni Gentile (1875-1944) perseguirono una sorta di unificazione delle due culture ma soltanto in modo gerarchico (cioè assorbente): per il primo la Scienza è ineluttabilmente subordinata alla Filosofia che – sola – ha il potere di pervenire alla verità, configurandosi pertanto come attività speculativa “superiore”; per il secondo ogni Scienza è empirica e dogmatica allo stesso tempo, perché pre-suppone per ogni nuovo conoscere il già conosciuto, il nuovo – così – dipende dal vecchio, in modo che l’attività scientifica propriamente detta (ricerca empirica) risulti inferiore rispetto a quella filosofica (teoresi dogmatica)[28].

Furono soltanto gli sviluppi della Fisica soprattutto atomica del Novecento a spingere la riflessione teorica generale al di là dei presupposti ottocenteschi, offrendo sorprendenti fattori di possibile similitudine e compatibilità tra le Scienze e Discipline naturali da una parte e quelle umanistiche dall’altra, intese finalmente come Scienze dell’uomo e del suo vivere e non più del suo Geist soltanto. Ed è proprio qui che si colloca ormai lo snodo maggiore dell’intera questione: nella non radicale differenza/opposizione tra esperire e sperimentare, due modi differenti ma non contraddittori di entrare in rapporto diretto con la realtà, sempre da parte dell’uomo e sempre attraverso i suoi strumenti cognitivi e teoretici. Nel frattempo Filosofia analitica (in Nord America), Fenomenologia, Esistenzialismo ed Ermeneutica (in Europa continentale) contribuirono progressivamente – dall’interno della cultura umanistica stessa – al superamento dell’Idealismo e della sua Epistemologia, riconducendo al centro l’uomo e la sua percezione della propria realtà, ma soprattutto facendo abbandonare definitivamente i paradigmi ontologico-metafisici classici che pur erano sempre rimasti sottesi anche al pensiero moderno in genere, per quanto spesso sub contraria specie. Husserl, Wittgenstein (1889-1951), Heidegger (1889-1976), posero di fatto le basi di una nuova percezione ed espressione della realtà ormai libera dalla dialettica kantiano-hegeliana e dalla conseguente epistemologia diltheyana, offrendo così basi efficaci per una reale riconciliazione ed unificazione gnoseologica ed epistemologica ancor oggi tutta in divenire[29]. Allo stesso tempo anche lo sviluppo autonomo delle Scienze/Discipline sociali trainato dalla Sociologia e dalla Psicoanalisi (fortemente connesse alla Statistica) contribuirono al crollo della concezione diltheyana delle Geisteswissenschaften, sconfessandone di fatto i presupposti epistemologici.

Solo l’ambito accademico ecclesiastico cattolico, filosofico e teologico, perseverò nel proprio autarchico ed autoreferenziale isolamento metafisico-gnoseologico, ignorando, o trascurando gravemente, gli apporti e le prospettive epistemologiche che il nuovo secolo stava ormai consolidando ben oltre la mera temuta e detestata, ma anche assolutamente genericissima, Modernità profilandosi come una sorta di monade irrelata rispetto al resto della riflessione generale in campo gnoseologico ed epistemologico. I mutamenti socio-culturali ormai intervenuti dall’inizio del nuovo secolo erano però talmente incontenibili ed irreversibili che anche all’interno dell’ambito ecclesiastico qualcosa cominciò a smuoversi e lievitare, sia attraverso i Movimenti preconciliari di rinnovamento (biblico, liturgico, patristico, ecumenico…) sia attraverso l’opera di qualche vero pioniere che – proprio come Lonergan – seppe cogliere e sviluppare in ambito espressamente teologico il “di più” ormai chiaramente intravisto all’esterno, senza tuttavia che ciò incrinasse la sostanziale autoreferenzialità delle Discipline ecclesiastiche. Ciò finì per isolare tali pionieri, anche rispetto alla Gnoseologia ed alla Epistemologia non ecclesiastiche del tempo, costringendoli non solo a portare da soli il peso della propria ricerca ed innovazione ma anche – e purtroppo molto maggiormente – a non avere reali riscontri all’interno del mondo filosofico e scientifico circostante: furono isolati tra gli ecclesiastici ed ignorati dal resto del mondo accademico e scientifico.

Il “caso Lonergan” in questo risulta paradigmatico in entrambe le prospettive.

 

2.1 Il presupposto scientifico: differenza tra metodo e rigore

Senza perdere qui tempo a dimostrare ciò che in realtà non deve affatto essere dimostrato, si può affermare che il grande merito di B. Lonergan e la grande novità del suo pensiero all’interno dell’orizzonte accademico ecclesiastico del secondo Novecento stanno nell’aver partecipato da vero pioniere alla rifondazione della nuova scientificità delle Discipline teologiche come tali dopo il dissolvimento della Tarda-scolastica davanti alle Modernità kantiana ed idealista e dopo la completa debacle della Neo-scolastica antimodernista: una rifondazione che, d’impeto, supera secoli di assoluta parzialità ed inconsapevolezza gnoseologica ed epistemologica all’interno del mondo ecclesiastico.

Si tratta dell’introduzione del metodo al posto del semplice rigore: una vera rivoluzione copernicana che passa da una caratteristica, qual è il rigore, ad una struttura, qual è il metodo. In fondo, dal punto di vista epistemologico, Lonergan potrebbe stare tutto qui: nell’affermazione che la scientificità – anche in Teologia – non consiste nel rigore ma nel metodo!

Questo proviene da una visione assolutamente unitaria della realtà, nei confronti della quale non si può assumere nessuna posizione (obiectum formale quo) quasi che si possa uscire dalla realtà stessa per guardarla dall’esterno e da più punti di vista. La realtà è una sola e ciascuno di noi le appartiene. Non si può uscire dalla realtà per osservarla, poiché questo significherebbe uscire dall’esistenza stessa[30]; invece, è stando consapevolmente nella realtà che la si può conoscere, facendone esperienza.

Ciò, però, non è altro che l’assunzione di fatto del nucleo più profondo del «Principio d’indeterminazione» di Heisenberg, secondo cui l’osservatore appartiene sempre al sistema osservato e non può che averne una percezione relativa alla sua stessa presenza, non potendosi calcolare al contempo “posizione” e “quantità di moto” di una particella sub-atomica. Detto in altri termini: non è più utilizzabile il concetto di obiectum formale qua! Né lo sono la considerazione o l’approccio o l’analisi di qualcosa sub specie. La Scienza moderna è tale solo per oggetti materiali (obiectum formale quod): chiari, specifici, definiti[31], per quanto non necessariamente corporei, come accade per i “flussi”, i “campi”, ma anche per la Storia o il Diritto.

L’ambito umanistico, dal canto proprio, si era sempre difeso arroccandosi dietro al rigore del ragionamento e dell’argomentazione, fino al tentativo – assolutamente espressivo della mentalità dominante – dello stesso Husserl nel 1910 di verificare, ed eventualmente dimostrare, la solidità della stessa Filosofia proprio quale «Scienza rigorosa»[32], espressione il cui accento non lascia dubbi, non meno che il suo tragico esito[33].

La conoscenza/scienza[34] classica si basava sul rigore con cui venivano concatenate tra loro affermazioni anche – di per sé – assolutamente irrelate. In fondo bastava essere rigorosi nel proprio procedere da/per principi[35], come anche riteneva S. Tommaso! Essere rigorosi significava di fatto applicare in modo ineccepibile gli schemi inferenziali standardizzati: i 19 sillogismi validi, reduci dai 256 teorici[36], tutti poi trasformabili nell’unico sillogismo universale (barbara), che resse per secoli dal Medio Evo in poi. Era la Logica minor contro cui s’indirizzò implacabile la contestazione dei novatores, i quali vinsero! Così, la stessa Logica minor fu ben presto estromessa dal mondo delle Scienze moderne, che preferivano ben altri approcci alla realtà. Presento qui alcune osservazioni generali in merito.

a) Per l’approccio gnoseologico basato sul rigore è decisiva l’idea di concatenamento o “catena inferenziale”: se e dove esiste connessione si può – sempre – proseguire, da idea a idea, da affermazione ad affermazione, da principio a principio, da anello ad anello ... non importa di che tipo di anello si tratti. Basta così un solo anello più debole degli altri (di lana anziché di ferro) per vanificare l’intera attività cognitiva ... semper salva principia!

b) Il risultato ed il valore della conoscenza evidenziata in tal modo[37] è funzione del solo rigore ‘interno’ ai singoli sillogismi. Non si percepisce affatto che ogni successivo sillogismo funzioni come una vera e propria diluizione della pregnanza ontologica e gnoseologica precedente, fino allo svuotamento assoluto degli ultimi esiti della catena inferenziale stessa[38] a causa dei continui rimbalzi dei predicati da un soggetto all’altro e/o dello scambio tra i soggetti specificati dagli stessi predicati.

c) Allo stesso tempo: base pressoché ineliminabile del procedere attraverso il concatenamento sillogistico è l’analogia, attraverso la quale il contenuto della predicazione cognitiva viene via via mutato in base all’identità del soggetto di cui si effettua la predicazione. I diversi tipi di analogia[39], non di meno, complicano ulteriormente la portata delle predicazioni realizzate.

d) Quali siano i punti di partenza (gli oggetti materiali) della ricerca e quali i loro elementi da esaminare risulta spesso del tutto arbitrario: i Commenti alle Sentenze e le Questioni disputate su cui si reggeva la Scolastica sono un chiaro esempio dell’ inconsistenza di ciò che attiva e regge la riflessione: si commenta ciò che si è deciso di commentare, si disputa di ciò che interessa …vero o falso, reale o no, episteme o doxa, non fa alcuna differenza.

e) Il rigore del procedere sillogistico è puramente interno al procedimento inferenziale adottato, senza che la realtà possa dire nulla in merito. Si giunge così anche all’adozione di sillogismi validi solo formalmente, ma contrari alla realtà![40] Quali, poi, siano gli elementi ormai certi, da assumere per le successive inferenze rigorose che permettano di proseguire la ricerca, rimane del tutto indeterminabile ed arbitrario data l’assenza di regole per individuare l’adeguatezza delle premesse attraverso cui costruire l’inferenza successiva[41].

f) La maggior attenzione al rigore del procedere che non alla realtà e verità[42] degli elementi coinvolti nella ricerca portai va) ad una conoscenza/scienza soltanto intellettualistica, disincarnata ed irreale, senz’alcuna connessione col vissuto delle persone.

Tanto basti a porre in guardia da un semplicistico rigore come fondativo della conoscenza e della Scienza.

La questione e l’inattendibilità globale di questo genere di approccio alla conoscenza erano già state evidenziate da F. Bacone (1561-1626) quattro secoli fa: il problema – infatti – non è “come” inferire (il rigore) ma “da che cosa” e “perché” farlo in tal modo[43], Il problema, cioè, non riguarda le regole interne a ciascun procedimento cognitivo – il suo rigore! – ma il rapporto della conoscenza con la realtà; per questo oggi le Logiche modali (si noti il plurale) sono affiancate dalle Logiche non-modali (come sono quelle epistemiche)[44] ed è chiaro a molti settori della Scienza – non ecclesiastica – che i rapporti “ontici” non esauriscono affatto le relazioni tra le diverse componenti della realtà[45].

Proprio il rapporto con la realtà, tuttavia, è la chiave dell’insegnamento di B. Lonergan in fatto di metodo: è l’empiria la chiave irrinunciabile della conoscenza: anche in campo teologico! Un’empiria che non accetta più di attuare l’impresa gnoseologica anche sub specie fidei – partendo da un semplice videtur quod o da un tradunt, né da pure “potenze” (ontologiche) mai passate all’esistenza. Non per nulla, infatti, la Scienza moderna si è sviluppata esattamente mutando il proprio innesco: accidit (il fenomeno)! E questo vale tanto per la Chimica che per la Letteratura …e, nel caso di Lonergan, per la Teologia, Diritto, Storiografia, ecc. non mostrano elementi e fattori contrari alla loro inclusione nello stesso contesto.

Al rigore inferenziale, anche solo puramente formale, tipico di un procedere intellettualistico e disincarnato che finisce per trattare – senz’allontanarsi mai dal tavolino[46] – tutta la realtà in modo assolutamente meccanico sotto la pressione e logica unica della necessità antica (la bacchetta magica del” dover essere” o “necessità”[47]), la Scienza moderna ha sostituito il metodo come concatenamento strutturato di operazioni ripetitive che partono dall’esperienza per offrire conoscenze verificabili, da essa derivabili ma in essa non contenute[48].

In tal modo: se pure il metodo, per funzionare, esiga rigore applicativo, com’è fuor di dubbio, non è tuttavia il rigore a fornire le caratteristiche costitutive del metodo stesso, in quanto esso consiste, sostanzialmente, in un

a) concatenamento strutturato,

b) di operazioni ripetitive,

c) che partono dall’esperienza,

d) per offrire conoscenze verificabili,

e) da essa derivabili ma in essa non immediatamente contenute.

La definizione lonerganiana di metodo con cui s’introduce Method in Theology è chiara in proposito:

 

«schema normativo di operazioni ricorrenti e connesse tra di loro che danno risultati cumulativi e progressivi. C’è dunque metodo là dove ci sono operazioni distinte, dove ciascuna operazione è in relazione con le altre, dove l’insieme delle relazioni torma uno schema, dove lo schema è descritto come il modo adatto per fare una determinata cosa, dove le operazioni che si svolgono in conformità allo schema possono ripetersi indefinitamente e dove i frutti di tale ripetizione sono non qualcosa che semplicemente si ripete, bensì qualcosa di cumulativo e progressivo. [ ... ]

L’indagine trasforma la mera esperienza nell’esame della osservazione. Ciò che è osservato, è fissato in una descrizione. Descrizioni contrastanti danno origine a problemi e i problemi vengono risolti mediante scoperte. Ciò che è scoperto, è espresso in un’ipotesi. Dall’ipotesi vengono dedotte le sue implicazioni e queste suggeriscono quali esperimenti si devono fare. Per cui le molte operazioni sono in relazione tra di loro, le relazioni formano uno schema e lo schema definisce il modo in cui va eseguita l’indagine scientifica»[49].

 

Ne deriva la piena possibilità di sventare il falso dilemma iniziale di queste note tra metodo scientifico e metodo umanistico, riconoscendo l’inadeguatezza della contrapposizione tra scientifico ed umanistico, poiché, mentre la scientificità riguarda il metodo in sé e per sé (e non esiste metodo se non scientifico), il riferimento umanistico riguarda invece gli oggetti materiali dell’indagine scientifica da attuarsi attraverso il metodo. Oggetti materiali, che possono appartenere indifferentemente sia all’ambito umanistico che a quello naturalistico senza che il metodo come tale ne subisca alcuna conseguenza a livello gnoseologico. Per di più i risultati della lunga esperienza didattica e formativa in genere di Lonergan hanno consolidato il principio – oltre alla realtà – dell’isomorfismo della conoscenza, poiché il modo di conoscere dell’uomo corrisponde non alle cose ma alla sua struttura e dinamica interna. Non importa che cosa egli voglia conoscere, se un oggetto fisico o un comportamento umano: qualunque realtà egli voglia conoscere, il suo operare sarà lo stesso, così come la stessa ne sarà l’origine: la percezione, l’esperienza di… Da qui il «Metodo Empirico Generalizzato», in cui la empiria non è riducibile alla mera sperimentazione (indefinitivamente ripetitiva nelle Scienze naturali), e la cui applicabilità non si limita a un solo campo, come Lonergan affermerà pervenendo alla definizione del metodo trascendentale[50].

Quanto illustrato sulla vera e propria alternativa/contrapposizione tra metodo e rigore non è tuttavia sufficiente a delineare in modo univoco l’estrema differenza tra la concezione classica e quella moderna di scientificità; occorre infatti esplicitare – per quanto in modo estremamente succinto – ulteriori alternative/contrapposizioni costitutive di tale irriducibilità: a) fondatezza vs. evidenza; b) procedimento vs. ragionamento; c) risultati vs. conclusioni; d) complessità vs. semplicità; e) funzione euristica vs. funzione ermeneutica.

Esaminiamole.

 

a) Innanzitutto la Scienza moderna non si accontenta delle evidenze neppure condivise, visto che era stato evidente per millenni che fosse il sole a girare intorno alla terra, e così anche le stelle[51]. Di fatto il così detto canone di Vincenzo di Lerin: «quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est»[52] se vale certamente per la Tradizione di fede della Chiesa – basata su di un annuncio ed un depositum, all’interno di una Traditio –, non vale altrettanto quale criterio di certezza gnoseologica (episteme) per il resto della realtà. Non di meno, contro l’evidenza quale fattore esterno (oggettivo ed indiscutibile) e pertanto elevabile a criterio di giudizio extra-individuale, si era già scagliato decisamente Cartesio, facendone, al contrario, una caratteristica del – solo – pensiero personale[53]. Non si trascuri neppure come, dalla Scolastica, l’evidenza fosse una caratteristica delle affermazioni come tali: una questione puramente proposizionale. È infatti l’affermazione nel proprio significato/contenuto – e non la realtà – ad essere evidente, riducendosi in tal modo a mera operazione intellettuale individuale (anche non condivisa).

    – La Scienza moderna, invece, indirizza i propri sforzi verso la fondatezza; verso, cioè, il supporto esterno delle affermazioni/proposizioni: un supporto concreto, immanente, sperimentale o esperienziale (la radice semantica è la stessa!), che comunque comporti un accesso a cose o fenomeni, non a sole affermazioni. La fondatezza non deriva da teoriche e solo immaginarie/ipotetiche tavole di verità ma da concrete tavole di presenza-assenza-graduazione (cf. F. Bacone) che supportino (portino/reggano su di sé) le affermazioni/proposizioni che si ri tengano scientifiche. L’evidenza nasce dal ragionamento, la fondatezza dall’esperienza.

b) L’introduzione del metodo al posto del rigore pone in luce anche la preminenza assoluta nella Scienza moderna del procedimento rispetto al ragionamento. Si tratta dello strumento o, se si preferisce, dell’itinerario attraverso cui si transita dall’introduzione di una questione alla sua soluzione: il flusso attraverso cui si passa dall’input all’output, dalla domanda alla risposta direbbe Lonergan. Nella Scienza moderna – orientata alla res extensa (ob jectum) – il primato gnoseologico è operativo: si comprende ed apprende sul campo attraverso le «sensate esperienze» di galileiana memoria. «Esperienze» e non pensieri; «sensate» in quanto intenzionali, organiche, strutturate, pertinenti, coerenti. Un procedimento che è concreto, fattuale, operativo, che fa cose, compie operazioni; un procedimento che in sé e per sé (in quanto struttura operativa) è l’anima stessa della Scienza moderna[54], indipendentemente dall’oggetto preso in considerazione.

    – Per contro, il ragionamento era – e rimane – qualcosa di completamente intellettuale, interno alla res cogitans stessa, certamente capace di rapporto con la realtà ma non ad esso necessitato, capace anche di operare con concetti e fattispecie puramente fittizi o irreali (come l’araba fenice o l’ippogrifo), senza potenziali limiti – né tanto meno controlli – poiché tutto l’immaginabile può esserne/diventarne oggetto[55].

c) La sostituzione del procedimento al ragionamento porta con sé anche la sostituzione delle conclusioni da parte dei risultati: un altro passo avanti che costituisce una cesura tranci ante tra scienza classica e Scienza moderna. Ciò che i diversi procedimenti mettono a disposizione del ricercatore/studioso sono dei risultati: nuove predicazioni funzionali – per quanto anche assolutamente parziali – che ampliano la caratterizzazione dei diversi oggetti di studio/ricerca. Predicazioni il cui contenuto è supportato/fondato da elementi esterni a ciascun singolo soggetto; elementi esterni ed in qualche modo pubblici: accessibili (potenzialmente) a chiunque e da chiunque verificabili nella loro fondatezza e tenuta.

    – La natura della conclusione, soprattutto sillogistica, era ben differente: date determinate premesse, assiomatiche o derivate, dalla loro concatenazione secondo predeterminati modelli inferenziali (analogia, allegoria, similitudine, deduzione, abduzione, ecc.) si giungeva alla chiusura (conclusione) del ragionamento attraverso una proposizione con pretesa veritativa, che estingueva in qualche modo l’istanza problematica originaria. Una conclusione che, nella maggior parte dei casi, risultava evidente – e quindi non ulteriormente problematica – per chi la poneva, e che invece risultava spesso incomprensibile o inaccettabile a chi disponesse di altro genere di evidenze.

d) Conseguenza quasi immediata, ed inevitabile, della sostituzione del procedimento al ragionamento è il subentro della “complessità” alla “semplicità”. Di fatto il mondo della conoscenza classica era popolato da una ridottissima quantità di elementi. Per quanto, infatti, ogni pensabile potesse esistere (ed esistesse pure!) o per quanto ogni razionale fosse reale, il numero di res che potevano concretamente popolare la mente umana (in balia delle deduzione) prima della Rivoluzione fisico-nucleare era comunque estremamente limitato rispetto a quanto popola oggi la conoscenza scientifica. Il mondo classico[56], in fondo, ed il modo di ragionare-conoscere al suo interno era un mondo chiuso, un vero e proprio “sistema”[57] più o meno perfettamente costruito “su” (o Il a partire da”) assiomi e principi, perfettamente delineati (e I conosciuti’): vere e proprie Geometrie, più o meno estese. E proprio in quanto/come Geometrie era caratterizzato da veri “trascendentali” (=condizioni di possibilità a priori) quali – in primis – il principio di non contraddizione ed il terzo escluso: veri escamotages intellettuali (in realtà “restrizioni mentali”) che permettevano di muoversi con tranquillità all’interno di un mondo che doveva essere il più sicuro possibile. Sicuro, non certo! Sicuro poiché definibile, definito e privo di incognite, di dubbi o di salti[58].

    – La Rivoluzione fisico-nucleare, da parte sua, ha infranto queste presupposizioni, dovendosi rendere conto che in realtà (quella vera, concreta, fattuale ... non quella idealistica!) il mondo “là fuori” (la res extensa) non funziona affatto secondo tali principi. Relatività, indeterminazione, incompletezza, quantistica, contraddicono in tutto l’approccio classico (meglio: intellettualistico, a-empirico). La relatività, infatti, supera d’impeto la non-contraddizione poiché massa ed energia sono reciprocamente convertibili e la stessa luce è contemporaneamente[59] sia onda che corpuscolo. L’indeterminazione vanifica il terzo escluso poiché non esiste necessità (ontica = un dover essere) che costringa una particella ad essere/stare in un determinato/determinabile luogo. L’incompletezza spezza qualunque sistema/orda poiché non tutte le proposizioni valide entro un sistema sono completamente giustificabili all’interno del sistema stesso. La struttura quantica della materia smentisce in natura ipsa l’assenza di salti.

e) Quinta alternativa/contrapposizione complementare rispetto a metodo vs. rigore è quella tra funzione euristica propria della Scienza moderna e funzione ermeneutica propria di quella classica; funzioni che potrebbero anche essere indicate come proiettiva-predittiva (utilitaristica) e causale-esplicativa (ontologica). L’evidente intenzione galileiana di non «tentare le essenze» ma di descrivere il funzionamento della realtà ha capovolto il “verso” dell’itinerario gnoseologico-scientifico moderno indirizzandolo dal presente al futuro così da poter in qualche modo interagire con la realtà servendosi delle sue stesse potenzialità (le così dette leggi di natura), per conseguirne benefici al momento indisponibili (si veda, in merito, la Tecnologia). Chiave di volta di questo procedere è l’individuazione delle regole di funzionamento delle diverse res extensæ via via oggetto d’indagine, ricerca e conoscenza. Regole che sono ben diverse dalle cause; regole che indicano il “come” conseguire un determinato obiettivo in base alle condizioni funzionali sufficienti affinché ad A segua – quasi – certamente B. Le regole, fondate sui risultati del procedimento, permettono così di costruire, nel vero senso del termine, res future sino ad allora inimmaginabili.

    – Al contrario lo scire per causas non permetteva che di scendere dal presente al passato della realtà (funzione esplicativa/ermeneutica) in quelle che, ad ogni effetto, non potevano che presentarsi come autentiche genealogie retrospettive da ciascun ens alla sua arche, da ciascun singulum al suo universale, senza tuttavia esser mai in grado di nulla dire – di realmente significativo – non solo sul futuro di tale ens/singulum, ma neppure sul suo presente, poiché la maggior parte delle infinite eventuali potenzialità intrinseche alla sua essenza – non essendo necessitate – non avrebbero alcuna garanzia di realizzarsi.

 

3. Il Metodo in Teologia come metodo scientifico

Dopo questi pur semplici cenni di introduzione alla problematica del metodo in ambito scientifico – generale ed ecclesiastico – negli ultimi cento cinquant’anni, non sarà difficile cogliere l’innovatività e la grandezza della proposta lonerganiana in merito[60], approcciata attraverso la sua opera metodologica per antonomasia: Method in Theology (dell’anno 1972; trad. italiana: 1975), alla quale si tenterà in queste brevi note un approccio critico in chiave di espressa epistemologia scientifica[61]: non prima tuttavia di alcune osservazioni e premesse che risultano necessarie per inquadrare adeguatamente l’opera del Gesuita canadese all’interno della tematica epistemologica come tale.

La maggior osservazione che è necessario fare, anche per rendere ragione (o almeno prendere atto) della scarsissima penetrazione del pensiero dell’ Autore – e della sua radicale ignoranza – nel mondo culturale contemporaneo, ecclesiastico e non, riguarda la sua collocazione di nicchia: fuori dalle vie ordinariamente battute tanto dagli studiosi laici che dagli ecclesiastici del secondo Novecento. Va infatti notato come il pensiero laico dell’epoca abbia sviluppato le problematiche connesse al metodo essenzialmente all’interno del campo delle Scienze e Discipline naturalistiche (Sciences), trovando confronto filosofico soprattutto con la Filosofia analitica nord-americana o con l’ambito latamente ermeneutico dell’Europa continentale (da Wittgenstein a Gadamer a Popper, per semplificare). La Teologia cattolica del dopo-guerra, per contro, fu dominata dall’influenza dell’impostazione dialettica barthiana e dalle varie rinascenze comunque sviluppatesi – di conseguenza o in relazione – nell’Europa centrale (Rahner, De Lubac, ecc.). In tale contesto: un ex docente ‘romano’ di formazione scolastica che a fine Concilio se ne torna in Nord America occupandosi prevalentemente di Gnoseologia, Educazione ed Economia[62], pur nella sua genialità come teologo dogmatico, non poteva trovare grande accoglienza, né in America (occupata in ben altro), né in Europa (pure orientata altrove). Solo chi lo aveva conosciuto proprio come docente di dogmatica all’Università Gregoriana manteneva accesa la fiammella dell’innovativo – e necessario – approccio metodologico da utilizzare prima di tutto in Teologia, senza disdegnarne una più ampia applicazione, accendendo altri lumi in molti ambiti delle Scienze ecclesiastiche ancora piuttosto tenebrosi[63].

È in questo contesto epistemologico generale del secondo Novecento che va collocato B. Lonergan come vero novatore di quel “piccolo mondo antico” che era ad ogni effetto la eburnea turris della Teologia cattolica preconciliare, comunque scolastica, almeno nei presupposti gnoseologici ed epistemologici (se questa categoria può essere pacificamente usata). Quanto, infatti, il teologo gesuita emerga e si distanzi dall’ originario contesto ecclesiastico, divenendone un acceso critico ed un vero innovato re, è questione puramente relativa al contesto stesso, mentre dal punto di vista epistemologico generale ci si confronta con la totale assenza della sua considerazione.

 

3.1 L’opera e le sue premesse

Una prima osservazione in qualche modo strutturale su Method in Theology va effettuata sulla qualificazione contenutistica della riflessione metodologica dell’Autore: una qualificazione per certi aspetti più gnoseologica che epistemologica, nonostante spesso il linguaggio epistemologico venga attivato a suo riguardo[64]. La dipendenza di Method in Theology da Insight[65] lo dimostra con certezza, benché si sia scritto che

 

«la questione metodologica [ ... ] doveva condurlo, per un’esigenza interna, a un ampio studio sulla conoscenza umana. Il problema del metodo infatti non è altro che il problema della possibilità e delle norme relative ai vari esercizi sistematici della conoscenza. Di qui la necessità di studiare la conoscenza stessa»[66].

 

Nella stessa direzione sembra muoversi anche la recezione del pensiero metodologico lonerganiano: non sono tanto i teologi (in quanto scienziati) quanto i filosofi (della conoscenza) ad occuparsi solitamente del pensiero del Gesuita canadese. Il presupposto di base della riflessione lonerganiana, l’attenzione alla appropriazione coscienziale, riguarda tuttavia sia la Scienza come conoscenza, sia la Scienza come ricerca. A Lonergan, infatti, interessa dapprima come l’uomo arrivi a conoscere (a questo è dedicata l’opera Insight[67]) e in seguito come egli debba concretamente effettuare la sua ricerca[68]. Per quanto non scindibili, le due attività sono e rimangono distinte e distinguibili: conoscere e ricercare non sono la stessa cosa, così come non lo sono conoscenza e Scienza.

L’approccio testuale a Method in Theology mette in risalto come, pur parlando espressamente di metodo e pur riferendosi concretamente ad uno specifico metodo, l’opera di Lonergan ha più le caratteristiche di un’analisi fenomenologica di quanto accade con le specializzazioni funzionali piuttosto che di una Epistemologia scientifica vera e propria. Il suo interesse di fondo non è tanto rivolto alle cose particolari da studiare né alle dirette modalità per farlo, ma a ciò che dovrebbe accadere nello studioso che si organizza a partire da sé conoscente, e ciò lo impegna ben prima dell’ oggetto da conoscere.

Questa, però, costituisce la vera innovazione metodologica di Lonergan in campo ecclesiastico: il distacco da una scienza sterilmente oggettuale poiché costretta alla immutabilità dell’eterno ed alla stabilità degli universali. La Scienza per Lonergan non è più ricognizione ed esplicitazione dell’universale – già dato e conosciuto per causas[69] – ma concreta attività cognitiva personale, poiché non si riduce al mero possesso finale di informazioni, anche su Dio, ma coincide col comprendere (prendere/tenere insieme) e questo anche – e forse soprattutto – in campo teologico. Un comprendere che – ben oltre la Neo-scolastica – si distacca da quella Filosofia quale primo re ferente e fonte eterna di dati/informazioni (certi perché universali/rivelati) e inizia ad esplorare lo spazio teologico cristiano a partire dalle sue vere sorgenti, in primis l’esperienza biblico-evangelica, per poi proseguire con la storia della Teologia, come fece Lonergan stesso con gli studi su S. Tommaso[70].

Con Method in Theology, non di meno, Lonergan, dopo aver indagato in Insight l’apprensione e la comprensione umana prioritariamente in chiave cognitiva, mettendone in luce le principali e strutturali caratteristiche, ha dedicato attenzione al passo successivo della conoscenza umana, quello che si realizza in qualche modo all’esterno (se è possibile dirlo in questi termini) dell’uomo stesso: il metodo per organizzare le sue conoscenze.

In questo modo si potrebbe quasi dire che Lonergan abbia seguito in qualche misura Dilthey studiando il funzionamento concreto dello spirito umano – inteso tuttavia come mente – per poi ricondurlo al necessario rapporto con la realtà alla quale, non di meno, lo spirito umano stesso appartiene, ma non in modo dialettico[71]. Ciò che per Dilthey (e gli idealisti in genere) avviene all’interno della sola mente umana attraverso le dinamiche proprie del Geist, per Lonergan, invece, avviene coinvolgendo tutto l’uomo a partire dalla sua percezione sensoriale. È qui che prende corpo e si sviluppa il metodo. Diversamente dai filosofi della Modernità – tedeschi e non-cattolici –, Lonergan, forte della base teologica cattolica, non accetta la contrapposizione tra natura e spirito (umano), ma reinserisce l’uomo e l’umano nell’unica realtà frantumata dal kantismo.

In Lonergan la fenomenologia dello spirito umano (da Kant a Dilthey) diventa così fenomenologia del soggetto umano (come già in Husserl[72]), offrendo la possibilità d’investigare prima di tutto la mente e la coscienza, evidenziando soprattutto le funzioni e caratteristiche dell’intelletto cosciente, non solo il Geist. Un intelletto cosciente, come quello familiare a S. Tommaso ed alla Scolastica medievale e non un intelletto volente come quello di Suarez e delle Scolastiche successive (Seconda in particolare). Diventa facile in tal modo il passaggio dalla fenomenologia del soggetto umano alla Gnoseologia e quindi alla Epistemologia attraverso la tematica – trasversale – del come concretamente si conosce, del come concretamente si formano nel soggetto le sue specifiche conoscenze e la sua più complessa conoscenza: realistica[73], unitaria, integrata, responsabile.

In questa sua riflessione critica sulla Modernità, però, Lonergan non soltanto coglie e disinnesca il presupposto duale kantiano e quello dialettico hegeliano con le loro analisi dei fenomeni (intrinsecamente contrarie alla Scienza moderna come tale[74]) ma si confronta – molto più proficuamente – col vero problema già posto da Cartesio alla base della Scientia nova e non ancora risolto dopo quattro secoli: le due facce della realtà, quella cogitans[75] e quella extensa, il soggetto (non lo spirito) e l’oggetto (non il mero fenomeno che semplicisticamente appare). Per Lonergan la realtà non solo contiene l’uomo ma essa gli si pone anche innanzi, lo sollecita (in quanto cogitans) ad appropriarsi tanto di sé quanto di ciò che è e rimane diverso da sé, e che non può essere introiettato – come gli universali (innati o acquisiti) – ma gli rimane sempre “ob jectum” (cioè res extensa). A tal proposito – contro ogni superficiale relativismo imputato a Cartesio – è necessario non continuare a trascurare come nel suo pensiero il cogito appartenga all’ ordine/dominio della certezza (episteme, Scientia)[76] e ne sia la base irrinunciabile: la prima e fondamentale delle certezze. Pertanto né doxa opinio. Il cogito, come tale, va riconosciuto nel suo radicale essere operatio (per dirla col linguaggio di Lonergan): attività conscia del soggetto conoscente[77].

Proprio con Cartesio va rilevata in Lonergan una sorprendente prossimità di vedute circa il funzionamento della conoscenza certa della realtà (episteme)[78], Cartesio, d’altra parte, prima di essere identificato come l’esecrando padre di ogni bruttura della Modernità idealistica[79], era stato il precursore della attenzione ai fenomeni attraverso la sua volontà di indagare ed illustrare come funziona la comprensione della realtà, attuata con efficacia, secondo i presupposti non-classici[80]. Ma era stata proprio la riflessione di Cartesio sul metodo a predisporre un embrionale metodo trascendentale per l’ambito non-metafisico[81], un metodo poi stravolto da Leibniz (1646-1716) con la sua matematizzazione e calcolo universali, che ben presto tagliarono fuori dal concetto stesso di Scienza tutte le Discipline antropologiche, poiché non matematizzabili, aprendo così a Dilthey. Per questo Cartesio, invece, andrebbe considerato il padre della trascendentalità del metodo poiché fu il primo a passare veramente dalla catena delle causa? (metafisiche) alla riflessione critica su quanto concretamente osservato, compreso e condiviso.

Lonergan integrerà questo approccio dando corpo e consapevolezza a queste intuizioni e strutturando un vero e proprio metodo che non riguarda la catena inferenziale tra le cause, ma l’attività consapevole del soggetto conoscente che ridiventa protagonista della conoscenza e della Scienza. Ben diversamente dai classici che si erano accontentati del solo rigore.

 

3.2 Il titolo dell’opera

Lo spazio di trattazione che Lonergan ha dedicato espressamente al metodo in sé e per sé (quello che potremmo definire l’approccio epistemologico vero e proprio) non è stato molto ampio: il suo riferimento al metodo è stato piuttosto lo sviluppo di Insight che lo ha accompagnato fedelmente, riemergendo spesso ‘dietro’ e ‘tra’ le tematiche più specifiche, via via trattate in profondità. Per Lonergan il metodo non è stato tanto una questione da trattare (com’era stato invece per Cartesio) ma una pratica da attuare: un vero pre-supposto – operativo anziché teoretico – sempre presente in ogni sua riflessione.

L’opera Method in Theology lo dimostra in modo chiaro ponendo l’accento non tanto sul metodo come tale, ma sul lavoro teologico svolto con metodo e non più con solo rigore. Si permetta in proposito di osservare come il significato contenutistico del titolo originario dell’ opera lo metta in molto maggior evidenza che non alcune sue traduzioni in altre lingue. Method in Theology, infatti, lascia capire bene che l’oggetto della trattazione è la Teologia svolta con metodo; il titolo dell’edizione italiana – invece – , Il metodo in Teologia, sposta decisamente sul metodo come tale[82] l’accento contenutistico dell’opera, enfatizzando una specifica interpretazione del pensiero dell’autore.

Le formulazioni dello stesso titolo nelle diverse traduzioni sono eloquenti in merito:

Metoda w Teologii, Warszawa, 1976;

Pour une méihode en Théologie, Paris, 1978;

Método en Teologia, Salamanca, 1988;

Methode in del’ Theologie, Leipzig, 1991;

Método em Teologia, Sào Paulo, 2013.

 

Il problema non è linguistico ma logico. Si tratta di una questione espressamente proposizionale: Inglese, Spagnolo, Tedesco, Polacco e Portoghese – prive di articolo determinativo iniziale – lasciano capire benissimo che l’opera lonerganiana tratta essenzialmente di Teologia, per quanto in chiave metodo logica; il linguaggio scolastico direbbe che l’obiectum formale quod è la Teologia, il formale quo è il metodo. Il titolo italiano, per contro, inverte i rapporti di forza: tema appare «il metodo», trattato in riferimento alla Teologia; anche il francese, per quanto attenui un po’ tale indirizzo attraverso l’uso di un articolo indeterminativo (“une”), centra espressamente il fuoco tematico sul metodo[83].

Né deve trarre in inganno in proposito quanto lo stesso Lonergan scrive al termine della sua «Introduzione» all’opera: «scrivo non di Teologia, ma sul metodo della Teologia»[84]. Il suo dire che non scrive «di Teologia» significa in concreto che non svolgerà tematiche teologiche quanto a contenuti: «ciò di cui mi occupo non sono gli oggetti spiegati dai teologi, ma le operazioni che i teologi compiono»[85]... o dovrebbero imparare a compiere.

Di fatto il suo indirizzarsi al metodo è assolutamente funzionale alla sola Teologia; le «specializzazioni funzionali» proposte sono infatti espressamente indirizzate alla Teologia e non direttamente ascrivibili né esportabili ad altre Discipline scientifiche umanistiche. Esse, di fatto, implementano – come in realtà tutto il volume –lo specifico “metodo categoriale” che Lonergan propone per tale Scienza e gode di un’altra specificazione della dimensione trascendentale rispetto al «Metodo Empirico Generalizzato»[86] come tale. Non per nulla proprio la stessa Introduzione all’opera inizia con le parole «la Teologia»[87]: è questa che gli interessa rinnovare e rimettere in strada in modo plausibile e realistico dopo la parentesi (anti)modernista. Il metodo è solo lo strumento per assicurare il «successo» di tale attività (v. infra).

 

 

3.3 Capitolo primo. Il metodo

Nel ‘cappello’ iniziale, prima della trattazione tripartita del metodo[88], Lonergan pone un’evidente insistenza su di un termine – in realtà un concetto – piuttosto estraneo alle prospettive latamente umanistiche: il «successo». Il termine ricorre quattro volte in poche righe ad indicare qualcosa che la scienza/conoscenza classica non pare aver mai considerato (né conseguito!), ed appare invece come il criterio della scientificità moderna con cui Lonergan intende di fatto confrontarsi. Una scelta non scontata ma certamente consapevole e chiara, se l’autore giunge ad affermare che «ci rifaremo alle Scienze che hanno avuto maggior successo, al fine di formarci una nozione preliminare di metodo»[89] e tali Scienze di successo sono quelle «naturali», a detta dello stesso autore. Un successo che Lonergan non spiega né illustra ma che è chiaro doversi intendere come efficacia gnoseologica: le Scienze moderne (di fatto quelle della natura) hanno avuto successo poiché hanno permesso di aumentare la reale ed effettiva conoscenza della realtà naturale, cosa chiaramente non accaduta nelle «Discipline accademiche»[90] come la Filosofia e la stessa Teologia per la quale Lonergan si pone proprio il problema dell’attuale e reale scientificità.

Vi sono tre pagine dedicate alla «Nozione preliminare» (di metodo)[91] che costituiscono il fulcro della riflessione lonerganiana sul metodo come tale: l’unica fondamentalmente epistemologica.

È qui che si trova la celebre definizione di metodo come «schema normativo di operazioni ricorrenti e connesse che danno risultati cumulativi e progressivi»[92]. Definizione tuttavia immediatamente ridimensionata nelle proprie pretese e promesse attraverso tre osservazioni[93]:

– le regole non bastano a se stesse né portano comunque risultati, semplicemente aprono spazi di maggiore probabilità statistica;

– il metodo non è «un insieme di regole» ma uno « schema di operazioni previo e normativo»:

– il metodo raggruppa e coordina insieme operazioni logiche e non logiche, diversamente, tanto da Aristotele che da Hegel.

Con la trattazione dello «Schema fondamentale delle operazioni»[94] va riconosciuta la coniugazione dalla prospettiva epistemologica con la sua espressione di tipo fenomenologico. In questa prospettiva Lonergan elenca le caratteristiche delle otto operazioni che la mente del ricercatore attua:

– sono transitive (=hanno oggetti),

– sono soggettive (=sono compiute da qualcuno in modo conscio),

– oggettivano contenuti di coscienza,

– avvengono su quattro livelli di coscienza (empirico, intellettuale, razionale, responsabile),

– producono intendimenti diversi (categoriali e/o trascendentali),

– riguardano oggetti semplici o complessi,

– portano dai dati al bene (attraverso l’intelligibile ed il vero),

– sono dinamiche.

La trattazione del Metodo trascendentale[95] propone gli elementi epistemologici attraverso una fenomenologia del soggetto, una fenomenologia normativa, che non de-scrive cosa/come accade ma pre-scrive cosa/come dev’essere fatto dal soggetto che svolge attività scientifica. Egli, secondo i quattro livelli di coscienza ed intenzionalità: empirica, intellettuale, razionale, responsabile[96], deve sperimentare, capire, affermare, decidere[97]. L’estrema concretezza dell’ Autore e la sua reazione al precedente intellettualismo pre-scientifico lo porta però ad esplicitare il dubbio circa il reale verificarsi e la reale articolazione di queste operazioni che – tuttavia precisa bene – non sono invenzioni intellettualistiche ma esistono in quanto consce e razionali, come già aveva indicato quindici anni prima in Insight[98].

Lonergan passa poi alle «Funzioni del metodo trascendentale»[99], la cui descrizione – ancora – è epistemologico-generale. Esse sono dodici, indicate con titoli soprattutto evocativi, che rimangono su una certa generalità, essendo privi di illustrazioni o di rinvii a effettivi contenuti.

Alle prime sette funzioni: normativa, critica, dialettica, sistematica, continuativa, euristica, fondante[100] ne seguono altre cinque, più prossime ad affermazioni di principio:

– il Metodo trascendentale ha attinenza con la Teologia;

– gli oggetti teologici non giacciono fuori del campo trascendentale;

– il Metodo trascendentale non aggiunge nulla alla Teologia ma la rende più precisa;

– il Metodo trascendentale è una chiave per l’unificazione della Scienza;

– il Metodo trascendentale non introduce nella Teologia elementi estranei, come invece la vecchia Filosofia scolastica.

 

Conclusivamente: il Metodo trascendentale è una parte del metodo teologico a cui fornisce la componente antropologica di base (in fondo il “soggetto”); quella componente che era rimasta fino ad allora sostanzialmente esclusa dall’approccio intellettualistico delle precedenti metodologie teologiche, per le quali il soggetto non era l’autore della (propria) conoscenza della realtà ma il destinatario di informazioni a suo riguardo.

Nell’orizzonte della divaricazione delle due culture e dei due corrispondenti mondi scientifici/disciplinari – non meno che in quello diltheyano ed in quello neoscolastico – Lonergan percepisce con chiarezza che uno di essi è palesemente «rimasto indietro»[101] e si tratta proprio di quello umanistico, cui appartengono sia la Filosofia che la Teologia. Ago della bilancia in tale comparazione – o, se si vuole, contrappeso – è il successo delle Scienze naturalistiche, che proviene esattamente dal metodo da esse utilizzato[102]. Secondo Lonergan le cose cambieranno quando anche le discipline umanistiche applicheranno metodi …e metodi adeguati[103]. Metodi che, come quelli delle Scienze naturali, tengano conto dell’intera struttura coscienziale e gnoseologica umana, partendo dall’esperienza del reale e non approcciandolo solo in modo intellettuale, in linea di principii.

È in quest’ottica che si può prendere atto di come, in fondo, Lonergan non faccia altro che scendere di un livello di «coscienza ed intenzionalità»[104] rispetto all’approccio scolastico tradizionale/classico per raggiunge l’empiricità, che diventa la sua nuova base di partenza cognitiva ed epistemologica.

Il teologo-filosofo fa così la scoperta (illusoria ed ingenua) dei dati, che lo scienziato sa non esistere affatto[105]. Ma in questo modo – nonostante tutto – egli esce dal semplicistico realismo gnoseologico (classico) per assumere quello critico moderno[106]: è questo il vero crinale, la svolta (rivoluzione o conversione che dir si voglia) decisiva ed innovatoria rispetto alla completa ignoranza della concretezza del reale da parte della Filosofia classica e scolastica che si era sempre posta allivello intellettuale, fatto – soltanto – di principii e rigorose deduzioni[107].

Che il teologo in quanto “scienziato” cerchi – e debba cercare – dati anziché principii costituisce la vera acquisizione lonerganiana in campo epistemologico ecclesiastico: il punto di non ritorno, la rivoluzione copernicana. Tutto il resto (anche il non detto e il detto ‘male’ dall’autore stesso) vale in relazione e/o dipendenza da questa nuova consapevolezza! E potrebbe anche esser tralasciato.

 

3.4 Capitolo quinto. Le specializzazioni funzionali

Quanto già evidenziato circa la coscienza del metodo più che il metodo stesso (v. supra) risalta nell’apertura del Capitolo quinto di Method in Theology: «introdurre il metodo in Teologia significa concepire la Teologia come un insieme di operazioni connesse tra di loro e ricorrenti le quali avanzano verso una meta ideale in maniera cumulativa»[108]; una definizione sostanziale di Teologia che coincide di fatto con quella stessa di metodo[109]. Ne deriva una sorta di descrizione della Teologia (e non del metodo) sul crinale tra un passato inefficace (privo di successo) ed un futuro che s’intende preparare ad altri esiti. Punto di partenza è la constatazione che «la Teologia contemporanea è specializzata[110] per cui si deve procedere per «distinzioni».

La prima distinzione riguarda i «Tre tipi di specializzazione»[111] della Teologia dal punto di vista del suo studio: 1) specializzazione del campo secondo i «dati pertinenti» (S. Scrittura, Patristica, Medioevo, Riforma, ecc. ad indicare le diverse Discipline tecniche di cui si compongono o in cui si suddividono gli studi teologici); 2) specializzazione del dipartimento/soggetto secondo i «risultati delle indagini» (in fondo: le macro tematiche teologiche che convergono poi nei diversi Trattati dogmatici); 3) specializzazione funzionale «che distingue e separa gli stadi successivi del processo che va dai dati ai risultati»[112].

Data la natura operativa della specializzazione funzionale, l’attenzione dell’autore si concentra su di essa, al fine di metterne in risalto la dimensione di processo e le interconnessioni ed interdipendenze con le altre due specializzazioni. Ed è questa la vera particolarità del pensiero teologico dell’autore.

La «divisione in otto parti»[113] s’identifica con le

 

«otto specializzazioni funzionali in Teologia, e cioè (1) la ricerca, (2) l’interpretazione, (3) la storia, (4) la dialettica, (5) la fondazione, (6) la dottrina, (7) la sistematica, (8) la comunicazione»,

 

ciascuna delle quali offre alla ricerca e comprensione teologica qualcosa di assolutamente specifico e complementare. Come già per le dodici funzioni del metodo trascendentale però (v. supra), all’iniziale ed apparente intuitività dell’elencazione delle specializzazioni funzionali non segue altrettanta chiarezza nella loro illustrazione specifica[114], soprattutto dal punto di vista applicativo-metodologico.

La ricerca mette a disposizione i dati pertinenti all’indagine teologica: ciò che è stato scritto; l’interpretazione capisce ciò che si è voluto dire. La storia (di base, speciale o generale) s’interessa alle dottrine della Teologia cristiana con le loro premesse e conseguenze culturali e istituzionali tanto ad intra che ad extra Ecclesiæ, fornendo così materiale alla dialettica affinché – attraverso il contraddittorio – essa miri ad una visione comprensiva dell’intera esperienza teologica che, nel confronto critico delle diverse posizioni e ragioni,

 

«mette in luce dove esattamente le differenze sono irriducibili, dove sono complementari e dove potrebbero essere conciliate [ ... ] dove infine possono essere considerate come stadi successivi entro un unico processo di sviluppo»[115].

 

Inoltre la conversione, di cui s’interessa la Teologia, riguarda la vita concreta e pertanto dev’essere «tematizzata ed oggettivata esplicitamente» facendo emergere la fondazione che, di fatto, non propone dottrine a priori; infatti «la fondazione presenta non delle dottrine, bensì l’orizzonte entro il quale è possibile cogliere il significato delle dottrine»[116]. Lonergan poi aggiunge che le dottrine, a loro volta,

 

«esprimono giudizi di fatto e giudizi di valore a partire dalla dialettica, la loro ricchezza espositiva di chiarificazione e sviluppo a partire dalla storia, il loro fondamento nell’interpretazione dei dati propri della Teologia»[117].

 

Ne deriva la necessità di approfondire ed esprimere in modo chiaro ed appropriato l’espressione dottrinale attraverso un’adeguata e coerente sistematica che sia in grado di generare un’efficace comunicazione dell’impresa teologica, tanto a livello interdisciplinare che di trasposizione socio-culturale che di adattamenti necessari ai diversi mezzi di comunicazione disponibili.

Dopo aver presentato le specializzazioni funzionali, Lonergan motiva «I fondamenti della divisione» che le ha generate[118] indicandone i due principi: a) le due «fasi fondamentali delle operazioni teologiche», b) i quattro livelli delle «operazioni» consce ed intenzionali, la cui combinazione genererebbe proprio le otto specializzazioni.

Poiché le due fasi fondamentali delle operazioni teologiche coincidono con due modi fondamentali di fare Teologia: in oratione obliqua (riportando quanto altri hanno detto sul tema) e in oratione recta (cimentandosi di persona ad esprimere oggi la stessa fede), ed ogni operazione ad ogni livello persegue un risultato ed un fine proprio,

 

«ne consegue che la struttura stessa dell’indagine umana ha come risultato quattro specializzazioni funzionali e, siccome in Teologia ci sono due fasi distinte, siamo condotti ad attenderci otto specializzazioni funzionali in Teologia. Nella prima fase della Teologia in oratione obliqua ci sono la ricerca, l’interpretazione, la storia e la dialettica. Nella seconda fase della Teologia in oratione recta ci sono la fondazione, le dottrine, la sistematica e la comunicazione»[119].

 

Tra gli elementi sostanziali cui Lonergan dedica larga parte della propria attenzione più espressamente metodologica – ma in realtà coscienziale – si trova «La necessità della divisione»[120] ed è questa che, in realtà, costituisce la vera essenza e la novità della sua proposta metodologica: di fatto “metodo” significa (sud)divisione di livelli, di operazioni, di specializzazioni. In tale prospettiva:

a) le specializzazioni funzionali servono ad impedire che vengano confusi compiti diversi in base alle diverse finalità dei diversi livelli coscienziali e, subordinatamente, operativi;

b) le specializzazioni funzionali permettono di giungere ad idee chiare e distinte circa la specifica finalità del proprio ricercare su elementi sempre e solo specifici all’interno dell’ orizzonte cumulativo finale;

c) la divisione delle competenze specifiche impedirà i totalitarismi e le unilateralità che hanno appesantito (e sviato) molta Teologia dal Medioevo in poi.

Il cumulo e la complessa articolazione di distinzioni e divisioni messe in campo dall’ Autore quale nuovo metodo teologico lo portano a cogliere un’istanza – ed obiezione – irrinunciabile di unità/identità della Teologia stessa che in tal modo, rispetto al monolite neo-scolastico, appare invece completamente articolata e privata di qualsiasi rigidità. La proposta lonerganiana è quella di «Un’unità dinamica»[121] anziché statica: «l’unità di un soggetto in processo di sviluppo» anziché la «perfezione dell’immobilità completa [ ... ] di termini fissi, di assiomi formulati in maniera accurata e immutabile, di una deduzione assolutamente rigorosa di tutte le conclusioni possibili»[122] …ma vistosamente priva di ogni “successo”! Seguono poche pagine dense di questioni relative alla storia del dogma cattolico e della Teologia[123] volte a legittimare distinzioni e separazioni e loro connessioni dinamiche, nell’intento di superare l’angusta – ed inefficace – struttura della «relazione logica di premessa a conclusione, di particolare a universale, o di qualcosa del genere»[124] per proporre un sistema progressivo, cumulativo ed aperto in cui “tout se tient ed anche le due fasi della Teologia (obliqua e recta) si reinnescano vicendevolmente. Sulla fatica teoretica di queste poche pagine si dovrà tornare più oltre.

La prospettiva che ne risulta è chiaramente opposta a quella stratificata e consolidata nella Teologia scolastica in genere. Soprattutto va evidenziato come attraverso queste necessarie divisioni – che in effetti costituiscono il cuore del metodo stesso proposto dall’autore – si contraddica radicalmente il principio vetero-epistemologico secondo cui de singulis non est scientia, base unica ed incontroversa dell’impostazione gnoseologica classica, anche di S. Tommaso! Impostazione in cui Lonergan individua la debolezza d’essere (stata) solo espressione della specializzazione del soggetto[125] che, basandosi sulla divisione aristotelica delle scienze secondo il loro oggetto formale (quale però? Qua o quod?), definiva la Teologia come scientia de Dea et de divinis, non permettendo di effettuare al suo interno troppe ulteriori distinzioni. Questo d’altra parte (ma non è Lonergan a dirlo) va compreso all’interno del sistema scolastico che vedeva la Teologia come la summa scientia[126], la domina scientiarum: vertice e somma di ogni conoscenza possibile e necessaria, dalla quale tutte le altre Scienze e Discipline dovevano trarre i propri presupposti (oltre che le proprie conclusioni), pena il fantasma del relativismo e della frammentazione del sapere.

 

3.5 Il significato dell’apporto lonerganiano

Contro gli ultimi araldi (e fantasmi) neoscolastici ed antimodernisti, Lonergan aveva già capito alla metà del XX secolo che era ormai necessario passare da una Teologia filosofica ad una Teologia scientifica, tralasciando gli assiomi e ripartendo dai dati, com’era ormai in modo irrinunciabile per tutte le Scienze di successo.

In fondo Lonergan aveva capito che la Teologia sarebbe stata Scienza solo se e quando si fosse dotata di un metodo, senza accontentarsi del solo rigore delle proprie deduzioni e conclusioni. Non di meno questa sua coscienza risulta ben più ampia della sola Teologia propriamente detta (il livello categoriale), dovendosi estendere a tutte le Scienze e Discipline ecclesiastiche (il livello trascendentale), connesse cioè allo studio della Teologia ed anche svolte alla luce della Teologia stessa[127]: tutte quelle, in fondo, che avevano polarizzato l’attenzione scolastica in campo ecclesiastico cattolico. È per tutte queste che la coscienza lonerganiana del metodo costituisce una vera e propria rivoluzione scientifica ad ampio raggio rispetto al sistema precedente. Le specializzazioni funzionali, per parte loro, sono lo strumento per ovviare all’indifferenziato intellettualismo scolastico privo di successo.

Ciò detto a riguardo della sua percezione o consapevolezza del metodo – e della sua stessa idea – va riconosciuto, tuttavia, come in effetti un vero metodo (anche solo categoriale) per la Teologia non risulti tecnicamente evincibile né schematizzabile dall’ opera pur ad esso dedicata. Quelle di Lonergan, infatti, sono (prevalentemente) idee, attenzioni, sensibilità, sollecitazioni, ma “quali” e soprattutto “come” siano e si realizzino concretamente le attività da lui indicate e proposte in linea teorico-programmatica come “operazioni”[128] non risulta affatto chiaro. La Parte seconda di Method in Theology infatti, pur intitolata «Esecuzione», non ne presenta alcuna caratteristica tipica, riducendo addirittura l’intera «ricerca» (la prima delle specializzazioni funzionali) a due pagine soltanto di trattazione[129].

Nell’intenzione e nelle pagine di Lonergan è chiaro, invece, che cosa deve stare nella mente del ricercatore (in realtà: del teologo) quasi a strutturarne la possibilità stessa di fare ricerca: è questo il vero trascendentale che rende possibile tutto il resto. Dal punto di vista tecnico, infatti, Method in Theology descrive molto maggiormente la necessità ed i vantaggi dell’avere “un” metodo dotato di determinate caratteristiche (quelle appunto indicate e descritte nell’opera) che non il metodo vero e proprio nella sua concreta, particolare articolazione. La trascendentalità del metodo a cui Lonergan fa riferimento esprime proprio questo, al punto che, anziché di metodo trascendentale, sarebbe forse meglio parlare di “trascendentali del metodo”. Di qui – forse – la correttezza sostanziale del titolo della traduzione francese dell’ opera: “Pour une méthode en Théologie”, a sollecitare l’importanza (=pour) del metodo prima che il metodo stesso (v. supra).

Non si possono tuttavia concludere queste note e riflessioni sull’opera metodologica di B. Lonergan senza rilevare come – in realtà – nonostante la portata e decisività della sua coscienza del metodo, egli abbia dovuto dedicare la maggior parte del proprio sforzo teoretico non tanto al metodo come tale ed alla sua puntuale messa a fuoco ed esposizione – cosa di fatto non realizzata (appieno) – ma alla sua legittimazione previa contro l’Epistemologia ecclesiastica imperante (v. supra). La questione emerge palesemente nell’ultima funzione del Metodo trascendentale[130], laddove si afferma espressamente la necessità di superare il presupposto della Philosophia ancilla Theologiæ: un affronto totale al sistema neo-scolastico preconciliare che si stava difendendo in ogni modo dalla propria defenestrazione ed imponeva ai novatores lo sforzo immane di seppellirlo sotto una tale quantità di elementa, argumenta, evidentiæ …da non lasciar loro tempo per proporre finalmente il “nuovo”. Le quasi 800 pagine di Insight e la quindicina d’anni intercorsi fino a Method in Theology lo dimostrano pienamente.

Dal punto di vista epistemologico, però, una rivoluzione scientifica non funziona per sommersione del passato ma per suo superamento: non si tratta di colmare un lago fino a spianarlo completamente ma di realizzare un foro nell’argine che lo trattiene ... un po’ di pazienza e la forza stessa della realtà farà saltare l’intero argine senza che si possa dire “chi” sia stato a far cotanto disastro! Ma quel lago – ormai – non esisterà più!

A ciò si unisca il fatto che chi, come Lonergan, ha cercato di operare un passaggio soft, senza fomentare rivoluzioni, ha pagato costi operativi più alti: così è stato di tutti quelli che, per esempio, hanno voluto ricollegarsi (salvandolo) all’autentico S. Tommaso, al di là delle varie Scolastiche; percorso che ha quasi sfiancato tali autori senza tuttavia riuscire a convincere sufficientemente i colleghi, rimasti saldamente ancorati all’impostazione scolastica[131].

 

4. Verso una nuova metodologia scientifico-umanistica

L’ultima parte della tematica assegnata alla presente riflessione mi permette di condividere in questa sede un concreto indirizzo metodologico che, pur non lonerganiano nella sua origine e fondazione più remote[132], risulta però di estrema coerenza col pensiero del Gesuita canadese e – soprattutto – proprio dal confronto con tale pensiero globalmente assunto trova non solo una sostanziale legittimazione in campo ecclesiastico ma anche una vera e propria “corroborazione” dal punto di vista epistemologico generale.

Si tratta di un concreto indirizzo scientifico applicabile (e già applicato con efficacia[133]) alla ricerca canonistica; un indirizzo che con l’introduzione di qualche specifica specializzazione funzionale può convenientemente essere applicato con efficacia all’intero ambito umanistico. Si tratta del Paradigma critico-induttivo, già sommariamente esposto nel decennio scorso per la Canonistica[134] ed ultimamente complementato con un vero e proprio vademecum operativo di respiro interdisciplinare[135]. Un paradigma e non un metodo poiché di portata sostanzialmente trascendentale, che ciascuna Disciplina umanistica dovrà poi tradurre e rendere operativo in un proprio specifico metodo categoriale critico-induttivo.

 

4.1 La prospettiva di riferimento

Prima d’illustrare l’impianto generale del Paradigma critico-induttivo quale indirizzo scientifico trascendentale in ambito umanistico, è necessario individuare con chiarezza che cosa – oggi – sia Scienza in senso proprio, visto che tutto il resto dipende da questo. Senza disperdersi nell’immenso ginepraio epistemologico, basterà qui considerare che le Scienze moderne, sinteticamente, si caratterizzano per quattro elementi costitutivi, al di là e ben prima di qualsiasi ulteriore specificazione dell’oggetto di studio: a) cognitività, b) linguaggio, c) dominio/estensione, d) procedimento scientifico, rispondendo così a tre requisiti minimi di scientificità ormai assodati come specifici ed irrinunciabili anche in campo – addirittura – teologico: proposizione, coerenza, verificabilità[136].

a) L’obiettivo della Scienza moderna è porre affermazioni cognitive circa la realtà: affermazioni che amplino la conoscenza umana come tale, affermando attributi/predicati – e dunque caratteristiche/proprietà almeno funzionali – degli oggetti di studio. Ciò condiziona in modo radicale il concetto stesso di ricerca scientifica: non è tale, infatti, quella che non porti nessun risultato gnoseologicamente integrativo (e di sviluppo/progresso) delle conoscenze già acquisite dall’umanità.

b) La necessità di porre – solo – affermazioni cognitive impone una rigorosa formalizzazione del linguaggio[137] così da affermare sempre – e solo – ciò (il minimo) di cui si abbia ragionevole certezza. Specificamente per l’ambito umanistico K. Popper parlò di «essenzialismo metodologico»[138] per indicare la necessità di utilizzare veri sostantivi e non semplici nomi, in modo da esprimere elementi di verità proprio nella corrispondenza tra la res de qua (agitur) e la sua concettualizzazione intellettiva: adæquatio rei [obiecti] et intellectus.

c) La Scienza moderna non tratta della realtà come tale (nel suo insieme e nei suoi presupposti/principi/cause) ma di sue specifiche delimitazioni circoscrivibili e circoscritte (dominio/estensione[139]) in modo da poterne fare ragionevoli e fondate affermazioni cognitive. È pertanto necessario individuare e delimitare perfettamente l’oggetto di studio così da applicargli tecniche di analisi e di verifica che ne permettano un’adeguata delineazione.

d) La Scienza moderna s’identifica di fatto col procedimento scientifico, quale articolazione della ricerca secondo specifiche fasi che vanno dall’osservazione, all’analisi, all’ipotesi, alla verifica, alla rappresentazione proiettiva. La scientificità non riguarda né i contenuti della conoscenza né le sue forme espressive, ma il “modo” in cui i contenuti vengono portati alla luce partendo dall’esperienza e il “modo” di relazionarli ed interconnetterli tra loro fino ad averne una visione organica che renda sufficiente ragione tanto di sé che dell’insieme. Base del procedimento scientifico (moderno) è il nucleo ipotetico-verificativo che ne costituisce la vera differenza rispetto a qualunque altro modo di leggere la realtà.

 

Cognitività, linguaggio, dominio, procedimento, realizzano di fatto i così detti postulati minimi di scientificità[140] il cui compito è quello di garantire in modo strutturale, la possibilità – prim’ancora che la correttezza – dell’elaborazione scientifica e dei suoi risultati:

– il postulato di proposizione riguarda la possibilità/necessità che le proposizioni affermino “qualcosa” su un evento/fenomeno e ne proclamino la verità, cioè l’adeguazione a ciò che costituisce l’oggetto dell’ asserzione[141];

– il postulato di coerenza impone che le asserzioni cognitive si mantengano all’interno del campo unitario di l/oggetti” reali e loro referenti linguistici che appartengono o fanno capo allo stesso domino/estensione;

– il postulato di controllabilità coincide col fondamento stesso della Scienza moderna poiché «la verità […] è tale solo se può essere osservata, almeno in linea di principio, da tutti»[142].

 

4.2 Il paradigma critico-induttivo

Quanto specificato nell’individuare l’attuale concezione della scientificità in prospettiva epistemologica generale prende concretamente forma per l’ambito umanistico, quello cioè che studia la persona nelle diverse espressioni del suo vivere – non del suo solo funzionamento interno, come la Fenomenologia husserliana o di quello strutturale, come le attuali Neuroscienze –[143] nel paradigma critico-induttivo[144] il quale, specificandosi nelle proprie componenti interne, permette d’individuare i principali strumenti applicativi attraverso i quali articolare i percorsi di ricerca e gestirne i risultati in campo umanistico.

Il percorso delle diverse Scienze negli ultimi centocinquant’anni ha mostrato come la necessità della ‘fede’ (fiducia/affidamento), in ciò che è a noi pervenuto come conoscenza acquisita (il “progresso” o le Auctoritates), e la sua necessaria assunzione quale base del nostro conoscere non escludano affatto una valutazione – almeno di massima – della congruità di quanto proposto ed affermato: la validazione dei dati e delle conoscenze acquisite. È la necessaria componente critica da esigere in ogni processo conoscitivo: le conclusioni del sapere altrui (contemporaneo o storico), prima di diventare presupposti pacifici del nostro conoscere ed operare, devono infatti essere sottoposte ad una istanza di legittimità che ne verifichi il permanere della validità alla luce delle attuali conoscenze ed acquisizioni, diverse per competenza specifica, aggiornamento, esperienza vitale[145]. Non si tratta di ripetere ciascuno degli esperimenti o dei singoli passaggi logici, ma di verificare i criteri applicati, riconoscendone – nel caso – il valore e l’efficacia anche per l’oggi. Solo i risultati forniti dall’applicazione di criteri omogenei d’indagine possono infatti essere assunti quali punti di partenza certi per futuri sviluppi.

Lontano dall’adozione di un dubbio sistematico che vanifichi ogni posizione conseguita (sia dagli altri che da sé)[146], l’adozione di un’efficace prospettiva critica si sostanzia piuttosto nella concreta attitudine a distinguere:

– distinguere prima di tutto il processo conoscitivo (altrui e proprio) nelle sue [1] diverse componenti[147];

– distinguere poi il testo/oggetto[148] d’indagine ricerca nella portata dei suoi [2] contenuti sostanziali e [3] formali;

– distinguere ancora tra [4] valori (teologici, filosofici o sociologici) e [4] strumenti di cui il testo/oggetto è espressione:

– distinguere infine lungo la storia i differenti livelli di [6] espressione e [7] stratificazione di contenuti, valori e strumenti connessi al testo/oggetto d’indagine/ricerca.

Ne risultano almeno sette differenti campi d’indagine o, quanto meno, di verifica capaci d’indicare specifiche analisi anche tecnicamente molto raffinate e complesse, coinvolgenti una pluralità di Discipline e competenze che nessun ricercatore del passato pensava certo di dover possedere/utilizzare in campo scientifico umanistico. Per quanto non sia qui possibile approfondire ulteriormente, appare evidente che si tratta della linea sostanziale tracciata da Lonergan per la Teologia con le sue «specializzazioni funzionali».

Un approccio modernamente scientifico però dev’essere non solo critico, col rischio di ridursi a puri intellettualismi o semplice dialettica, ma anche induttivo per attingere dalla realtà/esperienza ciò che andrà affermato/predicato dell’ oggetto d’indagine/ricerca. Le ragioni di questa caratterizzazione sono espressamente gnoseologiche.

a) La prima ragione va individuata nell’insufficienza del principio d’autorità quale strumento conoscitivo del reale. L’argumentum ex auctoritate non ha nessuna garanzia di attendibilità né può essere sistematicamente verificato nei fatti, portando anche altri ricercatori alle stesse conclusioni e sufficienti livelli di certezza. Già S. Tommaso affermava: argumentum ex auctoritate infirmissimum[149]; lo sviluppo scientifico rinascimentale e moderno hanno abbondantemente dimostrato l’inattendibilità di questo presupposto, cercando nei fatti e non nelle affermazioni su di essi la base di una conoscenza realistica e veritiera[150].

b) La seconda ragione va cercata nella maggiore affidabilità dei risultati del moderno procedimento scientifico attraverso il costante rimando alla realtà sperimentale/esperienziale rispetto all’applicazione formale di strumenti soltanto logici tipici della scienza antica.

c) La terza ragione consiste nella maggiore affidabilità gnoseologica dell’induzione sulla deduzione in quanto la prima, pur indimostrabile in sé non meno della seconda[151], ammette e postula strutturalmente procedimenti esterni di verifica sistematica e corroborazione/falsificazione che ne aumentano la plausibilità dei risultati.

d) Venendo specificamente all’ambito scientifico umanistico, occorre precisare anche come lo studio della persona nelle diverse espressioni del suo concreto vivere (cioè la cultura) è da ricondursi senza dubbio all’ambito logico deontico ed epistemico (Logiche intensionali: voler, poter, saper, dover “fare”) anziché a quello formale (Logiche estensionali: dover “essere”) tipico della Metafisica[152].

Conseguenza strutturale – e reale novità – del paradigma critico-induttivo diventa pertanto l’introduzione delle fonti[153] quali elementi portanti della nuova scientificità in campo umanistico rispondenti sia alla criticità (distinguendo tra originale e suoi commenti/deduzioni) che all’ induzione (prendendo in esame l’incipit dell’esperienza che s’intende studiare)[154]. Una mens critico-induttiva si muove a partire dalla ricerca delle fonti, indipendentemente dalla materia de qua, senza cadere prigioniera della letteratura dottrinale. Le fonti sono l’esperienza da cui prende origine la ricerca propria delle Scienze umane, allo stesso modo che le Scienze della natura si basano su ripetute osservazioni, in gran parte sperimentali. La struttura del procedimento scientifico tuttavia non muta: è dall’esperienza che prende origine ogni domanda gnoseologica e scientifica, tanto che si tratti di elementi naturali (chimici, fisici, biologici) che di prodotti della vita umana (narrazioni, poesie, scritti, dottrine, leggi, ecc.), i quali, in quanto fonti, non spariscono nel nulla dopo l’osservazione, ma permettono di verificare le scoperte ed ipotesi, così come di ripetere l’osservazione.

La fonte costituisce l’elemento concreto che occorre interrogare per poterne cogliere il contenuto: è la fonte che dà spessore e consistenza all’ oggetto materiale delle ricerca; è la fonte che, opportunamente interrogata, darà le risposte a partire dalle quali dovrà esser formulata l’ipotesi di ricerca la cui verifica/conferma permetterà di accrescere le conoscenze. Di fatto, non sono possibili né critica né induzione alcuna se non partendo dal contatto diretto con le fonti, poiché proprio queste sono le uniche a potersi opporre per loro stessa natura alla Logica deduttiva formale, imponendo quale punto di partenza non intellettualistici principia generalia ma concrete res singulares.

Una volta abbandonata la – rigorosa – logica formale-modale (la deduzione sillogistica) quale principio gnoseologico fondamentale, non rimane che riferirsi alla concretezza di singoli atti, fatti e documenti per articolare, a partire da essi, i percorsi di analisi e concettualizzazione, che l’attuale stato dell’arte della pratica scientifica individua come proprio campo e competenza. Proprio questa referenza pressoché assoluta delle fonti costituisce l’elemento di frattura strutturale tra la Scienza moderna e quella classica in campo umanistico: non sono più, infatti, Auctoritates e principia a muovere la conoscenza, ma le concrete esperienze che segnano la vita quotidiana. Questa è oggi la scientificità umanistica.

 

5. Conclusioni

Percorso il perimetro esterno dello strano triangolo tematico proposto nel titolo delle presenti considerazioni, non senza l’impressione di una certa discontinuità (com’è per i lati di ogni triangolo che non permettono mai di guardare/vedere gli altri…), credo tuttavia che, cambiando ora il punto di vista ed entrando nella superficie interna del triangolo così delineato, le conclusioni appaiano abbastanza semplici e, soprattutto, integrate.

Innanzitutto non sussiste una reale contrapposizione tra metodo scientifico e metodo umanistico poiché il secondo non è altro che l’inadeguata formalizzazione linguistica di un insieme disomogeneo di elementi e fattori epistemologicamente discontinui ed irrelati. L’umanistico si riferisce ad un dominio di possibili oggetti di ricerca e conoscenza che non è in alternativa allo scientifico ma, eventualmente, al fisico-naturalistico. Al contrario, l’umanistico può a pieno titolo costituire un sottodominio della scientificità, una classe di oggetti contenuta all’interno dell’insieme di tutto ciò che è Scienza.

Allo stesso modo il sostantivo metodo in sé e per sé non risulta definibile a partire da qualcuna delle sue specificazioni scientifico, umanistico o altro che si voglia. È metodo (solo) ciò che corrisponde a determinate caratteristiche strutturali e funzionali, prima delle specificazioni categoriali/accidentali, che possano in seguito intervenire a caratterizzarne l’ultima concreta espressione.

In secondo luogo, per quanto riguarda l’attività metodologica di B. Lonergan nel suo Method in Theology, occorre senz’altro riconoscere che il pensiero dell’autore si colloca in piena consonanza – seppure su di un’armonica – con la portante epistemologica generale del Novecento: la stessa melodia ma suonata con strumenti assolutamente diversi, come un ottone rispetto ad un’ orchestra di archi.

Pur dovendosi infatti osservare la radicale diversità dei riferimenti dottrinali e delle logiche operative utilizzati da Lonergan rispetto alla riflessione epistemologica generale del XX secolo, si deve allo stesso tempo riconoscere la sua eccezionale capacità di far evolvere il patrimonio disciplinare ecclesiastico tradizionale fino alla piena armonizzabilità con quello laico dello stesso periodo storico-culturale. Un insperabile ‘ponte’ tra due mondi ontologico-gnoseologici che continuano (purtroppo) a scorrere in quasi pieno parallelismo.

Conseguentemente, sulla possibilità di una nuova metodologia scientifica davvero adatta all’ambito umanistico non possono porsi dubbi di sorta, tanto più che proprio B. Lonergan ha tracciato la seconda via di accesso a tale risultato: quella coscientemente germogliata e maturata dall’ interno dei soli presupposti ontologico-gnoseologici tradizionali per il mondo ecclesiastico (tommasiani, nel caso), in piena autonomia rispetto alle molte e gravi insufficienze cui la Modernità, soprattutto filosofica, ha pagato pesanti tributi.

Una via cattolica, ecclesiastica, tradizionale e tommasiana che conduca allo stesso esito epistemologico di quella critico/protestante, anticlericale, moderna ed antimetafisica, percorsa ad extra Ecclesiæ negli ultimi quattro secoli, non pare un risultato di poco conto per la validità della Scienza stessa in humanis et divinis.

 

 

===================================================================================

in R. FINAMORE (cur.), Realismo e metodo. La riflessione epistemologica di Bernard Lonergan, Roma, 2014, pp. 105-155.