Il ruolo ecclesiale del canonista contemporaneo

1. Canonisti, Chiesa e Diritto

 

1.1 Introduzione

Chi, cosa, come sia – e debba essere – il canonista contemporaneo (e quindi anche “di domani”) dipende senza dubbio da cosa è (e sarà) l’oggetto specifico della sua attività nella Chiesa: il suo ruolo, la sua funzione.

Il presente (ed il futuro) del canonista è connesso alla quotidianità dell’attività giuridica ecclesiale[2], alla quotidianità cioè del corretto funzionamento delle relazioni tra la Chiesa come tale ed i singoli fedeli o gruppi di fedeli al suo interno, come sostanzialmente regolamentato dai Codici canonici[3], ma anche alla quotidianità delle relazioni della Chiesa con le altre realtà di appartenenza, almeno funzionale, degli stessi fedeli: la c.d. società civile – statale – cui il Diritto canonico, in realtà, non si è mai dedicato esplicitamente nel secolo dei Codici[4] oltre, sempre di più, all’incontro anche col Diritto proprio di altre Comunità religiose, sempre più delocalizzate ed interagenti pure nei territori dell’antica cattolicità: Ortodossi ed Islamici in primis.

Una prospettiva articolata e complessa che permette di evidenziare già in limine l’insufficienza che il termine “canonista” ha assunto durante il sec. XX, il secolo codificatorio: il secolo in cui il Diritto della Chiesa si è trasformato in “Diritto dei Canoni” …non però quelli dei Concili ecumenici (= i “sacri Canones” della Tradizione) ma quelli dei Codici, dopo essere stato per secoli “Diritto delle Decretali”, cioè della concreta vita vissuta. Un Diritto, quello delle Decretali, che era “on demand” e “on time”: stava sul pezzo – si direbbe oggi col linguaggio giornalistico – accompagnava la vita, mantenendosi – non senza significato ‘ontologico’(!) – in coda alla vita stessa[5], così come accade ancor oggi – genericamente – in common Law, dove la ‘sede’ propria del Diritto non è la Legge ma il Tribunale[6], ed il Diritto traspare non tanto nella sua attualissima portata ‘costitutiva’ di nuove pretese – più “legalizzate” che non fondate/giustificate – [7] ma nella sua funzione prettamente ri-ordinativa e pacificatoria della vita quotidiana (Ius ob noxium[8]), ritrovando la propria autentica sorgente nell’Actio (iudiciaria) e la propria collocazione nella Iuris-prudentia, ben prima che nella Lex: nei singoli fatti accaduti nella vita ‘vissuta’ e non nella generalità della vita ‘pre-vista’ o ‘pre-ordinata’ da un Legislatore globale che, in realtà, è anche colui che governa: Napoleone docet![9] Vanificando nella realtà buona parte della teoresi sulla c.d. separazione dei ‘poteri’[10].

Il Diritto canonico codiciale, per contro, è divenuto spesso un Diritto “off time”: pre-esistente, pre-scindente, pre-sumente (sperasi non anche pre-potente), un insieme di species-facti già date – a-priori – alle quali la vita deve adattarsi (sul letto di Procuste del “dura Lex sed Lex” o dello “Ius quia iussum”) per poter essere presa in considerazione (attraverso la “sussunzione”[11]) e sperare di trarne qualche esito concreto[12].

Passando dalle Decretali ai Codici, per di più, assieme allo strumento giuridico per eccellenza ed al suo utilizzo, si è stravolta anche l’identità del suo operatore, ed il canonista ha smesso di svolgere il proprio ruolo rivolto espressamente alla vita ecclesiale nella ricerca della miglior soluzione per la vita (e sopravvivenza) della Chiesa stessa, per ridursi a quello curiale[13] dell’applicazione esegeticamente esatta della Norma pre-confezionata da chi aveva la necessaria e sufficiente “autorità” per farlo[14].

Non di meno, il “secolo dei Codici” ha visto affermarsi anche un’altra prospettiva, dialettica rispetto a quella codicistica ma parimenti inadeguata: quella di stampo “teologico” secondo cui

«il canonista si contrappone al giurista perché è teologo, in quanto opera in forza della “fides qua” e della “fides quæ creditur”. Si distingue dal teologo sistematico perché il suo oggetto materiale di conoscenza non è il mistero cristiano nella sua globalità, bensì le implicazioni istituzionali dello stesso, vale a dire il “Ius divinum positivum” da cui deriva il “Ius humanum canonicum”»[15].

1.2 Il giurista ecclesiale

Per questo può ritenersi giustificato che oggi, anziché di “canonista”, sarebbe preferibile parlare di “giurista ecclesiale”, come di fatto era ritenuto il canonista classico: prima di tutto un “giurista”, a tutto tondo, (spesso anche “utroquista”) che si occupa della dimensione giuridica[16] – e non solo o tanto “legale” – del vivere quotidiano delle diverse realtà e Comunità cristiane.

Non si dimentichi inoltre che il proprium del “giurista” quo tale non è affatto l’applicazione del Diritto identificato con la Lex (secondo la ‘miglior’ concezione napoleonica[17]), ma la sua “inventio”, intesa però non come scoperta/disvelamento – come se lo Ius “esistesse” in modo trascendentale[18] da qualche parte (o anche per rivelazione divina) – ma come ricerca/concepimento/creazione[19] dell’attuale miglior soluzione alle situazioni problematiche e/o conflittuali del vivere sociale e comunitario (= Ius contra noxium; Ius contra conflictum). D’altra parte, come la storia ben dimostra: “giurista” in senso proprio non è né il Giudice né il Legislatore, né chi governa… ma il “giureconsulto”: non Giustiniano o Gregorio IX, ma Triboniano e Raimondo di Peñafort, non Pio X e Benedetto XV, ma il Card. Gasparri. Non per nulla furono i “Digesta” e non il “Codex” a concentrare gli Iura quali Fontes Iuris, ben distinti dalle Leges[20]… anche se lo stesso Digesto fu promulgato poi come “Legge” e, non di meno accadde alle “Institutiones[21], facendone “Leggi” quanto a gerarchia delle Fonti giuridiche, non certo quanto a consistenza e natura. Sono i giuristi che “fanno” lo Ius e non i Legislatori, che fanno solo Leges, né i Giudici, che fanno solo Sententiæ.

Per di più: al di là del puro volontarismo (formale) del Legislatore e degli interessi di parte di cui egli si faccia via via espressione (tanto pubblici che privati, tanto di categoria che individuali) nella propria attività, rimane sempre la c.d. Giurisprudenza – quale insieme degli innumerevoli iudicata – a costituire la base certa e stabilizzante di qualsiasi consolidazione giuridica …anche nella forma codificata[22]. Ciò che, in modo singolarissimo e quasi esclusivo, si è dato nelle due tornate di codificazione canonica del secolo scorso (1917 e 1983/1990): tutti i Codici canonici prodotti, infatti, sono frutto dell’attività di un “Legislatore materiale” rispondente proprio alle caratteristiche del giurista come tale, coinvolgendo decine e decine di Periti e di esperti che hanno lavorato per anni[23] prima alla condensazione formale di circa due millenni di vita ed identità ecclesiali storiche (com’era stato il Codice pio-benedettino), armonizzandole poi ed integrandole con le nuove esigenze di identità, struttura e funzionalità della Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II.

 

1.3. La reale sfida in atto

Per introdurre la riflessione e la conseguente delineazione del “ruolo ecclesiale del canonista contemporaneo” (e non solo) basti riferirsi in questa sede ad alcuni fatti contemporanei quali: [a] la questione tributaria germanica[24] (almeno nota a molti) e [b] un fatterello di cronaca di paese (sempre, tedesco): la questione della tomba di un bimbo di nove anni morto di tumore che voleva sulla lapide i simboli della sua (vera) passione, il calcio[25].

Si potrebbero aggiungere [c] la cremazione delle salme dei defunti o [d] la dispersione nell’ambiente delle ceneri frutto di tale cremazione o molti altri problemi assolutamente reali e concreti di cui l’attualità ecclesiale e sociale (anche solo europea) trabocca, spesso in balia di mass media intenzionati soltanto a mettere in mostra l’inadeguatezza dell’attuare istituzionale della Gerarchia cattolica. Una inadeguatezza che appare tanto maggiore quanto maggiori sono ormai in vari campi della quotidianità gli interventi normativi statuali o “comunitari” (per l’Europa) attraverso i quali si è ormai provveduto a formalizzare e standardizzare quasi ogni tipo di eventualità, soprattutto istituzionale… per la prima volta senza alcun coinvolgimento ecclesiale, dopo circa quindici secoli di “coordinamento”, quando non anche vera “soggezione” del civile (europeo) al canonico.

Il motivo della scelta di questi fatti e della conseguente riflessione è palese: di queste cose le Norme codiciali (= i Canoni) spesso non dicono praticamente nulla e, di conseguenza, neppure un certo tipo di canonista lo potrebbe, trovandosi privo del suo principale riferimento: la Legge… “dura”, ma pur sempre rassicurante nelle sue solide “certezze”.

Il giurista ecclesiale (= canonista) contemporaneo (e, non di meno, futuro), invece, deve saper utilizzare a pieno titolo, e con piena competenza, due strumenti irrinunciabili per la vita giuridica ecclesiale: la “logica Iuris” e la “logica Ecclesiæ”. Esattamente quanto stabilito – nella sua sostanza – dalla riforma degli studi canonistici di dieci anni fa[26] e (non sia giudicato inutilmente retorico affermarlo in questa sede) quanto operato nello strutturare il Programma degli studi in questa Facoltà di Diritto canonico, all’interno del più ampio e fecondo “Institutum Utriusque Iuris” della Pontificia Università Lateranense (v. infra).

Logica Iuris” e “logica Ecclesiæ”, che possono essere lette all’interno – e quali espressioni operative specifiche – delle più profonde “ratio Iuris” e “ratio Ecclesiæ[27], ampliando così l’orizzonte operativo (e quindi anche formativo) del giurista ecclesiale rispetto al solus textus imposto dalla prescrizione codicistica del 1917 secondo cui «nullo ceterum, præter Codicem, libro alumnos uti necesse erit»[28] e così ancor oggi praticata in alcune Istituzioni accademiche ecclesiastiche/pontificie in cui la schola textus (e la Lex) permane sovrana[29]. Logiche e rationes che – di per sé – lo strumento chiamato “Codice” pretende di fissare staticamente come a-priori ma che, per contro, la vita continua a declinare ed alimentare quotidianamente secondo le proprie inarrestabili dinamiche, tanto per il Diritto che per la Chiesa stessa i cui modi di comprendere sono oggi ben diversi da buona parte dei secoli trascorsi, pur non potendo accettare alcuna soluzione o frattura di continuità ed identità né ontologica, né vitale all’interno del vissuto della Chiesa stessa. Ogni “salto”, d’altra parte, ha sempre bisogno di una “spinta” che lo preceda e lo renda possibile: una “compressione” che generi il “potenziale” da cui sgorgherà il nuovo “atto” che però, in tal modo, non sarà un vero “salto” come normalmente inteso, soprattutto negli approcci che preferiscono evidenziare la “discontinuità”.

 

 

2. Giuridicità ed ecclesialità

 

Si tratta, dunque, di sapersi chiedere, con [a] realisticità, [b] concretezza, [c] competenza e [d] consapevolezza, nelle diverse situazioni: [1] quid Iuris et [2] quid Ecclesiæ, [3] hodie [4] in hoc?

1) Da una parte, ovviamente, la domanda circa il quid Iuris concentra in sé la fondamentale dimensione giuridica delle situazioni e vicende di cui ci si debba occupare in riferimento o in ragione della vita ecclesiale o dei fedeli come tali, anche in rapporto ad altri Ordinamenti giuridici come sono quelli statuali o il comunitario (europeo) o l’internazionale o anche – perché no? – quelli di altre Confessioni religiose[30].

2) Dall’altra parte la domanda circa il quid Ecclesiæ indica lo specifico ambito esistenziale cui occorre riferirsi nel ricercare la corretta soluzione secundum Ius ai problemi che emergano in riferimento o in ragione della vita ecclesiale stessa, tanto di singoli fedeli che di loro – eventuali – raggruppamenti.

    Questa seconda domanda, tuttavia, risulta più articolata e complessa della precedente: il quid Ecclesiæ infatti non può prescindere dalla considerazione di alcuni elementi e fattori del tutto costitutivi per la Chiesa stessa e quindi, alla fine, anche per il suo Diritto. Si tratta infatti di considerare che la Chiesa non esiste per se stessa né fine a se stessa ma per il compimento di una specifica “missione”: annunciare e rendere efficace la salvezza cristiana per ogni uomo[31]. Poiché tuttavia questo non potrebbe realizzarsi senza uno specifico riferimento al destinatario ultimo della missione ecclesiale, la domanda sul quid Ecclesiæ non potrà non fare i conti con quella più radicale sul quid personæ, tutte le volte che sia in gioco un singolo uomo o donna: ciò che tradizionalmente veniva indicato – in modo assolutamente generico ed impreciso – con la formula “salus animarum[32].

3) Non di meno l’attività giuridica è sempre un’attività ‘storica’: nella storia e per la storia. Un’attività dell’hodie per rendere possibile un futuro. Sentenze e Leggi, infatti, hanno la loro finalizzazione ed utilità solo nel futuro: specificamente in un futuro che si vuole diverso dal passato, in un futuro che – più del passato – deve corrispondere alla realtà personale e collettiva… alla posizione relazionale personale e collettiva. Di fatto il Diritto non può nulla sul passato se non prenderne atto e cercare di “guidarne” una parte almeno delle conseguenze nei confronti del futuro.

4) Alla storicità del Diritto appartiene in modo costitutivo anche il suo legame con la realtà, con questa cosa, questa condotta, questa necessità. Il Diritto è sempre “in hoc”. Mai qualcosa di teorico. Quand’anche “generale” ed “astratto” – com’è quello codiciale – esso si riferisce sempre a species facti: ad atti/fatti non ancora concretamente esistiti (= non in facto esse) ma non inesistenti (poiché potenzialmente in fieri) né mai accaduti in precedenza, per quanto ad altri soggetti. Non per nulla, non solo in common Law, in Tribunale si portano atti e fatti concretamente esistenti e non mere ipotesi[33].

 

2.1. Come chiedere

Le ‘domande’ circa il quid Iuris, quid Ecclesiæ, quid personæ, non meno che quelle sull’hodie e sull’hoc, non possono essere affrontate né soddisfatte ai nostri giorni e nel presente contesto socio-culturale se non adottando specifici atteggiamenti riguardanti proprio la modalità (= il “come”) del loro essere-poste, per quanto esse, in realtà, più che il modo, riguardino la sostanza stessa della questione. Essere (da) oggi all’altezza del compito giuridico nella Chiesa e per la Chiesa comporta, almeno, quattro caratteristiche percettive[34] ed operative che, chiaramente, non hanno caratterizzato (con continuità) i canonisti del secolo XX …con conseguenti risultati.

 

a) Realisticità. Si tratta prima di tutto di adottare una concezione del Diritto che sia realistica e non soltanto “realista” poiché, per essere realisti(ci), non basta affatto affermare che una “res” esiste[35], né basta affermare che quando tale “res” sia “giusta” ci si trova innanzi al Diritto (identificato ontologicamente con la “ipsa res iusta”)[36]. Essere realistici in campo giuridico significa e comporta l’attenzione meticolosa alla quotidianità, agli andamenti giurisprudenziali, alle richieste o reazioni della pubblica opinione (intra ed extra ecclesiale), alle nuove “esigenze” giuridicizzate nei/dai diversi Ordinamenti, alla tipologia ed intensità delle richieste e rivendicazioni, all’estendersi e/o contrarsi delle materie normate nelle diverse sedi, all’infinità di questioni che ogni giorno si accetta (o si pensa) di poter affidare all’attività di un Avvocato/Patrono[37].

b) Concretezza. Un secondo passo irrinunciabile comporta l’assunzione della concretezza delle questioni che finiscono per diventare anche giuridiche, dopo essere state (o anche mentre continuano ad essere) pure affettive, economiche, artistiche... non potendosi sensatamente – e realisticamente – sostenere che la giuridicità sia una caratteristica a-priori di una parte almeno della realtà. Ciò di cui il Diritto finisce sempre per occuparsi sono cose concrete che entrano concretamente nella vita delle persone[38], poiché l’approccio giuridico tende a far emergere le questioni man mano che si avvicinano al nucleo più “intimo” delle persone: ciò a cui tengono di più e, quindi, sono maggiormente spinte a (far) “tutelare”. L’evidente scivolamento post-moderno dalle cose (del Diritto privato) alle condotte (individuali) pone oggi problemi non marginali per i Sistemi giuridici a forte base etica o religiosa (come quello cattolico) nei quali ad una ortodossia (eventualmente solo teoretica) debba corrispondere una precisa ortoprassi (immancabilmente pratica).

c) Competenza. In un mondo ormai ultra specializzato, in cui le distinzioni in qualunque materia e campo hanno precisioni “atomiche”, il giurista ecclesiale non può più conoscere soltanto le Leggi e le Norme del proprio Ordinamento giuridico quasi che esso possa “contenere” ed esprimere l’intera realtà del vissuto ecclesiale. Ogni materia ed ambito vitale sono oggi ben più complessi di quanto si sia mai potuto ipotizzare, anche a causa di una ormai generalizzata globalizzazione culturale che investe sempre più la quotidianità di molti, finendo per coinvolgere anche disposizioni normative canoniche divenute ormai del tutto marginali ed inspiegabili per molti fuori dal contesto socio-culturale (spesso europeo-medievale) in cui erano nate. Non di meno alcune questioni sorte e “risolte” giuridicamente nella Chiesa europea medioevale si ripropongono oggi a molte delle c.d. “giovani Chiese” in contesti assolutamente diversi …ma non dal punto di vista funzionale[39]. L’impatto, poi, con l’Ordinamento internazionale pone la Chiesa come tale in una condizione del tutto nuova di rapporto con gli altri Ordinamenti giuridici anche per le conseguenze che la ratifica di Accordi o Trattati internazionali inducono sulla sua struttura ordinamentale[40].

d) Consapevolezza. Il giurista ecclesiale odierno dev’essere anche consapevole della portata sempre più totalizzante delle questioni anche solo “regolamentari” che attraversano il mondo contemporaneo spesso ben al di là del solo Diritto statuale[41] mentre, dall’altra parte, la præstantia istituzionale, sociale e culturale, della Chiesa (cattolica) è via via scemata nell’ultimo secolo, ponendosi ormai a livelli ben diversi da quanto consolidatosi nel mondo imperiale-pontificio medioevale e fino al c.d. ancien Régime. La questione si pone non tanto a livello di semplici “possibilità” od “opportunità” strumentali ed operative (come regolamentate in singoli Concordati), ma a livello di modo di pensare e di concepire le “caratteristiche” strutturali di una relazionalità che sarà sempre più diversa da ciascuna di quelle sin qui oggetto di esperienza storica. Ormai sparita la piattaforma culturale[42] di riferimento ontologico-etico-religioso condiviso (= la Christianitas) anche molte soluzioni pratiche, tipiche dello Ius publicum ecclesiasticum (externum) originario (p.es.: lo stesso concetto, allora costitutivo, di “societas necessaria”), non presentano più oggi alcuna plausibilità socio-culturale. Si pensi tanto ai Concordati in sé e per sé che allo status di persone giuridiche pubbliche[43] che alcune Confessioni/Denominazioni ecclesiali rivestono ancora soprattutto nei Paesi di cultura mittel-europea. Non di meno: l’attività giurisdizionale di Corti sovranazionali[44] sta rendendo potenzialmente inutili un certo numero di Norme pattizie proprie del Diritto concordatario, soprattutto in riferimento alle persone e ai loro vincoli confessionali… tra cui i Sacramenti (che, canonicamente, creano status, vincolando).

2.2. Cosa chiedere

a) La domanda circa il “quid Iuris” delle diverse situazioni ecclesiali non è indipendente dalla domanda sul “quid Ius”, mai davvero risolta sino ad oggi soprattutto dalle correnti di pensiero (giuridico, filosofico e teologico) meno attente alla dimensione esistenziale delle persone e della loro vita di fede e più propense a disquisizioni teoretiche, disincarnate ed ontologico-trascendentali[45]. Se, invece, il Diritto è – realisticamente – quello che ci consegnano i giornali e le cronache, poiché lì (= in tale Ius) si concentra il maggior “prezzo”[46] del vivere umano, il giurista ecclesiale dovrà imparare a distinguere nei comportamenti umani quelli che assumono particolari e specifici significati per l’identità e la relazionalità di ciascuno verso tutti gli altri all’interno dello stesso ambito vitale (= l’Ordinamento istituzionalizzato di appartenenza[47]). Riconosciuto in quest’ambito che [a] il Diritto è la “soluzione pacificante” del vivere sociale e/o comunitario[48], che [b] esso riguarda prima di tutto la verità delle relazioni intersoggettive (di terzietà in primis: “io” vs. “non-tu/egli”), che [c] la sua esistenza è connessa a precise attività realizzate nel sociale[49], cosa e quanto “di Diritto” sia contenuto o possa essere introdotto nella quotidianità del vivere ecclesiale dovrà essere esaminato in base a soggetti, oggetti e circostanze[50] connessi ad ogni ambito di fatti esistenziali considerati. È solo, infatti, dall’incrocio di questi tre elementi che possono emergere le istanze giuridiche più autentiche veicolate dal vivere concreto.

b) All’esame delle concrete relazioni intersoggettive (genericamente ricondotte all’ambito della giuridicità = quid Iuris) si affianca la domanda circa il quid Ecclesiæ (hodie in hoc)”; domanda inusuale per molti canonisti – anche odierni – ma di grande fondamento e di grandi prospettive; domanda che non può trovar risposta senza una conoscenza vera e profonda dell’essere Chiesa in tutte le sue componenti ed in tutte le sue “localizzazioni” spazio-temporali. “Essere Chiesa” e non (sol)tanto “essere uomini” nella Chiesa[51]. A questa insopprimibile istanza ha cercato di offrire risposta la riforma degli studi canonistici del 2002/2003 con l’introduzione del Primo Ciclo quasi unicamente teologico[52]. Solo la corretta percezione, infatti, di cosa significhi e comporti (e/o debba comportare) l’essere Chiesa – il doverlo ed il volerlo essere – può guidare l’esercizio di un’adeguata attività giuridica ecclesiale[53]. Questo, d’altra parte, concerne sia ciò che riguarda la struttura ed il funzionamento interno della realtà ecclesiale nell’integrazione tra Pastorale e sue “strutture/Istituzioni” (p.es.: Parrocchie, Unità e Zone pastorali, Uffici diocesani, ecc.), sia nell’inevitabile rapporto con la realtà sociale all’interno della quale ormai si svolge la maggior parte della vita di ogni singolo discepolo del Signore Gesù (lavoro, famiglia, abitazione, tempo libero, servizi, formazione, ecc.).

Quanto, in quale modo, ma soprattutto perché, la quotidianità post-moderna coinvolge l’adesione ecclesiale dei singoli e delle Comunità cristiane? In che cosa, in quale misura, con quale rilevanza e quali conseguenze, determinati comportamenti più o meno socializzati e diffusi coinvolgono oggi la sostanza dell’essere cristiani? In che cosa, quanto e perché, atteggiamenti e comportamenti del singolo fedele e della Chiesa come tale possono e/o devono essere diversi tra loro? E quanto contano in questo le concrete e specifiche finalità perseguite sia dal fedele come tale che dalla Comunità ecclesiale in sé?[54]

 

Un esempio – cronologico – in merito: la percezione dell’essere Parroco come “Ufficio” e contestualmente dell’Ufficio stesso come centro di imputazione di doveri e diritti connessi e derivanti in buona parte dal Titulus Ordinationis, così com’era fino alla revisione codiciale, non è affatto comparabile con la percezione dell’essere Parroco quale responsabile della cura pastorale di una Comunità cristiana stabile all’interno della Chiesa particolare che è la Diocesi ed in stretta collaborazione col ministero pastorale “originario” (de Iure divino[55]) del Vescovo diocesano (cfr. Can. 515). Allo stesso modo: che la Parrocchia sia una ripartizione territoriale della Diocesi affidata alla vigilanza ed al servizio cultuale e sacramentale del Parroco o che essa sia una Comunità di vita di fede radicata in un territorio, non significa e non comporta lo stesso. Quid Ecclesiæ – dunque – hodie in Parœcia? E: se/quando la Parrocchia, anziché territoriale, fosse personale?

2.3 Identità e missione ecclesiale

Un tal genere di domande non trova, tuttavia, risposta immediata ma chiede di scendere più in profondità, a livello costitutivo (e quindi anche costituzionale) della Chiesa: “quid Ecclesiæ identitatis?” E “quid Ecclesiæ missionis?

Ne deriva, per il giurista ecclesiale, la necessità di chiedersi sempre – con realisticità, concretezza, competenza e consapevolezza – quanto [a] la situazione come tale o [b] qualcuna delle sue componenti (soggetti o oggetti) o circostanze, o [c] delle sue dirette conseguenze – sempre rigorosamente “esterne” e quindi di per sé visibili (al di là di un’eventuale, attuale, occultezza[56]) – coinvolga la Chiesa come tale (= la sua identità e missione) non in ragione del suo semplice e fattuale “esser-ci” (in quella situazione) ma del suo specifico e concreto “essere Chiesa” in quella situazione[57].

Detto in altri termini: cosa c’entra, cosa cerca, cosa offre, cosa teme, la Chiesa in ciascuna situazione concreta… oppure: cosa può o deve cercare od offrire in essa? O, forse anche: cosa deve cercare di non perdere o smarrire di se stessa in tali circostanze? La storia purtroppo è densa di macro-eventi del tutto extra-ecclesiali che però hanno condizionato in modo determinante – e pregiudiziale – l’essere e divenire stesso della Chiesa. Tre macro esempi: la situazione creatasi a seguito dell’Editto di Tessalonica (nel 380 d.C.), la creazione dei Vescovi-Conti dell’Era ottoniana in Europa (nel sec. X), il legame tra missionari e conquistadores in America latina (nel sec. XVI). Che cosa avrebbe dovuto suggerire o indurre in quelle circostanze l’applicazione di un’adeguata “logica/ratio Ecclesiæ”?

L’unica risposta incontestabile sotto ogni profilo è certamente la non-astensione dalle circostanze. Cosa, come, quanto operare – invece – rimangono del tutto discutibili (e, purtroppo, poco discussi, sic) oggi. Una Chiesa senza personalità giuridica pubblica nell’Impero romano? Una Chiesa lontana dalle Istituzioni pubbliche? Una Chiesa estranea ai culti di massa? Una Chiesa completamente avulsa dalle vicende politiche del suo tempo? Una Chiesa missionaria sullo stile di Bartolomeo de las Casas? Ancora: quale legame tra la Promissio Carisiaca (Quierzy nel 754) ed i Patti Lateranensi (del 1929)?

È chiaro che nessuna risposta potrebbe prender corpo senza chiedersi e “fissare” prima che cosa sia, significhi e comporti “essere Chiesa”: la Chiesa di Gesù Cristo!

Quid Ecclesia? Dunque, prima del quid Ecclesiæ?

Più concretamente: quid Ecclesiæ identitatis? Quid Ecclesiæ missionis?

Certo non si può innestare qui l’intera Ecclesiologia, né pretendere di somministrarne soltanto alcune “pillole” immediatamente efficaci. Non di meno: gioverà ai canonisti esplicitare qualche punto di vista critico rispetto a molti presupposti (più o meno) teologici, inveterati, ma ancora assolutamente costitutivi per le forme istituzionali e giuridiche che ne derivano concretamente e quelle che di fatto ne sono già derivate e continuano ad essere rationes di svariate Norme ancora vigenti.

Che la missione affidata da Cristo agli Apostoli ed all’intera Chiesa sia volta a far sì che l’umanità intera entri nel “riposo definitivo di Dio” (cfr. Eb 4,1-11) non è certo dubitabile; le affermazioni escatologiche riportate da S. Giovanni nei propri scritti sono innumerevoli quanto inequivocabili in merito (cfr. Gv 14,2-3, passim). Che, di conseguenza, la concreta realizzazione di tale missione consista nell’annunciare il Vangelo ad ogni uomo introducendolo nella salvezza eterna attraverso il Battesimo (cfr. Mc 16,15-16; Mt 28,18-20) è conseguenza immediata: ciò a cui per secoli si è dato il nome di “salus animarum” ed in vista e ragione di cui sono state effettuate numerosissime e radicali scelte operative ecclesiali, tanto a livello di indirizzo, che di Istituzioni, che di correlative Norme di strutturazione e funzionamento[58]. Ciò che, in senso lato, costituisce proprio il cuore del Diritto canonico nel suo fissare il minimo condiviso affinché l’attività ecclesiale sia ciò che “deve” essere.

Questo, però, in sé e per sé non offre alcuna evidenza circa le concrete modalità attuative di tale missione né, tanto meno, i suoi strumenti di realizzazione istituzionale.

Un’esemplificazione dialettica può aiutare la comprensione del problema e la sua concretezza operativa.

2.3.1 Una Chiesa “eterna”

Se la missione costitutiva ed essenziale della Chiesa consiste nello “strappare anime a satana”, battezzando[59], non risultano censurabili in sé una vasta serie di scelte anche istituzionali quali il battesimo delle Istituzioni o dei loro vertici personali così da coinvolgere in modo strutturale – ed a costi ecclesiali bassissimi – grandi quantità di persone. Una “religione di Stato”, quando o finché questo in qualche modo esista[60], è certamente la strada di maggior efficacia (numerica): si passa così da Teodosio[61] a Teodolinda[62] a Carlo Magno col battesimo dei Sassoni nel sangue[63]. Non di meno: senza il coinvolgimento e l’appoggio dei Principi germanici (di chi a chi?) M. Lutero non avrebbe potuto andare molto avanti nella propria iniziativa di Riforma della Chiesa.

In tale prospettiva l’approntamento del “Constitutum Constantini[64] quale mezzo per legittimare la disponibilità – anche – presso il Papa della potestà imperiale romana necessaria per “creare” un nuovo grande Impero cristiano non può che esser giudicata “geniale” (oltre che “teologicamente” legittima perché pastoralmente utile), così come l’iniziativa di Papa Leone III di legare alle sorti della Chiesa quelle della politica europea occidentale proprio attraverso l’incoronazione di Carlo Magno nella notte di Natale dell’anno 800.

Ciò accolto e realizzato in linea di principio, non poteva risultare disdicevole neppure l’adozione generalizzata del sistema feudale quale base di riferimento, fondamentalmente economica – ma non solo – , per la strutturazione dell’intero organismo ecclesiale e canonico; sistema feudale da cui, di fatto, è dipesa la concezione dell’Ufficio ecclesiastico (beneficiale) sconfessata solo dal Vaticano II (XX secolo!), per quanto sostanzialmente non ancora superata almeno nella difficile delineazione del “tipo” di rapporti e legami giuridici tra i titolari dei diversi Uffici ecclesiastici e l’Autorità ecclesiale; legami che nel Diritto dei Paesi occidentali contemporanei (ormai estranei al sistema feudale da almeno cinque secoli) non riescono ancor oggi ad avere adeguata individuazione e formalizzazione[65].

In questo genere di fatti risalta con evidenza la connessione tra la ratio Ecclesiæ posta di volta in volta in atto quale criterio valutativo e di scelta istituzionale (e con essa il quid pro Ecclesia?) rispetto proprio alla concezione assunta circa il quid Ecclesia e, più ancora, il quid Ecclesiæ missionis.

Passando ad altro genere di istanze – mantenendo però fermo il presupposto – non si può nascondere come ancor oggi una tale concezione di fondo del quid Ecclesia continui a condizionare la visione istituzionale della Chiesa come – mera – “societas”, con gli elementi istituzionali e gli strumenti giuridici connessi, condizionando così in modo radicale il quid Iuris corrispondente tanto in fatto di strutture che di loro funzionamento.

2.3.2 Una Chiesa “nella storia”

In prospettiva del tutto differente si pongono le questioni che derivano dalla visione del quid Ecclesia/Ecclesiæ in chiave di maggior radicamento all’interno della dimensione “storica” del vivere umano e sociale, tanto [a] secondo il principio teologico dell’Incarnazione (che “Lumen Gentium” 8 porta come modello e chiave di lettura della stessa natura ecclesiale), che [b] secondo l’indole escatologica della Chiesa stessa (nella quale – secondo LG 48 – continua la promessa restaurazione già incominciata in Cristo). Una Chiesa che vive nella storia e non la “attraversa” soltanto (come in apnea), che la assume e non la “tollera” soltanto[66], che – come per primo ha fatto lo stesso Signore Gesù Cristo – si sporca le mani nella storia anziché tentare soltanto di mondarne le sempre immancabili lordure… è una Chiesa che si presenta ed opera in modo assolutamente differente e discerne e decide in modo assolutamente diverso circa le proprie strutture e logiche funzionali[67], rispetto ad una Chiesa disincarnata ed eterea, interessata solo della (sua partecipazione alla) “gloria di Dio”.

Una Chiesa attraverso la quale la “rinnovazione del mondo” è in un certo modo realmente “anticipata in questo mondo” (cfr. LG 48), una Chiesa che realizza già nella storia la presenza e l’azione salvifica di Dio attraverso la vita concreta dei sui figli per i quali è già arrivata l’ultima fase dei tempi, una Chiesa che si pone e rimane sotto l’annuncio della Parola che salva, che cresce nell’adesione al Vangelo e ne compenetra il mondo, una Chiesa che accompagna la vita dei suoi figli attraverso la celebrazione (= actio) e non soltanto la amministrazione/ricezione dei Sacramenti (= res), una Chiesa che nella Liturgia non prende all’uomo per dare a Dio ma riceve da Dio per comunicare all’uomo, è una Chiesa che cerca ed intrattiene rapporti differenti con la cultura, le Istituzioni, la Politica… ed anche le altre fedi e Confessioni religiose. Una Chiesa, come diceva Giovanni Paolo II nella Sacræ Disciplinæ Leges[68], riferita non solo a Lumen Gentium per il Popolo di Dio e le prerogative dei fedeli, o la “sacra potestas” o la sacramentalità dell’Episcopato, ma riferita anche a Gaudium et Spes per la dignità e l’unitarietà dell’uomo come persona ed il suo rapporto integrato anche con la storia e l’umanità intera, è una Chiesa che non ha già lasciato la “rampa di lancio” per dirigersi nello spazio solo di Dio… è una Chiesa che non cammina parallela o tangente alla storia umana ma che gioca ancora qui ed ora la propria identità e missione di portare il Vangelo a tutti gli uomini, attraverso l’utilizzo degli strumenti – anche istituzionali e giuridici – via via disponibili.

È questa la “Chiesa pellegrinante” che, secondo l’ultimo Concilio,

«nei suoi Sacramenti e nelle sue Istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio» (LG 48).

Proprio per mezzo di essa il Cristo risorto e glorificato unisce più strettamente a sé gli uomini col nutrimento del proprio Corpo e del proprio Sangue, rendendoli partecipi della sua vita gloriosa.

Dalle tipologie ecclesiali così proposte emerge in modo piuttosto chiaro come la “logica Ecclesiæ” e la “logica Iuris” non siano affatto collocate – né collocabili – sullo stesso piano: solo la prima, infatti, è autonoma ed autofondante, mentre la seconda rimane sempre e solo strumentale alle esigenze e finalità dell’altra. Il Diritto, infatti, per la sua relatività (= connessione di dipendenza) a sempre specifici e peculiari elementi assiologici[69] non è mai, né lo potrebbe in alcun modo essere, auto-poietico[70]: fonte, cioè, a/di se stesso, come avrebbero voluto l’imperativo categorico kantiano o la Grundnorm kelseniana. Come vorrebbero anche gli indirizzi di teologizzazione giuridica che, in realtà, rendono giuridico il teologico, come avviene quando si assume che

 

«Parola e Sacramento sono realtà di natura giuridica per il fatto che si pongono tra due soggetti (Dio e l’uomo) e creano una situazione di doverosità (la risposta dell’uomo a Dio) carica di conseguenze (l’ottenimento della salvezza)»[71].

Se poi si accettasse anche solo come ulteriore provocazione la visione della Chiesa come “rete”, non nell’immagine biblica della pesca (cfr. Mt 13,47-50) ma in quella elettronica/informatica di “network”, le conseguenze sul suo Diritto sarebbero ulteriormente differenti. Il Card. Martini – per quanto in altro contesto – scriveva che la Chiesa

«non è una realtà definibile con esattezza geometrica; nemmeno si costruisce una volta per tutte, perché ha una struttura fluida, non solidissima. Si tratta piuttosto di una rete di relazioni fondate sulla fede nel Risorto, di quella trama di rapporti che vengono a crearsi tra le persone quando si vivono, gli uni verso gli altri, comportamenti evangelici di fede […]. Tutto ciò forma una rete, non troppo solida, ma vera, forte, coinvolgente. […] Insieme, è qualcosa di fragile, perché ciascuno può in ogni momento staccarsi, allontanarsi, andarsene. Non ha dunque – giova ripetere – la solidità di una società monolitica; tuttavia è certamente visibile, operante, efficacissima»[72].

2.4 Chiesa, Diritto e persona

Poiché, dunque, la Chiesa non è fine a se stessa ma costituisce uno strumento, un medium, affinché la salvezza escatologica cristiana possa giungere alla vita di ciascun uomo nella storia[73], l’individuazione e la formalizzazione di quanto necessario a realizzare la propria (= della Chiesa) identità più profonda non può prescindere dalla corretta identificazione del destinatario di tale attività: l’uomo concreto, la persona creata ad immagine e somiglianza di Dio stesso, destinataria del Vangelo di salvezza. In tal modo, in tutti i casi e le circostanze in cui non si tratti di questioni di mera ed espressa struttura e funzionalità istituzionale[74], la domanda sul quid Ecclesiæ dev’essere immediatamente correlata con quella sul quid personæ in Ecclesia, ponendo così la persona quale vero fondamento e criterio dell’attività ecclesiale. Già nella Seconda Giornata canonistica interdisciplinare (dell’anno 2007)[75] si sono date ampie motivazioni della necessità di riferirsi alla – concreta e specifica – “persona” e non al solo – generico – “essere umano” o “homo/αντροποV” (a cui fa riferimento l’Antropologia, anche teologica) e tanto meno ad un “ente umano”, come detto ancora di recente[76].

A partire dal Concilio, infatti, la Chiesa cattolica si è posta consapevolmente innanzi ad una nuova percezione ontologico-metafisica della persona[77], vedendola come una realtà (corporeo-spirituale) indivisibile, aperta alla relazione interpersonale e capace di relazione col Dio trascendente. Si è così assunta una visione unitaria, integrata ed integrante di persona in cui le diverse “componenti” (specialmente l’anima) non sono mai isolabili/estrapolabili/riducibili senza perdere l’intera persona, vera destinataria tanto dell’azione divina che della missione ecclesiale, secondo l’originaria visione antropologica biblica, anche neo-testamentaria, prima che quella platonica (agostiniana, soprattutto) prendesse il sopravvento[78].

La Chiesa voluta da Cristo, infatti, ed affidata agli Apostoli ed al loro ministero per il compimento della sua missione costitutiva non ha negli uomini dei referenti indiretti che rimandano in realtà ad un’anima quale unico e fondamentale elemento assiologico – estrinseco – della propria attività[79]. Il Verbo si è fatto uomo – integrale – per portare agli uomini – integrali – la salvezza escatologica – integrale – [80]. Egli, vero Dio e vero uomo, nella propria risurrezione corporea ci ha dato la “caparra” della risurrezione della nostra stessa carne perché la persona permanga integra – anche – nell’eternità. Destinataria dell’azione ecclesiale in sé medesima (tanto spirituale che istituzionale) non è pertanto la sola “anima” ma l’uomo come tale, la persona integra ed integrale: è ad essa che deve riferirsi l’attività giuridica ecclesiale ogni qual volta ci sia in gioco “qualcuno”, la sua fede o la sua vita (storica ed eterna insieme). Tutta la dimensione e l’azione sacramentaria – pressoché esclusiva del cristianesimo – ne è la prova e lo strumento più evidente: senza la corporeità personale i Sacramenti non possono essere celebrati[81].

Non di meno, anche sotto il profilo strettamente escatologico, in un importante pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1979[82] proprio il “linguaggio dell’anima” (necessario «riferimento per garantire la spiritualità dell’uomo e il fondamento della sua sopravvivenza dopo la morte»[83]) non prevale sulla

 

«preoccupazione di dare risalto alla personalità dell’uomo in termini di “io umano” sussistente, dotato di coscienza e volontà. Lo stesso vale a proposito della risurrezione dei morti intesa come un evento “riferentesi all’uomo tutto intero”»[84].

 

È necessario, infatti, ribadire con tutta chiarezza

 

«il realismo dell’Incarnazione e della risurrezione […] affinché si eviti una nuova forma di “docetismo” escatologico che trascuri la consistenza della corporeità, infatti “è lo stesso corpo quello che ora vive e quello che risorgerà”»[85].

 

Non un’ipotetica – e parziale – salus animarum, quindi, ma la concreta dignità ontologica ed escatologica della persona, teologicamente prospettata e compresa quale “immagine di Dio”, deve costituire il fulcro per la leva dell’azione ecclesiale nel mondo. Le ricadute, p.es., sulla concettualizzazione del Matrimonio ed i suoi “bona” sono evidenti quanto irreversibili[86].

 

È quanto sollecitato dalla prospettiva “istituzional-personalista” che sta progressivamente consolidandosi nella riflessione delle Giornate canonistiche interdisciplinari[87].

3. Problematiche giuridiche ecclesiali attuali

 

3.1 La questione tributaria tedesca

La prima situazione concreta a cui dedichiamo attenzione dal punto di vista giuridico ed ecclesiologico insieme è quella pluridecennale del finanziamento da parte dei fedeli cattolici tedeschi alla Chiesa. Questione giunta al proprio epilogo normativo canonico col Decreto generale della Conferenza Episcopale Tedesca del settembre 2012, approvato dalla Santa Sede ed entrato in vigore in data 24/09/12[88], che risolve sotto il profilo operativo la questione dell’abbandono formale della Chiesa. Una questione la cui portata – proprio in Germania(!) – ha indotto alla modifica dello stesso Codice canonico latino col m.p. “Omnium in Mentem[89] proprio in relazione alla nullità del Matrimonio per difetto di Forma di coloro che risultavano (almeno secondo l’Anagrafe statale dei Culti) essere formalmente usciti dalla Chiesa cattolica (cfr. Cann. 1086 §1; 1117; 1124) senza che, per contro, la Chiesa come tale avesse potuto giocare qualche ruolo all’interno di tale “recesso formale”.

Si tratta di una questione di grande problematicità che ha coinvolto la Chiesa tedesca a vari livelli per vari anni in vari modi[90] e della cui gravità e pregnanza rendono ragione il parere dato da W. Aymans più di trent’anni fa[91], oltre all’intramontabile saggio di E. Corecco proprio sull’uscita dalla Chiesa per ragioni fiscali[92].

Il Decreto generale del settembre 2012 stabilisce che:

«la dichiarazione di uscita della Chiesa davanti all’Autorità civile competente costituisce come Atto pubblico un abbandono cosciente e deliberato della Chiesa ed è una grave mancanza contro la comunione ecclesiale. Chi, per una qualsiasi ragione, dichiara davanti all’Autorità civile competente la propria uscita dalla Chiesa infrange il dovere di preservare la comunione con la Chiesa (Codice di Diritto canonico, Can. 209 §1) e il dovere di offrire il suo contributo materiale affinché la Chiesa possa assolvere i suoi compiti (CIC, Can. 222 §1, in collegamento con Can. 1263). […]

L’Autorità ecclesiastica invita coloro che hanno dichiarato l’uscita dalla Chiesa a un colloquio in vista del loro pieno reinserimento nella Comunità ecclesiale. Esso mira a una riconciliazione con la Chiesa e a un ritorno al pieno esercizio dei diritti e dei doveri. Quando nel comportamento del fedele che ha dichiarato la propria uscita dalla Chiesa si può ravvisare un atto scismatico, eretico o apostatico, l’Ordinario avrà cura di prendere le misure corrispondenti»[93].

Dal punto di vista espressamente canonistico la questione pone vari problemi: primo tra tutti il dovere, assolutamente aspecifico, di tutti i fedeli di sovvenire alle necessità della Chiesa (cfr. Can. 222 §1). Dovere “aspecifico” in quanto non precisato nel Codice né [a] nell’individuazione di “quale” sia la Chiesa nei confronti della quale tale “dovere” diventi “obbligo” specifico giuridicamente esigibile oltre che [b] in nessuna delle sue possibili modalità attuative.

Per contro in Germania è ormai del tutto chiaro che tale dovere – in sé generico ed aspecifico – dev’essere inteso sussistere ad ogni effetto e doversi comunque assolvere [a] nei confronti della Conferenza Episcopale Tedesca, [b] attraverso il sistema tributario statale, come previsto dalla Legge dell’11 agosto 1919, ai tempi della Repubblica di Weimar[94] in riferimento alle c.d. Corporazioni religiose di Diritto pubblico[95] (di fatto le Confessioni religiose “storiche” presenti in Germania dalla Riforma in poi). La questione è tanto più complessa poiché non riferibile neppure al Diritto concordatario, dipendendo invece da quello unilaterale dello Stato[96]. Ci si trova così innanzi ad alcuni altri problemi strutturalmente interessanti dal punto di vista espressamente giuridico ecclesiale quali, p.es., il rapporto tra il domicilio canonico (diocesano) dei fedeli (cfr. Cann. 102; 106; 107) e la referenzialità di uno specifico territorio di carattere socio-politico (Stato, Land, Città anseatica) invece che ecclesiastico (Parrocchia, Diocesi), come invece potrebbe ipotizzarsi in caso di Diritto concordatario che fissasse per Legge canonica il territorio extra-diocesano di riferimento.

In tal modo il semplice domicilio diocesano finisce per determinare [a] non solo quale sia la Chiesa – non però “nazionale” (poiché tale concetto non esiste canonicamente) – cui dare il proprio contributo economico in quanto fedeli, ma anche [b] secondo quali specifiche modalità (nel caso: il sistema tributario statale), oltre che [c] molto maggiormente – poiché questo interviene a specificare una Legge generale indeterminata – il “quanto” ciascuno debba versare[97]; non di meno [d] la conseguenza indiretta del rifiuto di adattarsi a tale modalità attuativa della previsione aspecifica del Can. 222 diventa una vera Sanzione penale per il Delitto di Scisma/Apostasia.

Rimane tuttavia il fatto che l’acquisizione del domicilio canonico diocesano[98] – senza del quale non pare possibile sostenere l’obbligo canonico del fedele di assoggettarsi al Tributo (secondo il principio “odiosa restringenda, favorabilia amplianda”) – richiede cinque anni di fatto o, almeno, “l’intenzione di rimanere in perpetuo” in un determinato territorio (cfr. Can. 102) cosicché per un numero significativo di fedeli gli obblighi tributari in questione non possano neppure sorgere. È il caso – certamente – dei non Tedeschi che lavorino temporaneamente in Germania pagandovi le Tasse[99], mentre va escluso per i Tedeschi l’artificio di cambiare Diocesi di residenza entro ogni quinquennio all’interno delle Diocesi tedesche, visto che l’obbligo sorge non su base canonica (quindi: diocesana) ma statale ed è con lo Stato che ci si rapporta. Il trasferirsi con la stessa frequenza fuori e dentro dai confini nazionali è “caso di scuola” più che realtà ecclesiologicamente significativa… e concretamente sensata.

Pare chiaro che in questo tipo di circostanza non sia affatto sufficiente chiedersi “quid Iuris”? È, infatti, altrettanto evidente la necessità di chiedersi – e ben prima(!) – “quid Ecclesiæ” e “quid de Ecclesia hodie in hoc”?

Certo: le incongruenze strettamente giuridiche appaiono non poche e non trascurabili ed anche le scelte operate a livello di governo ecclesiale appaiono facilmente censurabili, ma meno trascurabile ancora risulta il fondamento ecclesiologico presupposto: in che cosa consiste concretamente, infatti, l’essere parte della Chiesa? È ipotizzabile un’adesione ecclesiale a-territoriale? Più radicalmente: è ipotizzabile un’adesione solo interiore e spirituale alla Chiesa? Quanto, ancora, e come il partecipare di fatto alla vita della Chiesa attraverso il proprio contributo economico coinvolge o mette in discussione in modo radicale il legame ecclesiale? In quale connessione spirituale e teologica con la fede cristiana e cattolica va collocato il rifiuto di partecipare economicamente alla vita della Comunità cristiana? Che senso spirituale e teologico occorre dare all’accettazione della Scomunica quale conseguenza della mancata partecipazione alle spese di funzionamento della Comunità ecclesiale? Tutte domande di espresso valore teologico che, in realtà però, non hanno praticamente mai costituito il vero problema dibattuto e contrastato a livello ecclesiale.

Dal punto di vista ecclesiale, infatti, il problema – risolto nel 2012 – era accettare il principio che un battezzato potesse “uscire” dalla Chiesa senza alcun contatto con la Chiesa stessa, ma attraverso una semplice dichiarazione rilasciata all’Amministrazione tributaria dello Stato e da questa successivamente trasmessa alla Conferenza episcopale nazionale in sede di computo delle somme annuali dovute e raccolte quali Imposta di Culto. La questione aveva già mosso nel 2006 il Pontificio Consiglio per i Testi legislativi che aveva fissato, attraverso una semplice “Lettera circolare”[100], la modalità sostanziale di gestione dell’abbandono formale della Chiesa. In tali indicazioni si esprimeva la necessità di un incontro (o almeno di sua richiesta o proposta) da parte dell’Autorità ecclesiale (Ordinario o, in subordine, Parroco) col fedele interessato così da poter verificare l’effettiva volontà dell’atto e, soprattutto, delle sue pesantissime conseguenze ecclesiali: proprio quanto è stato fissato dal Decreto generale del settembre 2012[101].

Non di meno va considerato anche come un certo numero di cattolici tedeschi da tempo abbia reagito a tale stato delle cose dimostrando nei fatti l’irrilevanza di quanto da essi stessi dichiarato davanti all’Autorità tributaria statale. Tali fedeli, infatti, dopo aver rifiutato la modalità “legale” di finanziamento alla Chiesa cattolica offrono annualmente alla propria Parrocchia una somma maggiore di quanto stabilito a livello statale (10% anziché 9%), contraddicendo in tal modo la semplice præsumptio facti – divenuta però oggi col Decreto generale præsumptio Iuris (tantum) – che sta alla base dell’intera problematica. Con tale offerta, infatti, essi soddisfano pienamente la prescrizione canonica – ed ecclesiologica(!) – del Can. 222 anche se in un modo differente da quello “stabilito” come ordinario per il loro territorio soltanto. Cosa dire, invece, di un’autotassazione diretta ma inferiore a quella fissata dallo Stato? L’obbligo del Can. 222 sarebbe ugualmente assolto da chi versasse alla Parrocchia o alla Diocesi il 5% anziché il 9%?

In merito si consideri anche la congenita cautela ecclesiale verso Imposte e Tributi e la loro sostanziale odiosità, motivo per cui il Legislatore canonico chiede che i “contributi” imposti alle persone giuridiche siano “non eccessivi”, mentre per le persone fisiche occorre una “grave necessità”, temporanea, per imporre una Tassa che sia “straordinaria e moderata” (cfr. Can. 1263); non eccessività e moderazione che, solitamente, si concretizzano in prelievi massimi del 5% sulle entrate degli Enti[102].

In materia non si può trascurare neppure un elemento giuridico extra-canonico ma non per questo di scarso rilievo generale: in Germania (e non solo) la Pubblica Amministrazione statale – proprio per la gestione della raccolta della Tassa di Culto – possiede e gestisce un “Registro” (o Anagrafe) delle appartenenze religiose dei cittadini, mentre la materia delle “convinzioni filosofiche e religiose” risulta essere ad ogni effetto una di quelle maggiormente “sensibili” per la tutela dei diritti fondamentali della persona[103] e della corrispondente Privacy. Al di là di ogni e ciascuna questione ecclesiale ed ecclesiologica, la gravità e delicatezza del “rischio politico” connesso anche alla sola esistenza in mano governativa di un tal genere di Anagrafe non può ritenersi a nessun titolo anche giuridicamente non rilevante.

3.2 La questione funeraria

Il secondo esempio giuridico-ecclesiale cui indirizzare in questa sede qualche specifica attenzione è costituito da un semplice fatto di cronaca anziché da quella che potrebbe ritenersi una vera questione di principio, qual è quella tributaria. Si tratta di una vicenda riguardante la gestione cimiteriale in una parte d’Europa che, evitato il passaggio napoleonico, non ne ha adottato le Norme che distaccavano i cimiteri dalle chiese[104], lasciando così giungere fino ad oggi la questione – anche di fatto – di un vero “Diritto canonico funerario” gestito su base “propria” dalle singole Comunità ecclesiali (sostanzialmente le Parrocchie) attraverso strumenti provenienti dal passato e ormai sconosciuti ai Paesi post-napoleonici (com’è in gran parte dell’Italia[105]). Secondo i Cann. 1240-1243 del CIC i cimiteri sono “luoghi sacri” e come tali vanno gestiti da parte della Chiesa, ovviamente nel caso in cui ne possieda (cfr. Can. 1180).

Orbene nella città di Dortmund (nella Renania Settentrionale-Vestfalia) a novembre 2012 si è verificato un fatto che ha creato scalpore ben al di là dei confini della città stessa, giungendo a coinvolgere l’ormai onnipresente “facebook” con decine di migliaia di “stati” in merito[106]. Si è trattato della controversa sepoltura di un bambino di nove anni, morto di tumore, che aveva dichiarato di voler sulla tomba i simboli della sua squadra di calcio del cuore: il Borussia Dormund, appunto. La sua vera “passione”… il suo credo. Ciò tuttavia era in contrasto con gli Statuti e le altre Norme vigenti per la gestione del cimitero cattolico: struttura che in tale contesto è non pubblica come invece nei territori post-napoleonici.

La questione, inizialmente non compresa dalla maggior parte dell’opinione pubblica anche internazionale, riguardava l’apposizione di simboli non cristiani (cattolici) sulla tomba all’interno di un cimitero confessionale: un pallone da calcio invece del crocifisso! Se il fatto non susciterebbe – almeno in Italia – alcuna meraviglia nei cimiteri pubblici dove già da tempo si vedono anche motorini, macchine da corsa, moto, biciclette, ecc. all’interno di un cimitero confessionale “privato” la questione non è affatto trascurabile.

La cosa maggiormente interessante di questa circostanza non è tuttavia il fatto in sé, ma la reazione incredula del Consiglio di gestione del cimitero parrocchiale che si è trovato completamente spiazzato tanto dalla richiesta dei genitori che, più ancora, dalle polemiche (attraverso “facebook”) succedute al primo, naturalissimo ed ovvio rifiuto di poter procedere secondo tale volontà e richiesta.

Al di là della successiva risposta conciliante espressa dal gestore del cimitero[107], che ammetteva i simboli sportivi in via subordinata a quelli religiosi, chiudendo così una querelle del tutto imprevedibile e non intenzionale, non si possono però trascurare alcuni elementi tanto giuridici che ecclesiologici.

Circa il “quid Iuris”: è possibile negare ad un infra-quattordicenne soggetto canonicamente a piena patria potestà quanto chiesto in suo favore dai genitori i quali, cattolici praticanti, abbiano diritto ad utilizzare il cimitero confessionale per sé e la loro famiglia? La volontà espressamente difforme di un ragazzino che abbia già raggiunto l’uso di ragione (ma non i quattordici anni per disporre della propria fede – cfr. Cann. 111; 112; 1478) è in grado oppure no di contrastare tale diritto spettantegli in ragione dei genitori?

Allo stesso tempo, non si può trascurare l’aspetto prettamente teologico della vicenda: il “quid Ecclesiæ hodie in hoc?” Concretamente, infatti, non solo non è fuori luogo ma anche occorre domandarsi quale sia lo specifico di un cimitero confessionale e, al suo interno, di quanto non abbia una logica e subordinata connessione con la fede religiosa in questione. Posto, infatti, e definito il cimitero di proprietà ecclesiastica come “luogo sacro”, come non tutelarne a buona e piena ragione la specifica identità confessionale?

Quanto, tuttavia, una tale “sensibilità” espressamente religiosa e spirituale risulta oggi adeguata al comune sentire di molti cattolici, anche “praticanti”? Certo: dai tempi delle catacombe come cimiteri (= dormitori) di una Comunità cristiana di assoluta minoranza sono passati vari (troppi?) secoli…

3.3 Nuove frontiere giuridiche per la Chiesa

Al di là di questi due esempi emblematici, si possono (e devono) considerare oggi anche altri fattori sino ad ora praticamente sconosciuti alla giuridicità ecclesiale ma che sono ormai strettamente implicati dall’essere hodie in questo mondo… anche dal punto di vista socio-politico e, quindi, giuridico. La prospettiva non solo è del tutto nuova ed espressamente “moderna” (diversa, cioè, dalla mentalità e cultura antica e medioevale), ma supera di gran lunga anche qualunque attesa o realizzazione di Diritto concordatario, andando ben al di là delle materie solitamente riconosciute a livello socio-politico come di specifica (anche se non esclusiva) competenza o interesse religioso ed ecclesiastico: le c.d. materie miste.

Sia permesso sollecitare qui – senza poterle affatto sviluppare – alcune altre “attenzioni”, anche molto differenti tra loro, con lo scopo unico di “alzare un po’ il sipario” e mostrare solo qualcosa di ciò che attende il futuro giuridico della Chiesa cattolica.

a) La questione tributaria tedesca innesca l’immenso tema della c.d. Privacy, protetta in sede comunitaria da svariate disposizioni normative e recepita nei diversi Paesi membri dell’Unione Europea non senza un forte e delicatissimo impatto con la prima sostanziale “Anagrafe” europea creata e gestita fin dai tempi del Concilio di Trento proprio da parte della Chiesa cattolica. I rapporti tra questa Anagrafe e quelle civili, tra i suoi diversi custodi, gestori e garanti, si presentano sempre meno agevoli nell’intersecarsi disorganico e frammentario di diversi Ordinamenti giuridici tra cui proprio quello canonico[108].

b) La questione funeraria apre lo sguardo su questioni sino ad oggi percepite soltanto a livello di mera cronaca, mentre esse rilevano specificamente in riferimento al quid Ecclesiæ: il “chi” ed il “come” delle Esequie ecclesiastiche (cfr. Cann. 1183-1184).

- Riguardo al “chi”, sia permesso ad un italiano ricordare quattro funerali dell’ultimo decennio[109] che hanno fatto parlare di sé a più livelli, evidenziando problematicità ancora non adeguatamente gestite: Piergiorgio Welby (dicembre 2006: Esequie ecclesiastiche negate per apologia di suicidio ed eutanasia[110]), Luciano Pavarotti (settembre 2007: Esequie ecclesiastiche presiedute dall’Arcivescovo per un divorziato risposato e convivente[111]), Sarah Scazzi (ottobre 2010: rito funebre religioso – senza Messa – per una quindicenne non battezzata, assassinata[112]), Lucio Dalla (marzo 2012: Esequie ecclesiastiche a persona “indicata” da terzi come omosessuale praticante[113]).

- Riguardo al “come”, si sta riproponendo il tema non tanto della cremazione in sé e per sé (cfr. Cann. 1176 §3; 1184 §1, 2°) ma della destinazione delle ceneri dei defunti cremati e precisamente la questione circa la loro “dispersione” nell’ambiente, cosicché del corpo mortale non rimanga segno alcuno a sollecitare la fede nella risurrezione e la preghiera di suffragio in attesa della parusia[114].

c) Altro elemento interessante, poiché particolarmente vicino all’attività universitaria che ci occupa, è il coordinamento della formazione accademica ecclesiastica (Istituti e Facoltà c.d. pontifici) col Processo di Bologna che intende integrare tutta la formazione superiore europea. In questo campo un Organismo della Chiesa universale (= la Congregazione per l’Educazione cattolica), parte della Curia romana, sta fungendo da Ministero dell’Università e della Ricerca per la Santa Sede in modo tale da rapportarsi “alla pari” coi correlativi Ministeri degli Stati europei aderenti al Processo stesso.

d) Anche le tristi vicende in campo penale canonico che hanno segnato soprattutto gli Stati Uniti nell’ultimo decennio hanno palesato l’estrema difficoltà espressamente giuridica a concepire e comprendere da parte degli Ordinamenti giuridici statuali a quale tipologia di rapporto civilistico (non però privatistico!) sia riconducibile quello che lega il romano Pontefice coi Vescovi e questi coi membri dei loro Presbiterii.

e) La diminuzione del clero e dei religiosi già da tempo ha portato molte Istituzioni ecclesiastiche europee e nord-americane a sostituire il precedente personale ecclesiastico e religioso con dipendenti laici ai quali si applicano – e si deve farlo – le disposizione giuslavoristiche vigenti nei diversi Paesi. Quanto sia difficile gestire l’interazione tra le esigenze del lavoro dipendente e quelle di specifica natura ecclesiale quali retta dottrina, condotta morale, tempi e condizioni di assegnazione di Uffici e funzioni ecclesiastiche (si pensi all’Economo diocesano o ai Giudici dei Tribunali ecclesiastici, tutti da nominarsi ad tempus e, pertanto, “precari” a vita) è questione che solo pochi ancora intuiscono appieno.

Si pongono qui soltanto questioni espressamente giuridico-canoniche (connesse ad esplicite Norme di Legge) poiché è con queste che i giuristi ecclesiali del futuro dovranno misurarsi; quanto agita, invece, le piazze o le Aule dei Parlamenti per questioni espressamente etiche, prima che giuridiche, (eutanasia, Matrimoni non eterosessuali, eugenetica, ecc.) appartiene al campo della Politica estraneo al presente apporto.

 

 

Concretizzazione della prospettiva illustrata

 

4.1 Aspetto oggettivo: il rinnovamento della Canonistica

Da quanto sin qui esposto e sollecitato, seppur per sommi capi, emergono con forza alcune necessità espressamente giuridiche alle quali l’attuale Canonistica non può continuare a negarsi.

a) Prima di tutto si tratta di operare una “de-formalizzazione” culturale delle attuali configurazioni e categorie giuridiche canoniche, distinguendo [a] le finalità da perseguire, dalle [b] modalità funzionali a tale obiettivo e dalle [c] loro forme non tanto “tradizionali” (termine che non rende il concetto) ma “culturali”, assunte lungo i secoli soprattutto all’interno del mondo romano-germanico medioevale in cui ha preso corpo la Christianitas quale comprensione pregiudiziale del vivere umano.

Uno sguardo attento, infatti, alle diverse linee dottrinali canonistiche oggi attive evidenzia il rischio di essere e rimanere vincolati non tanto alla soluzione giuridica adottata in un determinato momento (= la Norma come tale) ma alla sua “formalizzazione culturale” in un determinato tipo di paradigmi socio-culturali ed istituzional-giuridici[115]. Non di meno: appare ormai chiaro come la comprensione vetero-europea del vivere ed attuare nella storia non sia più sufficiente alla Chiesa come tale. Continua infatti ad emergere quasi quotidianamente, per quanto spesso solo a causa di problemi e negatività davanti a cui si corre immediatamente ai ripari anziché “esporsi” ad un confronto serrato quanto effettivamente concludente, lo iato tra il sentire e pensare giuridico tipicamente ecclesiastico e quello ormai secolare/civilistico diffuso nelle società contemporanee anche in molti c.d. cattolici praticanti.

b) In secondo luogo, occorre togliere al Diritto canonico l’incombenza – del tutto impropria – di offrire protezione normativa e rifugio d’autorità a quanto non possiede un proprio fondamento sufficiente, come avviene in diverse forme di giuridizzazione della Teologia o di teologizzazione del Diritto canonico. Il Diritto come tale, infatti, non “crea” contenuti né può rafforzarli nei loro fondamenti sostanziali, ma ne tutela soltanto la stabile recezione e condivisione, soprattutto operativa a livello sociale, cercando e prospettando soluzioni per i problemi che progressivamente emergono e chiedono attenzione[116].

Il Diritto non impone “che cosa” fare ma indica “come” farlo[117]. Il “che cosa”, infatti, non deriva dalla Norma ma dalla decisione attuativa previa: religiosa, etica o politica che sia; mentre la decisione – a sua volta – deriva dall’adeguata conoscenza e considerazione di cause, circostanze e finalità: il quid Ecclesia, nel nostro caso.

c) In questa prospettiva diventa inevitabile, pertanto, riconoscere che il futuro della giuridicità ecclesiale non sta nelle Norme e tanto meno nella loro esegesi ma negli Istituti giuridici e nella dogmatica giuridica, oltre che nella concezione del Diritto in sé e per sé come “lingua franca” all’interno dell’attuale società “multi” da cui non si darà “ritorno” prima di alcuni secoli.

Nessuna Norma puntuale e specifica, infatti, è in grado di affrontare la realtà complessa del vivere umano, neppure nel suo coordinamento sistematico con le altre Norme dell’Ordinamento di cui è parte. È invece la comprensione istituzionale della difficoltà e necessità di vivere in ogni qui ed ora che offre ai contenuti della Norma una origine ed una finalità, un senso ed una intenzionalità, capaci di far sì che la Norma stessa sia solo un “segno” – pubblico, stabile e credibile – di una dinamica ben più ampia e sempre in divenire. Non un approccio sistematico, quindi, ma sistemico affinché non ci si possa accontentare di un mero ordine interno (al Sistema/Ordinamento) ma si sappiano cercare le vie e modalità di co-presenza, dialogo e bilanciamento, con l’intera esperienza giuridica umana all’interno della quale anche la Chiesa si muove e della quale la Chiesa stessa rimane un’espressione tutt’altro che trascurabile col suo patrimonio giuridico bimillenario e davvero universale.

Proprio questo significa e comporta la de-formalizzazione giuridica ecclesiale, affinché l’attenzione si possa liberamente e consapevolmente fissare sul quid ben prima e maggiormente che sul quomodo, richiedendo al giurista ecclesiale di ragionare non tanto in modo intra-ordinamentale ma inter-ordinamentale, conoscendo e padroneggiando talmente in profondità l’Ordinamento canonico da non aver più bisogno di nessuna singola Norma in sé, ma da saper individuare volta per volta le migliori modalità di realizzazione dell’irrinunciabile quid Ecclesiæ presente in ogni circostanza e situazione esistenziale.

Come fu per lunghi secoli – almeno – dal Maestro Graziano al Cardinal Gasparri.

 

4.2 Aspetto soggettivo: ecclesialità del giurista ecclesiale

Al di là delle considerazioni sin qui svolte sugli aspetti più oggettivi (in quanto giuridici e teologici) riguardanti la figura del giurista ecclesiale contemporaneo – considerazioni indirizzate prevalentemente alle sue competenze tecniche e che riguardano più direttamente l’attività didattica e formativa – l’esperienza di docente dell’Institutum Utriusque Iuris suggerisce di dare anche specifica considerazione alla componente in qualche modo soggettiva della preparazione e soprattutto dell’animus del giurista ecclesiale: il suo “esse in Ecclesia” e “sentire cum Ecclesia”. Ciò a cui risponde parzialmente l’introduzione di uno specifico “Primo Ciclodi studi teologici[118] prima che si cominci ad entrare nelle maglie proprie del Diritto canonico e della Canonistica (Secondo Ciclo); formazione non richiesta – per esempio – per iscriversi alle Facoltà “pontificie” di Filosofia.

L’esse in Ecclesia ed il sentire cum Ecclesia, infatti, sono indispensabili sia per lo studio del Diritto canonico sia per l’attività anche professionale in tale campo, che non possono assimilarsi ad una qualunque delle altre specializzazioni giuridiche, soprattutto a livello di esercizio. Il giurista ecclesiale non è come un privatista o un amministrativista o un penalista: uno “specializzato” in uno specifico settore del Diritto. La sua non è prima di tutto una ulteriore “competenza professionale” ma una vera e propria “funzione ecclesiale”… sia che egli giudichi, sia che svolga le funzioni di Patrono, sia che assista e supporti il governo ecclesiale con l’attività di Curia.

D’altra parte: come potrebbe porsi la domanda circa il quid Ecclesiæ chi non abbia una propria autentica esperienza ecclesiale? Che tipo di risposta corretta e convincente si potrebbe dare a chi – o da parte di chi – non sappia neppure cosa sia la vita di Parrocchia? Che cosa sarebbe ai suoi occhi un Vescovo diocesano o una monaca di clausura? Soltanto uno status giuridico fatto di prerogative codificate dalla Legge?[119]

Proprio quanto sin qui illustrato intendeva mettere in luce l’assoluta insufficienza di qualunque “positum” rispetto alle reali necessità ecclesiali odierne. La sfida che si pone oggi al Diritto canonico non è infatti la soluzione legale a qualche eventuale problema, ma la capacità di cogliere, delineare e gestire, nella sua concreta dimensione giuridica ciò che potrebbe diventare problema …anche – e soprattutto – prima che altri ne debbano fare le spese. Se, infatti, il Diritto canonico serve ad evitare o a risolvere problemi all’interno della vita della Chiesa e dei fedeli, l’atteggiamento principale del giurista ecclesiale è proprio quello di essere lui stesso parte attiva e sensibile della Comunità cristiana che si trova coinvolta nelle diverse situazioni di – almeno potenziale – portata istituzionale e giuridica. Anche per questo si è proposta – e trattata – in queste note la figura del “giurista ecclesiale” e non del semplice “canonista” (eventualmente a-ecclesiale).

Esse in Ecclesia e sentire cum Ecclesia, non “valgono” per il giurista ecclesiale come una sorta di limite come potrebbe intendersi – non correttamente – per il teologo il quale

«poiché oggetto della Teologia è la Verità, il Dio vivo ed il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo, […] è chiamato ad intensificare la sua vita di fede e ad unire sempre ricerca scientifica e preghiera»

in modo da essere

«più aperto al “senso soprannaturale della fede” da cui dipende e che gli apparirà come una sicura regola per guidare la sua riflessione e misurare la correttezza delle sue conclusioni»[120],

chiedendogli pertanto di non dimenticare mai «di essere anch’egli membro del Popolo di Dio», oltre che di «nutrire rispetto nei suoi confronti e impegnarsi nel dispensargli un insegnamento che non leda in alcun modo la dottrina della fede»[121].

Tutto questo non è ancora sufficiente per il giurista ecclesiale. Per esso, infatti, esse in Ecclesia e sentire cum Ecclesia sono vere e proprie componenti epistemologiche e gnoseologiche senza le quali non potrebbe neppure accingersi alla propria attività. L’attività giuridica infatti non si occupa di “dottrine” più o meno “date” – addirittura per rivelazione divina – da approfondire prima di tutto in sé e poi per la fede e vita dei credenti, ma di “atti” e di “fatti” attuali da qualificare[122] e gestire all’interno della vita – presente – della Comunità di fede, come ben esprime l’antica locuzione latina: “da mihi factum et dabo tibi Ius”.

Il giurista ecclesiale non solo deve penetrare la dottrina alla luce della fede, come il teologo, ma deve penetrare il vissuto umano alla luce dell’ecclesialità… senza la quale l’intero Diritto canonico si riduce all’enunciato testuale di poche migliaia di Canoni. Non di meno, se per il teologo si pone il problema del “dissenso” rispetto al Magistero o alla Tradizione della Chiesa[123], per il giurista ecclesiale si pone invece l’impossibilità stessa di cogliere nei singoli “casi” gli elementi ed i fattori assonanti e/o dissonanti con l’essere stesso della Chiesa in modo non teorico ma pratico. Ciò che può avvenire solo in relazione – anche – alla propria esperienza personale di partecipazione attiva e motivata alla vita stessa della Comunità di fede. Mentre, infatti, la Rivelazione divina sta comunque sempre “davanti” alla Comunità di fede e le rimane in qualche modo “esterna/frontale”, non potendosi mai identificare pienamente con essa, l’esperienza giuridica della medesima Comunità di fede coincide – invece – con la vita stessa di tale Comunità, così che, mentre la Comunità di fede non produce affatto la Rivelazione da cui dipende la sua esistenza, essa produce invece il Diritto che regola tale esistenza.

In tal modo il giurista ecclesiale appartiene intrinsecamente alla Comunità di fede di cui si occupa[124] così che, come recentemente ribadito, «la corretta comprensione della Disciplina è quella che avviene dal suo interno» rendendo necessaria la «appartenenza dello studioso allo stesso sistema che egli cerca di indagare. In questa logica, insomma, qualsiasi altra collocazione risulterebbe decontestualizzata»[125]. Infatti il Diritto in senso proprio non si trova – già dato – “in natura” ma è un prodotto fortemente socio-culturale mai davvero conoscibile al di fuori del proprio Sitz im Leben. Non di meno, se il Diritto canonico costituisce “la grammatica della vita ecclesiale”[126]: non si può studiare né insegnare una lingua viva (ed il Diritto canonico non è un Ordinamento “storico” ma attualmente vigente) senza parlarla correntemente nel suo stesso “ambiente”.

Tale appartenenza non significa però – come paventato – che il giurista ecclesiale (a differenza del teologo!) non sia chiamato

 

«anche a decostruirne il sistema, a riconsiderarne i fondamenti, a sollevare dubbi e non accontentarsi delle certezze, per proporre la materia in modo finalmente problematico come si addice a qualsiasi altra Disciplina»[127]

 

così da capire e gestire meglio le problematiche in gioco. Che tal genere di “attività” debba/possa essere realizzata congruamente (cioè “scientificamente”?) solo da non-credenti, non solo non trova alcun fondamento in nessun settore della ricerca scientifica, ma tanto meno nella storia della Canonistica[128]. Ciò soprattutto in considerazione del fatto – generalmente trascurato o negato – che il Diritto canonico non tocca affatto il dogma in sé e per sé ma dipende, eventualmente, dal dogma stesso, così che proprio la decostruzione, la riconsiderazione, il dubbio, siano gli strumenti ordinari di lavoro del giurista ecclesiale proprio nella verifica della reale ed adeguata corrispondenza tra la fides quærens intellectum connessa al dogma (campo d’indagine dei teologi) e la fides quærens actionem dipendente dal dogma (campo d’indagine e decisione dei canonisti). Il più comodo “Decretum Gratiani” non era forse in origine una meno comoda “Concordia discordantium Canonum”? Un manuale critico di metodologia canonistica?

 

4.3 Aspetto formativo: la formazione del giurista ecclesiale

A dieci anni dalla riforma degli studi canonistici superiori, sia permesso offrire qui anche qualche considerazione più specifica sul “modo” di studiare oggi (e domani) il Diritto canonico, in riferimento soprattutto a quanto sinora illustrato circa “i” due aspetti fondamentali della formazione attuale dei canonisti: giuridicità (= quid Iuris?) ed Ecclesiologia (= quid Ecclesiæ?).

 

4.3.1 Giuridicità

Una pur sommaria analisi degli attuali approcci allo studio del Diritto canonico evidenzia tre indirizzi fondamentali di natura e portata espressamente epistemologica, ben prima che metodologica soltanto: [a] esegetico-testuale, [b] sistematico-ordinamentale, [c] dogmatico-concettuale; indirizzi che, per quanto generalmente non applicati in modo esclusivo da parte di nessuno, ciò nonostante risultano concretamente espressivi (e propositivi) di differenti modi preferenziali d’intendere la giuridicità ed il Diritto canonico e, conseguentemente, l’attività (e formazione) dei suoi operatori.

 

In sede teoretica già uno screening preliminare mette in luce che, mentre [a] l’approccio esegetico-testuale si concentra sul testo normativo (= schola textus), finendo per identificare giuridicità e Diritto col dettato normativo stesso, [b] l’approccio sistematico-ordinamentale offre invece una visione più ampia del Diritto canonico, ponendo quale primo referente della giuridicità non le singole Norme ma il ben più ampio ed articolato Ordinamento col quale – in modo organico – il Diritto canonico finisce per identificarsi[129]. È quanto corrisponde sostanzialmente al “primo livello” della dogmatica giuridica moderna che la Scuola canonistica laica italiana portò dall’ambito civile a quello canonico soprattutto attraverso l’opera di O. Giacchi, P.A. D’Avack, P. Fedele, P. Ciprotti, V. Del Giudice[130] acquisendo alla Canonistica l’idea di “Ordinamento giuridico” al posto della “societas necessaria iuridice perfecta[131], in una prospettiva però tendenzialmente solo “ricostruttiva” dell’Ordinamento come tale.

Al di là di qualsiasi necessario “distinguo” e delle evidenti irriducibilità, i due approcci risultano tuttavia accomunabili per il loro auto-riferirsi alla sola giuridicità ecclesiale percependola (e presentandola) come un’attività sostanzialmente “interna” alla Chiesa che – a seconda dei casi – tollera soltanto o gestisce più appropriatamente elementi e fattori d’analogia col Diritto “esterno”, suscitando in qualcuno l’idea che «dal punto di vista della Chiesa è impossibile stabilire un confronto paritario tra il Diritto canonico e Diritto secolare»[132], dovendo lasciare – o legittimare, addirittura – che altri facciano ciò, mantenendosi rigorosamente extra mœnia.

 

In prospettiva differente, l’approccio dogmatico-concettuale allarga, invece, gli orizzonti e gli spazi al di là dell’Ordinamento canonico come tale, collocando la giuridicità ecclesiale entro l’intero fenomeno giuridico – sia religioso che laico – così come messo in atto e vissuto dall’umanità nelle sue diverse forme di organizzazione e gestione istituzionale, nel tempo e nei luoghi[133]. In tale prospettiva ogni Norma risulta la puntuale – parziale e temporanea – concretizzazione (hic et nunc) delle rationes agendi societarie/comunitarie dell’Ordinamento stesso (anche storicamente e geograficamente inteso e considerato)[134] prima e più che delle voluntates disponendi di qualche Autorità, pure “suprema”.

Tale approccio al Diritto canonico (ed al suo insegnamento) risulta molto più sensibile alla struttura giuridica come tale ed alle sue logiche, dinamiche ed interazioni interne (e spesso anche esterne), che non al “solo” dettato della Norma di turno. In tale prospettiva il Diritto è concepito e presentato sostanzialmente come una “struttura” di relazioni: una rete (network) – si dice più facilmente oggi – di connessioni e relazioni funzionali organizzate tanto parallelamente che gerarchicamente[135], oppure – ancora maggiormente – una rete di reti (inter-network) di relazioni in cui non conta tanto conoscere ciascuna singola e specifica rete o sotto-rete di relazioni (come potrebbero essere il Diritto universale o quello particolare o quello proprio o quello speciale…), ma il funzionamento di interi “settori”, soprattutto quelli a tema specifico (= le diverse “materie” giuridiche), indipendentemente dalla loro concreta distribuzione e stratificazione[136]. In fondo sono solo singoli “elementi” operativi che cambiano[137], mentre la struttura (= la rete di reti), che è per sua natura olistica[138] e sistemica[139], tende ad autoconservarsi metabolizzando molti dei cambi che possono segnare anche in modo molto pesante specifici ambiti di connessione/relazione[140]. In questa prospettiva è l’approccio strutturale e dinamico a dover essere compreso ed interiorizzato, lasciando i singoli “elementi” alla specifica e puntualissima applicazione di ogni singolo caso concreto.

Ciò comporta, però, una differente referenza alla dogmatica giuridica moderna: una referenza che va oltre la – iniziale – ricostruzione endogena dell’Ordinamento canonico e lo colloca all’interno dello “spazio giuridico globale” di cui esso è stato indubbio attore-protagonista per quasi due millenni, fungendone in varie occasioni tanto da crocevia che da nutrice[141]. Uno “spazio giuridico globale” inteso sia cronologicamente che geograficamente nel binario della comparazione giuridica: quella storica e quella contemporanea. Una comparazione che non s’identifica né si risolve affatto nell’Utrumque Ius come specifico Piano e Titolo di studio, ma che percepisce e colloca il Diritto canonico all’interno dell’unum Ius (l’attuale “Ius commune[142]) di quel “villaggio globale” che è l’umanità odierna (e futura). Una comparazione, tuttavia, che non è fine a se stessa disperdendosi in artificiose sinossi ed improbabili parallelismi istituzionali e normativi a caccia di sterili similitudini ed analogie, ma che cerca di raggiungere gli strati più profondi della giuridicità indicati nei concetti di “categorie” e “dogmi” che la (seconda) dogmatica giuridica moderna ha saputo mettere a fuoco ed indicare quale grembo del Diritto stesso[143]. Storia del Diritto e sue Fonti da una parte, Istituzioni di Diritto e Comparazione dall’altra, affinché il Diritto canonico sia e rimanga quello che la Chiesa ha creato e vissuto nei secoli, pur nel rigore interpretativo ed applicativo delle Norme vigenti. Un rigore “tecnico” e non semplicemente interpretativo… un rigore tanto più tecnico quanto più coerente coi presupposti stessi e la pratica della giuridicità come tale.

Solo così, d’altra parte, il “presente” più sopra illustrato può essere letto ed affrontato in termini adeguati ed anche il “futuro” può in qualche modo essere (previsto e) preparato: ciò che – oggi – fanno le Scienze.

 

4.3.2 Ecclesiologia

Approcciare la giuridicità ecclesiale nell’orizzonte dell’esperienza giuridica come tale (antropologica, sociologica, storica, ordinamentale, internazionale) ne comporta però una irrinunciabile e più ferma e specifica collocazione e radicamento all’interno di quello che la Chiesa è e sa di (dover) essere «con particolare riguardo alle due Costituzioni, dogmatica Lumen Gentium e pastorale Gaudium et Spes»[144] del Concilio Vaticano II, facendo leva sulla strutturante componente ecclesiologica quale specifico elemento che caratterizza il suo Diritto. Dipenderanno, infatti, prima di tutto ed essenzialmente dall’essere Chiesa le peculiarità del Diritto canonico rispetto alle altre forme di giuridicità.

Proprio a questo livello si colloca, in modo quasi naturale, la nuova Disciplina espressamente introdotta dalla riforma degli studi canonistici superiori del 2012/2013: la “Teologia del Diritto canonico”, nei confronti della quale va rilevata un’interessante reviviscenza di pubblicazioni[145] ed interessi proprio in questi ultimissimi anni[146]. Un’attività – però – (vecchia e nuova) disorganica ed ai limiti della contraddizione, come dimostra il confronto ancora in corso tra alcuni autori tanto sulla sua denominazione che sui suoi contenuti[147], che permangono fluttuanti in modo del tutto inconcludente tra [a] una Teologia della Legge, [b] una fondazione teologica del Diritto come tale, [c] una fondazione – teologica o no – del Diritto canonico… da quarant’anni in bilico tra Teologia morale, Antropologia teologica e filosofica, Filosofia del Diritto, Ecclesiologia, Ontologia… e quant’altro.

Per parte propria le istanze e prospettive delineate più sopra circa la specifica ed irrinunciabile “ecclesialità” dell’attività pur tecnica richiesta oggi ai giuristi ecclesiali non sembrano lasciare molti spazi di manovra né consistenti dubbi circa l’ambito e la qualità della “Teologia” cui riferire la concezione stessa del “Diritto canonico”: [a] l’Ecclesiologia per quanto concerne il “quid Ecclesiæ” e [b] la Teologia fondamentale per quanto riguarda l’“hodie in hoc”.

Ecclesiologia e Teologia fondamentale che devono indicare in modo chiaro [a1] quali siano lo “spazio” ed il “fine” propri dell’attività ecclesiale e [b1] gli strumenti peculiari di tale attività attraverso la storia, alla quale la Chiesa stessa appartiene a pieno titolo[148]. Il fine dell’attività giuridica ecclesiale, infatti, non è determinare quale e quantode Deo et de divinis” sia contenuto nell’una o nell’altra attività compiuta dalla e nella Chiesa, attività questa che è specifica delle Teologie non-dogmatiche[149], ma come far sì che proprio “tali” contenuti teologici vengano realmente realizzati “hodie in hoc” attraverso l’attività ecclesiale. È, in fondo, la “fides quærens actionem” già proposta negli anni Sessanta del XX sec. da L. Örsy[150] e ripresa da P. Erdö alla metà degli anni Novanta[151], oppure – che è la stessa cosa – la dimensione deontica della vita cristiana, pure proposta in epoca conciliare da T.I. Jiménez Urresti[152].

In tale prospettiva la Teologia del Diritto canonico offre il suo miglior apporto se non si fa portatrice di specifici contenuti (come la Legge, la salvezza, la Norma… oppure il metodo canonistico, l’Ecclesiologia, l’Antropologia[153]) ma se mette a disposizione del giurista ecclesiale adeguati strumenti per operare il corretto “passaggio” tra il creditum ed il factum, tra il credendum e l’agendum, tra l’intellectus fidei e l’actio Christifidelium/Ecclesiæ, tra la norma fidei e la norma communionis[154], in una prospettiva epistemologica capace di riconoscere la specifica identità (= id est) dei diversi elementi che entrano in gioco nella concretezza della vita cristiana, tanto individuale che comunitaria (= prospettiva istituzional-personalista).

Si tratta, in altri termini, non tanto di spiegare “perché” una Norma canonica o l’intera Legislazione è – e deve essere – “teologica” (= fondazione teologica), ma di mettere in risalto “quanto” un determinato comportamento (attuato o “da attuarsi”, poiché tale è una Norma) sia – o debba essere – “teologico”: quanto, cioè, esso dipenda non dalle circostanze contingenti di persone, fatti e cose, ma dal cuore irrinunciabile della fede cristiana; quanto, cioè, implichi e coinvolga l’essere discepoli di Cristo – qui, ora – tanto per il singolo che per l’intera Comunità di fede (= l’Ecclesia). Da questi elementi – radicalmente fondanti, poiché emergenti dalla consapevolezza teologica della Chiesa – sarà poi possibile o necessario “derivare” il quid Iuris in hoc in/pro Ecclesia hodie.

In tal modo, la concezione metodologica della Teologia del Diritto canonico[155], fornisce non un’improbabile apologetica giustificazione teologico-spirituale-morale del legalmente positum, come nell’intenzione e realizzazione di K. Mörsdorf[156] e seguaci, ma un “principio guida sintetico”[157] che permette di portare alla luce (dischiudendone le rationes) l’irrinunciabilmente ecclesiale coinvolto nella vita credente, soprattutto comunitaria.

Quattro i criteri d’indagine e verifica, gli stessi ormai comunemente riconosciuti alla base della Teologia fondamentale (immanenza, ermeneutica, contestualità, integrazione) che il giurista ecclesiale potrà assumere, per parte propria, come veri elementi e fattori di base della propria metodologia operativa: principio di istituzionalità, principio di relatività, principio d’inculturazione, principio di complessità[158].

Quattro “filtri” che permettono di setacciare le più diverse situazioni esistenziali in cui possano venirsi a trovare (o si siano già trovati) i discepoli del Signore Gesù, offrendo loro – ed alla madre Chiesa – elementi utili a capire se, cosa, come, operare concretamente a tutela della verità del vivere evangelico e della missione costitutiva della Chiesa stessa.

Una prospettiva, come pure il confronto con la letteratura – più o meno tematica – mostra, anche in questo campo piuttosto diversa da quanto la risacca dottrinale continua a portare a riva da passati naufragi… Una prospettiva attenta all’oggi della vita cristiana e della missione ecclesiale, perché è solo attraverso un presente consapevole che si può creare un vero futuro, tanto più se di fede.




in: APOLLINARIS, LXXXVII (2014), 81-127