1. Introduzione
Tra le tematiche più espressamente tecniche che l’attuale Diritto amministrativo canonico dovrebbe affrontare per offrire un’effettiva utilità alla vita della Chiesa si collocano in primissima linea le concrete modalità per opporre resistenza – ad normam Iuris (et Legis) – agli atti amministrativi singolari promananti dall’attività di governo ecclesiale, non importa di quale specifica ‘natura’ (gerarchica o associativa). L’espresso problema tecnico, infatti, sta ormai smettendo di riguardare principalmente generici rapporti problematici tra autorità gerarchiche e fedeli in chiave di “tutela dei diritti soggettivi” o di “giustizia amministrativa”, mentre cresce il numero di coloro che oggettivamente si trovano nella necessità di ‘contenere’ varie forme di (tentativo) di governo ecclesiale esercitato da soggetti che, in nome della loro autorità nella Chiesa, pongono atti di governo non solo inaccettabili per i loro destinatari ma, più ancora, insostenibili per l’ordinata convivenza ecclesiale.
In questa prospettiva, indipendentemente dai presupposti – individuali o di scuola – dell’interessamento al Diritto amministrativo canonico e della sua stessa “fondazione”, è urgente la messa a punto di veri strumenti operativi che, ad normam Iuris Legisque, permettano d’indicare corretti modi di “gestire” già in limine la maggior parte delle problematiche connesse a tale nuovo (triste) fenomeno… Impedendo – anche – che sempre e solo “Roma” debba farsi carico di una quantità crescente di problemi che, di per sé, neppure dovrebbero sorgere, manifestando (inoltre) un po’ a tutti i livelli le stesse reali difficoltà tecniche.
Punto di riferimento delle presenti riflessioni (e proposte) sono due elementi di estrema concretezza:
- da una parte, le questioni, i ricorsi e le cause che sempre più numerose (e ‘strane’) giungono alla curia romana nel suo complesso (= dicasteri e tribunali);
- dall’altra, gli innovativi presupposti “tecnici” recentemente delineati in materia non solo di “illegittimità” canonica ma pure di vera e propria “illiceità”.
Quale necessaria premessa ordinamentale di queste riflessioni non è possibile trascurare un ulteriore elemento, solitamente ignorato dai più: l’ordinamento canonico, per quando ormai espresso fondamentalmente attraverso un palinsesto “codiciale”, continua a non avere una reale struttura e funzionalità di natura “legislativa” tipica dei presupposti di civil Law, in ossequio al principio illuminista che “libertà è vivere sotto le Leggi e non sotto gli uomini”, così che la Legge è divenuta l’intero Diritto, finendo per coincidere con l’ordinamento stesso, al punto che “quod non est in codice non est in mundo” (secondo quanto si attribuisce al card. Gasparri).
A livello canonico, invece, va considerato che spesso la Legge (i codici in particolare) pone soltanto norme-quadro, lasciando del tutto libero o indeterminato il resto della materia (procedimenti e procedure in primis). Ci sono infatti numerosi istituiti giuridici che nei codici canonici sono solo richiamati ma non adeguatamente regolati: si pensi, p.es., alla sostituzione del parroco quale rappresentante ed amministratore della parrocchia “prevista” indirettamente dal Can. 1742 ma non normata se non nella prassi.
La quasi bimillenaria vita giuridica ecclesiale, in effetti, ha ben mostrato come l’animo più profondo del Diritto canonico sia quello della effettività: ciò che conta e rileva nella Chiesa è ciò che viene posto in essere, realizzato e comunque recepito, al di là di una sua espressa corrispondenza o meno alla Legge o alla previsione della Legge stessa, spesso del tutto assente. Per questo il mondo canonico pre-codiciale era dominato dalle decretali (ut in singulis) ben prima che dai canoni (ut in pluribus). Per questo, non di meno, i facta concludentia hanno sempre costituito il suggello terminativo di quasi ogni questione (v. infra: 4).
Si potrebbe addirittura dire che l’ordinamento canonico funziona a due ‘livelli’:
- quello ordinario-consensuale, gestito per via di semplice effettività, e
- quello straordinario-contenzioso, gestito per via di formale legalità,
secondo un doppio registro che vede intervenire il Diritto propriamente inteso solo in caso di questione effettiva, come nel common Law, in cui il rimedio giuridico (= Diritto) si attiva solo in via sussidiaria per sanare l’inadeguatezza della vita concreta.
Ne deriva la sostanziale, ma anche formale, “efficacia” di ogni condotta ed attività che non siano state poste in – adeguata – discussione dagli aventi parte, destinatari in primis.
Di fatto, canonicamente, ciò di cui nessuno si lamenta è ritenuto efficace e vigente ad ogni effetto, senza che il Diritto debba sempre intervenire ab ovo in qualunque attività: Ius sequitur vitam (nulla quæstio, nullum noxium, nullum remedium). Non di meno: quando qualcuno invece si lamentasse di qualcosa (= quæstio) si deve provvedere di comune accordo a riconoscere il “problema” sorto e a risolverlo in modo efficace innanzitutto attraverso le vie non-contenziose: conciliazione (e/o mediazione) in primis. Se poi ciò non bastasse, o non si rivelasse possibile, occorrerà far ricorso a quanto già previamente individuato all’interno dell’ordinamento stesso come principio o regola o, addirittura, Legge; tanto più all’interno di procedimenti e procedure già fissati, soprattutto in tema di disciplina ecclesiastica, uffici ecclesiastici e processi.
Questa sorta di strabismo della prassi canonica non viene generalmente rilevato nella maggioranza dei casi in quanto ‘corretto’ da condotte virtuose (o da effettiva ignoranza) che ne evitano di fatto la maggior parte degli esiti concreti. Spesso in molti si lamentano per i modi “discutibili” in cui qualcuno opera nella Chiesa, ma tutto finisce lì… eventualmente con qualche nota polemica sui giornali locali o contraccolpi elettorali in seno ai capitoli dei religiosi, ma nulla di più. Si pone, pertanto, come ormai urgente una riflessione – per quanto del tutto interlocutoria – proprio sugli specifici strumenti che l’ordinamento canonico (anche se – forse – non la Legge) conosce e permette di utilizzare.
2. Patologia e tutela
Quanto giunto sino a noi soprattutto dall’ultimo secolo di vita canonica ha interpretato queste tematiche principalmente nell’ottica della “patologia”, in specifico: la patologia dell’atto amministrativo, ponendo l’attenzione sulle “caratteristiche” di – quasi – ogni tipologia e natura di atti amministrativi come tali, sottoposti ad una meticolosissima analisi volta o a certificarne la “perfezione” oppure al ricupero della stessa.
L’esposizione del padre Francesco D’Ostilio è divenuta ormai tipologica nella mente di molti operatori di Curia condensando il comune sentire e pensare in merito, fino ad assurgere a vero paradigma: «l’atto amministrativo può nascere morto, deforme o invalido», giustificando così la messa in opera di tutti gli interventi “medicali” adeguati ad una vera e propria “terapia dell’atto amministrativo”: terapia preparativa e successiva, specificata a sua volta in terapia chirurgica e terapia medica.
In realtà un tale approccio aveva mostrato le proprie debolezze strutturali già agli inizi dell’opera di revisione codiciale quando il primo sinodo dei vescovi approvò i “princìpi” che avrebbero dovuto guidare la riformulazione del codice latino. Tra essi spiccano in vario modo elementi chiaramente orientati non più alla “perfezione dell’atto amministrativo” quanto, invece, alla diretta “tutela dei soggetti” in esso coinvolti (princìpi sesto e settimo) fino alla richiesta esplicita di erezione di specifici tribunali a ciò dedicati (principio settimo). Su questa scia – partendo soprattutto dalla coeva istituzione della “Sectio Altera” della Segnatura Apostolica (agosto 1967) – si è mossa la quasi totalità della dottrina ad oggi attiva e molta giurisprudenza, convogliando e concentrando l’intera materia nella linea della “giustizia amministrativa” o, più recentemente, della “responsabilità dell’amministrazione”. Una linea teoretica (e, derivatamente, applicativa) che ha contribuito a ‘sollevare’ verso l’alto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica l’intero ambito della “tutela”, vedendola realizzarsi compiutamente nel solo intervento giudiziale (il c.d. contenzioso amministrativo). Un intervento che la dottrina stessa ha progressivamente caldeggiato nella sua possibilità di espandersi agli elementi sempre più sostanziali delle questioni (in ragione del “danno”), invocando addirittura quale propria meta ideale la completa trattazione giudiziale del merito di qualsiasi causa.
Ne è però derivato – questa almeno è l’impressione dello scrivente – un sostanziale indebolimento dell’intero sistema di tutela dei soggetti dovuto alla concreta sproporzione tra la maggioranza delle questioni sul campo (qualità e quantità) e la reale possibilità di accesso al Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica per la loro risoluzione.
Partendo da questo approccio assolutamente pratico ed operativo risulta dunque necessario mettere a fuoco la legittima, oltre che costitutiva, autonomia di tutti gli istituti giuridici – di qualunque natura e grado – finalizzati alla gestione delle maggiori problematiche connesse al governo ecclesiale quotidiano. È, infatti, già alla prima “istanza” sostanziale (comunque denominata), anche se non ancora tecnicamente “giudiziale”, che di fatto si affida il compito e lo scopo di risolvere la questione una volta per tutte. Sarà invece la sostanziale insoddisfazione o inadeguatezza della soluzione ivi conseguita (o lo stesso rifiuto della ricerca di una soluzione – il c.d. silenzio) a spostare a livelli ulteriori il conseguimento dello stesso scopo. Questo, dunque, dev’essere anche lo spirito e l’intendimento di chi decida, in ambito canonico, di affrontare il complesso (e periglioso) percorso di non-esecuzione di una disposizione di governo che lo riguardi o coinvolga “directe”. Ciò, d’altra parte, è comune alla maggioranza dei sistemi giuridici oggi vigenti: nessuno infatti (tranne rarissimi casi, veramente “eccezionali”) pensa di poter o dover risolvere i problemi di natura giudiziaria che lo riguardano o coinvolgono attraverso l’intervento, p.es., della Corte Suprema (negli USA) o della CEDU (in Europa) o altri organismi comunque ‘terminativi’ (= supremi) dell’attività giudiziaria.
Purtroppo l’analisi della dottrina e della scienza canonistica degli ultimi decenni non pare indirizzare in questa linea di sviluppo. La giurisprudenza, non di meno, “formata” e sostenuta da tali elementi teoretici non mostra di esser riuscita ad offrire migliori chances proprio a causa dell’assunzione dell’impostazione dottrinale già citata che ha indirizzato quasi ogni cosa – e caso – nell’alveo dell’illegittimità “amministrativa” così da poterne chiedere la soluzione giudiziale da parte della Segnatura Apostolica una volta superati i livelli inferiori di “sbarramento” costituiti dalla “richiesta previa” (come anche viene chiamata la remonstratio) e dal ricorso gerarchico. E tale, non di meno, risulta essere oggi anche il “pensiero” (?) di tale tribunale (sic).
3. Gli atti e il Diritto
La riflessione sugli strumenti di “resistenza” agli atti/provvedimenti di governo che potrebbero (e potranno) suscitare la volontà di non osservanza e l’effettiva non-esecuzione da parte di qualche soggetto non può prescindere dalla previa considerazione della loro “qualità”, senza per questo addentrarsi ora nell’intera teorizzazione dell’atto giuridico come tale, neppure di quello solo “amministrativo”. Si prenderanno in considerazione, invece, i soli atti/provvedimenti dell’autorità di governo che richiedano per loro natura la “esecuzione” o “recezione” da parte di qualcuno, poiché solo in tali casi si profila una possibile non-esecuzione.
- Dal punto di vista strettamente legale un atto/provvedimento può essere [a] lecito o illecito, [b] legittimo o illegittimo in base al suo rapporto con la Legge, oltre che con le fonti inferiori del Diritto ad essa subordinate e connesse.
- Non di meno la vita ecclesiale, ed il Diritto canonico stesso, hanno mostrato lungo i secoli attenzione e sensibilità anche verso altre qualificazioni dell’atto/provvedimento in base non alla generalità e genericità dell’ordinamento come tale ma alla concreta situazione ed alle specifiche circostanze in cui si possa effettivamente trovare il suo destinatario. In tale prospettiva l’atto/provvedimento può essere individuato come: [c] indifferente o gravoso, [d] favorevole o sfavorevole.
In tal modo le quattro componenti ‘negative’ che derivano dall’applicazione congiunta di questi due criteri di valutazione generano una vera e propria “gerarchia” delle cause di possibile opponibilità e/o non-esecuzione degli atti/provvedimenti stessi: una gerarchia che sarà anche la guida stessa delle diverse modalità operative nei loro confronti.
a) Il vertice della negatività di un atto/provvedimento è occupato dalla sua “illiceità”: l’atto/provvedimento illecito è contra Legem, contrario a quanto la Legge o l’ordinamento prevede in modo generale per tutti gli appartenenti delineando che cosa, in linea di massima, possa essere fatto oppure no, senza che in ciò rilevi specificamente la distinzione operata dal Can. 10 tra Leggi irritanti o inabilitanti e Leggi non tali, ciò infatti riguarda la sola validità degli effetti dell’atto (v. infra), che non rientra in queste considerazioni. Di fatto la Legge – o il Diritto come tale – attribuisce a specifici soggetti all’interno dell’ordinamento determinate “caratteristiche” o “funzioni” (= diritti, facoltà, prerogative, ecc.) giuridicamente rilevanti e come tali tutelabili, per quanto non sempre espressamente tutelate. L’atto illecito, violando tali “situazioni giuridiche” individuali, risulta formalmente privo di efficacia, al di là che esista o meno una qualche forma di sanzione contro chi lo abbia posto. Ciò che, invece, conta – e fa la concreta differenza rispetto a qualunque altro atto – è che esso non deve essere eseguito, né si può urgerne in alcun modo l’esecuzione da parte di nessuno nei confronti di chicchessia. Si tratta della forma più grave di violazione del Diritto come tale e, poiché praticamente sempre viola ciò che il Diritto stesso attribuisce o riconosce a qualcuno, la sua tutela è data da due istituti giuridici di base: eccezione ed azione (cfr. Can. 1491 CIC) da parte del soggetto cui l’atto è indirizzato o che sia direttamente coinvolto dalla esecuzione dell’atto stesso. In base poi al tipo di atto potrebbe anche essere prevista una specifica sanzione da parte del Diritto, anche di natura penale a carico di chi lo abbia posto in essere. L’inefficacia dell’atto/provvedimento è radicale ed esso non produce ex sese alcun effetto (ex tunc). Un tale atto, se non è nullo per il Diritto stesso (cfr. Can. 10) – nullità che deve comunque essere posta in evidenza –, gode presunzione – Iuris tantum – di validità (cfr. Can. 124), salvo impugnazione (= azione giudiziale) o non-esecuzione da parte del titolare del diritto oggettivo/soggettivo (= ius in re) violato o messo in discussione. Al contrario, la concreta esecuzione dell’atto senza alcuna contestazione ne avalla la presunta validità, rendendolo di fatto efficace per il concorso dell’esecutore consenziente.
La categoria dell’illiceità – per altro – in ambito canonico è molto complessa poiché viene utilizzata maggioritariamente in materia sacramentale per indicare atti sacramentali “validi” ma posti contro la Legge e pertanto “illeciti”; nello stesso ambito si parla invece di “illegittimità” in modo molto minore.
Esempi di atto/provvedimento illecito: incamerare o alienare beni altrui o disporne uti dominus, conferire uffici ecclesiastici non vacanti di Diritto, violare o non assolvere doveri contrattuali.
b) Il secondo livello di negatività è costituito dall’atto/provvedimento posto in essere sub Lege (o infra Legem, che è lo stesso) ma non realizzato secundum Legem (o ad normam Iuris, come si dice spesso) come, cioè, previsto e prescritto a livello normativo. Non si tratta cioè di “violazione” (= illecito) ma di “non applicazione” della Legge soprattutto per quanto riguarda le modalità operative (= procedimenti e procedure). In tali casi si parla di atto lecito ma illegittimo: lecito poiché non lede direttamente nessuna “attribuzione soggettiva” di alcuno (o dell’ordinamento come tale), illegittimo poiché non ha rispettato le specifiche “modalità” o “condizioni” o “requisiti” connessi dalla Legge al suo compimento. L’atto illegittimo è “infra Legem” quanto alla sostanza (abilità e competenza del suo autore in primis) ma non “secundum Legem” quanto al modo di porlo: diverso, seppure non-contrario, da quanto prescritto dalla Legge. È la fattispecie di maggior ricorrenza, che si realizza quando l’autorità di governo esercita proprie “funzioni” attribuitele dalla Legge/Diritto (p.es.: doveri d’ufficio) ma in modo diverso da quello prescritto: un modo che, pur non violando le “attribuzioni” di alcuno (il che costituirebbe illiceità), non tiene tuttavia conto di un certo numero di elementi e fattori che la Legge/Diritto ha già valutato e ritenuto essere “ottimali” – e pertanto necessari – per garantire il corretto perseguimento delle finalità previste. Contro l’illegittimità di specifici atti il Diritto prevede opportuni rimedi tra cui anche la rescissione (ex nunc) per l’atto doloso (cfr. Can. 125 §2) o la provvisione illegittima (cfr. Can. 149 §2), sia attraverso decreto che per sentenza giudiziale. Rescissione di un atto di per sé “legale” ma che si presenti non rispondente a tutti i requisiti di ottimalità preventivamente esigiti/imposti dalla Legge (p.es.: libertà, conoscenza, volontà, preparazione, competenza, ecc. – cfr. Cann. 125; 126; 149). Anche a questo livello non risultano significative le questioni riguardanti la “validità” dell’atto/provvedimento.
Esempi di atto/provvedimento illegittimo: conferimento di ufficio ecclesiastico a chi non ne abbia i requisiti, rimozione dall’ufficio ecclesiastico dotato di stabilità, privazione anziché rimozione, conferimento di ufficio ecclesiastico diverso da quello concordato.
c) Al terzo livello di negatività si pone l’atto/provvedimento che sia comunque lecito e legittimo, non avendo in sé alcuna “patologia” (secondo il linguaggio dottrinale), ma che comporti gravosità/onerosità per il destinatario (o qualche altro soggetto direttamente coinvolto). L’atto gravoso si presenta come atto sia lecito che legittimo in riferimento alla Legge (= infra et secundum Legem) per quanto non adeguato in riferimento al destinatario. In tale caso il riferimento non è più il Diritto in sé (oggettivo o soggettivo; Law o right) ma il destinatario/coinvolto dalla sua “applicazione” indiretta: un destinatario/coinvolto che viene a trovarsi in una situazione di oggettivo peggioramento della propria condizione esistenziale o funzionale. Peggioramento che comporterebbe la necessità di sforzi rilevanti o “gravi incomodi” da parte sua per far fronte a quanto deciso, non esclusa l’effettiva impossibilità (fisica o morale) di assolvere a quanto richiesto. È il caso di elementi e fattori che riguardano la salute o la preparazione specifica o la proporzione del carico di lavoro con le capacità individuali. Deve trattarsi, in ogni caso, di un effettivo peggioramento delle condizioni abituali di vita (per le persone) oppure di operatività (per enti ed istituzioni).
d) Il quarto livello della gerarchia delle negatività degli atti/provvedimenti è occupato da quello che, ad ogni buon effetto, dev’essere considerato un fattore non nativamente giuridico ma che, proprio per la subordinazione e strumentalità del Diritto rispetto alla persona, merita ugualmente di essere considerato, soprattutto all’interno della vita ecclesiale. Si tratta dell’atto/provvedimento che, pur lecito, legittimo e non gravoso, risulti tuttavia in qualche modo sfavorevole al suo destinatario (o ad altro soggetto coinvolto) o anche non gradito. I motivi sono i più diversi, spesso di natura assolutamente individuale ma anche funzionale oppure solo formale; tutti comunque in grado di sollecitare una diversa decisione da parte dell’autorità di governo. Si può pensare – p.es. – a preferenze geografiche o spirituali, a maggiori propensioni per un tipo di uffici ecclesiastici che non altri, ecc.
La gerarchia qui indicata risulta comunque non conclusiva poiché all’interno di questo genere di riflessioni non viene solitamente considerata la non univocità e dinamicità della “qualificazione” delle negatività dei singoli atti/provvedimenti. È questo un fattore che genera spesso gravi perplessità negli addetti ai lavori, oltre che reali problematicità nella trattazione delle vicende concrete: lo stesso atto/provvedimento formale, infatti, potrebbe configurarsi in modalità del tutto differenti in base, prima di tutto, ai soggetti effettivamente coinvolti… dovendosi anche considerare spesso elementi e fattori del tutto circostanziali (v. infra, n. 5).
4. Gli atti e la loro non-recezione
Alle “negatività” – ed alla loro “gerarchia” – afferenti gli atti/provvedimenti di governo ecclesiale sono connesse specifiche modalità tutorie dei loro destinatari/coinvolti presenti in vario modo nell’esperienza giuridico-canonica ab immemorabili, seppure in modalità anche radicalmente diverse nel tempo. Si tratta di tre istituti giuridici ben distinti tra loro, oltre che specificamente finalizzati: petitio, remonstratio, exceptio, ciascuno dei quali adatto a perseguire proprie finalità peculiari in chiave di tutela iniziale.
Ad essi si affianca la modalità di tutela ritenuta strutturalmente ordinaria all’interno della maggioranza degli ordinamenti giuridici “occidentali”: l’actio iudiciaria alla quale il CIC dedica l’intero Libro VII e della quale – ovviamente – non ci si può occupare in questa sede anche perché non pertinente, di per sé, alle modalità di non-esecuzione degli atti/provvedimenti.
a) All’atto/provvedimento sfavorevole o non gradito (v. supra: 3c/d) s’indirizza la petitio: “anche se… chiedo che…”.
È la questione del come conseguire il miglior bene (individuale e/o comunitario) a pari entità di impegno ed utilizzo di risorse. Ciò che si chiede innanzi ad un atto/provvedimento formalmente ineccepibile sotto ogni punto di vista è una vera e propria “grazia”: la riconsiderazione della decisione ed un suo diverso esito maggiormente gradito o favorevole al richiedente. Di fatto ci si muove nel campo della mera discrezionalità che l’ordinamento riconosce all’autorità di governo nella gestione ad essa affidata delle risorse “pubbliche” (di fatto e di Diritto nessuna risorsa “individuale” è mai a disposizione del governo ecclesiale!) ad essa affidate per l’espletamento del suo ufficio. Trattandosi di vera e propria “grazia” (concessione, cioè, non dovuta, né favorita dal Diritto come tale) non è ricorribile in caso di sua non considerazione ed accoglimento.
b1) Remonstratio ob gravamen (v. supra: 3c): “anche se… contesto però che…”.
È la questione del gravame, inteso come sproporzione tra il bene pubblico perseguito dall’autorità di governo e l’impegno o carico individuale richiesto a tal fine al destinatario/coinvolto. Il soggetto, pur riconoscendo la liceità e legittimità di quanto disposto a suo riguardo in modo generico, ritiene tuttavia di trovarsi in condizioni individuali che, non solo non gli permettono – almeno in coscienza – di dare esecuzione a quanto richiestogli, ma anche giustificano una sua formale richiesta di cambiamento di tale disposizione: richiesta che il Diritto impone all’autorità di valutare in modo specifico e puntuale. In tali frangenti entrano spesso in considerazione non solo elementi e fattori individuali/soggettivi ma anche elementi di comparazione con altri soggetti a pari condizioni ai quali tale onere/gravame viene, invece, risparmiato causando uno squilibrio inter-soggettuale (e funzionale) ritenuto concretamente discriminatorio o arbitrario. Dato il coinvolgimento diretto di risorse prettamente individuali – come sono sempre quelle della persona – la (non) risposta alla remonstratio è ricorribile per Legge. Si tratta, anzi, dell’unico caso di ricorso gerarchico possibile sia a motivo della non-risposta, sia a motivo della sua non adeguatezza alle motivazioni addotte (cfr. Can. 1735).
Costitutiva della remonstratio è la “rimostranza” (= non condivisione e messa in discussione) contro l’atto/provvedimento: non si tratta, infatti, di una mera “domanda” (= petitio) di sua modifica ma di una vera e propria “contestazione” fondata su fatti e circostanze provati o provabili.
b2) Di fatto la remonstratio risulta uno strumento adatto anche a contrastare l’illegittimità degli atti/provvedimenti (v. supra: 3b) segnalandone la presenza al loro autore (remonstratio ob illegitimitatem). La dinamica di autotutela, infatti, che tale strumento innesca da parte dell’autorità di governo ecclesiale, permette una facile revisione di quanto già inadeguatamente attuato. Attraverso le informazioni emergenti dalla remonstratio colui che ha posto in essere un atto/provvedimento illegittimo ha la possibilità di prenderne atto e di porvi prontamente rimedio attraverso l’emanazione di un diverso atto/provvedimento che goda le caratteristiche della legittimità in quanto – finalmente – aderente alle richieste della Legge e del Diritto in materia e, pertanto, incontestabile. In questa prospettiva un utilizzo adeguato della remonstratio potrebbe risolvere sin dalle loro prime avvisaglie molti problemi e contrasti connessi alla scorrettezza del procedere di chi governa. In tale prospettiva si consideri anche che la remonstratio, di sua natura, “apre” la possibilità del ricorso gerarchico non altrimenti realizzabile.
c) Eccezione (v. supra: 3a): “anche se… eccepisco che…, pertanto…” [“inoltre diffido da…”].
Si è dinanzi ad un atto illecito, che viola la Legge come tale e, pertanto, non solo non va eseguito ma anche deve essere rimosso cosicché la “vittima” non sia costretta ad introdurre azione giudiziale contro il suo autore (= causa iurium) per non dover subire le conseguenze negative di tale atto. Si tratta di una situazione radicalmente diversa dalle precedenti ed in nulla ad esse rapportabile poiché il suo presupposto è la espressa violazione di Legge (= illiceità). A questo livello, la “notifica di eccezione” – che tale risulta essere l’atto posto dal destinatario/coinvolto – all’autore dell’atto/provvedimento opera esattamente come la remonstratio ob illegitimitatem attivando l’autotutela che permette all’autorità di governo di caducare autonomamente l’atto/provvedimento stesso ristabilendo automaticamente lo status quo ante e, con esso, tutti i precedenti patrimoni e rapporti giuridici tra i soggetti coinvolti.
La notifica di eccezione può essere eventualmente accompagnata ed accresciuta nella propria portata (o seguita successivamente) anche dalla formale diffida dal voler perseguire l’esecuzione dell’atto da parte del suo autore. È legittima in tale sede anche la prospettazione della possibile azione giudiziale in caso di non caducazione dell’atto, senza però scadere nella “minaccia”, o in forme più o meno esplicite di “ricatto”.
Pur molto differenti tra loro nei presupposti, nei contenuti e nelle conseguenze, petitio, remonstratio, exceptio si realizzano di fatto in modalità del tutto simili attraverso una “lettera” indirizzata all’autore istituzionale dell’atto/provvedimento amministrativo in questione affinché provveda autonomamente alla sua riconsiderazione, revisione o revoca, evitando così conseguenze indesiderate per il proprio atto di governo e senza ancora “innescare” profili più espressamente contenziosi.
Una nota conclusiva sull’efficacia degli atti/provvedimenti amministrativi singolari merita la loro concreta ed effettiva esecuzione. Contro l’atto/provvedimento eseguito dal suo destinatario/coinvolto non è più dato alcun genere di rimedio poiché l’esecuzione – volontaria – basta a se stessa, non tanto nel “confermare” ex post un atto anche illecito, ma a causa della non contestazione dell’atto/provvedimento da parte dell’esecutore il quale, proprio in tal modo, si preclude la possibilità di ulteriori interventi a tutela della sua posizione giuridica. Non di meno: l’ordinamento, per parte propria, ha interesse a garantire il massimo di stabilità possibile (quindi: efficacia) a tutte le situazioni giuridiche esistenti.
Un esempio concretissimo in tema di “fatti concludenti”. A primavera un parroco accetta la proposta che il vescovo gli fa di trasferimento ad altra parrocchia e, durante l’estate, lascia libera la casa canonica andando a vivere in un appartamento di famiglia. A settembre, ancora in attesa che il suo “predecessore” lasci libera la parrocchia ad quam, egli stesso partecipa all’immissione nell’ufficio di parroco del suo “successore” nella parrocchia a qua da lui prontamente già lasciata “libera”. Durante i mesi dell’autunno, nell’inutile attesa che la “sua” nuova parrocchia diventi vacante così da poterne assumere la guida, si rende conto che in realtà non è più parroco pur senza aver mai dato le dimissioni, né senza essere divenuto parroco della parrocchia prospettatagli in primavera. Per quanto egli si ostini a ripetere il disposto del Can. 153 §1 sulla nullità ex Lege del conferimento degli uffici ecclesiastici non vacanti di Diritto, in realtà alla sua posizione non esistono rimedi di sorta poiché la sua non-opposizione all’immissione del nuovo parroco laddove lui sarebbe ancora tale in ragione della non realizzazione del trasferimento (cfr. Can. 191) gli preclude ogni genere di attività giuridica a protezione della sua precedente titolarità dell’ufficio di parroco. Non di meno: non sarà ormai più possibile mettere in discussione l’efficacia dell’espletamento dell’ufficio di parroco del suo successore nella parrocchia a qua. Validità, liceità, legittimità, ecc. non obstantibus.
5. Qualche esemplificazione concreta
Quanto prospettato in via teoretica trova sue attualissime concretizzazioni in alcune reali (o realistiche) vicende giudiziarie ben prima che in c.d. casi di scuola.
5.1 Prima fattispecie: rimozione di giudice ecclesiastico
Il vescovo moderatore di un tribunale ecclesiastico con formale decreto rimuove dal proprio ufficio un giudice, in ragione del calo di risorse economiche disponibili per il mantenimento dell’attuale numero di officiali del tribunale stesso (= spending review).
Come qualificare l’eventuale negatività di tale atto? L’atto è – comunque e soltanto – illegittimo?
Dal punto di vista dello stretto Diritto (cfr. Can. 1422) l’ufficio di giudice è un ufficio a tempo determinato (la cui durata è stabilita negli statuti di ciascun tribunale) che, come tale, non ammette cessazione ab extrinseco se non attraverso apposita procedura, penale o disciplinare. L’atto, pertanto, privo della procedura ad normam Iuris è illegittimo, poiché difforme dalla previsione di Diritto.
La questione, tuttavia, non si ferma qui poiché occorre considerare anche lo status del giudice rimosso e il territorio in cui ciò sia avvenuto: l’essere, infatti, chierico o laico potrebbe fare una grossa differenza, così come il sistema di sostentamento del clero, non tanto per l’ufficio ecclesiastico in sé ma per il connesso contratto di lavoro.
- Collocando il fatto in Italia ed avendone come protagonista un presbitero ci si dovrebbe porre nell’ottica della sola illegittimità poiché l’affidamento dell’ufficio ecclesiastico non ha ricadute dirette su di un contratto di lavoro in quanto il sostentamento del clero si realizza certamente in ragione dell’ufficio ma per altra via rispetto a quella contrattuale.
- Sempre in Italia ma con protagonista un laico ci si dovrebbe porre sia nell’ottica della illegittimità (ratione officii) che della illiceità (ratione contracti) in quanto il giudice laico dovrebbe essere assunto come lavoratore dipendente da parte del tribunale ponendo in essere un regolare contratto di lavoro che il tribunale deve osservare per Diritto canonico ex Can. 1286. La violazione contrattuale costituisce ad ogni effetto un illecito anche in ambito canonico (cfr. Can. 1290).
- Nel resto d’Europa, negli Stati Uniti o in altre parti del mondo sarà necessario considerare l’incidenza dei diversi elementi e fattori sopra indicati, considerando che l’aspetto giuslavoristico potrebbe offrire gli scenari più disparati da luogo a luogo, anche per i chierici.
Quali strumenti di tutela individuale adottare in questi casi?
- Contro l’illegittimità certamente la remonstratio ob illegitimitatem in quanto non si tratta di semplice atto gravoso ma pienamente illegittimo la cui non riconsiderazione apre all’immediato ricorso gerarchico al superiore competente ratione materiœ: la Segnatura Apostolica nel caso (come dicastero e non come tribunale!).
- Contro l’illiceità occorrerà procedere attraverso la notifica di eccezione con annessa diffida dal voler eseguire l’atto e prospettazione di azione giudiziale ordinaria (ex Can. 1400 §1, 1°) contro la violazione del contratto. Tribunale competente per tale – eventuale – azione: la Rota Romana per riserva assoluta relativamente ai vescovi (cfr. Can. 1405 §3).
5.2 Seconda fattispecie: chiusura di chiesa non parrocchiale
Il vescovo diocesano, avuta notizia certa e comprovata di abusi dottrinali e liturgici all’interno delle attività svolte in una chiesa cittadina non parrocchiale, con decreto la chiude al culto.
Quali eventuali negatività può suscitare un tale atto?
Dal punto di vista dello stretto Diritto (cfr. Cann. 756 §2; 835 §1) il vescovo diocesano ha la piena potestà – ed il dovere – di vigilare sulla predicazione e sull’esercizio del culto, soprattutto all’interno delle chiese aperte al pubblico; l’atto, pertanto, parrebbe profilarsi sia lecito che legittimo, relegando a mero chiacchiericcio ogni tipo di contrarietà che ne possa derivare.
La questione in realtà potrebbe presentare profili molto differenti, e correlate fattispecie di negatività anche gravi, in ragione almeno della conduzione di tale chiesa, senza considerarne (ora) la proprietà.
- Primo scenario: la chiesa appartiene ad un Istituto religioso clericale (non importa se pontificio o diocesano) il quale ex Lege (cfr. Can. 611, 3°) ha diritto ad avere una “propria” chiesa aperta al pubblico nella quale esercitare il ministero sacerdotale, come previsto dalle costituzioni. In questo caso la chiusura della chiesa costituisce un’evidente diretta violazione di un diritto vero e proprio di tali religiosi, configurando un espresso illecito, cui occorrerà opporsi attraverso la notifica di eccezione et sequentibus.
- Secondo scenario: la chiesa appartiene ad una confraternita che da secoli la custodisce provvedendo al suo decoro, alla manutenzione e alla conservazione e fruizione di alcune opere d’arte di particolare valore anche per la devozione popolare. Il suo radicamento nel tessuto cittadino la vede oggetto di assidua frequentazione da parte di un buon numero di fedeli che, in tal modo, contribuiscono anche al suo mantenimento. La chiusura al culto priverebbe la gestione dell’immobile della maggior parte delle proprie “entrate” economiche impedendone la conservazione. Si tratterebbe di un serio gravame per l’ente proprietario e gestore che, in mancanza di eventuali finanziamenti sostitutivi da parte della Diocesi, non potrebbe continuare la propria attività. Lo strumento adeguato di tutela individuale è la remonstratio ob gravamen (et sequentibus).
- Terzo scenario: la chiesa appartiene ad una parrocchia ma si configura ab immemorabili come rettoria affidata ad un presbitero diocesano, generalmente anziano, che alloggia presso di essa e ne assicura il funzionamento a beneficio dei fedeli del quartiere. In questo scenario emergono profili di illegittimità in quanto è necessario verificare “chi” siano i protagonisti degli abusi denunciati al vescovo: se il rettore stesso oppure qualcuno a cui egli abbia concesso saltuariamente o stabilmente l’uso della chiesa. In ogni modo è necessario distinguere (in decernendo) [a] la chiesa come tale ed il servizio che effettivamente essa rende ai fedeli, rispetto [b] alle persone responsabili degli abusi denunciati. In tale contesto emerge anche la questione di chi concretamente possa proporre la necessaria remonstratio contro l’atto episcopale: il parroco della parrocchia proprietaria della chiesa? O sul cui territorio la chiesa è posta? Il rettore della chiesa? Qualche fedele suo assiduo frequentante? Ciò, però, porterebbe la riflessione ‘oltre’ gli strumenti come tali.