Pastorale ordinaria e pastorali speciali: note canonistiche sui rapporti tra Chiese particolari e clero religioso





La domanda circa l’identità e la consistenza dei rapporti oggi possibili e necessari tra Chiese particolari (= Diocesi) ed Istituti religiosi può esser posta – e di fatto lo è stata – in vari modi: da quello storico a quello teologico (ecclesiologico in particolare1), fino a quello ontologico (= cosa sono le Diocesi e cosa sono gli Istituti religiosi in sé e per sé), trovandosi ben presto a dover gestire improbabili equilibrismi, comportanti prima o poi l’egemonia – almeno di fatto – di uno dei due termini della questione. È questo che il canonista vorrebbe evitare nell’odierna circostanza, soprattutto in ragione della specificità del contesto in cui si collocano le presenti riflessioni2; contesto che permette, invece, di proporre e delineare per sommi capi un approccio diverso da quelli sin qui offerti qual è quello espressamente pastorale.

Questo, d’altra parte, per il canonista sembra corrispondere meglio alla realtà del tutto specifica costituita dagli attuali rapporti tra la Diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e gli Istituti religiosi clericali francescani operanti da secoli nei Santuari di Assisi, in conseguenza del m.p. “Totius Orbis3 del 2005 che ha – genericamente – ristabilito il “Diritto comune” proprio a tal riguardo.

Sarà espressamente il “Diritto comune” (cioè il CIC) a costituire la referenza fondamentale – per quanto indiretta – della “prospettiva canonistica” assegnata a questo intervento soprattutto per il fatto che proprio la “Pastorale” è l’ambito in cui si muovono le Norme canoniche a cui Benedetto XVI rimandava nel m.p.


La Pastorale, d’altra parte, è la sede più autentica ed in qualche modo originaria della giuridicità ecclesiale, come dichiarava espressamente l’Editoriale di “Concilium” del 19654 che proponeva un nuovo approccio al Diritto canonico secondo la sensibilità – e consapevolezza – emerse dal Concilio Vaticano II. Alla Pastorale, non di meno, è sempre necessario ritornare quando s’intenda comprendere il quid ed il quomodo del Diritto canonico e la sua corretta collocazione nella vita della Chiesa5 quale “strumento concreto” ad communionem fovendam e non come “elemento teoretico fondativo” da cui cercare di dedurre il vissuto ecclesiale.



1. Il reale problema “canonico”


1.1 L’approccio canonistico in generale


Posta a livello di principio la referenza diretta tra Diritto canonico e Pastorale è tuttavia necessario scendere più vicino alla realtà concreta all’interno della quale – ed a partire dalla quale – sorgono i reali problemi e si chiede al Diritto canonico di offrire soluzioni fondate ed efficaci… e lo stesso Diritto canonico, in realtà, le ha già fornite in modo abbastanza chiaro nel tempo.

A tale scopo è possibile presentare il Diritto canonico come la “grammatica”6 della vita ecclesiale – della Pastorale, in specifico – cosicché ciò che conta per il canonista (così come per il Legislatore) non è mai la “regola” in sé ma la sua origine e, più ancora, la sua concreta finalità e/o strumentalità. La Grammatica “struttura” una lingua ma non la esprime né la costituisce completamente, risultandone sempre subalterna.

Ciò significa che davanti alle Norme che regolano in modo generale (ed assolutamente generico) il comportamento soprattutto inter-istituzionale dei diversi soggetti nella Chiesa7 (diverso dai rapporti coi fedeli come tali), la prima cosa cui dedicare attenzione non è la “regola” come tale, ma il problema istituzional/funzionale per il quale la regola (soprattutto codiciale, ossia il “Diritto comune”) è stata data come soluzione di principio quasi a-priori. Il Diritto infatti, per sua natura, risolve problemi e, più ancora, placa ed evita conflitti8.

Si potrebbe usare anche la metafora dei farmaci. Quando c’è la salute, nessuno pensa né a medici né a farmaci: va tutto bene e si è a posto così. Quando, invece, comincia ad emergere qualche ‘problema’ (di salute) – che significa che la si sta perdendo – allora si va dal medico e ci si aspetta una diagnosi e la prescrizione di farmaci che ristabiliscano la salute.

Il Diritto fa lo stesso (anche quello canonico): entra in gioco quando le cose – da sole – non stanno in piedi, quando i rapporti ordinari tra i diversi soggetti istituzionali nella Chiesa cominciano a non funzionare più al meglio.

Come, però, non si va direttamente in farmacia (dove stanno tutti i farmaci) ma si va prima dal medico per capire che cosa sta succedendo, così si deve fare col Diritto: cercare prima di capire quale sia il problema! È la diagnosi, attraverso la quale dai sintomi si cerca di risalire alla patologia o disfunzione in atto, sia essa “acuta” o “cronica”. Nessuno si nasconde che proprio questa è la parte più delicata e nello stesso tempo decisiva dell’intero intervento medico: sbagliare la diagnosi comporta infatti sbagliare anche la cura; senza che questo, tuttavia, metta in discussione l’intera Medicina e le sue conoscenze e competenze più specifiche (spesso anche ignote al medico di base che deve effettuare la prima diagnosi)9.


1.2 L’approccio canonistico al tema


Le utilissime riflessioni ecclesiologiche proposte dal prof. Canobbio10 hanno provato a collocare la tematica dal punto di vista del rapporto di principio tra Chiese particolari ed Istituti religiosi riconducendo l’essenza del problema alla dinamica – ancora tutta da mettere a fuoco – del rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari, facendo leva su una presunta speciale connessione tra gli Istituti religiosi – in realtà solo quelli clericali – ed il ministero “universale” di Pietro11. “Presunta” poiché questa connessione in realtà varrebbe soltanto per gli Istituti religiosi di Diritto pontificio e non per la generalità degli Istituti di vita consacrata. La differenza non è di poco conto poiché dal punto di vista ontologico (come mostrato dal prof. Martinelli12) l’essenza della vita religiosa non consiste né nell’attribuzione pontificia né in quella clericale – del tutto estrinseche e meramente funzionali – quanto invece in altri elementi e fattori assolutamente già presenti e completi di per sé nelle forme “laicali” di vita consacrata di Diritto diocesano, normalmente identificate con la c.d. dimensione carismatica della Chiesa o, forse meglio, della vita cristiana. Senza poter neppure dimenticare che – ordinariamente – nessun Istituto nasce direttamente come “pontificio” ma sempre come “diocesano”; le varianti storiche (come quella francescana) vanno ricondotte ai loro contesti propri (secondo la relazione del prof. Maranesi13).


Dal lato proprio la “prospettiva canonistica” non può tuttavia non chiedersi se le cose siano state e sarebbero davvero così anche in assenza dell’esercizio del “sacerdozio”14 da parte dei Religiosi. Se, cioè, si parlasse solo di “suore” e “frati” in senso ‘puro’: quali dei problemi ecclesiologici e teoretici presentati secondo la dottrina resisterebbero? Detto per breviora: se i Santuari fossero gestiti da Religiose, esisterebbero i problemi che esistono, invece, in ragione della loro gestione da parte di Sacerdoti? Ulteriormente: i problemi nascono dal carisma (= l’essere Religiosi) o non piuttosto dall’attività effettivamente svolta (= la gestione pastorale dei Santuari, francescani in questo caso)?


Al canonista, non di meno, non pare facilmente evitabile il sospetto che i problemi non derivino affatto (o almeno nella loro maggior e più specifica parte) dall’eventuale tensione teoretica tra carisma ed Istituzione, tra particolare ed universale, ma dal concreto esercizio del pastorale ministerium o del munus pascendi che la tradizione ecclesiale – ed il Concilio Vaticano II in modo puntuale e definitorio – ha sempre riconosciuto ai (soli) Vescovi diocesani: gli unici veri “Pastores” del Popolo di Dio (cfr. LG 20; CD 2; Can. 375)15, cui competono in sommo grado l’insegnamento e la santificazione del Popolo stesso16.

Un’osservazione, questa, che pone in rilievo un aspetto assolutamente costitutivo della questione, di solito non visto né considerato neppure dal Legislatore, che si dimostra piuttosto discontinuo in merito: “Pastorale” ed “apostolato” (usati spesso come sinonimi) non sono la stessa cosa!

La Pastorale, e più specificamente il ministero, è attività espressamente “sacerdotale”, cioè connessa all’esercizio del Sacramento dell’Ordine (= predicazione e santificazione), mentre l’apostolato è attività “libera” (per quanto non disordinata) di ciascun fedele e di fedeli riuniti insieme (= Associazioni ed Istituti religiosi in primis). In tal modo, secondo il linguaggio di LG 10: la Pastorale è – di per sé – espressione tipica del ministeriale sacerdotium (che ha nell’Episcopato – diocesano – la propria massima espressione) mentre l’apostolato esprime e realizza il commune sacerdotium di tutti i battezzati (consacrati compresi). In questa prospettiva l’essere Religiosi o no, non cambia proprio nulla rispetto all’essere semplicemente “non-Sacerdoti”! Ne deriva, come corollario, che dal punto di vista espressamente pastorale il Religioso che sia anche Presbitero non rileva più come Religioso ma solo come Sacerdote.

In tal modo il reale problema – di per sé chiarissimo alla Canonistica dell’ultimo millennio – non è affatto ontologico ma pastorale; non è principalmente ecclesiologico ma diventa concretamente soteriologico (sempre che sia ammissibile una Soteriologia autonoma dall’Ecclesiologia – sic), come si vedrà di seguito.


1.3 La suprema Lex nella Chiesa


Di fatto a chiunque abbia studiato un po’ di Diritto canonico è stato insegnato che il suo postulato costitutivo (non meno del quinto postulato di Euclide per la Geometria di tutti i giorni) è la “salus animarum”: tanto basterebbe a rendere di fatto – per quanto assolutamente non di principio – del tutto secondarie dal punto di vista canonistico la maggior parte delle riflessioni e nozioni ecclesiologiche ed ontologiche illustrate nei diversi interventi di questo Simposio. Il Diritto canonico reale, concreto, effettivo, dipende infatti dalla Pastorale e, non di meno, dalla Morale. Volerlo ignorare non potrebbe essere oggi senza grave colpa né gravi conseguenze!

Questo però significa e comporta immediatamente che l’orizzonte reale di riferimento delle Norme canoniche non espressamente istituzionali (riguardanti, cioè, la struttura della Chiesa e le sue articolazioni interne) sia quello soteriologico e non quello ecclesiologico, aprendo il campo ad un altro problema non secondario circa il rapporto tra Ecclesiologia e Soteriologia: quale salus sine Ecclesia?

Concretamente si tratta del ‘valore’ (si perdoni l’imprecisione del termine) dei Sacramenti: sono della Chiesa, nella Chiesa, per la Chiesa? Oppure la Chiesa semplicemente ne è il dealer (= distributore/intermediario su larga scala)? Chiaramente dopo Trento l’approccio cattolico ai Sacramenti non potrebbe liberarsi dall’assoluta componente ontologica (= la res), per quanto l’assolutizzazione di questa prospettiva rischi di toglierli dalla loro ‘sede’ naturale, dal loro grembo (= la Chiesa, appunto), per farne delle vere e proprie monadi di efficacia intrinseca (= ex opere operato)... lasciando più di qualche interrogativo in termini di reale differenziazione dalla magia ed atteggiamenti simili.


Si profila tuttavia, qui, una doppia precisazione ineludibile poiché di radicale portata concettuale: [a] la “salus animarum” che funge da vera e totalitaria Lex nella Chiesa e [b] l’“ex opere operato” che garantisce il risultato certo dell’agire ecclesiale in tale prospettiva, sono in realtà due formule estremamente ambigue che non manifestano il loro reale contenuto, permettendo così il delinearsi delle situazioni – almeno – di fatto che costituiscono la reale problematicità della c.d. Pastorale di sempre… e delle Norme canoniche che cercano di strutturarla e regolarla.

- Prima di tutto: la salus animarum assunta quale suprema Lex in Ecclesia è – ad ogni buon effetto – solo la “salus singolarum animarum” intesa come valore terminale e fondativo in sé e per sé per ogni singolo individuo.

- Non di meno l’ex opere operato di ordinaria referenza sacramentale non coincide affatto con l’originaria comprensione dogmatica della validità del Sacramento stesso indipendentemente dalle caratteristiche morali dell’operans (dottrina fissata già da Agostino contro i Donatisti17) e neppure con la sua ‘riduzione’ tridentina al mero aspetto ontologico indipendente anche dall’attiva recezione del suo destinatario18 ma è ormai ridotto a qualcosa di meccanicistico che assomiglia più all’azione di isotopi radioattivi che all’opera dello Spirito santo… cosicché ciò che conta pare essere solo la mera “esposizione” al Sacramento valido.

Quanta Ecclesiologia o quanta sequela Christi (intesa come discepolato esistenziale e quotidiano) siano contenute in queste espressioni e, più ancora, in ciò che ne deriva è, purtroppo, palese. Com’è assolutamente palese, d’altra parte, che l’unica cosa che davvero rileva per la Pastorale – e quindi per le Norme canoniche – risulta essere, ad ogni effetto, la sottrazione all’inferno di ciascuna singola anima…

Per quanto, oggi, non appaia questo l’approccio diretto e cosciente della Chiesa cattolica, quello indiretto ed inconsapevole – ma assolutamente reale – spesso non se ne distanzia a sufficienza, soprattutto nella gestione “sine Ecclesia” dei Sacramenti, intorno ai quali continua a concentrarsi la maggior parte – e comunque la parte qualificata a e qualificante – della Pastorale stessa, almeno nella vecchia Europa cristiana (Italia in primis).


Proprio qui, però, s’inserisce il ruolo costitutivo del “Sacerdote” e della sua attività attraverso i Sacramenti! Ma è qui che si annida anche la vera questione del difficile rapporto tra Pastori della Chiesa, suoi “santificatori” e “maestri” (= i Vescovi diocesani), e Sacerdoti religiosi, in quella che molto spesso è davvero diventata una doppia via di accesso alla salvezza sacramentale – per quanto spesso non anche esistenziale – dei singoli individui. Una doppia via dalla quale – oggi – non è data alcuna reale possibilità di recesso19... anche perché il Concilio, pur aprendo porte nuove, non l’ha affatto delegittimata né respinta almeno di fatto. Una via, anzi, anche incrementata attraverso la ri-valorizzazione di molte forme della c.d. pietà popolare20 connesse proprio alla gestione dei Santuari, intesi e riproposti come efficaci “occasioni” di evangelizzazione21, spesso iniziale (v. infra).


Questa prospettiva, però, coinvolge espressamente l’esercizio del sacerdozio ministeriale: un esercizio che è sempre intra-storico e pertanto collocato – e collocabile di principio solo – a livello territoriale e, pertanto, di Chiesa particolare. La prova in re è assoluta: i preti religiosi non possono confessare i fedeli in genere se non per concessione dell’Ordinario del luogo (cfr. Can. 969). Non di meno: proprio “predicazione” e “confessione” erano stati gli elementi di specifica valorizzazione pontificia ed attribuzione ai Francescani in (originaria) “supplenza” della scarsa attività in tale campo da parte di Vescovi e clero diocesano22. Una supplenza divenuta ben presto vera “concorrenza” ed “alternativa” in munere alieno. L’enfasi eucaristica, per contro, soprattutto dopo la Riforma protestante non permette veri riferimenti teologicamente pregnanti a questo Sacramento poiché l’approccio essenzialmente ontologista (= la res) l’ha quasi isolata dal resto della vita ecclesiale (= la actio).


Proprio qui, però, entra in gioco il difficile bilanciamento tra ciò che la Chiesa “è” e ciò che la Chiesa “fa”. Per l’istanza pastorale (= ciò che la Chiesa fa) infatti la salus singolarum animarum, per la quale qualunque Sacramento comunque “ricevuto”23 ha un valore assoluto ed incommensurabile (ex opere operato), non è paragonabile, di principio, a nessun’altra istanza teologica. Tanto meno ecclesiologica.

Si apre così lo scenario, spesso problematico, dei Sacerdoti religiosi che partecipano della “erogazione” sacramentale (sic) – valida in sé e per sé – anche al di fuori di qualunque dimensione di ecclesialità.


Senza considerare come sia questo l’approccio di maggior peso specifico dal punto di vista pratico, e quindi quello che determina il baricentro di tutte le questioni connesse alla Pastorale, non si può capire praticamente nulla della condotta giuridica ecclesiale del secondo millennio (proprio lo stesso in cui sono nati gli Istituti religiosi, sic), né delle continue richieste dei Vescovi ai Concili degli ultimi otto secoli, né delle risposte del Vaticano II ai Vescovi stessi (soprattutto in Christus Dominus) né del conseguente documento programmatico costituito da “Mutuæ Relationes24 con cui, nel 1978, si tentò di superare l’irrigidimento della precedente situazione indirizzandosi verso assetti teologicamente e pastoralmente più corretti.

Non di meno questo porta a dover necessariamente riprendere ed approfondire in modo radicale quanto già illustrato in prospettiva ecclesiologica, per quanto, non più nella dialettica di principio tra Vescovi diocesani e Religiosi ma in quella concretissima tra il sacerdozio “relativo” (si tolleri, qui, questa terminologia impropria) esercitato nelle Chiese particolari in collaborazione al munus episcopale e un sacerdozio di fatto “assoluto” esercitato nella Chiesa universale in – presuntissima – collaborazione con un espresso ed immediato “ministero pastorale” petrino di fatto ‘concorrente’ con quello episcopale25. Ciò, d’altra parte, consegue anche alla sottrazione dell’esercizio della potestas Ordinis dal presupposto (beneficiale) della potestas iurisdictionis operato nel Vaticano II, cosicché – di principio – il Sacerdozio possa ormai essere “esercitato” praticamente ovunque (cfr. Cann. 763; 764; 967) senza dover più rispettare i rigidi confini della giurisdizione beneficiale – altrui – (eminentemente territoriale). Non si trascuri in merito come fu proprio all’interno di ‘quella’ concezione ecclesiologica (e soteriologica) che i Pontefici intrapresero ‘autonome’ iniziative pastorali di portata sovra-diocesana, prima verso gli eretici europei (secoli XII-XIII), poi contro gli scismatici (secoli XVI-XVII) e nel campo missionario extra-europeo (mediante la “Commissio”) proprio attraverso gli Istituti religiosi clericali di Diritto pontificio.


1.4 La questione pastorale


Quanto sin qui sommariamente illustrato porta pertanto a dover riconoscere all’interno della Pastorale del secondo millennio cristiano una sorta di “binario” o di “doppio strato”:

a) quello connesso alla “vita cristiana” propriamente detta: la sequela Christi che si realizza nella quotidianità di ogni singolo discepolo, quotidianità sempre storicamente/culturalmente ‘collocata’26 e riscoperta solo di recente attraverso l’apporto conciliare, e

b) quello connesso alla semplice “salus singolarum animarum” cui ogni uomo (battezzato o no) può anche accedere individualmente – ma soprattutto occasionalmente – nei più diversi frangenti della propria esistenza, in modo pressoché indipendente dalla Chiesa come tale, che resta fuori della comune ed abituale percezione della maggior parte di battezzati, ridotta a semplice depositaria/distributrice di “strumenti di salvezza”.

Il primo “strato” è allocato e referenziato al ministero pastorale dei Vescovi diocesani, il secondo è possibile in qualunque modo attraverso l’intervento di qualunque sacerdote validamente attivo, Religiosi compresi. Ciò, non di meno, all’interno di una situazione strutturale di grande squilibrio anche nella disponibilità e fruizione di risorse materiali ed umane, in quanto [a] la maggior parte dell’impegno pastorale episcopale si è sostanziata sin qui (e siamo ormai giunti al tracollo di questo sistema!) nel garantire il “presidio” – sacramentale ed istituzionale – del territorio, mentre [b] il clero religioso – proprio perché “libero” dalle incombenze territoriali ed istituzionali – si è mostrato sempre molto più versatile sia nell’intraprendere nuove iniziative che nel dismettere quelle ritenute non più adeguate, conseguendo spesso – soprattutto in prospettiva “universale” – una maggiore efficacia.


Entro questo contesto di doppia stratificazione, l’apporto del Diritto canonico non risulta paritario visto che, come già indicato, il suo interesse – e la sua reale utilità – non si rivolge tanto alla prima realtà (= la quotidianità della sequela Christi), ma alla seconda (= la salus singolarum animarum) di cui ha fatto il proprio fulcro… almeno secondo la comune percezione e convinzione27. In tal modo, a fianco della silenziosa ed ordinata vita ecclesiale quotidiana di molti fedeli, la suprema Lex della salus singolarum animarum finisce per continuar a trovare la propria attuazione nella mera somministrazione di Sacramenti, alla maniera c.d. tridentina (per quanto non ad mentem di tale Concilio). Una somministrazione di Sacramenti da singolo sacerdote validamente ordinato a singolo fedele che li richieda e sia ben disposto (cfr. Can. 843 §1). Il tutto al di fuori tanto della dimensione ecclesiale (particolare) che ecclesiologica (universale) che di quella carismatica (di sola pura utilità per tali fruitori).

Questo, però, è il vero nucleo delle questioni “pastorali” che il Vaticano II ha voluto reimpostare a proposito del ministero episcopale e sacerdotale in genere, tanto attraverso Christus Dominus che Presbyterorum Ordinis. Una reimpostazione parziale e solo di principio – per nulla sistematica – che però ha posto le basi della nuova configurazione del rapporto tra Vescovi e Religiosi così come poi sancita in “Mutuæ Relationes” e quindi confluita nel Codice latino del 1983: nuova configurazione che costituisce il c.d. Diritto comune a cui il m.p. del 2005 riporta la situazione di Assisi.

Proprio il Diritto comune, però, appare chiaro in materia: quello dei Religiosi come tali – indipendentemente dalla loro ulteriore specifica in Istituti clericali o no – è “apostolato”, come indica il Cap. V della Parte III, Sezione I, Titolo II del CIC del 1983, intitolato esattamente “L’apostolato degli Istituti” (Cann. 673-683 – 11 Canoni).

- Un apostolato che – di principio – coincide con il fatto stesso della loro sola presenza (cfr. Can. 673);

- un apostolato che è e rimane tale anche per gli Istituti completamente dediti alla contemplazione e che da essa non possono essere distolti per svolgere “ministeri pastorali” (cfr. Can. 674);

- un apostolato, tuttavia, che nel caso degli Istituti clericali diventa vera e propria Pastorale in ragione dell’assunzione dell’esercizio dell’Ordine sacro come specifico “carisma” dell’Istituto stesso (cfr. Can. 588 §2); un esercizio pastorale che però, dal punto di vista teologico, sarebbe competenza originaria del ministero episcopale in sé e per sé… e come tale il Vaticano II lo avrebbe restaurato.


Se così stanno – motivatamente – le cose, allora il tema con cui misurarsi non sono né i Religiosi come tali, né i Vescovi diocesani, ma la corretta referenzialità dell’esercizio del ministero pastorale da parte dei Sacerdoti, prima di tutto attraverso i Sacramenti e la predicazione.

Non di meno: è proprio questo il cuore della maggior parte delle questioni che nei secoli hanno visto gli uni contrapposti agli altri principalmente nella gestione delle chiese, in quanto luoghi di culto nei quali i fedeli «abbiano il diritto di entrare per esercitare soprattutto pubblicamente tale culto» (Can. 1214); chiese tra le quali spiccano i “Santuari” (cfr. Cann. 1230-1234) «ove i fedeli, per un peculiare motivo di pietà, si recano numerosi in pellegrinaggio» ed ai quali s’indirizzano anche grandi quantità di fedeli spesso non appartenenti alla portio Populi Dei affidata al ministero pastorale del Vescovo locale e – proprio per questo – spesso estranei al suo controllo, oltre che alla sua attività.


È questo l’ambito specifico cui indirizzare la riflessione canonistica che prende le mosse dal m.p. Totius Orbis per i Santuari francescani di Assisi.



2. Santuari e Pastorale


Pastorale, Sacerdoti, Santuari: una triade che da vari secoli caratterizza specifici ambiti ecclesiali creando anche situazioni assolutamente peculiari e spesso non altrimenti replicabili, per quanto in sé abbastanza tipiche. Se Assisi pare troppo specifica si pensi pure a Fatima, Lourdes, Pietrelcina, Loreto, ed al movimento di persone –non solo e non tutti “pellegrini” – che quotidianamente le coinvolge anche solo per alcune ore. Proprio questa peculiarità, non di meno, potrebbe costituire l’ottica privilegiata da cui osservare la problematica affrontata in questa sede tracciando linee di comprensione – e forse anche di possibile operatività concreta – molto meno problematiche tanto di quelle espressamente ecclesiologiche (comunque non escludibili) che di quelle ontologiche (= il carisma), soprattutto in ragione del coinvolgimento diretto di elementi – capitali – quali l’Eucaristia ed il ministero petrino.


2.1 Santuari ed attività pastorali


Al di là dell’identità teorica dei Santuari come tali e delle loro immancabili peculiarità che ne rendono molti davvero “unici” (in ragione di fatti o di persone), l’attenzione si volge qui alle dinamiche operative e funzionali che ne riguardano l’attività concreta in relazione al ministero episcopale del territorio che li ospita; ministero episcopale ritenuto addirittura “costitutivo” per l’esistenza stessa dei Santuari, almeno all’origine, data la necessaria “approvazione dell’Ordinario del luogo” (cfr. Can. 1230).


Sotto questo profilo le questioni concrete appaiono abbastanza semplici da rilevare e valutare poiché presso i Santuari si svolgono attività in gran parte espressamente pastorali che in molti casi danno esplicitamente corpo proprio ai due “strati” della Pastorale già indicati più sopra:

a) quello della vita cristiana ordinaria dei residenti (= la sequela Christi) e

b) quello dell’esperienza puntuale dei pellegrini, tanto saltuari che puramente occasionali (= la salus singolarum animarum).

Da questo punto di vista risulta utile suddividere le attività normalmente svolte presso i Santuari in alcune tipologie sostanzialmente riconducibili ai “due strati” della Pastorale già esplicitati: a) Pastorale ordinaria e b) Pastorale straordinaria, così che risulti anche facile riconoscere due diversi indirizzi operativi:

- il primo diretto al supporto e all’espressione dell’Iniziazione cristiana e della sequela Christi dei residenti, come richiesto dal pastorale munus del Vescovo diocesano intorno al quale si edifica e cresce la Chiesa particolare come a suo Maestro e Pastore;

- il secondo diretto ai non-residenti che solo occasionalmente frequentano i Santuari rimanendo spesso del tutto estranei alla vita della Chiesa (tanto particolare che universale) in ragione di un approccio generalmente parziale ed individualistico all’esperienza religiosa come tale28.


L’individuazione e circoscrizione dell’ordinario e dello straordinario della vita cristiana – anziché della sola esperienza religiosa o salvezza individuale – possono offrire chiarezza in merito utilizzando quali criteri di riconoscimento e discernimento quelli già indicati dal Diritto comune per la vita ecclesiale “ordinaria”.

a) Sarà infatti abbastanza semplice riconoscere che i Sacramenti riguardanti lo “stato” delle persone (Battesimo, Confermazione, Matrimonio) hanno la loro sede costitutiva all’interno dell’appartenenza ed esperienza ecclesiale “particolare” (= la Diocesi) se non anche “locale” (= la Parrocchia)29. Allo stesso modo la Catechesi dell’Iniziazione cristiana e la formazione permanente che ad essi preparano e da essi prendono corpo, così come le opere di carità indirizzate al territorio di residenza. Ciò che ogni Comunità cristiana – sempre storicamente situata – dovrebbe vivere e realizzare per essere se stessa nella quotidianità del vissuto evangelico ricade espressamente, ed inevitabilmente, in questo ambito che – in realtà – costituisce proprio l’ambito della c.d. Pastorale semplicemente intesa, come organizzata e svolta su base parrocchiale. Questo comporta e condiziona l’utilizzo anche di una o più chiese e strutture c.d. pastorali presso le quali collocare e svolgere le diverse attività. Tutto questo, però, è quanto compete espressamente al Vescovo diocesano nella sua funzione originaria e costitutiva di Maestro, Sacerdote e Pastore del popolo a lui affidato ed a questo si riferiscono piuttosto univocamente le espressioni “attività pastorali” e “iniziative che hanno risvolti pastorali” utilizzate da Benedetto XVI nel m.p. del 2005 ai numeri II e III30, quali eco del Can. 678 del CIC sull’apostolato dei Religiosi31.

b) Il Santuario (che non sia sede di Parrocchia), da parte propria, si colloca in uno ‘spazio’ costitutivo ed operativo radicalmente diverso, contrassegnato dall’assenza strutturale di una Comunità cristiana permanente che lo utilizzi come “sede” del proprio “essere Chiesa” in un dato “luogo/territorio”. Da questo punto di vista il Santuario costituisce un “ambiente” a-storico ed a-spaziale – spesso anche autoreferenziale e decontestualizzato – che trova la propria consistenza nella dinamica del continuo via-vai di pellegrini, turisti e curiosi, che lo attraversano spesso senza neppure fermarsi. Proprio questo, però, sprigiona potenzialità del tutto assenti nelle normali chiese ed ambienti parrocchiali e nella c.d. Pastorale ordinaria, offrendo la possibilità sia di “accogliere” il pellegrino che di “intercettare” il passante, per “rispondere” o anche per “interrogare”, per “sancire” o anche solo “stimolare” l’adesione al Vangelo ed una vita cristiana stabile e matura (= sequela Christi).

Il Santuario in tal modo può diventare strumento di una doppia attività di supporto o di stimolo alla vita cristiana:

- supporto per il pellegrino, anche abituale, che con una certa regolarità vi cerca e vi trova Confessione, accompagnamento spirituale, celebrazioni, che forse per vari motivi non gli sono accessibili (o plausibili) nella propria realtà ecclesiale di residenza. Si collocano qui, p.es., esperienze anche di formazione permanente secondo specifiche spiritualità (= ritiri, esercizi spirituali, cammini di accompagnamento e discernimento, ecc.): un supporto ad una vita cristiana effettiva e consapevole ma non efficacemente armonizzata/armonizzabile con quanto disponibile nel luogo di abituale residenza del fedele.

- Stimolo per il passante, che dinanzi a sollecitazioni, provocazioni, inviti, di particolare efficacia comunicativa o anche emotiva potrebbe per qualche momento fermarsi e riflettere sulla propria esistenza e sulla proposta evangelica. Celebrazioni e predicazione di particolare efficacia, insieme alla pronta disponibilità anche di ‘qualcuno’ con cui dialogare e (perché no?) confessarsi, possono creare un vero e proprio ambiente in cui la suggestione possa lasciar spazio ad una vera commozione e consapevolezza di sé… inizio di cammini di vera conversione individuale32.

- Non si può tuttavia dimenticare come i Santuari, solitamente, svolgano anche una terza funzione, spesso molto ampia, di supplenza rispetto [a] sia a situazioni difficili dal punto di vista ecclesiale o pastorale, [b] sia a vere e proprie scelte di estraneità rispetto alla dimensione ecclesiale della vita cristiana. È la pratica frequente del pellegrinaggio annuale con Confessione e Comunione per mettere la coscienza in pace (= la salus singolarum animarum) senza chiedere né offrire nulla di più alla vita cristiana nella quotidianità.


2.2 Santuari ed ecclesialità


Posta in questi termini la questione, pare facilmente condivisibile che il vero problema non sia quello di “chi” svolge l’attività presso i Santuari (nella quasi totalità dei casi Sacerdoti religiosi) ma proprio quello del servizio pastorale svolto dai Santuari come tali, soprattutto della loro integrabilità ed integrazione all’interno della vita ecclesiale ordinaria che ha nel Vescovo il proprio referente originario. La questione, non di meno, si pone in modi radicalmente diversi da Santuario a Santuario, da situazione a situazione. La origine/natura dei diversi Santuari, infatti, è radicalmente diversa quando si tratti di luoghi legati [a] ad “apparizioni” (generalmente mariane), a [b] speciali avvenimenti storici (calamità, pestilenze, battaglie), [c] alla vita/tomba di qualche Santo; [d] anche la storia (dell’Arte) gioca spesso ruoli fondamentali nel richiamare visitatori. Allo stesso modo anche ciò che accade in un Santuario urbano, in uno nazionale o internazionale sono cose radicalmente diverse e reciprocamente incomparabili.


Sotto il profilo espressamente funzionale va considerato innanzitutto che molti Santuari urbani offrono ormai un servizio altamente integrato con quello delle chiese parrocchiali – e Parrocchie – circostanti, rientrando in una dinamica di Pastorale sostanzialmente ordinaria e pertanto difficilmente estranea all’interesse del Vescovo diocesano che, nel caso della città, ha pure in essa la propria chiesa cattedrale. I Santuari extra-urbani, spesso di portata diocesana o regionale, rientrano già meno in tale orizzonte risultando sovente piuttosto autonomi nella loro interazione con la Pastorale ordinaria alla quale – semplicemente – si affiancano, scorrendole paralleli. Quando si tratti di Santuari prevalentemente nazionali o internazionali le cose mutano ulteriormente poiché lo sbilanciamento verso la dimensione meno ecclesiale e più individualistica della religiosità risulta spesso dominante, se non esclusiva. Allo stesso tempo, anche l’incidenza della fama di “miracoli” o “cose prodigiose” (e la loro “probabilità”) gioca frequentemente una sorta di selezione circa l’identità e le attese e propensioni (spirituali) dei frequentanti.


Il vero problema da affrontare, pertanto, è il ruolo e la funzione del Santuario come tale e, eventualmente, i differenti ruoli e funzioni che lo stesso possa assumere e ricoprire a seconda dei momenti e delle circostanze tanto della vita ecclesiale propriamente intesa che di quella spirituale individuale, sempre tuttavia all’interno dell’orizzonte pastorale globale, ben difficilmente riconducibile ad una qualche referenzialità specificamente “pontificia”. Referenzialità spesso di ordine storico e tradizionale più che effettivo33, connessa maggiormente ad elementi formali ed istituzionali che non espressamente pastorali, quasi che in tali Santuari possa realizzarsi una qualche espressione del ministero pastorale petrino.


In questa prospettiva la riflessione si amplia, poiché le diverse circostanze di luogo ed anche ecclesiali e spirituali configurano in modi molto differenti le dinamiche di ciascuna situazione rendendo necessario verificare di volta in volta quale sia l’impatto e l’integrazione del Santuario e della sua attività rispetto al territorio circostante e la Comunità cristiana in cui è collocato.

Molti Santuari “urbani” nelle diverse città si limitano di fatto ad offrire un servizio liturgico e sacramentale che risulta “integrativo” di quello locale: più Messe ad orari più comodi e maggior facilità di confessarsi, finendo per interagire direttamente ed in massima parte proprio con la normale Pastorale territoriale di immediata referenza episcopale. In tali circostanze l’integrazione dell’attività liturgica del Santuario col resto della Pastorale territoriale è inevitabile e necessaria (= armonizzazione dell’orario delle Messe), lasciando al Santuario stesso un ridotto spazio di autonomia (= niente Battesimi, Cresime, Matrimoni, prime Comunioni) da individuarsi soprattutto nella specifica “spiritualità” proposta e vissuta ed in un certo numero di iniziative, soprattutto di carattere devozionale, che tuttavia nulla o quasi sottraggono alla normale vita cristiana di referenza parrocchiale.

Esistono poi situazioni in cui la specificità del Santuario ha fortemente influenzato la spiritualità locale ponendo in risalto forme radicali di vita evangelica (come accade in relazione alla vita/morte dei Santi) prima e maggiormente che eventi prodigiosi: in tali casi è necessario non escluderlo di principio dal normale circuito pastorale territoriale, promuovendone anzi una ragionevole integrazione soprattutto per attività sovraparrocchiali, facendo tesoro sia [a] dello specifico apporto di tale spiritualità alla vita cristiana dei fedeli, sia [b] del ministero prestato dai Sacerdoti in servizio presso il Santuario stesso. È questo un compito che spetta prima di tutto al Vescovo diocesano come primo custode e garante del patrimonio di fede della Comunità ecclesiale, insieme alla promozione ed integrazione da parte sua dell’attività del Santuario stesso quale “risorsa” specifica per la proposta pastorale globale alla portio Populi Dei affidata al suo ministero e spesso già profondamente segnata e configurata proprio da quella specifica spiritualità.

A questo livello proprio l’integrazione del Santuario nella Pastorale ordinaria e nella corrente vita ecclesiale impone forme di reciprocità spirituale, e non solo operativa, sia col Santuario – in quanto chiesa cui i fedeli accedono – che con coloro che lo animano – partecipando di fatto all’attività pastorale anche territoriale –, soprattutto se non si tratta di semplici “custodi” del Santuario come tale (p.es.: un Istituto di spiritualità mariana per un Santuario mariano), ma di Religiosi ai quali il Santuario è direttamente connesso, come accade proprio ad Assisi.


Le cose mutano radicalmente quando la collocazione extra-urbana dei Santuari finisce per estraniarli dal circuito pastorale locale lasciando percepire una sostanziale indipendenza/autonomia che stimola la non-integrazione al tessuto ed alle dinamiche pastorali territoriali, quando non anche una certa “concorrenza” con le stesse strutture pastorali territoriali (Parrocchie in primis). Purtroppo in molti di questi casi la specificità del Santuario, soprattutto a livello “spirituale”, rischia di presentarsi in modo più “alternativo” che “integrativo”, concorrenziale più che complementare rispetto alla Pastorale ordinaria. Il rischio, però, di operare “fuori” della Chiesa rimane sempre in agguato dando spazio ad una mera funzionalità, espressione di individualismo spirituale, anche se formalmente legittimata dalla c.d. Autorità competente che mantiene aperto ed operante il Santuario.

In questi casi l’analisi attenta della tipologia di frequentatori del Santuario e delle iniziative, sia stabili che occasionali, che sia possibile offrire loro diventa fondamentale in relazione al territorio interessato ed al coinvolgimento del Vescovo diocesano. Si permetta di evidenziare qui come il n. III del m.p. per Assisi abbia espressamente previsto proprio il coinvolgimento concentrico e successivo – seppure solo come “consultazione” – sia della Conferenza episcopale umbra che di quella nazionale italiana in relazione alle diverse tipologie ed alla “portata” di iniziative proposte ai fedeli di un territorio più ampio di quello cittadino e diocesano.


Proprio questo “indirizzo” espresso nel m.p. cerca di ricuperare la dimensione costitutivamente ecclesiale della vita liturgica e sacramentaria in genere, così come la possibile (poiché necessaria) integrabilità – almeno di una parte – dell’attività dei Santuari con quella diocesana e parrocchiale. Se è pur vero che in tal modo non si mette ancora direttamente mano alla eliminazione del “doppio strato” pastorale, allo stesso tempo si fornisce una chiara indicazione in vista del suo necessario superamento al di là di ogni autoreferenzialità, sia individuale che istituzionale.


2.3 La nuova prospettiva auspicabile


Che quanto sin qui espresso non lasci molto agio alle impostazioni e situazioni “storiche”, né riservi loro specifiche protezioni ed accreditamenti è palese, soprattutto in rapporto alla percezione e consapevolezza della necessaria “ecclesialità” di ogni forma e modo di “accesso” alla vita sacramentale. Non di meno: allo stesso tempo è cresciuta nella Chiesa conciliare la consapevolezza che la missione ecclesiale non s’identifica né con la Pastorale sacramentaria, né con la catechesi sacramentale, spalancandosi ormai innanzi alla Chiesa del terzo millennio una nuova opera di quasi-totale evangelizzazione anche del mondo europeo ormai completamente secolarizzato. Quello stesso mondo europeo che, però, dispone già di una consolidata rete – a volte anche capillare – di Santuari ed altre strutture non espressamente istituzionali né vincolate a specifici mandati operativi (com’è invece per le Parrocchie), dalle quali già nel millennio scorso presero le mosse importanti opere di evangelizzazione sia diretta che indiretta del territorio circostante.


È in questa direzione che, probabilmente, occorre guardare e muoversi oggi quando si pensa all’attuale funzione dei Santuari all’interno del globale assetto pastorale tanto del territorio che dei suoi aventi parte a diverso titolo e funzionalità. Proprio i Santuari, infatti, la loro funzione ed attività, potrebbero opportunamente essere riscoperti e valorizzati soprattutto in chiave di “evangelizzazione”: in quella vastissima area socio-culturale-religiosa, cioè, in cui l’appetibilità e la presa della c.d. Pastorale ordinaria risulta spesso faticosa o del tutto assente. In tali aree e spazi potrebbe essere addirittura la stessa sollecitudine pastorale del Vescovo diocesano a promuovere – proprio attraverso i Santuari stessi e coloro che li gestiscono – attività ed iniziative di primo annuncio o di accoglienza spirituale volte a riavvicinare gradualmente e con pazienza le persone prima di tutto a Cristo e poi alla loro Comunità ecclesiale in cui poter continuare il proprio discepolato nella quotidianità della sequela Christi, in uno spirito di vera complementarietà tra i diversi strumenti di cui la Chiesa si è dotata lungo i secoli.


È questo, o potrebbe esserlo, il vasto campo delle c.d. Pastorali straordinarie attraverso le quali intraprendere una nuova evangelizzazione, tanto territoriale che individuale, mediante un’intelligente opera di coordinamento delle risorse personali – prima di tutto – e materiali effettivamente disponibili, delle specifiche circostanze di tempi e luoghi, delle diverse strutture disponibili… tra cui anche i Santuari. Che ciò debba attuarsi sotto l’episcopé del locale successore degli Apostoli quale primo fautore ed ultimo garante della comunione ecclesiale nell’unica vera fede non dovrebbe porre specifici problemi teoretici, proprio perché in ciò consiste il suo ruolo irrinunciabile nella Chiesa. Per contro: che tutta l’attività evangelizzatrice debba coincidere con la sacrestia della chiesa cattedrale non pare altrettanto dovuto né ragionevole.


In tale prospettiva la specifica identità dei Sacerdoti che gestiscono i Santuari, siano essi religiosi o secolari, di Diritto diocesano o pontificio, non fa alcuna reale differenza. Tanto più che esistono molti Santuari diocesani affidati a clero secolare… Santuari che evidenziano gli stessi problemi funzionali rispetto alla Pastorale e alla dimensione ecclesiale della sequela Christi di quelli affidati ai Religiosi.

Ciò, tuttavia, non comporta affatto la totale irrilevanza dell’identità dei Sacerdoti che gestiscono/animano i Santuari, tanto più se religiosi. Al contrario: spesso è proprio la presenza di un Istituto religioso a dare un’anima ai Santuari affiancando la “pratica sacramentale” con la ricchezza della vita fraterna, la semplice “validità” dei Sacramenti richiesti ed amministrati, col calore di una vera vita spirituale, la sterile pratica devozionale individuale con la fecondità della preghiera e celebrazione comunitaria. Questo, però, non dipende in sé e per sé dall’esercizio del Sacramento dell’Ordine ma dal far parte di una vera comunità di vita evangelica ed ecclesiale.


Proprio tenendo conto sia della natura stessa delle cose, sia degli insegnamenti della storia, varrebbe la pena impegnarsi saggiamente per evitare il tristissimo esito tridentino che imponeva la realizzazione decennale delle c.d. Missioni al popolo proprio per ridurre gli esiti nefasti di una Pastorale introversa e solo autoreferenziale… Missioni al popolo realizzate quasi sempre proprio da clero religioso (sic).



Per concludere


In fondo le questioni reali e concrete riguardano – quasi esclusivamente – la chiarezza nell’individuare “cosa” fare, in funzione del “per chi” farlo. Si tratta pertanto, in linea di massima, di analizzare in modo esplicito l’incidenza e le ricadute concrete dell’attività dei Santuari rispetto ad una doppia destinazione: da una parte la popolazione locale, dall’altra i pellegrini provenienti dall’esterno, distinguendo tra le varie attività quelle che devono essere maggiormente integrate con la vita parrocchiale e diocesana (= la c.d. Pastorale ordinaria per i residenti) e quelle che possono/debbono, invece, essere offerte ai frequentatori occasionali dei Santuari stessi.


Una volta che le idee siano chiare34, la “strada giuridica” è piuttosto semplice potendosi concretizzare nella redazione dello “Statuto” del Santuario (cfr. Can. 1232) approvato dall’Autorità competente35, oppure –in casi del tutto particolari – in una “Convenzione” o in un “Accordo pastorale” tra il Vescovo diocesano e l’Istituto religioso che gestisce il Santuario in ragione delle più diverse titolarità36. Proprio tali strumenti giuridici offrono la possibilità di leggere insieme la situazione reale delle questioni e valutare di comune accordo le diverse componenti e le correlate responsabilità ed operatività connesse ai vari settori di attività.

La statuizione giuridica finale permetterà poi di proseguire serenamente nel cammino avendo la certezza che quando “attribuito/spettante” a qualcuno non lo sia per arbitrio o per partito preso, ma per la ragionevole e condivisa valutazione (per quanto non infallibile né perpetua) attuatasi nella fase “costituente/redazionale” dello Statuto/Accordo stesso.

È a questo che serve un buon Diritto canonico.




in: CONVIVIUM ASSISENSE, 2015, 181-202