Consultare e consigliare nella Chiesa


Paolo Gherri

Sommario

1. Premessa. 2. Consultività: elementi previ. 3. Uno sviluppo diffuso. 4. L’ambito ecclesiale. 5. Consiliarità ecclesiale.

Summary

1. Introduction. 2. Giving opinions: elements taken. 3. A widespread development. 4. The Church environment. 5. Giving advices in the Church.

1. Premessa

Nella Chiesa degli anni successivi al Concilio Vaticano II si è dedicata molta attenzione ai temi della collegialità e della sinodalità con una larga prevalenza delle strutture (= le Istituzioni) rispetto alle dinamiche. La cosa è comprensibile, soprattutto alla luce del passaggio da una Ecclesiologia gerarchica, tipica di una Chiesa concepita e proposta come “societas”, ad una Ecclesiologia più comunitaria. Da parte propria la Legge canonica, sensibilmente riformata dopo il Concilio, ha necessariamente dedicato spazio alle Istituzioni come tali prima che ai loro concreti funzionamenti, soprattutto recependo i mandati conciliari che chiedevano nuovi strumenti di relazionalità intra-ecclesiale ispirati a maggior condivisione e partecipazione. In effetti: disposizioni “generali” (come sono i Codici canonici) sembrerebbero non poter fare molto di più che prevedere e prescrive l’esistenza di Istituzioni (come sono i vari Organismi consultivi previsti – spesso per la prima volta – dal CIC), demandando ad altri livelli normativi (inferiori) la loro funzionalità più specifica (come avviene spesso attraverso gli Statuti ed i Regolamenti di tali Organismi – cfr. Cann. 94-95). Di fatto, però, il trascorrere dei decenni ha messo ben in risalto come le questioni fondamentali cui il Concilio aveva dedicato la propria attenzione non si ponessero – ancora una volta – principalmente a livello di Istituzioni ma di loro concreto “utilizzo” e reale “funzionamento”… con un maggior rilievo del quomodo rispetto al semplice quid, come risalta in modo evidente tutte le volte che ci si riferisce prima alla “esperienza” del Concilio che non alle sue effettive “decisioni”.

Proprio in questa prospettiva, la riflessione su “consultare e consigliare nella Chiesa”, in continuità con quanto già espresso e sollecitato in tema di “discernere e scegliere nella Chiesa”, “decidere e giudicare nella Chiesa”, “responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza”, intende richiamare l’attenzione proprio sul versante della consultazione come tale e dei suoi fondamenti ecclesiali più propri. Ciò avverrà, in questa sede, concedendo spazio soprattutto alle dinamiche proprie della consultazione stessa, prima che alle sue forme istituzionali ed istituzionalizzate, nella convinzione che i “modi” più che le “forme” esprimano in modo inequivoco i fondamenti.

Per di più l’anno 2015 è caratterizzato proprio dall’essere un tempo di “consultazione” nella Chiesa e della Chiesa all’interno di un innovativo schema di “consiliarità” pontificia costituito – per la prima volta – da una doppia Assemblea del Sinodo dei Vescovi: una straordinaria (realizzata nell’ottobre 2014) ed una ordinaria (predisposta per l’ottobre 2015), motivando, e forse richiedendo una specifica riflessione non tanto sull’identità del Sinodo dei Vescovi come tale, ma sulla sua funzione più radicale di “Organismo consultivo”, a cinquant’anni dalla sua istituzione ed in relazione alle sue diverse configurazioni (ordinaria, straordinaria, speciale). Un Sinodo dei Vescovi che, nell’attuale sua forma di celebrazione, pone domande significative – e forse anche radicali – sulla natura di tale consultività, sia per quanto riguarda la sua componente “pontificia” che quella più espressamente “ecclesiale”. Che cosa, infatti, prevale nel momento presente? La “consultazione” pontificia o i “consultati”? Che il Pontefice, infatti, [a] non si sia espresso formalmente sulle tematiche sinodali ed abbia fatto pubblicare gli strumenti sostanziali del lavoro sinodale e, allo stesso tempo, [b] che destinatari della consultazione reale non siano (stati) solo i Vescovi come tali ma anche le “loro” Chiese particolari ed i singoli fedeli, pone interrogativi di grande portata sostanziale ben prima che formale o istituzionale. Un tal modo di “consultare” da parte del romano Pontefice su che cosa pone l’accento? Sono davvero in gioco i “mantra” – teologico e pastorale – degli ultimi trent’anni (= collegialità e sinodalità) oppure si tratta di altro? E, nel caso: di cosa realmente si tratta?

Partendo da queste considerazioni – più fondative che non istituzionali – l’attenzione della riflessione cui si vuol dare corso si pone sulla natura e consistenza della consiliarità intra-ecclesiale prima che sui suoi aspetti istituzionali, con attenzione in modo specifico all’esistenza (diverso da “istituzione”) e funzione (diverso da “funzionamento”) delle strutture consultive come tali, piuttosto che alle modalità esecutive interne agli Organismi previsti dal Diritto quali “unità di elaborazione” di pensiero e di discernimento necessari al governo delle diverse realtà ecclesiali. È questo, infatti, un aspetto al quale difficilmente si presta la dovuta attenzione mentre, in realtà, si tratta dell’elemento decisivo all’interno dell’attuale vita ecclesiale come proposta – e richiesta – dal Vaticano II.

In tal modo l’interesse prevalente della riflessione non riguarderà tanto le modalità di consultazione ma la sua strutturalità: i modi, infatti, derivano espressamente dalle finalità e dalle loro “motivazioni”. Non di meno: è evidente che cercare consenso o legittimazione (spesso ex post) è ben diverso dal cercare consapevolezza e confronto.

2. Consultività: elementi previ

La ricerca e riflessione sul consultare e consigliare nella Chiesa nasce dall’esigenza di porre in luce non tanto un insieme di – spesso innovativi – Istituti giuridici dei quali la Chiesa si è dotata nell’ultimo mezzo secolo, ma – molto più radicalmente – la costitutività della dimensione consultiva all’interno dello stesso “essere Chiesa”. Non è infatti trascurabile dal punto di vista ontologico il fatto che il termine greco “ekklesia” significhi assemblea, convocazione: non, cioè, un semplice e qualsiasi “essere insieme” da parte di soggetti qualunque (ciò che corrisponde al concetto ‘classico’ di societas), ma il “convergere” in un evento fortemente “identitario” ed “attivo” derivante dallo status personale (qual era l’essere cittadino libero nella Polis greca; l’essere maschio circonciso per il Popolo ebraico; l’aver ricevuto il Battesimo per la Chiesa apostolica). D’altra parte proprio una decisa attività consultiva è testimoniata negli Atti degli Apostoli fin dalle prime pagine quale pratica in qualche modo tipica all’interno della Comunità apostolica (si vedano: l’elezione di Mattia, la scelta dei sette, il c.d. Concilio di Gerusalemme, ecc. – cfr. At 1,21-26; 6,1-6; 15,4-31).

Non di meno: per quanto il tardivo palinsesto ecclesiologico – del tutto posticcio e strumentale – della “societas inæqualium” (all’interno della quale il romano Pontefice esercitava un vero e proprio imperium) si mostrasse formalmente uni-volontaristico, una vera sensibilità espressamente consultiva – in realtà – non è mai venuta meno nella vita ecclesiale, per quanto alle volte abbia dovuto configurarsi quale forma di mera “resistenza”, come mostra la dinamica tra “maggioranze” e “minoranze” all’interno dei Concili degli ultimi cinque secoli.

Il fissare l’attenzione (e la tematica) nello specifico della consiliarità vorrebbe evitare in questa sede un grosso rischio al quale molta parte della riflessione e dottrina post-conciliare (soprattutto teologica e pastorale) non è riuscita invece a sottrarsi: intendere l’intera tematica in chiave di collegialità o sinodalità (ecclesiali), quando non anche di vera e propria “democrazia”, con tutta la congerie di conseguenze – prima pratiche e poi teoretiche – che ne sono derivate nell’immediato post-Concilio in tema di “Popolo di Dio” e – di fatto contrapposta – “communio”. All’osservatore attento, infatti, non può sfuggire come la questione della consiliarità ecclesiale sia sufficientemente diversa e distinta da quella collegiale e sinodale in senso proprio.

Per completare il quadro va poi ricordato che la quasi totalità dell’attività propriamente “collegiale” vissuta nella Chiesa (latina) lungo i secoli si è concretizzata sostanzialmente e principalmente a livello “elettivo” e non di vero e proprio governo: i “collegia” ecclesiali, cioè sono (stati) nella loro quasi totalità Organismi/Organi elettivi – il cardinalizio in modo eminente – e non di governo (cioè decisionali) in senso proprio.

È in quest’ottica che occorrerebbe ricuperare anche l’originario significato funzionale – anziché ontologico – della qualificazione della Chiesa come “societas inæqualium” nel senso che “Ecclesia non est collegium”: consapevolezza che dopo il Vaticano II verrà espressa meno ambiguamente con la prevalenza dell’aggettivo “gerarchico” (già utilizzato in precedenza) rispetto ad “ineguale”. Il concetto di “Comunità gerarchica” recentemente utilizzato da Patrick Valdrini esprime efficacemente tale idea: essa infatti «acquisisce lo statuto teologico di luogo ecclesiologico radunato da Cristo» e non sorto spontaneamente per accordo o consenso intersoggettivo. Tale comunità infatti si presenta proprio come Ekklesia (= comunità radunata)

«affidata a un Pastore che è mediatore necessario per la creazione di una comunità salvifica nella quale i battezzati, sacramentalmente uniti a Cristo e inseriti nella Chiesa, vivono, in modo del tutto profetico, la comunità nuova, salvata e missionaria voluta da Cristo per essere testimone nella storia della realizzazione del disegno divino, soprattutto nell’Eucaristia».

Neppure può dimenticarsi il peso istituzionale (e spesso di fatto costituente) degli elementi e fattori socio-culturali che hanno dato forma alla Chiesa di stampo “germanico” costruita sul palinsesto beneficiale che per oltre mille anni ha costituito il princeps analogatum – e la regola strutturante di base – di qualunque Istituzione della cattolicità europea: l’unica di fatto allora esistente pleno Iure. La titolarità personale e privatistica, infatti, del Beneficium che interveniva a strutturare in massima parte l’Officium ecclesiastico in quanto “Titulus Ordinationis” non giustificava in alcun modo, né permetteva di fatto, l’esistenza e la fruizione di logiche e dinamiche effettivamente consiliari all’interno della vita ecclesiale ordinaria nella sua accezione di “cura animarum” attraverso l’esercizio dei diversi Officia ecclesiastica (Sacramenti e Sacramentali in primis). Allo stesso tempo: il princeps analogatum di tale concezione e dinamica era l’esercizio della Iurisdictio da parte dell’Imperator o del Senior il quale si rendeva presente sul territorio per mezzo dei vari Vassi (= feudatari) che attraverso la fides (= giuramento personale di fedeltà) ricevevano personalmente l’uso e lo sfruttamento di terreni e beni, sui quali spesso era concessa anche (parziale) giurisdizione ed esenzioni fiscali. La fides, poi, comportava una vera e propria subordinazione militare con impegno personale dei Vassi e loro milizie a fianco del Senior in un rapporto sempre gerarchico e inter-personale (= privatistico) condizionato alla continuità di concessione del Beneficium/Præbenda o dal suo accrescimento come “premio” per la fedeltà dimostrata: quanto bastava a bandire da quella concezione generale del governo ogni reale collegialità e consiliarità.

Tale presupposto – divenuto ben presto, e a lungo, anche ecclesiale – svanì nel nulla con la statuizione di “Presbyterorum Ordinis” n. 20 che dismetteva il Sistema beneficiale (personale e privatistico) in vigore fino al Vaticano II, dopo aver già disposto che

«quanto ai beni ecclesiastici propriamente detti, i sacerdoti devono amministrarli, come esige la natura stessa di tali cose, a norma delle Leggi ecclesiastiche, e possibilmente con l’aiuto di esperti laici»,

da cui deriva l’attuale Can. 1280 secondo cui

«ogni persona giuridica abbia il proprio Consiglio per gli affari economici o almeno due Consiglieri, che coadiuvano l’Amministratore nell’adempimento del suo compito, a norma degli Statuti».

L’eccezione a quel presupposto era costituita dalle non poche, e largamente diffuse, Istituzioni ecclesiali di natura collegiale che progressivamente si erano poste a latere della struttura gerarchica vera e propria: Monasteri e Capitoli in primis al cui interno, sia la comunione perpetua di vita che il possesso indiviso di smisurate proprietà agrarie, costringeva all’applicazione del principio giuridico giustinianeo – privatistico – secondo cui “quod omnes tangit ab omnibus tractari et adprobari debet”. Per quanto, poi, riguarda in particolare i Capitoli, occorre rilevare che la “ecclesiasticità” (cioè il coinvolgere solo chierici) di tali situazioni di perfetta collegialità non aveva nulla a che vedere con la loro “ecclesialità”, né tanto meno con la struttura ed il funzionamento della Chiesa come tale: Capitulum, non Ecclesia, est collegium!

La chiara differenza tra “valutazione” e “deliberazione” potrà fornire la chiave metodologica necessaria per verificare di volta in volta che il discorso si mantenga nell’ambito della sola consiliarità (= valutazione) come tale anziché scivolare nella collegialità (= deliberazione).

3. Uno sviluppo diffuso

3.1 Consiliarità tra forma e metodo

Posta con chiarezza l’attenzione sulla sola consiliarità nella Chiesa, pare utile fare un ulteriore passo avanti prendendo atto che negli ultimi decenni anche in molti campi della vita civile le pratiche organizzative e gestionali sono mutate in modo repentino seguendo vie prima non immaginate né ipotizzabili: una di queste è la diffusione della pratica consultiva, intesa come coinvolgimento di Organismi o persone all’interno di precisi e specifici percorsi valutativi, prima ancora che deliberativi. Il fenomeno è ormai assodato, p.es., in ambito aziendale, tanto da costituire uno dei campi e temi ricorrenti di formazione dello stesso personale dirigenziale. Per quanto in modo differente, il fenomeno si è affermato anche in altri ambiti tra cui – con caratteristiche del tutto proprie – quello politico.

L’elemento di maggior interesse in proposito, soprattutto dal punto di vista concettuale, consiste nel fatto che – fuori dall’ambito ecclesiale – la questione si presenta ormai come strategica e non più semplicemente tattica (o politica, secondo la vecchia terminologia). Una strategicità che riguarda e modella il “cosa” ben più profondamente che il “come”. Nella società post-moderna, infatti, la consiliarità non costituisce più un semplice modo di fare delle cose, ma una nuova natura delle cose stesse, non risultando più semplice “procedimento” o “procedura” ma vero e proprio contenuto specifico: valore aggiunto. Un plus che tanto la società europea di ancien Régime (col Consigliere del Principe) che quella rivoluzionaria (con l’Assemblea nazionale) avevano perduto rispetto al mondo medioevale in cui le varie forme di “consilium” – dirette e indirette – avevano giocato ruoli d’importanza primaria: si pensi alle varie “Diete” ed Istituzioni similari o ai diversi “Consilia” tipici delle strutture comunali o “repubblicane”.

Proprio nella prospettiva del superamento di una mera “forma” a vantaggio di un vero “metodo”, potrebbe giovare qualche riflessione su elementi e fattori che, partendo dagli ambiti aziendale e politico, possono entrare in gioco ampliando la prospettiva ed offrendo spunti alla consapevolezza e riflessione specificamente ecclesiale.

- Innanzitutto la considerazione che sia l’ambito aziendale che quello politico non sono di per sé ambiti di originaria “condivisione” (= collegia) e neppure “autopoietici”: non sorgono cioè dal basso, come invece si sostiene per la “società” sulla quale si basa lo Stato contemporaneo. Un’Azienda è una struttura verticistica, organizzata in modi chiaramente gerarchici, con responsabilità distinte e precise, la cui concentrazione risponde a dinamiche di tutta specificità ed in cui la reale decisionalità risiede spesso anche molto lontano dall’Azienda stessa, come accade nelle Assemblee degli azionisti rispetto agli stabilimenti di produzione.

- Anche per quanto concerne l’ambito politico va considerato che – oggi – un Partito politico (e forse a maggior ragione un Movimento) risponde non tanto ad elementi “popolari” (= consociativi) quanto, invece, ad idee precise e strutturate: a vere dottrine con tanto di dogmi, ai quali si offre poco più della sola possibilità di “aderire”. Non per nulla per Partiti e Sindacati si parla ordinariamente di “Organizzazioni di tendenza”, così come per le Confessioni religiose. Il fatto che in Italia la maggior parte dei Partiti e Movimenti politici abbia oggi alle spalle non più una sostanziale “Associazione” ma una formale “Fondazione” la dice lunga in merito: l’Associazione, infatti, è per sua natura “collegiale” (= ogni testa un voto) ed “egualitaria” (= ciascuno ha pari diritti e doveri); una Fondazione, per contro, è retta e diretta da un ristretto gruppo di soggetti, unici decisori della sua vita ed attività.

- Ulteriormente occorre prendere atto che né in ambito aziendale né in quello interno alle Organizzazioni politiche la consiliarità partecipa a dinamiche connesse alla “legittimazione”: la consiliarità, infatti, non è – di per sé – veicolo o strumento finalizzato a legittimare decisioni che qualcuno assume “per” tutti; essa non riguarda, infatti, deleghe, mandati o rappresentanze quanto, piuttosto, i loro “contenuti”.

Sotto questi profili gerarchia, dogma, funzione non-deliberativa e non necessità di legittimazione, risultano elementi che accomunano – o almeno parrebbero poterlo fare – i mondi aziendale e politico a quello ecclesiale, suggerendo l’opportunità di rilevare – e forse anche valorizzare – elementi e fattori già presenti nella vita e dinamica ecclesiali ma ancora scarsamente percepiti e consapevoli, soprattutto in riferimento a molte situazioni nelle quali continua a vigere il presupposto che, in fondo, un “parere” è solo un “parere”: non è vincolante e pertanto chi governa (soprattutto Vescovi e Superiori religiosi) può fare quello che vuole. Ciò senza dimenticare come, nella vita ecclesiale, la quasi totalità degli apporti consiliari risulta solo formale: il “Consiglio” va convocato e sentito, anche ad validitatem per l’Atto da porre, ma “decidere” spetta alla sola Autorità, la quale non è tenuta «da alcun obbligo ad accedere al loro voto» (Can. 127). Ciò che – troppo spesso – rende la formula “audito Consilio” un mero elemento redazionale da porre all’interno della stesura di un significativo numero di Atti, sovente senz’alcuna corrispondenza neppure nei Verbali (spesso inesistenti) di tali “consultazioni”.

Va considerato inoltre che, per quanto le finalità specifiche della mission aziendale e di quella politica siano radicalmente diverse (ed in buona parte incomparabili) rispetto a quelle ecclesiali, non di meno in tali ambiti il ricorso – strutturale – alla consiliarità è divenuto ormai indipendente dalla finalità specifica delle decisioni da adottare in base ai fini da conseguire.

In altri termini: ciò che importa in queste riflessioni sulla consiliarità come tale non è il fatto che [a] la consiliarità aziendale abbia come fine – anche esclusivo – quello di produrre reddito per gli azionisti (o la proprietà) e che [b] la consiliarità politica abbia come fine quello di raccogliere il maggior consenso possibile attraverso il numero di voti ricevuti in sede elettorale, mentre [c] la Chiesa persegue quasi esclusivamente obiettivi assiologici, sia spirituali (= la salvezza) che morali (= la verità). Il nocciolo della questione, infatti, riguarda non il “come” ma il “perché” della consiliarità. Perché, cioè, un lavoro consiliare vale più di uno individuale? Perché se, in fondo, a decidere sarà sempre uno solo è ormai divenuta così importante tutta l’attività pre-decisionale? È una mera questione di numero di idee e/o di informazioni messe in gioco? Oppure esiste “qualcosa” in più, intrinsecamente specifico della consiliarità come tale?

Tutto ciò, poi, ha una propria legittima fondatezza e pienezza in campo socio-antropologico soltanto, oppure anche in campo ecclesiale? Di più: il livello socio-antropologico è terminativo, esaurendosi in se stesso, oppure il livello spirituale proprio della Comunità cristiana può/deve “assumerlo” ed, eventualmente, aggiungere anche altro? La Chiesa cioè, in quanto realtà spirituale e non solo socio-antropologica, potrebbe non essere consiliare? Oppure la Chiesa deve costitutivamente essere consiliare?

3.2 Forme e metodi di consiliarità

Passando al lato pratico della consiliarità, il suo orizzonte risulta molto articolato nei vari ambiti, dovendosi prendere in considerazione una varietà di strumenti “consultivi” quali sono – ancora esemplificativamente –: staff, équipes, consulenti, consultazioni, demoscopia, ecc. ognuno con le proprie caratteristiche non solo e non tanto di funzionamento ad intra ma, più radicalmente, di presupposti “originarii” che, p.es., ne facciano scegliere già di principio – solo – alcuni ed escludere altri anche o soprattutto in ragione dell’identità del consultante oltre che, spesso, della materia in discussione.

La tematica si arricchisce ulteriormente se si considera un altro fattore strutturale: tanto l’Azienda che il Partito che la Chiesa sono realtà in qualche modo identitarie, circoscritte, unitarie, strutturate; non altrettanto, invece, il mercato, l’elettorato, l’opinione pubblica, la società civile… Anche questo accomuna ulteriormente le tre tipologie di “soggetto” prese in esame e pone in maggior evidenza al loro interno gli elementi e fattori di non paritarietà di ruoli ed azione tra i diversi soggetti che intervengono nelle varie occasioni e circostanze.

Quali sono, dunque, le maggiori tipologie consiliari ed in che cosa si caratterizzano e distinguono? Ne esistono, poi, di specificamente ecclesiali?

- Un primo approccio potrebbe riguardare l’incidenza del fattore temporale: la consiliarità, infatti, può profilarsi come fattore permanente oppure saltuario. Staff ed équipes, quando non costituiscano la modalità stessa di lavoro (come capita invece in un certo numero di Organizzazioni), si presentano come forme di consiliarità stabili, permanenti.

- Esistono poi forme di consiliarità temporanea distinte in Organismi o persone singole: vari tipi di Consigli, oppure Consiglieri/Consulenti/Periti individuali.

- I destinatari della consultazione possono variare, potendosi essa porre sia ad intra (= consultazione) che ad extra (= demoscopia).

- Anche l’istituzionalità o la volontarietà della consultazione ne evidenziano caratteristiche differenti, come accade nel dover distinguere tra “consulenze” e “consultazioni” propriamente dette: solitamente volontarie e personali le prime, istituzionali e giuridiche le seconde. Chiedere una consulenza ed interpellare un Organismo, infatti, sono attività con spessore e portata giuridica differenti.

4. L’ambito ecclesiale

4.1 Problematiche di fondo

Si è già ricordato come la realtà ecclesiale sia caratterizzata da una struttura portante di stampo gerarchico la cui originarietà risulta ben poco discutibile, poiché da ricondursi al fondamento carismatico anziché sociologico dell’essere Chiesa. Un fondamento che vede nella singola persona – chiamata alla salvezza escatologica – “il” vero referente della relazione con Dio e, quindi, del suo operare nella storia. Ciò vale primariamente per ogni battezzato, qualificato espressamente come “figlio” di Dio (= personalità ed individualità della relazione filiale), ma vale anche in modo “intensivo” per un certo numero di battezzati che, soprattutto in virtù dell’Ordine sacro, rimettono completamente allo Spirito santo tutta la loro vita per il servizio (= diakonia, ministerium) della Chiesa e della sua missione. È questa dimensione vocazionale-carismatica (= di chiamata) della condizione cristiana come tale che, riconoscendo la prevalenza dell’iniziativa divina (= la karis), evita di trasformare la Chiesa sia in un “club” di amici sia in un aggregato di sconosciuti (= societas): due modalità in cui prevale la dimensione orizzontale e la correlata origine “dal basso” della sua stessa esistenza; fattori sempre esclusi in ambito teologico e dogmatico cattolico. In tal modo la struttura gerarchica della Chiesa ne evidenzia la natura “istituzionale” (rispondente, cioè, ad uno specifico “volere” fondativo) e non spontaneistica, mantenendola “data” e “offerta”, anziché creata o realizzata (dai suoi membri).  La stessa gerarchicità ecclesiale, non di meno, costituisce pure principio e strumento di validazione e controllo della dimensione carismatica ecclesiologicamente costitutiva tentando di porre, anche, un limite a scivolamenti consociativistici che ne stravolgerebbero la natura: si veda in proposito il concetto di “Comunità gerarchica” già richiamato.

Non di meno: un tale contesto ed una tale struttura ecclesiali non impediscono per nulla, anzi enfatizzano, le dinamiche virtuose di inter-relazione all’interno del tessuto ecclesiale sulla base soprattutto della ri-acquisizione conciliare circa la “vera uguaglianza nella dignità e nell’agire” di tutti i fedeli sancita anche dal Can. 208 del CIC. Una vera uguaglianza che esige concrete forme di esercizio non solo istituzionalizzato ma, molto più profondamente, nelle modalità concrete della vita ordinaria della Comunità cristiana: una questione di modi e di rapporti, prima che di forme.

È in questo paradigma che la consiliarità trova la propria maggior espressione, non tanto nei singoli strumenti anche istituzionali attraverso cui esercitarla ma, principalmente, nel suo stesso essere esercitata. Il vero problema, infatti, della consiliarità nella Chiesa si è dimostrato essere non il quid e neppure il quomodo ma l’an sit. Né strutture né procedimenti imposti dalla Legge, ma concreto e fattivo modus agendi: a nulla, infatti, servono Organismi (= Consigli, Commissioni…) anche competenti ed efficienti se non li si utilizza o se li si condanna a rispondere soltanto a domande inutili – come spesso accade – oppure li si trasforma in “accademie” o “occasioni specializzate” di formazione in cui, anziché ascoltarli, li si chiama ad ascoltare.

In questa prospettiva: sia la ricognizione storico-teologica che quella giuridica attuale offrono vari elementi di consapevolezza e riflessione in grado di motivare e confermare proprio tale “an sit”, tenendo conto dell’estrema elasticità e discontinuità nel tempo e nello spazio di qualunque Istituzione ecclesiale ne sia divenuta di volta in volta l’effettivo strumento di realizzazione, al di là della sua formale denominazione. Non si può, infatti, (voler) ignorare che il termine “Sinodo”, ma anche la formula “Sinodo dei Vescovi”, indicano a tutt’oggi realtà istituzionali e teologiche assolutamente differenti all’interno dell’unica Chiesa cattolica, dando l’impressione, prima di tutto, che non si tratti di veri termini tecnico-istituzionali (utili, quindi, a spiegare e capire) e, secondariamente, che si privilegi l’utilizzo di tale terminologia laddove s’intenda sostanzialmente escludere strutture/concezioni strettamente collegiali (com’è per il Sinodo diocesano e il Sinodo dei Vescovi “pontificio”).

Proprio, invece, sulla necessaria e costitutiva “sinodalità” dell’attività ecclesiale, intesa nel significato semantico di “strada comune”, di “far strada insieme” (= syn-odos), l’apporto della Tradizione (e storia) della Chiesa è originario e costante, per quanto istituzionalmente piuttosto aspecifico, avendo utilizzato lungo i secoli le modalità di attuazione più diverse.

Già sant’Ignazio di Antiochia (+107) parlava di un “Senato del Vescovo” ponendo in evidenza (pur all’interno di una concezione episcopale detta “monarchica”) una chiara concezione consiliare nella quale proprio l’apporto diffuso ed il confronto – come nel Senato romano del tempo – risultavano del tutto strutturali. La grande stagione dei Sinodi locali e dei Concili ecumenici dei primi sette secoli prosperò con facilità alimentandosi proprio in questo humus di continui scambi di vedute e di decisioni più o meno ampiamente “partecipate” (in senso numerico e collegiale) ma, comunque, mai “solitarie”, come mostra anche l’ampia attività di loro diffusione e “condivisione” alle Chiese di altri territori, Roma compresa. Parola d’ordine di quei secoli fu la “communio” (= cum munus) che, senza intaccare nulla delle singole identità, convinzioni ed eventuali spettanze, stimolava e gestiva una vita ecclesiale non certo semplice ma comunque contrassegnata dalla prevalente dimensione comune (= syn / cum) dell’agire ecclesiale. Significativamente nessuno voleva operare da solo, né da solo rimanere.

Sinodi e Concili, d’altra parte, furono e rimangono luoghi privilegiati della parola detta ed ascoltata: luoghi in cui il consilium come “parere”, o punto di vista, gode di sovranità pressoché assoluta. Un “consilium” che esprime essenzialmente la ragione (e “le” ragioni), ben diverso dal semplice “votum” che manifesta la sola volontà, la decisione, per quanto fondata. Un consilium, inoltre, non basato sulle ordinarie categorie della decisionalità: Collegium o Auctoritas, ma sul solo fatto – se non addirittura il “principio” – di non decidere da soli. La natura organicistica della Chiesa, d’altra parte, il suo essere “assemblea convocata”, “Corpus Christi mysticum”, non potrebbero ammettere altro modo di operare.

Proprio questa dimensione permette così di affermare che sotto il profilo sostanziale, anche all’interno di un Concilio ecumenico, sono più importanti le “discussioni” che non le “votazioni”: il dictum, rispetto al decisum. Certo: è il numero di voti ricevuti che sancisce un documento e lo rende effettivo (= collegialità); non di meno rimane la qualità delle discussioni, dei pro e dei contra in esse emersi, ad esprimerne significativamente la reale consistenza e fondatezza. Un plebiscito senza discussioni oppure un’approvazione risicata al termine di un lungo confronto non conferiscono la stessa portata sostanziale a quanto affermato in sede finale; proprio i percorsi troppo “piani”, infatti, indicano spesso insignificanza dell’oggetto o inutile rassegnazione dei partecipanti.

Due elementi appaiono particolarmente significativi – per quanto solo emblematici – in questa prospettiva: [a] le “avocazioni” che Paolo VI fece a sé di alcune tematiche discusse in Concilio ma non sottoposte alla sua “votazione” (= Apostolica Sollicitudo, Sacerdotalis Cælibatus e Humanæ Vitæ) proprio a causa della percezione che egli trasse dalla discussione conciliare; [b] la recente non-approvazione da parte dei padri sinodali di alcune “tematiche” trattate durante il Sinodo straordinario dei Vescovi dell’ottobre 2014 all’interno di una dinamica in cui anche la mera “votazione” (contraria) del “Rendiconto finale” dei lavori è stata percepita ed utilizzata come strumento (di resistenza) per mantenere aperta una discussione che, in realtà, si sarebbe voluto non aver affrontata. Che in questi casi la “collegialità” non abbia alcuna significatività rispetto alla consiliarità scaturita dalle dinamiche interne al lavoro comune appare più che evidente.

4.2 Elementi evolutivi

Senza dubbio l’attuale vita e prassi ecclesiale è giunta ad un “punto alto” nello sviluppo, o almeno nella declinazione, della tematica della consiliarità, come pare ormai indiscutibile in relazione al particolarissimo Sinodo dei Vescovi celebrato come “a tappe” tra l’ottobre 2014 e l’ottobre 2015 sull’unico tema della famiglia, secondo una innovativa interpretazione pratica dell’Istituto giuridico del Sinodo stesso. Proprio questo evento merita una specifica attenzione istituzionale e, più ancora, concettuale e teoretica (prima di tutto in campo ecclesiologico e giuridico) poiché ciò che risalta maggiormente è appunto l’espressa volontà pontificia di mettersi in ascolto di tutte le voci che in qualche modo possono dare un apporto alla migliore e più completa comprensione della materia e della sua portata, oltre che delle grandi problematicità connesse. Che lo stesso Papa Francesco ascolti tutti – e lasci anche dire e scrivere di tutto – senza intervenire in merito ma sforzandosi di continuare ad ascoltare, non va colto tanto come “fatto” in sé e per sé, quanto piuttosto come specifico metodo di lavoro, volto proprio alla maggior efficacia possibile della “consultazione” intrapresa. Nella stessa linea vanno i diversi richiami alla libertà ed alla franchezza delle discussioni realizzate durante i lavori.

È in questa prospettiva che l’analisi dell’evoluzione concettuale e funzionale dei Sinodi dei Vescovi a partire dal 1967, insieme ad una riflessione consapevole sulla struttura e funzionalità di quello in corso possono offrire in re ipsa elementi di considerazione e riflessione critica anche differenti da quanto ordinariamente ritenuto o persino professato e dichiarato in documenti e pronunciamenti ad essi pertinenti.

Non di meno, l’espressa maggiore attenzione alla consiliarità in sé piuttosto che alla collegialità (ad intra), permette di prendere in considerazione anche un fattore completamente nuovo nella dinamica stessa di tale strumento istituzionale di consultazione pontificia: l’apporto dei mass media che hanno concretamente partecipato a creare, approfondire, convogliare, riflessione – e quindi, potenzialmente, consilium – ponendosi e rimanendo all’esterno del Sinodo dei Vescovi come tale ma interfacciandosi con esso in modo costante e quasi interattivo, oltre a far interfacciare con esso molti fedeli (e non). È questo un fenomeno del tutto nuovo che merita attenzione poiché la pressione e le sollecitazioni “esterne” hanno di fatto attraversato – e continuano – un’attività prettamente ecclesiale qual è il Sinodo dei Vescovi dandole un rilievo del tutto specifico, ma anche conseguendo (o pretendendo) un “proprio” specifico rilievo all’interno dell’opera di consultazione ecclesiale intrapresa.

5. Consiliarità ecclesiale

5.1 Consiliarità in generale

Seppure in modo non conclusivo – per quanto ragionevole almeno come ipotesi di ricerca – pare possibile affermare che nella Chiesa consultare e consigliare costituiscono due “angoli prospettici”, due “punti di vista”, della stessa realtà: 1) quello dei Pastori (variamente identificati a seconda del loro specifico ministero: Papa, Vescovi, Parroci), che consultano, 2) quello dei fedeli (variamente colti nelle loro diverse specificità ecclesiali) che consigliano. Due attività complementari e coessenziali che indicano in realtà i due “versi” dello stesso “vettore” (per dirla in termini geometrici) all’interno di una relazione che non è mai a senso unico, come potrebbe essere, invece, una semplice “informazione” che qualcuno dà e qualcun altro riceve.

Consultare – in senso proprio – non è informarsi né chiedere consulenza, così come consigliare non è informare o dare indicazioni: entrambe le attività presuppongono e richiedono un coinvolgimento (l’intraducibile “s’engager” dei Francesi), un interessamento (nella linea dell’“I care” degli Inglesi), un esserci della persona che, non banalmente, necessita anche della sua presenza fisica… una presenza che solo eccezionalmente – e non sempre – potrà essere supplita da scritti o parole o mezzi tecnici. È famigliare a tutti l’esperienza di spiegare o spiegarsi de visu: guardando in faccia l’interlocutore… in modo ben diverso che attraverso un tutorial o una telefonata; allo stesso modo che una videoconferenza non produce gli stessi effetti – globalmente intesi – di una vera “riunione”.

Consultare e consigliare sono attività che si realizzano nella dinamica della “relazionalità corta”: io-tu, anziché in quella “lunga” della “terza persona” de l’“altro”: lo sconosciuto, anonimo ed irrelato (= egli/lui). Il consilium – canonicamente ben diverso dal votum – si chiede e si dà alla persona come tale, non è mai mera “funzione istituzionale” o prescritta “attività d’Ufficio”. Alla base del consilium, infatti, si trova sempre una fides: la fiducia nei confronti dell’altro. Una fiducia che, spesso, non riguarda tanto la “competenza” – alla quale provvedono già ed opportunamente Consulenze e Perizie – ma la comprensione e la consapevolezza… occorrerebbe dire: la condivisione.

Bastano queste poche sollecitazioni per porre in evidenza che consultare e consigliare, nella loro dinamica più profonda, implicano non soltanto un raccogliere e fornire informazioni ma anche convinzioni, insieme a desideri e timori… Consultare e consigliare, nella loro autenticità, costituiscono un vero e proprio “pensare insieme”: diventano un’attività condivisa in cui i profili individuali tendono ad attenuarsi in favore di una “soggettività” più ampia che non sostituisce ma integra coloro che ne partecipano, sviluppando dinamiche di “empatia” e “sensibilizzazione” reciproca capaci di ampliare la percezione della realtà di ciascun singolo partecipante.

Proprio la “percezione della realtà”, d’altra parte, sembra costituire uno dei fattori chiave della consiliarità, ben prima della “decisione sulla realtà”, alla quale invece molti sembrano maggiormente interessati.

Nel consilium sono la realtà e la vita ad entrare in gioco da protagoniste e proprio realtà e vita costituiscono il maggior apporto all’evento consiliare; realtà e vita che non possono mai essere parzializzate quando si chiede a qualcuno: “tu cosa ne pensi?”. Al contrario: le domande sul “che cos’è”, “come è fatto”, “come funziona”, “quanto vale”, ecc. possono tutte trovare soddisfacenti risposte impersonali come, d’altra parte, l’attività di ricerca sul WEB ha reso esperienza comune. È questo diverso riferimento e coinvolgimento della realtà (comune) e della vita (personale) che rende il lavoro “di squadra” radicalmente diverso da quello individuale, soprattutto laddove sia necessario capire, valutare, scegliere… senza che, in realtà, l’identità di “chi” alla fine decide faccia davvero la differenza. Questo, però, riconduce alla necessaria distinzione tra valutazione e deliberazione: distinzione costitutiva per la consiliarità, anche se troppo spesso sottovalutata, ritenendo che solo il “decidere” faccia effettivamente la differenza.

Quanto e come queste consapevolezze generali possano o debbano entrare a far parte della concezione – prim’ancora che della prassi – ecclesiale non pare questione da sottovalutarsi in questa sede, visto anche il grande interesse ormai polarizzatosi intorno all’evento sinodale in corso, non solo per la sua tematica, quanto maggiormente per ciò che ormai l’Istituzione Sinodo dei Vescovi sta sollecitando a livello di vita ecclesiale e sue dinamiche.

Specificamente in questa prospettiva, oltre agli elementi e fattori “antropologici” già evidenziati, risulta necessario porre nel dovuto risalto qualche ulteriore elemento peculiare della consiliarità ecclesiale: 1) la comune adesione alla Chiesa, 2) la comune vita di fede, 3) la comune missione evangelica, 4) la dimensione celebrativa degli eventi consiliari, 5) la fratellanza battesimale.

- Il primo elemento da porre in risalto quando si dedica attenzione alle attività ecclesiali in senso proprio è la necessità di collocarsi all’interno della comune adesione alla Chiesa, dovendosi infatti considerare che ciascun fedele di per sé, ma più ancora in quanto specificamente “attivo” (= il chierico, il religioso, il catechista, l’educatore, il volontario… lo stesso genitore), non è “lì per caso”, né per motivazioni individualistiche, ma perché intende partecipare e contribuire a qualcosa che in qualche modo è “anche suo” in quanto membro della Chiesa.

- Il secondo elemento da tenere in adeguata considerazione – e spesso vivificare – è il presupposto della comune vita di fede che deve costituire lo sfondo e l’orizzonte entro cui delineare, comprendere e collocare l’attività ecclesiale, o la tematica pastorale, oggetto di comune riflessione, studio e confronto; i criteri, infatti, ed i valori di riferimento devono essere quelli propri della fede ecclesiale e non della personalissima visione della vita e del mondo.

- Non risulta inoltre possibile costruire una riflessione condivisa (per quanto non necessariamente fino agli “esiti finali”) se non ci si muove consapevolmente all’interno della comune missione evangelica cui ciascun discepolo di Cristo è chiamato ed inviato: ciò che nella Chiesa si fa dev’essere fatto per far conoscere – e sempre meglio – Gesù Cristo e la salvezza che offre ad ogni uomo; altre realizzazioni, pur meritorie, esulano dalla mission costitutiva della Chiesa.

- Peculiare, per quanto non esclusiva, della consiliarità ecclesiale è anche la dimensione celebrativa delle sue realizzazioni: dimensione che le rende ogni volta “uniche” poiché vissute in prima persona, condivise con altri discepoli di Cristo… standoci dentro e creandole insieme affinché siano e rimangano vere “tappe” sia della vita personale che di quella comunitaria.

- Da ultima, per quanto in realtà potrebbe essere ritenuta un effettivo pre-supposto, va considerata anche la vera fratellanza che lega – e deve farlo sempre maggiormente – tutti i protagonisti della vita ecclesiale in ragione del comune Battesimo: fin dall’Epoca apostolica, infatti, la fraternità è stata una delle cifre più significative dell’esperienza ecclesiale… tanto significativa da tradurre nei termini della vita e delle relazioni famigliari i rapporti non solo tra membri della stessa Comunità ma con tutta la Chiesa.

La piena costitutività per la Chiesa – e per l’“essere Chiesa” – degli elementi così illustrati consentono pertanto di “trasferire” la consiliarità ecclesiale (= il consultare e consigliare nella Chiesa) dallo status di semplice “modo di agire”, sempre possibile ed auspicabile, a quello di vero “modo di essere”, caratterizzante in modo ontologico l’identità stessa della Chiesa, il suo “essere” più profondo, fino a poter assumere, in modo non ideologico, il ruolo di vero e proprio principio costituzionale.

5.2 “Consigli” ed altri Organismi canonici

Il percorso sin qui delineato pare potersi significativamente concludere con la constatazione che nella Chiesa uscita dal Vaticano II la consiliarità non è rimasta una mera teoria né una semplice aspirazione ma si realizza concretamente per via istituzionale attraverso l’attività di veri e propri “Consigli” ed altri Organismi funzionalmente assimilabili: Consiglio presbiterale, Collegio dei Consultori, Consigli pastorali, Consigli per gli affari economici, Consigli dei Superiori maggiori (istituzionalizzati dal CIC), cui si aggiungono di fatto: Consulte, Assemblee, ecc. creati nella e dalla prassi delle diverse Comunità ecclesiali, sia gerarchiche che associative. Su di un piano istituzionalmente – perché ecclesiologicamente – molto diverso e sostanzialmente irriducibile, si pone anche – almeno funzionalmente – il Sinodo diocesano.

Ciò che risalta maggiormente a riguardo di questo articolato panorama – e da cui è ormai tempo di trarre adeguate conseguenze, anche istituzionali – è la irriducibile natura di “evento” che ne caratterizza l’espressione ed attività: il Consiglio, cioè, opera [a] solo “quando” è riunito ma [b] soprattutto “in quanto” è riunito! Ciò, d’altra parte, corrisponde perfettamente alla sua stessa natura di “attività” di consultazione e consiglio insieme: è nella riunione, infatti, che i Pastori (o chi ne abbia titolo) pongono le proprie istanze (illustrandole e motivandone eventuali possibili soluzioni), chiedendo ai presenti di esprimere il loro “pensiero” in merito… sia alla questione proposta che alle possibili soluzioni. In tal modo l’attività consiliare coincide col suo stesso realizzarsi: con la discussione ed il confronto, le domande e le risposte, i dubbi e gli auspici… e ciò indipendentemente dal fatto che alla fine “si voti” oppure no. La vera attività di qualunque Organismo “consultivo” ecclesiale non è, infatti, il voto finale – normalmente neppure previsto – ma tutto quanto lo precede: tanto più che questo voto secondo il CIC può essere solo di “consenso”, accordato o negato (cfr. Can. 127), alla volontà – non ancora ad un Provvedimento – dell’Autorità di governo.

Diventa così sempre più evidente come, nella Chiesa, l’attività consiliare non sia primariamente finalizzata all’espressione (e raccolta) di “consensi” – secondo le logiche della democrazia parlamentare – ma, più profondamente, alla delineazione e verifica della loro possibile qualità: la rationabilitas che rende le decisioni necessarie, oppure possibili, o anche solo consigliabili o preferibili. La questione consiliare, infatti, non si pone di solito in riferimento a documenti o Norme da far approvare a colpi di maggioranze, eventualmente attraverso il rally (o gli empori) degli emendamenti, ma in riferimento agli stessi “contenuti” di decisioni e pronunciamenti spettanti, in genere, ai Pastori di turno ma circa i quali è necessario consti una consapevolezza più condivisa possibile: come – e perché – “in famiglia”.


in: APOLLINARIS, LXXXVIII (2015), 593-615