Il Diritto amministrativo della Chiesa cattolica da un punto di vista di Diritto canonico



Sommario: 1. Prodromi accademici di una nuova prospettiva. – 2. L’iniziale percorso d’individuazione. – 3. Un approccio amministrativistico canonico critico. – 3.1. La “specialità” del diritto amministrativo canonico. – 3.2. La tutela canonica dei diritti individuali. – 3.3. La centralità e specificità dell’Ufficio ecclesiastico. – 3.4. Il buon governo della Chiesa. – 3.5. La nuova linea di sviluppo.



1. Prodromi accademici di una nuova prospettiva

Nell’anno accademico 2003-2004 gli studi superiori di Diritto canonico nelle Facoltà “ecclesiastiche” (dipendenti, cioè, dalla Congregazione per l’Educazione cattolica  e perciò in grado di rilasciare Titoli accademici “pontifici”) subirono una forte revisione che implicava, tra le varie altre modifiche, anche l’introduzione di Corsi di “Prassi amministrativa” . Le varie Facoltà pontificie di Diritto canonico, soprattutto romane, applicarono tale prescrizione secondo modalità piuttosto differenti, principalmente secondo la specifica visione (dottrinale e di principio) del Diritto canonico e – più ancora – il suo studio concreto propri di ciascuna Istituzione accademica .

La Pontificia Università Lateranense, per parte sua, scelse una via di alto profilo tecnico e teoretico proprio in riferimento all’ambito amministrativistico, non accontentandosi d’inserire nel proprio Piano degli Studi soltanto due Corsi di “Prassi giudiziale canonica” (di fatto: matrimoniale ed amministrativa)  ma creando anche due Corsi specifici dedicati al “diritto amministrativo canonico” come tale .

Dopo un iniziale biennio che vide i due nuovi Corsi quali semplici espansioni o integrazioni delle “Norme generali”: “Atti amministrativi generali” ed “Atti amministrativi particolari” , si procedette verso un indirizzo affatto differente volto ad una prospettazione del diritto amministrativo canonico attenta non solo agli aspetti teoretici e sistematici ma anche alla concreta attività di Curia verso la quale erano indirizzati i futuri impieghi di una parte significativa degli studenti, soprattutto chierici e religiosi. Ciò, tuttavia, non permetteva ancora di caratterizzare in modo sufficiente né la docenza (= programmi di studio dei Corsi), né l’impianto teoretico sottostante (cioè la nozione ed il sistema amministrativistico di riferimento), soprattutto per il fatto che l’orizzonte teoretico e dottrinale del tempo era – ancora – fermamente occupato da “Atti amministrativi”, da una parte, e “tutela dei diritti dei fedeli”, dall’altra, in una prospettiva radicalmente diversa dall’esperienza di chi da anni partecipava (invece o anche) della quotidianità operativa di Curia … di tutt’altro tenore. In tale contesto fu proprio la concreta attività di Curia a costituire il criterio d’individuazione, sia didattica sia teoretica: infatti né la Teoria degli Atti amministrativi , né la tutela dei diritti (soggettivi) dei fedeli o di loro interessi (legittimi in quanto “legali”) , né la prassi curiale romana  s’incontrano ordinariamente nei corridoi della Curia diocesana (o religiosa) o costituiscono l’occupazione del “giurista” in essa impegnato. Ciò di cui – invece – s’intuiva il bisogno era una realistica consapevolezza delle funzionalità ed implicazioni quotidiane del governo pastorale diocesano .

Si trattava, in altri termini, di considerare le modalità strutturali ed operative affinché, all’interno di ciascuna Circoscrizione ecclesiastica, qualche centinaio di Enti (Parrocchie in primis) e di Presbiteri (la maggior parte dei quali Parroci), oltre a (solo) qualche decina di fedeli che chiedono variazioni o specialità in materia sacramentale (in massima parte Dispense matrimoniali) e servizi disparati (cultuali, assistenziali, educativi), oppure offrono (o chiedono) beni e collaborazioni, possano operare entro uno spazio comune ecclesiale pacificamente condiviso, conseguendo – ciascuno – ciò che ritiene più rispondente alle proprie necessità o anche solo aspirazioni, spesso più materiali che espressamente “spirituali” (tanto meno “evangeliche”) . Da tale quadro non poteva restare esclusa neppure la necessaria relazione (per quanto in modo del tutto saltuario) con realtà personali ed istituzionali più o meno estranee alla struttura ed attività pastorale ordinaria della Diocesi: Enti pubblici (o comunque “civili”), Istituti religiosi , persone varie che non si collocano (o non vogliono farlo) tra i “fedeli”, né dei “fedeli” esplicano attività specifiche … oltre ad iniziative ed attività missionarie e caritative che accompagnano da decenni la vita di qualunque Diocesi .


In tale contesto, frutto ormai di consolidate esperienze operative , risultava chiaro che Leggi, Norme varie e Teorie sistematiche dell’organizzazione ecclesiastica sarebbero servite a ben poco: quello che occorreva era “far capire” come ottenere – serenamente e stabilmente – quanto ciascuno può desiderare (e di fatto desidera) … dal Vescovo ai Parroci, da religiosi e religiose alle famiglie , da singoli ad associazioni, da Enti pubblici ad iniziative spontanee, ecc. Tutto, ovviamente, senza scontentare inutilmente nessuno, senza dire “no” troppo secchi, né – tanto meno – assumere o accollare oneri permanenti, soprattutto economici, a Diocesi o Parrocchie, o a qualche altro soggetto canonico (associativo, istituzionale o patrimoniale). In questo, infatti, si concreta oggi un governo ecclesiale all’altezza della propria identità.


2. L’iniziale percorso d’individuazione

La specifica attenzione posta all’attività di Curia sollecitava ormai l’assunzione di due “certezze”:

1) la “amministrazione” ecclesiale è prima di tutto un’attività, svolta da (o per) una quantità diversificata di soggetti e non solo da (o per) qualcuno ;

2) senza un vero “metodo” di lettura e strutturazione del concreto vissuto ecclesiale non si può conseguire alcun risultato stabile né nella Chiesa, né per la Chiesa, tanto più a livello di suo governo.

Proprio da queste due assunzioni empiriche – funzionanti ormai come veri assiomi – occorreva partire per delineare un “nuovo” diritto amministrativo canonico (o, forse, una “nuova Scienza del diritto amministrativo canonico”  realmente utile alla vita ecclesiale e, subordinatamente, alla preparazione dei suoi futuri “tecnici”. Soprattutto occorreva far cogliere la differenza estrema tra studiare il Diritto della Chiesa a livello meramente “normativo” (come semplice successione di Canoni, materia per materia, secondo gli Indici del Codice stesso o dei vari trattati e manuali) e usarlo, invece, in modo davvero appropriato nella reale quotidianità della vita ecclesiale. Una questione analoga, d’altra parte, si era già posta anche in ambito statale, tanto che dagli anni Novanta del secolo scorso in Germania veniva addirittura delineandosi ed operando un vero movimento di riforma del diritto amministrativo impegnato nella delineazione di una “nuova Scienza del diritto amministrativo” basata su tre aspetti caratterizzanti:

a) la scelta dei settori dai quali reperire il materiale normativo utile alla costruzione del sistema e a individuare i compiti dell’Amministrazione; b) l’adattamento del metodo tradizionale attraverso la considerazione non solo dell’Atto amministrativo ma anche dell’attività dei soggetti pubblici e privati e delle reciproche interazioni; c) una visione più realistica dell’Amministrazione, della sua organizzazione e attività, nonché dei suoi rapporti con i cittadini e la Legge” .

Un tale risultato, però, si sarebbe raggiunto nel Diritto canonico solo offrendo un approccio che fosse davvero “critico”, capace cioè di fare da “filtro” per cogliere della realtà concreta solo le componenti realmente significative dal punto di vista giuridico-operativo; esito che si ottiene soltanto attraverso l’esplicitazione di “princìpi” e “criteri”  che offrano un approccio integrato e sistematico in grado di superare la concreta frammentarietà delle – sole – Norme codiciali, interconnettendole operativamente al resto dell’Ordinamento. Una tale prospettiva, tuttavia, non trovava appoggio in nessuna delle teorizzazioni offerte dalla dottrina canonistica comunemente accreditata , rendendo così necessaria la creazione di un itinerario autonomo sia a livello di “fondamenti” che di loro sviluppi teoretici utili alla concreta pratica amministrativistica canonica.

Fu proprio la riflessione orientata a predisporre il nuovo palinsesto concettuale, prima che operativo, a maturare l’iniziale elemento di “novità” dottrinale, consistente nel guardare con pari attenzione – e competenza – ai due ambiti contenutistici e tecnici maggiormente implicati nella tematica: l’Ecclesiologia e il Diritto amministrativo come tale. Sarebbero stati questi i due “poli” tra i quali creare la “corrente” necessaria a realizzare il “lavoro” preventivato . Alla base del procedere si poneva, inoltre, la convinzione (pregiudiziale dal punto di vista epistemologico) che l’identità delle cose è ordinariamente univoca, per quanto complessa ed articolata, così come – al tempo stesso – la loro concettualizzazione deve corrispondere alla realtà effettiva (= essenzialismo metodologico popperiano . Se, pertanto, di “diritto amministrativo” si trattava, non si sarebbe potuto prescindere dalla sua corretta individuazione e considerazione a livello storico, dogmatico e comparatistico. Non di meno, il riferimento all’ambito canonico esigeva anche un’adeguata contestualizzazione all’interno della realtà socio-comunitaria (di fatto “costituzionale”) di referenza: la Chiesa cattolica e non una qualunque “società” giuridicamente organizzata .


Entro tali coordinate la riflessione introduttiva avrebbe pertanto dovuto dedicarsi principalmente a cogliere le “dinamiche” e “funzionalità” più proprie del Diritto amministrativo come tale (risultante dalla sua “descrizione” giuridicamente condivisa) per verificarne ed illustrarne – motivandola – l’eventuale presenza anche all’interno della vita ecclesiale, con particolare attenzione a tenere ben distinti “presupposti” ed “esiti”, nella consapevolezza che le funzionalità – soprattutto giuridiche – non sono necessariamente univoche e che dinamiche simili possono derivare da causalità affatto differenti … e viceversa.

L’importanza riconosciuta alle “dinamiche” e “funzionalità”, non di meno, avrebbe evitato gli appiattimenti già realizzatisi in dottrina a causa delle “modellizzazioni” del diritto amministrativo canonico su quello, soprattutto, italiano e spagnolo che hanno caratterizzato il pensiero canonistico degli ultimi cinquant’anni, a partire da – ma anche condizionando radicalmente – la stessa revisione codiciale degli anni ’60-70 . Proprio l’attenzione alle “dinamiche” e “funzionalità” anziché ai “modelli” evidenziava, da un lato, un certo numero di vere irriducibilità del diritto amministrativo canonico rispetto a quelli, soprattutto, statali, ponendo in luce – per contro – interessanti somiglianze al diritto amministrativo “globale”  (europeo in particolare).

Ne è derivata una possibile e ragionevole leggibilità del diritto amministrativo canonico – pur così radicalmente diverso da quello statale – come vero “diritto amministrativo” con significativi parallelismi funzionali che permettevano di riconoscere o attribuire specifico significato, e quindi valore, a elementi e fattori solo in apparenza peculiari dell’esperienza ecclesiale e come tali gestiti in modo non sempre appropriato dagli autori proprio a causa del loro esorbitare rispetto alla visione statalistica del diritto amministrativo, soprattutto in ragione della sua focalizzazione sulla soggettività della Pubblica Amministrazione (anche “ecclesiastica”) adottata quale riferimento strutturale da prestigiosi ambienti dottrinali.

Ne è derivata una lettura – e proposta – di grande innovatività soprattutto teoretica, attenta principalmente a cogliere ed illustrare la legittima autonomia (anche dogmatica) del Diritto canonico come tale rispetto agli Ordinamenti codiciali occidentali ; autonomia tanto maggiore in campo amministrativistico poiché i presupposti statali ed ecclesiali di tale ambito giuridico risultano palesemente diversi, quando non anche contrapposti di principio .


Le principali macrodifferenze a questo livello si devono cogliere secondo alcuni vettori:

a) la fortissima matrice economica che regge il diritto amministrativo civile in generale (oggi anche comunitario), matrice del tutto assente in ambito canonico ;

b) l’esplicita funzione tutoria individuale contro l’assolutezza e totalitarietà del potere dello Stato moderno quale vero “soggetto” dotato di imperium la cui attività interferisce con quella dei “cittadini” da cui tale Stato, in teoria, prende forza e legittimazione ;

c) la differenza strutturale ed irriducibile delle referenze soggettive dei rapporti giuridici di portata “amministrativa”: Pubbliche Amministrazioni (= Enti) in campo statale, persone in campo canonico; una differenza ad oggi non considerata dagli autori ma in grado di spiegare molte delle peculiarità canoniche poiché, mentre nello Stato ad operare sono Enti, attraverso i loro Organi personali (con organicità ed immedesimazione), nella Chiesa gli Enti non hanno alcun rilievo poiché le “funzioni amministrative” sono in realtà funzioni di governo conferite immediatamente a singole persone fisiche attraverso il meccanismo dell’Ufficio ecclesiastico .

Centrale per la comprensione di queste differenze è la diversa identità del fedele rispetto al cittadino: il fedele aderisce alla Chiesa per ottenerne “beni” (in fruizione non esclusiva e quasi sempre condivisa e comunitaria), il cittadino, invece, si trova costretto a cedere allo Stato propri beni all’interno di un rapporto che non smette mai di essere forzoso … si pensi al sistema tributario ed a quello limitativo della proprietà privata immobiliare (infrastrutture e Piani regolatori urbanistici). Lo stesso vale per le attività: quelle ecclesiali poste in essere dai fedeli (evangelizzazione, Culto e carità in senso proprio – cfr. cann. 114 § 2; 215; 298 § 1) sono rese possibili dalla Chiesa stessa e – in definitiva – le appartengono; quelle, invece, poste in essere dallo Stato (in realtà da certi modelli di Stato) sono attività originariamente proprie dei cittadini, e come tali spesso da essi rivendicate in modo indiscutibile (come avviene nei c.d. regimi liberali): commercio, finanza, materie prime, trasporti, sanità, istruzione, perfino sicurezza e difesa sono state spesso nella storia pre-moderna attività “private”. I vari processi di nazionalizzazione o statalizzazione, prima, di privatizzazione o de-demanializzazione odierni lo mostrano con evidenza.


3. Un approccio amministrativistico canonico critico

Le premesse così delineate hanno permesso (e permettono) di muovere i primi passi di un nuovo percorso amministrativistico specificamente canonico che corre, per così dire, su due rotaie parallele di espressa natura epistemologica ben prima che tecnico-giuridica … e forse proprio per questo di maggior importanza strategica per la materia, comportando – almeno in prima battuta – la decisa rinuncia alle “descrizioni” tanto degli aspetti strutturali che di quelli funzionali già abbondantemente operate dalla dottrina, per concentrarsi invece sulla comprensibilità teologica e giuridica dell’intera esperienza di vita ecclesiale che nel diritto amministrativo canonico trova una delle sue più specifiche e concrete espressioni .

1) La prima rotaia è la consapevolezza epistemologica della radicale diversità del sorgere, strutturarsi ed evolvere del diritto amministrativo canonico rispetto a quello civile, permettendo di continuare a leggere la materia – poiché così è sempre stata percepita a livello canonico lungo i secoli – in chiave di amministrazione-attività  anziché di amministrazione-soggetto , indirizzando ulteriormente la prospettiva verso la, ancor più promettente, amministrazione di missione  (che rimane, per ora, una frontiera ancora da verificare in ambito canonico).

2) La seconda rotaia (sempre epistemologica)  è l’inadeguatezza del modello statale quale princeps analogatum (cioè: il meglio conosciuto cui riferirsi) per comprendere e presentare il diritto amministrativo ecclesiale; fattore, questo, che trova nel diritto amministrativo “globale” uno sbocco anche sistematico che si presenta come promettente proprio per la “comprensione” di quanto la Chiesa ha operato (e continua) lungo i secoli senz’alcuna interruzione, nonostante i forti mutamenti che l’hanno interessata nelle tappe fondamentali della sua storia (ed identità) .

Sfruttando più a fondo l’immagine ferroviaria, si può inoltre precisare anche che la “traversina” che tiene unite in modo costante e fermo tali “rotaie” – così da farne un vero “binario” sul quale possa dispiegarsi e scorrere il diritto amministrativo canonico – è il rapporto costitutivo, all’interno della Chiesa, tra Istituzione e persona: quel rapporto che, ben al di là della civilistica tensione tra pubblico e privato (concetti del tutto funzionali nella Chiesa che li utilizza in modo meramente “tecnico”) , ne struttura la stessa realtà comunitaria e personale, imponendole una “norma communionis  che non trova riscontro in nessun paradigma giuridico extra-canonico.

In questo modo l’assenza strutturale (= costituzionale) di un “altro” soggetto oltre la persona (del fedele) – e lo Stato è proprio “tale” soggetto “altro” – non permette che si crei la necessità di “sezionarlo” per controllarlo, né di regolamentarlo per difendersene . La Chiesa infatti, a differenza dello Stato, non è un vero soggetto “altro” rispetto ai suoi membri poiché teologicamente essa è essenzialmente “assemblea”, “convocazione”, “corpo”: “ceppo” (pre-esistente) al quale si viene innestati per ricevere una vita che ha caratteristiche diverse da quelle originarie, ad esse non contraddittorie ed, anzi, migliorative.


3.1. La “specialità” del diritto amministrativo canonico

La prima e maggiore conseguenza di tale prospettiva è la caduta, in ambito canonico, della c.d. specialità del diritto amministrativo rispetto al “resto” dell’Ordinamento giuridico ecclesiale: tutto il Diritto canonico, infatti, è sostanzialmente “amministrativo” proprio in quanto riguardante i rapporti tra Istituzione (ecclesiale) e persona (del fedele) , mentre i rapporti tra “individui” (i c.d. privati del Diritto civile) non rilevano quasi in nulla .

La questione non è affatto marginale poiché, se in ambito civile si è assistito – almeno nella storia giuridica occidentale – a lunghi periodi di assenza dello Stato propriamente inteso come “soggetto” , ciò non ha però comportato anche l’assenza del Diritto come tale: quasi completamente “privato” gestito dalle Corti giudicanti . Non così è stato per la Chiesa che ha sempre emesso ed applicato Norme sostanzialmente “istituzionali”, non entrando mai in gioco come “soggetto” – a differenza dello Stato moderno – ma indicando soltanto (e decidendo) le condotte ecclesialmente significative e rilevanti al fine di conferire o negare legittimità – e conseguente efficacia attuativa – a specifici comportamenti sia personali che istituzionali .


Proprio la strutturale non-specialità del diritto amministrativo canonico rispetto alla generalità dell’Ordinamento ecclesiale – anzi: l’identificazione quasi perfetta dell’uno nell’altro  – pone il primo e maggiore ostacolo all’utilizzo amministrativistico canonico di modelli e categorie di origine statalistica, per quanto singoli Istituti giuridici soprattutto “tecnici” siano rintracciabili in entrambi gli ambiti caratterizzandosi spesso in modo pressoché identico, almeno dal punto di vista funzionale.


Non è tuttavia la specialità del diritto amministrativo rispetto alle altre espressioni giuridiche ordinamentali a stabilirne l’identità e consistenza peculiari. L’ambito del Diritto globale, infatti, dimostra che al di fuori delle dinamiche specificamente intra-statali non esiste Diritto se non “amministrativo”; eccezione pressoché unica sono i Tribunali penali internazionali, espressione – però – del Diritto “internazionale” e non di quello “globale”  … come ben dimostra il Diritto comunitario (europeo).


3.2. La tutela canonica dei diritti individuali

Anche l’assenza di una reale soggettività ordinamentale della Chiesa all’interno dell’Ordinamento canonico  – a differenza dello Stato che è il primo “soggetto” nel proprio Ordinamento – implica conseguenze concettuali (ed epistemologiche) di portata radicale in vista dell’identificazione del diritto amministrativo canonico. Se infatti la Chiesa non è “soggetto” attivo all’interno del proprio Ordinamento, non solo non sarà possibile parlare di una “Pubblica Amministrazione Ecclesiastica”, ma neppure sarà possibile implicare tale “soggetto” nelle questioni che – eventualmente – riguardassero la c.d. tutela dei diritti individuali (soprattutto dei fedeli). Mancando infatti il soggetto “supremo” dotato di imperatività intra-ordinamentale, mancheranno allo stesso tempo e modo anche sue eventuali “attività” svolte Iure imperii, così come – eventualissime – connesse “responsabilità” nei confronti di chicchessia. Rispetto ad un soggetto giuridicamente inesistente, infatti, non è data tutela verso sue “attività”, né esso potrebbe violare in alcun modo i diritti di alcuno. Questo, però, pregiudica ab imis fundamentis la possibilità d’individuare il diritto amministrativo canonico in chiave tutoria dei fedeli (e dei loro “diritti” individuali)  sulla falsariga di quanto accaduto dall’Ottocento in poi in campo statale attraverso l’istituzione di speciali Tribunali (spesso interni alla stessa Amministrazione) cui affidare la verifica di legittimità dell’attività soprattutto dispositiva-singolare (= Atto o Provvedimento amministrativo) della Pubblica Amministrazione nei confronti dei singoli cittadini. Non sia qui inutile ricordare come tali Tribunali nella Chiesa cattolica non esistano affatto .


Neppure questa “assenza” soggettuale e giudiziaria pregiudica però l’esistenza ed individuabilità di un vero (per quanto peculiare) diritto amministrativo canonico, poiché non è affatto l’opponibilità dei “diritti soggettivi” individuali  contro l’operato dispositivo (= Iure imperii) “pubblico”, né l’esistenza di una c.d. Giurisdizione speciale a “creare” il diritto amministrativo, quanto invece – da una parte – la complessa trama di relazioni intra-istituzionali (Istituzioni ed Uffici ecclesiastici) in cui si articola buona parte della vita ecclesiale e – dall’altra – le concrete modalità di relazione dei soggetti in qualche modo individuali (persone o Enti) con le attività e funzioni proprie delle diverse Istituzioni ecclesiali  così come si concretizzano nell’attività dei diversi Uffici ecclesiastici.


3.3. La centralità e specificità dell’Ufficio ecclesiastico

L’attività di governo ecclesiale, inoltre, è fermamente contrassegnata dalla presenza di un’entità completamente assente in campo civile (sia statale che sovrastatale) ma strutturale in quello canonico: l’Ufficio ecclesiastico. È questo che, in campo canonico, svolge la quasi totalità delle funzioni che in campo civile risultano proprie di specifici “soggetti” quali sono le diverse articolazioni della Pubblica Amministrazione (= Enti pubblici). Qualunque rapporto tra le due entità è irrealizzabile poiché si tratta di confrontare funzioni personali con Enti istituzionali.

Sullo sfondo si pone la disparità del percorso storico-evolutivo della Chiesa, da una parte, e degli Stati moderni, dall’altra: in chiave personalistica la prima, in chiave istituzionale la seconda, cosicché le dinamiche istituzionali ecclesiali rimangono ancora saldamente “feudali”, connesse cioè alle persone e non agli Enti (al regnum e non allo Stato) .


Nella Chiesa ancor oggi è l’Ufficio ecclesiastico il vero centro dell’attività di governo, ma anche delle diverse funzionalità ecclesiali. Un Ufficio definito essenzialmente come “incarico” predeterminato giuridicamente volto al conseguimento di finalità di carattere spirituale (cfr. can. 145 § 1) e come tale conferibile soltanto a persone fisiche . La differenza col partizionamento e la soggettivizzazione di specifiche aree (geo-politiche)  e funzioni  dello Stato così come si realizza nelle diverse Pubbliche Amministrazioni, Autonomie ed Agenzie civili è radicale ed irriducibile soprattutto per quanto riguarda l’identificazione delle specifiche referenzialità e riferibilità delle persone – sempre – fisiche operanti all’interno dell’Ordinamento giuridico. Mentre, infatti, nello Stato sono gli Enti pubblici ad avere “competenze” e “potestà” che vengono – solo di fatto – esercitate da persone fisiche quali loro Organi, all’interno di un rapporto di “immedesimazione organica”, per cui è l’Ente pubblico che opera, nella Chiesa sono sempre le sole persone fisiche ad operare in ragione dell’Ufficio ecclesiastico esercitato. Ufficio che può anche non corrispondere all’esistenza di alcun Ente (pubblico) propriamente detto, come avviene p. es. per i Rettori o i Cappellani, per i Docenti o – a maggior ragione – per i diversi tipi di “Vicari”. Proprio la figura del Vicario, anzi, è assolutamente emblematica della reale identità e consistenza dell’Ufficio ecclesiastico rispetto ad eventuali Enti canonici: i Vicari, infatti, non hanno alcun rapporto con gli Enti di cui i titolari esercitano l’amministrazione e rappresentanza. È del tutto palese infatti che, nonostante la possibilità di esercitare potestà di governo ecclesiale anche a livelli altissimi, nessun Vicario ha – di per sé – alcuna possibilità d’intervenire in rapporto all’Ente annesso all’Ufficio capitale. Il Vicario generale, infatti, così come i diversi Vicari episcopali, pur godendo di reale potestà di governo, anche generale, sono completamente estranei rispetto a qualsiasi elemento che riguardi la gestione dell’Ente Diocesi; allo stesso modo il Vicario parrocchiale per la Parrocchia.

Per questo nel linguaggio canonico si parla spesso di “Autorità competente”, in riferimento alla persona fisica che svolge ruoli apicali.


3.4. Il buon governo della Chiesa

L’analisi in corso non può trascurare la proposta – crescente in dottrina – di un diritto amministrativo canonico come “Teoria del buon governo ecclesiale” . Ciò tuttavia presenta due inconvenienti non facilmente ovviabili: [a] la modellizzazione, ancora una volta, del diritto amministrativo canonico su quello civile (infra-statale o ultra-statale) assumendo finalità, princìpi e criteri che non sono propri della Chiesa e [b] il conseguente allontanamento dalla dimensione più specificamente teologica (ecclesiologica in particolare) caratterizzante l’identità stessa, prima che le funzionalità, della Chiesa cattolica.

Parlare, infatti, di “buon governo” nella Chiesa significherebbe accomodarsi – ed in modo parzialmente improprio – sia ai presupposti del recente diritto amministrativo comunitario , che parla però di “buona amministrazione”, sia a quelli di “buon andamento dell’Amministrazione”  già presenti nella cultura amministrativistica di diversi Stati , violando così i presupposti epistemologici già illustrati. Si può parlare, infatti, di un “diritto al buon andamento dell’Amministrazione” o di un “diritto ad una buona amministrazione” all’interno della tensione strutturale tra il soggetto Stato ed i soggetti cittadini, che lo Stato stesso dovrebbe “esprimere”, oltre che tutelare e promuovere. Chi infatti, come cittadino, ha “trasferito” proprie risorse esige – giustamente – una loro adeguata restituzione, per quanto in forma non specifica: è la questione della limitazione della libertà in cambio della sicurezza, dei Tributi in cambio di servizi, delle standardizzazioni in cambio della concorrenza, ecc. secondo il modello contrattualistico  che – unico – continua a legittimare l’esistenza e l’attività dei diversi soggetti “Stato”. La natura, però, espressamente fondazionale e non consociativa della Chiesa non permette né tollera nulla del genere, a nessun livello.


Anche il riferimento costitutivo al “governo”, da parte propria, non risulta convincente in ambito canonico poiché nella Chiesa, a differenza che nello Stato, tale funzione è del tutto accessoria e meramente coordinativa (nella logica della dispensatio) dell’accesso alle “risorse” comuni costituite dalla Parola di Dio e dai Sacramenti (cfr. can. 213) … risorse altrimenti non disponibili .


3.5. La nuova linea di sviluppo

Una vera linea di sviluppo – coerente con le premesse ed i presupposti sin qui esplicitati e prospettica rispetto ad essi – richiede, invece, di porre attenzione alle corrette modalità operative che all’interno della Chiesa garantiscono il pieno esercizio dello status fondamentale di “fedele/battezzato” e degli status personali da esso derivati quali quello laicale, clericale e religioso , unitamente a quanto deriva dall’esercizio degli Uffici ecclesiastici da parte delle persone fisiche e delle attività (istituzionali e complementari) da parte degli Enti canonici, sia istituzionali che associativi . Ciò, d’altra parte, corrisponde pienamente alla Normativa canonica espressa nel Codex Iuris Canonici e nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium quali Leggi ordinarie universali che strutturano la maggior parte dell’Ordinamento canonico, oltre che alla costante pratica curiale.


In tale prospettiva sembra convincente proporre un diritto amministrativo canonico come “l’insieme (e lo studio) delle Norme che regolano l’efficace  attività giuridica dei fedeli secondo la loro collocazione istituzionale nella Chiesa (= status, ruoli e funzioni)”, cosicché la disciplina accademica denominata “Diritto amministrativo canonico” si concretizzi “nella Teoria sistematica dell’efficacia dell’attività giuridica ecclesiale .


Una prospettiva di questo tipo s’indirizza così alla totalità dell’attività quotidiana (ordinaria) dei fedeli in ragione della loro specifica ‘collocazione/funzione’ nella Chiesa, lasciando esclusi di principio solo i campi di straordinarietà per la vita ecclesiale costituiti dal Diritto penale e da quello processuale, quali rationes extremæ della vita ecclesiale e, pertanto, dello stesso Ordinamento canonico.

Ne deriva altresì un approccio unitario che permette di ‘contenere’ sia il momento costruttivo della corretta attività/condotta dei fedeli – e delle Autorità ecclesiali – sia quello patologico (in vista della possibile correzione dell’eventuale inefficacia dell’attuare) in un’ottica che rimane comunque – per fedeli ed Autorità – di perseguimento dello stesso fine ecclesiale (= la missio Ecclesiæ)” .


Il confronto strutturale col resto del diritto amministrativo (statale e comunitario) sin qui costantemente operato, potrebbe suggerire a questo punto una critica non senza rilievo: una “Teoria sistematica della – sola – efficacia dell’attività giuridica”, infatti, potrebbe apparire a prima vista un po’ riduttiva, mancando – p. es. – un esplicito riferimento programmatico alle svariate e differenti “forme” dell’attuare giuridico che giocano un ruolo così importante nella Scienza amministrativistica generale.

All’interno della nuova prospettiva suggerita, due appaiono le linee di soluzione di tale problema: a) in realtà il tema delle “forme” dell’attuare giuridico e già implicato nel tema più radicale dell’efficacia operativa, poiché l’efficacia stessa è garantita in modo strutturale proprio dalle “forme” specifiche di attuazione (= liceità e legittimità); b) allo stesso tempo non si può trascurare che lo strutturale bassissimo livello di formalizzazione tipico dell’Ordinamento giuridico canonico non troverebbe vantaggi sufficienti o adeguati da tali sviluppi. Nella Chiesa, infatti, all’interesse per le “forme” di attuazione è preferibile anteporre quello per le “modalità” operative in conformità con l’identità e missione ecclesiali. Il tema delle “forme” potrà, non di meno, trovare adeguato spazio all’interno dell’approccio metodologico cui si dovrà provvedere per dare completezza e concreta plausibilità alla proposta di una “nuova Scienza del diritto amministrativo canonico” .


in: M. DE BENEDETTO (cur.), Il Diritto amministrativo tra Ordinamenti civili e Ordinamento canonico. Prospettive e limiti della comparazione , Giappichelli, TO, 2016, 81-101.