Col
trascorrere dei decenni dalla nuova modulazione del c.d. Diritto
patrimoniale canonico, o meglio: la “gestione dei beni temporali
della Chiesa”, l’interesse per gli ultimi 12 Canoni del Libro V
del CIC
(cann. 1299-1310) è progressivamente diminuito sino alla loro
sostanziale irrilevanza canonistica. I Canoni vengono semplicemente
illustrati e commentati nelle diverse Opere di approccio sistematico
al Codice o nei Trattati di materia, ma in modo prevalentemente
teorico e spesso senza che emerga la consapevolezza di cosa
concretamente sia ciò a cui le Norme si riferiscono e, molto
maggiormente, delle reali ed articolatissime implicazioni che ne
derivano, soprattutto nella vita
reale
delle persone giuridiche canoniche.
Diverso
è l’approccio di coloro che nella propria attività di Curia (sia
diocesana che religiosa) si trovano, invece, a dover gestire
innumerevoli questioni connesse proprio alla materia regolamentata in
tali Canoni: è condivisa, infatti, la sensazione di spaesamento del
neo addetto di Cancelleria diocesana che si ritrova a dover “gestire”
le Messe o i Legati – o altre denominazioni tradizionali o di
prassi curiale – che rimandano comunque alle “pie volontà”.
Similmente accade quando l’Ordinario chieda consulenza o parere al
fine di rilasciare a qualche Ente canonico – generalmente
Parrocchie – l’Autorizzazione ad accettare una Donazione
modale
o un’Eredità
gravata
da adempimenti (cf. can. 1267 §2).
Dalla
consapevolezza pratica del “curiale”, più che dall’espressa
volontà di contribuire in modo attivo alla dottrina ed alla Scienza
in materia, nasce il presente sguardo operativo sulla prassi che
dalle Norme codiciali vigenti a livello “universale” dovrebbe
derivare e, forse, alle stesse Norme chiederebbe maggior aderenza
alla reale situazione dei nostri giorni, non più riconducibile a
quella che per secoli ha costituito il sistema – unico –
di riferimento.
1.
Le
pie volontà
Secondo
il can. 1299 §1 «chi è in grado di disporre liberamente dei propri
beni per Diritto naturale e canonico, può lasciarli per cause pie
sia con atto tra vivi sia con atto valevole in caso di morte»: è
questo il fondamento di un’attività, insieme spirituale e
patrimoniale, che ha trovato espressione lungo i secoli in tutti gli
Ordinamenti giuridici di matrice romanistico-giustinianea tanto da
essere contemplato anche a livello civilistico in molti Stati
contemporanei, oltre che configurarsi come Istituto giuridico tipico
all’interno dell’Ordinamento canonico.
«Le
pie volontà si definiscono tradizionalmente come disposizioni di
beni temporali in favore di una causa pia, poste in essere da un
soggetto sia con atto inter
vivos
sia con atto mortis
causa.
Gli elementi essenziali della pia volontà sono:
1)
la causa pia, in cui favore si rivolge la pia volontà;
2)
l’intenzione soprannaturale (inerente all’ambito religioso), in
virtù della quale si compie la disposizione dei beni […];
3)
la pietà del disponente».
In
tal modo la volontà
personale che s’indirizza verso una “causa” di natura religiosa
o morale (= causa pia) dà origine ad una “pia volontà”,
intesa come specifica attività
cultuale
o pastorale
che il fedele – per “virtù di religione” (o di “pietà”) –
demanda in modo costitutivo al compimento da parte di terzi, dopo
aver provveduto ad un’adeguata dotazione
patrimoniale
che ne permetta l’espletamento per un tempo anche ragionevolmente
lungo (cf. can. 1303 §1,2°), spesso successivamente alla propria
morte (= mortis
causa).
È il demandare
a terzi
il compimento della propria volontà che distingue l’opera
di Culto o di beneficienza (che il singolo compie direttamente nel
corso della vita, realizzando in proprio quanto voluto) dalla pia
volontà
(il cui compimento è – comunque – demandato ad altri:
visto che ci si riferisce a Donazioni ed Eredità).
La
particolare destinazione di questi beni (= Culto o beneficienza)
li rende del tutto specifici all’interno del Diritto canonico, che
riserva loro il Titolo IV del Libro V del Codice latino (cann.
1299-1310), imponendo di pari passo un peculiare mandato
all’Ordinario competente, che il can. 1301 designa quale “esecutore
(legale) di tutte le pie
volontà”:
per tale ragione quest’ambito operativo si colloca tra quelli in
qualche modo “connaturali” all’attività di Curia, trattandosi
di peculiari spettanze dell’Ordinario (in realtà: “doveri
d’Ufficio”), ambito proprio del Diritto amministrativo canonico.
Nella
prassi curiale odierna
– non senza incongruità con l’ambito civilistico e
“giuridico” generale – le pie volontà vengono usualmente
distinte in “Legati pii”
e
“pie Fondazioni” a seconda che il loro adempimento debba avvenire
una
tantum
(= Legato pio) oppure perdurare nel tempo (= pia
Fondazione). La specifica canonicità di tali Istituti giuridici li
differenzia sotto vari aspetti dai loro “sinonimi” (= falsi
amici) di cui invece si occupa, generalmente, il Diritto privato in
ambito statale.
Poiché
la fattispecie tipica di pia volontà consiste nella costituzione
di “obbligo”
in capo a specifiche persone giuridiche canoniche (= Diocesi,
Parrocchie, Istituti religiosi, Seminari, Monasteri, ecc.), occorre
considerare che in linea di principio la chiara volontà dei fedeli è
che i loro beni siano ultimativamente
destinati non in modo generico “alla Chiesa” come tale (seppur in
modo vincolato riguardo alla loro fruizione, parziale o almeno
temporanea) ma alla singola realtà ecclesiale da loro stessi
designata. Di tale implicita volontà sarà necessario tener conto
quale sommo criterio interpretativo per tutte le problematiche che si
dovranno affrontare in relazione a tali volontà, obblighi e beni.
1.1
Tipologie
di “pia volontà” e loro creazione
Affinché
possa parlarsi di “pia volontà” nel senso “tecnico” sopra
indicato è necessario che sussista [1°] un patrimonio,
strutturalmente connesso alla [2°] specifica volontà
che un soggetto diverso dal suo titolare originario [3°] realizzi
attraverso di esso qualche attività
benefica
o cultuale,
sia determinata che indeterminata.
Il
concetto di “patrimonio” è costitutivo
per differenziare la “pia volontà” da una semplice “offerta”
che i fedeli facciano sia ad altri fedeli (chierici o religiosi) sia
ad Enti canonici (Parrocchie, Conventi, Diocesi, Seminari,
Fondazioni, Istituti, ecc.) al fine di contribuire al “sostentamento”
ordinario di singole persone – nel primo caso – o alla
“gestione” ordinaria delle attività di qualche Ente (cf. cann.
531; 1267). Anche se in dottrina non pare considerata la necessità
di distinguere tra offerta
come tale e patrimonio,
poiché ritiene “offerta” qualunque dazione
spontanea
da parte dei fedeli – indipendentemente dal suo valore –,
con il semplice intento di distinguerla da dazioni
dovute,
come sono Tasse e Tributi, la prassi di Curia, invece, ha la
necessità d’individuare una distinzione più chiara possibile tra
le due fattispecie [a] sia per la loro accettazione nel caso esista
uno specifico modus
adimplendi
(v.
infra)
che [b] in relazione agli adempimenti del can. 1267 §2 che, per le
persone giuridiche pubbliche “in affari di maggior importanza”,
prevede la Licenza dell’Ordinario per il loro rifiuto. La
differenza, inoltre, potrebbe ricadere sul Diritto tributario proprio
della singola Circoscrizione ecclesiastica che potrebbe prevedere
indici di imposizione differenti per le “entrate” generiche degli
Enti soggetti, o per i loro “avanzi di gestione” o anche per
altre forme di “entrata” in qualche modo “straordinaria”,
oltre che per Eredità e formali Atti di donazione.
Nella
prassi curiale si tende a parlare di patrimonio
– e non di semplici offerte –
sulla base di fattori estrinseci ed oggettivi, come [a] la differenza
tra beni mobili
ed immobili,
o [b] la necessità di realizzare (oppure no) specifici Atti
giuridici (generalmente di natura contrattuale oppure amministrativa)
per entrare nella piena disponibilità dei beni. Anche [c] la
differenza tra proprietà
e possesso
nei confronti dei beni in oggetto può risultare significativa nella
loro differenziazione, così come [d] la specifica modalità scelta
dal donante per trasferire i beni, come avviene con la Donazione
o il Testamento;
non di meno risulta significativa pure [e] la differenza tra
dotazione
patrimoniale
e contributo
alla gestione
che i beni assumeranno in riferimento al Bilancio dell’Ente
destinatario.
Se
pochi dubbi sussistono in relazione ai beni
immobili
o ai c.d. cespiti
o ai diritti
reali,
in riferimento ai quali il necessario “passaggio di proprietà”
civilistico crea vere situazioni giuridiche sia esigibili che
tutelabili in capo ai loro nuovi titolari, la questione
identificativa rimane invece aperta per il denaro,
a causa della sua versatilità ed aspecificità che non lasciano
molte alternative alla valutazione dal punto di vista quantitativo,
dovendosi ragionare in termini di “valore” e di “ripetibilità”
(un’offerta può essere effettuata più volte da parte di un
donante, sia generico che specifico, anche entro l’anno). Quale
sia, però, il criterio
tecnico
per individuare le offerte
in base alla loro quantità non risulta determinabile in modo
univoco, poiché ciò dipende da vari fattori anche circostanziali
come, p.es., gli importi che le Leggi civili del luogo assoggettano a
specifiche Procedure di documentazione o di contabilizzazione,
soprattutto tributaria.
Tralasciando
le offerte
e riferendosi soltanto ad insiemi di beni considerabili come veri e
propri “patrimoni”, si è già detto che le finalità in qualche
modo tipiche delle pie volontà si dividono in due tipologie di
massima: cultuali
e pastorali.
-
Si indicano come pie
volontà cultuali
tutte quelle connesse a vario titolo alla celebrazione del Culto
cristiano come indicato dal Libro IV del CIC:
Sacramenti e Sacramentali (= pie volontà cultuali-liturgiche),
ma anche luoghi di Culto, beni sacri, ecc. (= pie volontà
cultuali-specifiche).
Per quanto infatti la maggior parte di esse consista nella
celebrazione
di sante Messe di suffragio
per il disponente (ed i suoi famigliari), la prassi ininterrotta
conosce anche la costruzione di edifici di Culto, oppure il loro
restauro, oppure anche l’arredamento, allo stesso tempo che la
realizzazione di opere d’arte connesse al Culto, la dotazione di
arredi, vasi sacri e paramenti, fino agli addobbi floreali in
occasione di speciali ricorrenze o festività.
-
Per pie
volontà pastorali,
invece, s’intendono tutte quelle che abbiano quale destinazione
diretta o indiretta le diverse attività svolte dalla Chiesa sia in
campo materiale che spirituale, tanto generico che specifico. In tal
modo è possibile ricondurre a quest’ambito praticamente ogni
genere di attività assistenziale, educativa, missionaria, sia sotto
forma di strutture
fisiche
(= asili, ospizi, ospedali, case di riposo, scuole, orfanotrofi,
ecc.) che di attività
di gestione
di iniziative di tal genere o di altre ancora che rispondano in
qualche modo a finalità istituzionali della Chiesa a livello
pastorale o caritativo.
Dal
punto di vista operativo (fatta salva la distinzione tra offerta e
patrimonio), solitamente, una pia volontà sorge da una Donazione o
da un Testamento attraverso cui il disponente trasferisce una parte o
la totalità dei propri averi ad altro soggetto vincolando
l’intero trasferimento, oppure una sua parte soltanto,
all’esecuzione di una determinata attività (v.
supra).
Non si può parlare di pia volontà, invece, quando si tratti di
Donazione o Eredità non accompagnata da vincoli o modus
adimplendi
che non obblighino in modo specifico il destinatario ma soltanto ne
accrescano la dotazione patrimoniale personale o istituzionale
facendone un semplice beneficiario.
La
pia volontà, inoltre, può sorgere sia da un trasferimento
patrimoniale diretto
(quando il destinatario canonico è nominato erede o è il
beneficiario della Donazione) che indiretto,
quando è un altro soggetto che riceve il patrimonio in questione ma
con l’onere di darne una parte ad un destinatario canonico
(generalmente attraverso l’istituzione di un Legato civilistico o
di un Fedecommesso). In entrambi i casi, se esistono vincoli che
riguardano l’adempimento da parte della Chiesa, dal punto di vista
canonico si deve ragionare in termini di pia volontà, non importa
che il destinatario sia un Ente canonico oppure un fedele
(generalmente un chierico o un religioso). Se, tuttavia, la pia
volontà affidata in modo indiretto (= Legato imposto ad altri)
non comporta solitamente altre incombenze per il destinatario
canonico rispetto al – semplice – assolvimento
dell’obbligazione assunta nel momento in cui si sono accettati i
beni conferiti (spesso di valore apprezzabile per quanto non
eccessivo), nell’affidamento diretto della pia volontà potrebbero
profilarsi (e di fatto si profilano spesso) notevoli problemi
connessi alla qualifica di “erede” (sia parziale che universale).
Quando, infatti, un Ente canonico diventa erede
capita spesso che si trovi onerato dal comando di consegnare ad altri
(principalmente come Legato civilistico) una parte anche
significativa dell’eredità ricevuta, oppure di dover eseguire
attività particolarmente gravose a livello di gestione dei beni.
1.2
Adempimenti di pia volontà
Indipendentemente
da come una pia volontà sia stata affidata ad un soggetto canonico
(solitamente un Ente), una volta che essa sia
stata accettata,
l’Ordinamento ecclesiale prevede in capo a tale soggetto una serie
di incombenze – di portata morale oltre che giuridica –
connesse all’adempimento dell’obbligazione
assunta, per quanto indirettamente. In qualunque caso, infatti: «Le
volontà dei fedeli […] una volta legittimamente accettate devono
essere scrupolosamente adempiute, anche circa il modo
dell’amministrazione e dell’erogazione dei beni» (can. 1300),
divenendo dal punto di vista canonico vere e proprie “obbligazioni”.
Come
già indicato: dal punto di vista strutturale
la pia volontà si compone di un patrimonio
e di un adempimento
subordinato, che costituisce però la motivazione stessa del possesso
di tale patrimonio, il suo “presupposto”; dal punto di vista
operativo,
poi, l’adempimento si configura secondo due tipologie fondamentali:
1) le obbligazioni da assolversi una
tantum
(= “Legato pio”) e 2) quelle da assolversi per un spazio di
tempo prolungato (= “pia Fondazione”).
1.2.1
Il Legato pio
Costitutivo
del Legato pio è – oggi – l’utilizzo
integrale dei beni
conferiti per il raggiungimento della finalità assegnata, al punto
che l’adempimento e l’estinzione dell’obbligazione coincidono
con la venuta meno dei beni conferiti per quello scopo.
Dal
punto di vista operativo rientrano nella categoria sostanziale di
“Legato pio” due generi di adempimenti: 1) quelli da assolversi
una
tantum
(= Legato pio unitario);
2) quelli da assolversi in tempi più distesi, per quanto – di
per sé – non ragionevolmente superiori ai 20 anni (= Legato
pio ripetitivo).
Per
parte propria la prassi di Curia tende ormai a considerare “Legato
pio” lo stesso obbligo/modus
connesso ai beni ricevuti, in quanto obbligazione contrattuale (= do
ut facias).
-
Il Legato
pio unitario
riguarda obbligazioni da assolversi una
tantum
(cioè una volta soltanto; una volta per tutte), e che con tale
assolvimento si estinguono. Si tratta di tutte le obbligazioni che si
possano assolvere attraverso un’unica
attività,
qualunque essa sia: dare qualcosa a qualcuno, celebrare un certo
numero (non eccessivo) di sante Messe (v.
infra),
costruire un edificio, distribuire risorse o beni. L’elemento
costitutivo e definitorio del Legato
pio unitario
si pone espressamente nel suo pronto assolvimento, da realizzarsi con
una sola
attività, oppure con una serie ridotta
di attività successive e progressive che realizzino – in
poche “tappe” – e in tempi ragionevolmente brevi quanto
imposto. Un buon criterio pratico d’individuazione è quello dei
cinque
anni,
utilizzato comunemente in ambito giuridico generale (civilistico) per
racchiudere “prestazioni” di carattere personale; prestazioni che
dopo tale tempo passano in Prescrizione, non risultando più
esigibili.
-
Il Legato
pio ripetitivo
riguarda obbligazioni cui si deve assolvere in modo ripetitivo
– generalmente a scadenza annuale – realizzando ogni
volta attività sostanzialmente uguali, come la celebrazione di sante
Messe (v.
infra),
o la distribuzione di risorse o di beni (= contributi, borse di
studio, ecc.). Si tratta di una esecuzione normalmente disposta in
modo “cautelativo” per evitare che tutti i beni conferiti vengano
immediatamente esauriti, preferendo invece assicurare un apporto
costante all’attività ordinaria di un Ente oppure, in campo
cultuale, mantenere viva la memoria delle persone e la preghiera a
loro favore lungo un certo periodo di tempo, non eccessivamente
breve.
1.2.2
La pia Fondazione
Costitutiva
di qualunque “Fondazione” in quanto tale è la sua specifica
modalità gestionale, che prevede la rigida distinzione tra capitale
e suoi redditi,
in modo tale che il capitale non possa mai
essere intaccato
per realizzare le finalità istituzionali e lo scopo si consegua solo
attraverso i redditi, per tutta la durata della Fondazione stessa.
Non di meno, ogni Fondazione dovrà gestire la propria eventuale
estinzione secondo le Norme stabilite nel suo Statuto (= le
“Tavole di fondazione” dei cann. 1306; 1308) o secondo il Diritto
vigente, sia canonico che – eventualmente – civile.
Quando
l’obbligazione da assolversi secondo la volontà del disponente
richieda un lungo spazio di tempo, [a] per la natura stessa della
realizzazione comandata, o [b] per la natura dei beni conferiti, o
[c] per espressa volontà del disponente, si parla di “pia
Fondazione”, rimandando direttamente alla necessità di apposite
“strutture di gestione” in grado di assicurarne l’adempimento
per tempi anche molto prolungati.
Una
pia Fondazione potrebbe avere l’obbligo di sostenere nel tempo
particolari attività di educazione o assistenza (come la gestione di
scuole, ospedali, ospizi) o sovvenzionare specifiche attività
(preparazione al sacerdozio, missioni, ecc.), come sotteso al dettato
del can. 1308 §4 in riferimento agli “Istituti ecclesiastici”,
oppure anche quella di far celebrare sante Messe di suffragio per
lunghi periodi; in passato Monasteri, Seminari, Conventi, Istituti
religiosi, assumevano spesso celebrazioni anche in
perpetuo.
1.3
Le sante Messe di suffragio
Un
adempimento di pia volontà divenuto “tipico” in ambito canonico
e che riveste ancor oggi grande rilievo e delicatezza – arrivando
anche a costituire uno specifico “ramo” dell’attività di
Curia – è quello che prevede la celebrazione
di sante Messe di suffragio,
secondo un uso che risale fino al Medio Evo, quando addirittura
interi Monasteri o chiese “collegiate” venivano costruiti (o
dotati di patrimoni immobiliari o rendite) con l’obbligo che i loro
membri pregassero in
perpetuo
per l’anima dell’offerente ed i suoi familiari (= la c.d.
donatio
pro anima)…
e fu questa una delle principali fonti di dotazione patrimoniale
degli Enti canonici fin dalla metà del primo millennio cristiano. A
questa pratica consolidata sono connessi anche un certo numero di
Canoni del CIC
(cf. cann. 945-958) proprio in materia di celebrazione di sante
Messe, soprattutto per quanto riguarda il c.d. stipendium
Missæ
e la tenuta del “Registro delle Messe”, sia degli Enti che dei
singoli sacerdoti.
La
questione è particolarmente delicata poiché s’interseca ed
integra con quella del sostentamento del clero al quale lo stipendium
Missæ
ha sempre portato un apporto fondamentale (cf. can. 946), visto che
«è lecito ad ogni sacerdote che celebra la Messa, ricevere
l’offerta data affinché applichi la Messa secondo una determinata
intenzione» (can. 945 §1).
I
vari elementi che intervengono in tale ambito fanno sì che
l’adempimento della pia volontà (cultuale-liturgica) ponga un
certo numero di problemi anche tecnici che riguardano innanzitutto il
numero
di sante Messe da celebrare, la loro frequenza,
la durata,
il luogo
di celebrazione, i soggetti
che devono assolvere l’obbligo e l’ammontare dell’offerta.
L’antichità e diffusione della pratica ha creato in varie parti
del mondo vere e proprie Consuetudini, per quanto non sempre di
evidente razionalità (cf. can. 24), soprattutto in relazione ai
rapidi cambiamenti economici dell’ultimo secolo.
Non
si può trascurare neppure il fatto che tale adempimento può
risultare sia originario
che derivato.
Si considera “originario” l’adempimento che non preveda
nessun’altra attività oltre la celebrazione delle sante Messe,
cosicché l’intera somma consegnata debba essere utilizzata per le
celebrazioni. Si considera “derivato” l’adempimento che si
ponga come accessorio rispetto ad una differente destinazione dei
beni (p.es.: un fabbricato per sostenere un’opera di formazione,
educazione o carità); in tale caso il soggetto destinatario dei beni
(di solito un Ente canonico) dovrà assolvere l’obbligo di far
celebrare
le sante Messe, secondo quanto richiesto.
-
Il numero
di sante Messe da celebrare dovrà rispondere alla volontà del
disponente, se lo ha espressamente stabilito (e per quanto ciò
risulti effettivamente possibile in ragione della somma consegnata);
diversamente è ragionevole (oltre che estremamente funzionale)
applicare il computo proporzionale secondo la formula “tot
quot”:
“tante quante” si possono celebrare con la somma di denaro a
disposizione (cf. can. 950), secondo il valore della offerta
fissata dal Concilio provinciale o da altra “riunione” dei
Vescovi della Provincia (cf. can. 952) e perciò comunemente detta
“offerta sinodale”. Il computo proporzionale, inoltre, permette
di ridefinire automaticamente il numero delle celebrazioni da
effettuare al variare dell’offerta sinodale sia nel tempo, sia in
differenti luoghi.
-
Per quanto riguarda la frequenza
delle celebrazioni si pongono più possibilità.
1)
Innanzitutto occorre verificare se la volontà del disponente
prevedesse una qualche forma di ripetitività delle celebrazioni
(p.es.: a scadenza mensile o annuale) oppure una loro semplice
effettuazione una
tantum;
in tal caso sarà necessario identificare (anche in modo generico o
istituzionale – p.es.: il Parroco) il sacerdote che debba
provvedere a tali celebrazioni e se questi sia in grado di
effettuarle entro un anno (cf. can. 953) oppure si renda necessario
farle celebrare anche ad altri, altrove (cf. can. 954).
2)
Capita spesso, invece, che il disponente abbia espresso la volontà
che le sante Messe (in numero determinato o determinabile) siano
celebrate in modo ripetitivo per un certo numero di anni, anch’esso
a sua volta determinato oppure determinabile. In tali casi, se il
periodo di celebrazione richiesto è superiore ai cinque anni, è
bene procedere ad un minimo di strutturazione e formalizzazione
dell’obbligo o [1] attraverso l’istituzione di una “pia
Fondazione” non-autonoma (v.
infra)
da affidare a un Ente canonico che possa provvedere, oppure [2]
ripartendo il numero di sante Messe per il numero di anni determinati
dal disponente (o determinabili). La scelta delle modalità dovrà
tener conto di vari fattori tra cui, prima di tutto, l’ammontare
della somma da dedicarsi specificamente alla celebrazione delle sante
Messe in oggetto. A tal proposito è ragionevole calcolare se tale
somma sia in grado di produrre una rendita pluriennale sufficiente
alla celebrazione di un numero ragionevole di sante Messe annue
(= pia Fondazione non autonoma), oppure se sia più congruo
dedicare l’intera somma alle celebrazioni (= Legato pio
ripetitivo).
-
La durata
dell’assolvimento dell’obbligazione può essere stata determinata
dal disponente, oppure essere determinabile in base ad altri elementi
da calcolarsi soprattutto in base all’entità della somma
disponibile per le celebrazioni. Per quanto in passato – all’interno
di economie molto più stabili delle attuali – si accettassero
(e si proponessero anche) “Messe perpetue”, oggi è palese che
tal genere di obbligazioni non è più assumibile. I termini di
prassi, pertanto, entro cui muoversi risultano sostanzialmente tre:
1) decennale, 2) ventennale, 3) proporzionale.
1)
Decennale: il termine entro cui programmare l’estinzione
dell’obbligazione assunta quando si tratta di celebrare un numero
di Messe anche alto ma solo nella forma del Legato pio ripetitivo. Di
fatto, quando la somma di denaro consegnata è molto alta, pare più
ragionevole utilizzare lo strumento della pia Fondazione non-autonoma
così da celebrare le sante Messe per tempi anche molto maggiori; in
tal caso rimane comunque aperta la doppia forma di estinzione della
pia Fondazione (v.
infra,
§ 2).
2)
La durata ventennale dell’obbligazione pare ragionevole nel caso di
istituzione di pia Fondazione non-autonoma costituita “a termine”.
Allo scadere dei venti anni le somme che costituiscono il patrimonio
della pia Fondazione possono essere destinate totalmente, oppure solo
in parte, alla celebrazione di ulteriori sante Messe – ormai
nella forma del Legato pio unitario – mentre l’eventuale
somma residua potrebbe essere assegnata in conto capitale o all’Ente
che ha gestito la pia Fondazione oppure all’Istituto o Fondo per il
sostentamento del clero, secondo il disposto del can. 1303 §2. La
cosa dev’essere valutata in sede istitutiva e potrebbe costituire
materia precipua per emanare eventuale Normativa diocesana in merito.
3)
La forma c.d. proporzionale costituisce la mera applicazione
estensiva del principio “tot
quot”.
In tal caso si procede all’istituzione di una pia Fondazione
non-autonoma e si prevede la sua estinzione automatica (contestuale a
quella dell’obbligazione cui adempiere) quando i redditi annui del
patrimonio non permettano più neppure la celebrazione di una sola
santa Messa al valore dell’offerta vigente al tempo.
-
In passato ha rivestito una peculiare importanza anche il luogo
della celebrazione delle sante Messe, fino alla specifica dell’altare
presso cui celebrarle. Per quanto oggi ciò non abbia più alcun
senso poiché l’altare di celebrazione ordinaria nelle varie chiese
è uno soltanto, è tuttavia cosa buona stabilire presso quale
chiesa
debbano essere celebrate le Messe, in tal modo risulterà più facile
all’Ordinario il controllo del regolare adempimento degli obblighi
cultuali. La designazione del luogo specifico di celebrazione
potrebbe risultare in alcuni casi fonte di problemi in ragione del
numero di sante Messe da celebrare (circa 300 all’anno per ciascun
sacerdote stabilmente presente); in tali casi sarebbe meglio
prevedere l’espressa possibilità di “far celebrare altrove”
una parte delle stesse.
-
In certi casi potrebbe doversi considerare anche l’eventuale
designazione del celebrante;
il disponente potrebbe infatti aver stabilito chi sia (o siano) colui
(coloro) che deve (devono) celebrare le sante Messe in oggetto. Tale
eventuale determinazione è fondata nel fatto che l’offerta per la
celebrazione della Messa è “personale” di colui che la “applica
secondo l’intenzione del richiedente”, divenendo parte del suo
sostentamento. Motivatamente legami di parentela, amicizia, o anche
solo istituzionali potrebbero privilegiare un sacerdote (o un
Istituto religioso clericale et
similia)
rispetto ad altri, garantendo a lui una parte del sostentamento
necessario. Specificamente in questo caso si pone la questione del
numero di Messe annue da celebrare e della reale possibilità per
tale sacerdote di assumere la nuova obbligazione in aggiunta ad
eventuali altre già assunte.
-
Da ultimo non si può trascurare neppure la determinazione
dell’offerta
dovuta per la celebrazione. La questione si pone, al di là del can.
952 §1, in ragione dello specifico sorgere per via istituzionale (e
non direttamente da parte di singoli fedeli) dell’obbligo
celebrativo. In tale prospettiva l’offerta sinodale va considerata
come lo stipendium
Missæ
minimo da applicarsi per il computo del numero di celebrazioni
“risultanti”; potrebbe tuttavia accadere che specifiche
circostanze permettano di prevedere uno stipendium
maggiore, soprattutto in ragione dell’identità dell’autore della
pia volontà.
Caso
del tutto particolare (ed in costante riduzione) è quello delle c.d.
“Messe gregoriane” che, proprio in ragione del particolare onere
di continuità per chi ne assume l’impegno, sono tradizionalmente
“remunerate” con uno stipendium
anche sensibilmente maggiore (nell’ordine del 200 o anche 300%
rispetto all’offerta sinodale vigente).
In
ogni modo, alla base di qualunque ragionamento e considerazione
giuridica in materia di celebrazione di sante Messe deve collocarsi
il “fatto” che esse costituiscono ad
ogni effetto
un vero “costo” economico (e finanziario) per il soggetto
obbligato alla loro celebrazione (Enti canonici compresi) il quale
dovrà sempre
consegnare l’offerta al singolo celebrante. Ciò vale
specificamente per le Parrocchie nei confronti del Parroco o chi per
esso abbia provveduto alla celebrazione (= Vicario parrocchiale
o altri). Si tratta, comunque, di autentiche “uscite di cassa”
che come tali devono risultare nei bilanci degli Enti, oltre che nei
rendiconti di gestione delle pie volontà, per quanto riguarda
l’assolvimento degli obblighi.
1.4
Istituzione
della pia volontà
Pur
avendo di solito la pia volontà la propria origine
costitutiva
nell’Atto di Donazione o nel Testamento, essa diventa tuttavia
effettiva
e giuridicamente efficace
solo con l’accettazione di tale Donazione/Eredità da parte del
beneficiario, il quale – prima di accettare – dovrà
sempre valutare la portata dell’obbligazione accollatagli dal
disponente rispetto al patrimonio trasmessogli. Le Leggi civili in
materia abbondano già dal Diritto romano che voleva comunque
difendere un reale “vantaggio” in capo all’erede,
salvaguardandolo così dall’assunzione di obblighi sproporzionati
rispetto al reale beneficio risultante. Per questo la costituzione di
pie volontà in capo a persone giuridiche canoniche pubbliche
(= Parrocchie, Monasteri, Seminari, ecc.) richiede
all’Ordinario, che deve autorizzare l’accettazione di tali
conferimenti modali, un’attenzione notevole nel valutare la reale
possibilità del soggetto di soddisfare gli obblighi che andrebbe ad
assumersi (cf. can. 1304) e, ancor maggiormente, per evitare che
vengano accollati a tali Enti obblighi del tutto estranei alla loro
natura religiosa o tali da assorbire un’irragionevole quantità di
risorse gestionali senza, per altro, averne nessun tipo di
“vantaggio” almeno equivalente per il proprio fine istituzionale.
Non è purtroppo un’eccezione la pretesa di chi vorrebbe ancor oggi
strumentalizzare la Chiesa (nelle sue varie articolazioni
istituzionali) al compimento di opere che, seppur meritorie in se
stesse, nulla hanno di religioso od autenticamente caritativo; da
tali rischi è necessario che gli Enti canonici siano preservati
senza esitazioni. Non di meno, presumendo che gli eredi non
onoreranno la memoria dei testatori (visto che l’eredità spetta
ormai per Legge attraverso la c.d. – quota – legittima,
indipendentemente dalla “qualità” dei rapporti intrattenuti),
capita di frequente che qualcuno, per assicurarsi la cura della tomba
ed un certo numero di sante Messe di suffragio, cerchi di addossarle
ad un Ente canonico nella forma del Legato (civilistico).
In
questa prospettiva, proprio per evitare che la pia volontà venga
istituita automaticamente con la sola accettazione della sua “causa”
senza che nessuno ne intraprenda il fedele adempimento, è utile che
essa riceva opportuna formalizzazione canonica attraverso un’adeguata
istituzione
per mezzo di specifico Provvedimento dispositivo dell’Ordinario,
diocesano o religioso a seconda del soggetto cui sono stati affidati
i beni. La Normativa in materia risulta di per sé indirizzata a
chiunque riceva beni destinati a pia volontà: sia persone fisiche
che giuridiche, tanto canoniche che no. Il can. 1302 in particolare
esige da tutti loro che ne informino l’Ordinario perché provveda
in merito; la Norma tuttavia non considera la radicale differenza di
condizione giuridica esistente tra i diversi possibili destinatari o
fiduciari, lasciando così aperto un vasto spettro di possibili
questioni, non sempre facilmente risolvibili.
Per
quanto la cosa abbia ricevuto scarso interesse sotto il profilo
teoretico generale, dal punto di vista propriamente
amministrativistico la domanda sulla nascita o istituzione della pia
volontà ha,
invece, specifico rilievo. Si tratta, infatti, di conoscere con
certezza in quali modalità e soprattutto con quali decorrenze e
responsabilità l’oggetto della pia volontà possa/debba trovare
attuazione giuridicamente vincolante ed esigibile, tanto in
riferimento ai fedeli astretti da tale volontà che – più
specificamente – dell’Ordinario che ne risulta a tutti gli
effetti canonici “esecutore” legale.
Fulcro
della problematica è l’accettazione del patrimonio in oggetto e
– contestualmente – delle modalità d’impiego ad esso
costitutivamente correlate. In linea del tutto teorica, infatti, e
secondo il disposto dello stesso Codice, il momento istitutivo della
pia
volontà
coinciderebbe con l’accettazione del conferimento modale in
oggetto, senza nessuna esigenza di alcunché di aggiuntivo da parte
di alcuno. Di fatto, però, ciò non offre alcuna garanzia né a
riguardo dell’esecuzione della pia
volontà,
né a riguardo dei necessari controlli da porre in atto per
rispettare la volontà del disponente, alla quale si è tenuti per
obbligo tanto giuridico che morale. Ne segue che la costituzione di
pia
volontà
per semplice accettazione può darsi realisticamente solo quando il
suo contenuto sia espresso in modo sufficiente chiaro e richieda un
adempimento semplice (= una tantum, non ripetitivo) a cui si
possa dare attuazione immediata senza aggiungere altro (è il caso
del c.d. Legato pio unitario) e la cui “verifica” sia palese.
Quando,
al contrario, tale adempimento richiedesse un minimo di
strutturazione, funzionalità ed organizzazione a causa della durata
o della ripetitività, diventerebbe necessario almeno formalizzarlo e
regolamentarlo attraverso una vera e propria “istituzione” che
delinei e fissi con certezza i modi e le responsabilità di
adempimento della pia
volontà
in oggetto.
Nel
caso infatti dell’automatismo di costituzione per semplice
accettazione, si avrebbero pie
volontà
ad efficacia ed esigibilità immediata, senza alcuna reale
consistenza istituzionale né regolamentazione di esecuzione, con
grave pregiudizio della certezza dell’obbligo – almeno
quanto al suo assolvimento –. Tale
costituzione inconsapevole di un obbligo istituzionale, tra l’altro,
sarebbe difficilmente conciliabile coi princìpi generali del
Diritto.
La
soluzione salomonica – ma soprattutto efficace –
consiste nel non dare mai Autorizzazioni ad accettare Donazioni o
Testamenti gravati da pia volontà senza allegare contestuale Atto
istitutivo degli adempimenti ed obblighi che ne derivano, sia essa
attuabile in forma di Legato pio, come – e a maggior ragione –
di pia Fondazione.
Non
si può ignorare, poi, come la costituzione di pia volontà a carico
di persone fisiche o persone giuridiche canoniche private si
configuri in modo molto differente a causa della loro non soggezione
patrimoniale alla Legge canonica e all’Ordinario, che potrà solo
indirizzar loro l’ammonimento circa l’obbligo morale – e
spesso anche civile – di adempiere le volontà dei disponenti
(cf. combinato disposto dei cann. 1299 §2 e 1302) ma senza poter
intervenire direttamente.
2.
Le
pie fondazioni
Espressione
tradizionale della pia volontà in ambito canonico è la “pia
Fondazione”, la cui storia coincide con quella di molte Istituzioni
ecclesiastiche del mondo occidentale, chiese, Monasteri, ospedali,
scuole, ecc.
Si
è già indicato che per “Fondazione” (dal punto di vista
semplicemente giuridico senza ulteriori accezioni canoniche o
civilistiche) deve intendersi [a] una massa di beni (= patrimonio),
[b] destinata a rimanere compatta e ad essere oggetto di gestione
unitaria,
[c] per lungo tempo, al fine di [d] produrre un reddito attraverso il
quale – e solo attraverso di esso(!) – [e] conseguire
gli scopi che ne hanno giustificato la creazione.
2.1
Il concetto di pia Fondazione
[a]
Quando il disponente lo abbia stabilito – almeno
implicitamente – o [b] quando l’obbligo cui dover assolvere
da parte della Chiesa si dispieghi su di un “ampio spazio di tempo”
(prudenzialmente oltre i dieci anni), oppure [c] l’esecuzione della
volontà del disponente richieda uno specifico impegno ed una
organizzazione
autonoma
per la sua gestione,
si profilano gli estremi per dar vita ad una pia Fondazione la quale
racchiuda [1°] patrimonio, [2°] finalità ed [3°] organizzazione
specifica, all’interno di un’unica realtà – almeno –
funzionale che si curi di assolvere gli obblighi assunti.
Il
can. 1303 distingue due tipi di pie Fondazioni: autonome
e non-autonome;
quelle autonome sono tali in quanto costituite in persona giuridica
– pubblica –, le non-autonome sono invece “affidate”
ad una persona giuridica canonica pubblica già esistente.
L’autonomia o meno della pia Fondazione dipende [a] innanzitutto
dalla volontà – anche inespressa – del disponente ma
anche [b] dalla opportunità
o meno secondo il giudizio dell’Ordinario, tenendo conto
soprattutto delle presunte attività
di gestione
della Fondazione stessa che non devono gravare oltremodo sulla vita
ed attività di persone giuridiche pubbliche già esistenti con ben
altro scopo istituzionale, come accade spesso per le Parrocchie (o
anche Case religiose o Monasteri), che finirebbero per doversi
piegare alla gestione di opere sociali, case di riposo, scuole, ecc.
che, pur benemerite, non costituiscono comunque attività
“istituzionali” per tali Enti canonici.
2.1.1
Le pie Fondazioni autonome
Per
quanto riguarda le pie
Fondazioni autonome
non si pongono specifici problemi “formali” derivanti dalla
peculiarità della loro “pia” origine, poiché si tratta in tutto
e per tutto di erigere una persona giuridica pubblica (meglio se
riconosciuta anche civilmente) adatta a perseguire gli scopi
fondazionali
stabiliti dal disponente. Gli elementi specifici connessi
all’adempimento imposto debbono essere opportunamente inseriti a
livello statutario, meglio se attraverso l’incorporazione del
Testamento o dell’Atto di Donazione all’interno dell’Atto
costitutivo della Fondazione stessa; le modalità specifiche cui
attenersi variano da luogo a luogo, soprattutto in ragione di quanto
ammesso o richiesto dalle Leggi civili (o previsto a livello
concordatario) per la validità dell’Atto.
È
invece sotto il profilo
sostanziale
che occorre prestare particolare attenzione all’effettiva
“autonomia” patrimoniale dell’erigendo Ente (canonico e civile)
poiché spesso accade che il patrimonio conferito sia solo
idealmente adatto
a realizzare la pia volontà annessa; come accadrebbe innanzi al
conferimento di un fabbricato antico (spesso fatiscente) da dedicarsi
all’esercizio di un’attività assistenziale, senza tuttavia aver
previsto anche
la disponibilità degli ingenti fondi necessari per la sua
ristrutturazione e reale messa in funzione, oltre che la “gestione”
per un periodo di tempo ragionevolmente esteso. In tali casi
l’accettazione della pia volontà e la sua istituzione in pia
Fondazione autonoma costringerebbe soggetti diversi dal disponente
(spesso Enti canonici pre-esistenti) a contribuire al finanziamento,
anche prevalente, dell’opera stessa, vincolando – indirettamente
ma realmente – patrimonio ecclesiastico alla realizzazione di
volontà che rimangono ad ogni effetto “private”, anche se “pie”.
L’estemporaneità del proporsi di volontà individuali – per
quanto moralmente e spiritualmente meritevoli – costituisce
spesso un grave pregiudizio per l’attività ecclesiale, sempre
bisognosa di tempi lunghi di discernimento, oltre che necessitata a
porre in opera preferibilmente ciò che possa effettivamente
sostenersi in modo autonomo sotto il profilo economico. A maggior
ragione tali pie volontà non devono essere “accollate” ad Enti
canonici istituzionali
(= Parrocchie, Diocesi, IVC) nella forma di pie Fondazioni
non-autonome, procurando a tali Enti gravissime difficoltà
patrimoniali e gestionali.
Con
prudenza e realismo si potrebbe invece valutare la possibilità di
far confluire il patrimonio in oggetto all’interno di Enti
assistenziali
(in genere Fondazioni) già esistenti ed anche concretamente
idonei
a realizzare la pia volontà in questione. Trattandosi tuttavia di
disporre in modi differenti da quelli originariamente fissati, sarà
sempre necessario operare col pieno consenso di tutti
coloro che potrebbero legittimamente sollevare obiezioni ed impugnare
(quasi sempre in campo civile, in caso di Testamento) la non piena
esecuzione della pia volontà.
Soprattutto
in occasione di grandi lasciti patrimoniali (idealmente adatti a
trasformarsi in pie Fondazioni autonome) è normale che vengano
imposti anche obblighi di carattere cultuale-liturgico
(= celebrazione di sante Messe); in tali casi è necessario
individuare correttamente chi sia tenuto a sovvenzionare
il loro assolvimento che, come già indicato, costituisce comunque un
“costo vivo” per l’obbligato (v.
supra).
Ragionevolezza ed equità indirizzano verso il mantenimento
dell’unità
delle diverse componenti della pia volontà originaria, cosicché sia
tenuto all’obbligo cultuale-liturgico chi effettivamente ha
ricevuto il patrimonio in questione, nel caso: la pia Fondazione
autonoma in questione. In passato, anzi, tale unità
di esecuzione
della pia volontà ha portato spesso alla creazione di vere
“cappellanie” che costringevano i singoli Enti di
assistenza/beneficienza ad assicurare la celebrazione anche
quotidiana della santa Messa a suffragio dei fondatori della pia
Istituzione.
2.1.2
Le pie Fondazioni non-autonome
L’enunciato
del can. 1303 §1, 2° riconduce alla fattispecie delle pie
Fondazioni non-autonome la maggior parte delle pie volontà quando si
presentino alcune caratteristiche:
a)
devoluzione – comunque – a persona giuridica canonica
pubblica,
b)
obbligo di esecuzione/assolvimento per un ampio spazio di tempo,
c)
finalizzazione alla celebrazione di sante Messe (o altre funzioni
ecclesiastiche), o al supporto di altri fini ecclesiastici o di
assistenza, beneficienza, ecc., almeno compatibili con le finalità
della Chiesa,
d)
da conseguire soltanto in
ragione dei redditi annui.
Di
fatto lo strumento fondazionale non-autonomo permette molto
agevolmente di “isolare” all’interno del patrimonio di un Ente
una determinata massa di beni stabilendone finalità
e regole
proprie
di gestione in modo che non
intralcino
indebitamente la vita ordinaria delle persone giuridiche canoniche né
ad essa vengano incautamente mescolate fino a sparire, mettendone a
rischio l’adempimento: rischio molto concreto quando si tratti di
beni immobili.
Dal
punto di vista operativo il concetto di pia Fondazione non-autonoma
comporta oggi che si proceda a:
a)
precisa individuazione di una massa di beni,
b)
sua circoscrizione formale,
c)
sua destinazione unitaria per lo scopo stabilito,
d)
sua messa a reddito per il periodo stabilito (o prudente frazione di
esso),
escluso,
di per sé, lo svolgimento diretto di attività commerciali o
d’impresa che, di fatto, trasformerebbero la pia Fondazione
non-autonoma in vera e propria “azienda”, stravolgendone la
natura e comportando una vera e propria “gestione” assimilabile a
quella di un Ente (autonomo) propriamente detto che in questo caso,
però, coinvolgerebbe direttamente l’Ente affidatario della pia
Fondazione stessa.
Le
tipologie di beni ordinariamente conferiti e gestibili come pia
Fondazione non-autonoma sono [a] immobili (= terreni e
fabbricati), oppure [b] somme di denaro o altri strumenti di natura
finanziaria, oppure anche [c] veri e propri redditi già costituiti
(= Azioni, partecipazioni societarie, affitti); in ogni caso la
dinamica costitutiva capitale-reddito
impone la “custodia” del bene e la sua “messa a reddito” in
modo che con le somme ricavate si possa assolvere l’obbligo
originario.
-
La concretizzazione più comune di pia Fondazione non-autonoma
consiste nell’investire la somma di denaro conferita, in modo che
si possano facilmente trarne rendite finanziarie certe e regolari
(semestrali o annuali): le c.d. “cedole”, tipiche dei Titoli di
Stato o delle Obbligazioni finanziarie in genere. Ciò permetterà
annualmente di avere a disposizione le somme necessarie per
soddisfare l’obbligo (cultuale o pastorale) della pia Fondazione.
-
In caso di beni immobili la messa a reddito coincide sostanzialmente
con la loro locazione in modo che ne derivi un provento certo. La
necessità, tuttavia, di mantenere la fruibilità dei beni stessi
potrebbe sollecitare la previsione dello scorporo dai redditi annui
di una “quota” di riserva destinata ad essere accantonata
(= patrimonializzazione) per sostenere gli oneri di manutenzione
e tenuta in sicurezza che – civilisticamente – gravano
sulla proprietà degli immobili. In caso diverso tali costi
patrimoniali verrebbero, infatti, a gravare – illegittimamente –
sulla persona giuridica che ha ricevuto in “affidamento” la pia
Fondazione non-autonoma, non senza coinvolgere le problematiche
connesse alla devoluzione finale del patrimonio (v.
infra).
-
Una pia Fondazione non-autonoma potrebbe conseguire la propria
finalità anche “esternalizzando” l’adempimento di specifiche
realizzazioni, p.es.: caritative, senza farne ricadere sull’Ente
titolare gli oneri della gestione. È quanto potrebbe accadere
– esemplificativamente – per un fabbricato lasciato in
eredità ad una Parrocchia perché lo destini a chi è in particolari
condizioni di necessità. La Parrocchia potrebbe affidarne la
gestione alla Caritas diocesana attraverso un contratto di uso o di
diritto di superficie (valido ai fini civili). In questo modo sarà
la Caritas a gestire completamente l’appartamento, a pagarne le
Imposte, le manutenzioni, a decidere chi ne fruisce ed a quali
condizioni, ecc. lasciando la Parrocchia completamente sgravata di
qualunque obbligo, pur adempiendo la pia volontà originaria.
2.2
La pia Fondazione cultuale non-ecclesiastica
Come
già in passato, anche attualmente può presentarsi la necessità di
“dare forma” a pie Fondazioni (di per sé non-autonome) in capo a
soggetti non immediatamente dipendenti da un Ordinario in senso
proprio, come potrebbe accadere per semplici cittadini o anche fedeli
(veri e propri) o Enti civilistici o altro, comunque patrimonialmente
autonomi rispetto all’Ordinamento canonico: ciò che in passato si
è definito “Cappellania laicale”, proprio perché non “eretta”
dall’Autorità ecclesiastica. Dal punto di vista del Procedimento
sono i cann. 1306-1307 a fornire le indicazioni sostanziali, non solo
per quanto concerne le pie Fondazioni, loro oggetto specifico, ma
anche per le pie volontà in genere.
La
fattispecie più concreta riguarda la costituzione di una pia
Fondazione
cultuale-liturgica
(laicale) per la celebrazione di sante Messe di suffragio. In tali
casi l’Ordinario, avuta notizia dell’avvenuto conferimento a
qualcuno di beni destinati a pia volontà di sua competenza (cf. can.
1302 §1):
1)
deve documentarsi accuratamente circa la qualità e quantità dei
beni in oggetto, le volontà del disponente, gli obblighi annessi,
normalmente attraverso la lettura dell’Atto di
Donazione/Testamento;
2)
deve quindi informare l’erede o il legatario dell’obbligo morale
e giuridico-civile (soprattutto se tale volontà risultasse da un
Testamento) di provvedere al corretto adempimento della pia volontà
affidatagli dal disponente; se il donatario/erede sia battezzato
anche dell’obbligo canonico.
3)
Dovrà quindi procedere – di comune accordo col soggetto
stesso – alla redazione dell’Inventario dei beni in oggetto
ed alla loro collocazione “al sicuro” (patrimonialmente
parlando), stabilendone congrue modalità di amministrazione e
fruizione in modo tale che almeno annualmente sia possibile
soddisfare agli obblighi della celebrazione delle sante Messe di
suffragio. Gli strumenti utilizzabili a questo fine possono essere i
più disparati tra quelli messi a disposizione dal Diritto civile
vigente nel territorio di appartenenza: depositi bancari, contratti
di locazione, accordi bilaterali, convenzioni e quant’altro, a
seconda della natura dei beni stessi.
4)
Dovrà poi fissare (eventualmente determinare) il numero di sante
Messe di suffragio da farsi celebrare e la chiesa, o il presbitero, o
l’Istituto religioso incaricato di tale celebrazione. Il numero di
sante Messe da far celebrare dovrà rispondere alla volontà del
disponente, se lo ha stabilito, secondo il valore dell’offerta
sinodale vigente. Nel caso, invece, si debba determinare tale numero
sarà necessario procedere con particolare cura ed attenzione,
tenendo conto senza dubbio del valore del patrimonio in oggetto
(Inventario dell’Eredità/Donazione/Legato) e di tutti gli altri
elementi e circostanze attinenti la questione. In questi casi non
pare conveniente che la trattativa sia gestita direttamente da
ecclesiastici, dando l’impressione di “commercio sacramentale”;
meglio affidare la questione ad un buon Avvocato civilista che
provveda secondo ragionevolezza (ed eventuale analogia
giurisprudenziale con altre prestazioni o servitù passive).
5)
L’accordo complessivo raggiunto per tale gestione dev’essere
formalizzato almeno con apposita “Scrittura privata” pienamente
valevole per ottenere in sede civile l’osservanza dell’accordo
stesso da parte del soggetto vincolato e dei terzi.
6)
L’Ordinario costituisca canonicamente la pia
Fondazione non-autonoma
in oggetto con normale Decreto istitutivo contenente gli estremi di
quanto già pattuito col donatario/erede, allegando tutta la
documentazione del caso, e dandone copia al beneficiario. La Curia
dovrà conservare in modo ordinato il Decreto istitutivo e
controllarne il puntuale adempimento e – potenzialmente –
certificare l’avvenuto assolvimento dell’obbligo, consegnando a
chi ne era gravato apposita Dichiarazione di pieno assolvimento (cf.
can. 1301 §2).
Il
Procedimento rimane sostanzialmente identico qualora l’oggetto
della pia Fondazione non-autonoma non sia cultuale ma caritativo,
assistenziale o promozionale (= borse di studio), esigendosi in
questo caso – semplicemente – che la soddisfazione
annuale dell’obbligo sia adempiuta attraverso l’elargizione di
somme in denaro, o di servizi di equivalente valore economico, a
vantaggio di coloro che la volontà del disponente abbia indicato
(invece che per la celebrazione di sante Messe).
Tra
le eventualità di una certa frequenza in materia di pie volontà non
ecclesiastiche – o laicali – (in capo, cioè a privati
o Enti non canonici) emerge negli ultimi anni il c.d.
riscatto/affrancazione,
soprattutto per ciò che riguarda l’obbligo di celebrazione di
sante Messe da parte di Enti civilistici di assistenza e beneficienza
(Fondazioni, Monti di pietà, Opere pie, ecc.). È frequente,
infatti, la richiesta di giungere ad un accordo (in realtà un vero
contratto) che, a fronte di un esborso finanziario anche
significativo a favore di un Ente canonico, liberi l’Ente
originario dal dover assolvere annualmente il proprio obbligo
cultuale. La questione si pone in modo prevalente per Enti (come
quelli pubblici o semi-pubblici) la cui gestione privilegi l’aspetto
“economico” rispetto a quello “patrimoniale”; in tal modo un
esborso patrimoniale straordinario, per quanto ingente, risulta
preferibile per gli Amministratori rispetto al protrarsi di costi
annuali del tutto estranei alla “gestione” vera e propria… di
qui la richiesta, spesso pressante, di “riscattare” l’obbligo
cultuale. La dinamica normalmente proposta è la stessa utilizzata in
ambito civilistico per il riscatto della proprietà immobiliare a
fronte del versamento di un certo numero – significativo –
di canoni di locazione, sul modello dell’affrancazione di
Enfiteusi: ragionevolmente 20 anni. Concretamente: l’Ente obbligato
all’assolvimento versa ad un Ente canonico (di solito la Diocesi)
la somma equivalente a quando annualmente dovuto, moltiplicato per
20; in tal modo si costituisce a carico dell’Ente canonico una
(nuova) pia Fondazione non-autonoma destinata all’assolvimento
dell’obbligo “riscattato” cosicché le pie volontà in
questione vengono comunque onorate, anche se da un soggetto diverso
dall’originario il quale, però, ha provveduto in modo
– contrattualmente – corretto all’assolvimento cui
era tenuto.
Per
quanto una tale condotta non sia di per sé illegittima, in quanto
l’obbligo cultuale viene comunque assolto secondo la volontà
originaria, non di meno occorre molta cautela e ponderazione,
soprattutto in momenti in cui le rendite finanziarie risultino
particolarmente ridotte, poiché si corre il rischio di non ottenere
rendite significative dall’investimento finanziario della somma
ricevuta in “riscatto” e, pertanto, di non poter assolvere
l’obbligo celebrativo assunto. Il non riscatto dell’obbligo, per
contro, non avrebbe alcuna influenza sul numero di sante Messe che
l’obbligato deve comunque far celebrare permettendo, per di più,
all’Ordinario di esigere l’esecuzione di quanto (anche
civilisticamente) dovuto.
Trattandosi,
in ogni modo, di una “modifica” strutturale dell’obbligo
precedentemente assunto da un altro soggetto, occorre l’intervento
della Santa Sede che la autorizzi o la ponga in atto in modo espresso
(v.
infra).
2.3
La
pia Fondazione cultuale ecclesiastica
La
fattispecie, ed il relativo Procedimento, risulta più semplice
quando destinataria della pia volontà sia una persona giuridica
canonica pubblica soggetta al Diritto canonico (= Diocesi,
Parrocchia, Monastero, Convento, Santuario…); in tale caso è
drasticamente semplificata tutta la parte più direttamente
patrimoniale (civilistica) del Procedimento stesso in quanto già
direttamente attuato secondo i normali Procedimenti autorizzativi in
tema di conferimenti modali (cf. can. 1267 §2). Nulla cambia a
riguardo del Decreto istitutivo della pia volontà in capo all’Ente
canonico stesso che dovrà assolvere direttamente agli obblighi in
oggetto, siano essi cultuali o no. Con la Licenza di accettazione
l’Ordinario dovrà indicare anche le modalità di adempimento degli
obblighi (v.
supra).
3.
La
riduzione ed estinzione delle pie volontà
Tra
gli elementi che conseguono alla creazione di pie Fondazioni e
all’adempimento delle pie volontà in genere – e di cui una
Curia è chiamata ad occuparsi – vanno considerati in modo
esplicito l’estinzione
dell’obbligo e/o il suo ridimensionamento
a causa soprattutto del trascorrere del tempo: variabile fondamentale
in materia economica.
Il
problema non si pone, ordinariamente, per i Legati pii poiché la
loro esecuzione “immediata” (una
tantum)
o la loro breve durata (ripetitivi) non dovrebbero incontrare serie
difficoltà nell’adempimento, data la loro natura sostanzialmente
finanziaria.
Inoltre la specificità del Legato quale obbligo diretto rispetto al
patrimonio oggetto di conferimento non crea problemi circa la sua
estinzione: l’obbligo cade con il proprio assolvimento (coincidente
con l’estinzione dei beni di riferimento).
3.1
La
riduzione (e modifica) degli obblighi soprattutto cultuali
Tra
le vicissitudini che possono intervenire nella vita di una pia
Fondazione – tanto autonoma che non-autonoma – si pone,
soprattutto in determinate situazioni economiche (instabilità
finanziaria, crisi economica, deflazione, ecc.), l’impossibilità
di continuare ad adempiere gli obblighi assunti. In tali casi il can.
1310 §2 riconosce all’Ordinario (diocesano o religioso) la facoltà
di ridimensionare tali obblighi (la c.d. riduzione),
avendo tuttavia la cura di provvedere in modo specifico per quanto
concerne la celebrazione delle sante Messe, oggetto di tutela
specialissima
in ambito canonico.
3.1.1
Il numero delle sante Messe
Quando
a causa della diminuzione delle rendite annue del patrimonio delle
pie Fondazioni non sia più possibile soddisfare al numero di sante
Messe da far celebrare (fissate a livello istitutivo della pia
volontà), il can. 1308 §3 riconosce al – solo –
Vescovo diocesano la facoltà di “ridurre” il loro numero. La
c.d. riduzione delle sante Messe si opera quando il loro numero
risulti fissato in modo certo nel Decreto d’istituzione della pia
Fondazione e non, invece, quando si fosse già utilizzata la formula
“tot
quot”
poiché, in questo caso, la riduzione successiva all’unità (= una
Messa all’anno) equivarrebbe alla completa estinzione dell’obbligo
(che costituisce altra fattispecie). Il Provvedimento di riduzione
delle sante Messe si configura spesso come semplice trasformazione
della modalità di calcolo da “assoluta” a “proporzionale”:
dal numero fisso predeterminato, alla formula proporzionale “tot
quot”,
contemplando così già automaticamente il ripristino della
precedente condizione quando le rendite del patrimonio dovessero
tornare alla primitiva consistenza e senza la necessità di dover
nuovamente intervenire col mutare dell’andamento economico.
Il
can. 1308 §4 prevede la possibilità di ridurre allo stesso modo il
numero di sante Messe da celebrare a carico di “Istituti
ecclesiastici” (= Collegi, Seminari, ecc.) quando le rendite,
originariamente ingenti, non permettano più il perseguimento dei
fini istituzionali. L’esempio tipico è quello dei Seminari o
Collegi che in ragione degli immobili ricevuti in donazione lungo i
secoli si trovino a dover “far celebrare” qualche migliaio di
sante Messe all’anno (per di più a Presbiteri “esterni”
all’Istituto): l’avvenuta dismissione di buona parte di tale
patrimonio immobiliare o l’esiguità della sua attuale rendita
(specie per i terreni) metterebbero infatti tali Istituzioni nella
difficile circostanza di dover spendere una parte significativa delle
già esigue entrate di gestione dell’Opera come tale per onorare
impegni cultuali assunti in tempi ormai lontani e non più
adeguatamente supportati sotto il profilo economico.
3.1.2
La “sede” di celebrazione delle sante Messe
Alla
“riduzione” degli obblighi si affianca – ormai nella
Consuetudine generale – anche la loro “permuta” (o
commutazione), secondo il principio (morale) di tutela
sostanziale
dell’adempimento, pure in forme differenti dall’originaria:
meglio adempiere in modo difforme che non adempiere, soprattutto in
sacris!
Come
già indicato: è possibile che tra gli elementi caratterizzanti un
obbligo cultuale-liturgico (= celebrazione di sante Messe) si
ponga anche, soprattutto a riguardo del passato, lo stretto vincolo
dell’adempimento presso una specifica “sede”: [a] un
determinato altare di una chiesa (derivante dall’uso
post-tridentino di celebrare anche in contemporanea più sante Messe
“su” altari diversi), oppure [b] una chiesa specifica o, più
spesso, una cappella (anche privata). Tali vincoli costituiscono a
tutti gli effetti elementi
del “modus
adimplendi”,
accettato e quindi giuridicamente dovuto;
ciò potrebbe porre, a distanza di secoli, problemi d’interferenza
con le vicende legate all’esistenza del fabbricato stesso.
È
il caso, sempre meno eventuale, della “riduzione ad uso profano”
dell’edificio di Culto (cf. can. 1222 §2) o anche soltanto della
sua formale “chiusura al Culto”, come accade soprattutto per
chiese, oratori o anche cappelle di origine antica (in genere in
città), casomai già appartenenti ad Istituti religiosi o ad Enti di
assistenza o ad Opere pie o Confraternite (e come tali fortemente
beneficiati ma anche onerati). In tali occasioni alle volte sorgono
questioni circa la pretesa “impossibilità”
di porre in essere tali Provvedimenti (amministrativi) da parte
dell’Ordinario poiché la cessazione del Culto presso tali edifici
comporterebbe l’inadempimento
di obblighi cultuali in essi domiciliati. La questione non
è sempre infondata,
per quanto molto spesso non abbia alcuna reale consistenza giuridica.
-
Quando l’adempimento dello specifico obbligo di Culto non sia stato
la “causa” propriamente intesa per l’edificazione dell’edificio
stesso (non importa di quale tipologia) non
si può ipotizzare che la presenza dell’obbligo cultuale possa in
qualsiasi modo influenzare le vicende afferenti l’edificio come
tale, quasi ne fossero “costitutive”. Semplicemente: la
collocazione presso quell’edificio dell’adempimento dell’obbligo
cultuale, avvenuta in tempi successivi alla sua edificazione (e da
essa indipendente), va intesa come “uno” soltanto degli elementi
– ad oggi non sostanziali – del “modus
adimplendi”
dell’obbligo stesso che non pregiudica – di per sé –
una differente modalità puramente “geografica” dell’adempimento
stesso, configurandosi al massimo come “riduzione” qualitativa
anziché quantitativa
dell’adempimento dell’obbligo. In tal modo: quando l’adempimento
dell’obbligo
cultuale diventasse impossibile in
forma specifica
(per intervenuta distruzione dell’edificio di Culto o altra vicenda
che non lo renda fruibile allo scopo) esso dovrebbe comunque essere
rimodulato
quanto alla sua forma/modus
così da salvarne la sostanza (= celebrazione delle sante
Messe), vero oggetto dell’obbligazione assunta dalla Chiesa.
D’altra parte: se ciò è ammesso e normato in caso d’insufficienza
delle rendite che permettano l’adempimento dell’obbligo come tale
– ed è solo questa circostanza (= la rendita) che rende
effettivo l’obbligo –, a maggior ragione dovrà esserlo per
le modalità formali del suo adempimento.
Non
per nulla al momento costitutivo l’obbligo viene accettato ed
assunto proprio dopo aver valutato la reale ed effettiva possibilità
di adempiervi. L’intervenuta impossibilità di adempiere, fatta
salva l’eventuale modifica o commutazione, va pertanto interpretata
nella linea della sopravvenuta causa
di forza maggiore
che potrebbe – inizialmente – scusare dall’adempimento
in forma specifica, e – in seguito – motivare la
necessaria “rimodulazione” dell’adempimento dell’obbligo
stesso così da salvarne la sostanza. Il Procedimento di maggior
tutela per l’Autorità che interviene sull’edificio di Culto è
la richiesta alla Santa Sede di “commutazione” (nella forma di
“delocalizzazione”) dell’assolvimento degli obblighi cultuali.
-
Il caso si profila diverso quando – invece – l’obbligo
cultuale sia stato la “causa” specifica per l’edificazione
dell’edificio stesso ad esso funzionalmente strumentale: in tal
caso qualunque forma di riduzione
funzionale
dell’edificio influirebbe in modo diretto sull’adempimento
dell’obbligo, ostacolandolo. Allo stesso tempo, tuttavia, i costi
economici che verrebbero a gravare sulla proprietà per il
mantenimento in attività dell’edificio (= manutenzioni
straordinarie, tenuta a Norma, restauri) genererebbero una palese ed
ingiustificata sproporzione tra il valore economico corrispondente
all’obbligazione cultuale da assolvere ed i costi di mantenimento
funzionale del loro “presupposto”. In questi casi non si può
escludere a priori la possibilità di adire – funzionalmente
(anziché in modo contenzioso) – un Tribunale (canonico o
civile) per porre la questione dell’intervenuta impossibilità di
adempiere all’obbligazione, certificando in tal modo per via
giudiziale quanto potenzialmente contestabile (o già conteso) in via
semplicemente “amministrativa”. La Sentenza, nel caso, potrà
preparare in
Iure
la commutazione dell’assolvimento dell’obbligo in questione.
Questo
genere di rarissime situazioni, riconducibili in massima parte ad
Enti non appartenenti alla struttura gerarchica della Chiesa
(diversi, cioè da Diocesi, Parrocchie e Seminari), dovrebbe essere
preso in considerazione caso per caso, valutando previamente tutti
gli elementi, fattori, circostanze, comunque coinvolti, fatta sempre
salva la possibilità – conosciuta e gestita dalla Legge
canonica – della riduzione (e/o commutazione) degli obblighi
intesa in modo tale da proteggere al massimo la reale ed oggettiva
componente
spirituale
in essi realmente implicata.
3.2
L’estinzione
degli obblighi
3.2.1
Obblighi cultuali
Secondo
la stessa logica: una volta constatata l’irreversibilità
della situazione reddituale dei patrimoni conferiti alle pie
Fondazioni, e dopo aver già provveduto alla “riduzione”
temporanea degli obblighi stessi da parte del competente Vescovo
diocesano, l’Ordinario (diocesano o religioso) potrà chiedere alla
Santa Sede l’estinzione completa dell’obbligo – tanto
cultuale che non – a norma del can. 1310 §3.
Tale
concessione, opportunamente documentata nella sua richiesta, è
solitamente accordata dalla Santa Sede a fronte della devoluzione di
una certa quota del patrimonio in questione (o dello stesso nella sua
interezza) per l’assolvimento conclusivo, una
tantum,
dell’obbligo in oggetto, sia che si tratti di sante Messe che di
altro, trasformando
di fatto la pia Fondazione (interamente o parzialmente) in Legato
pio.
In
quest’ottica è ormai prassi di un certo numero di Curie effettuare
una revisione
periodica
(p.es.: decennale) dello stato di effettività delle pie Fondazioni
cultuali-liturgiche (= sante Messe) di propria competenza
chiedendo poi alla Santa Sede non tanto di “estinguere” quelle i
cui patrimoni siano divenuti ormai improduttivi, ma di poter
“accorpare” quelle i cui patrimoni siano solo finanziari (o
funzionalmente tali) istituendone di nuove che siano in grado di
continuare a sovvenzionare la celebrazione di sante Messe per tutti i
precedenti aventi causa.
3.2.2
Obblighi non-cultuali
A
riguardo dell’estinzione di obblighi non-cultuali derivanti da pia
volontà connessi soprattutto a beni
immobili
si pongono spesso, almeno in Europa, questioni di portata anche
espressamente civilistica legate alla trascrizione di tali obblighi
sui Registri immobiliari, al Catasto terreni o fabbricati o altri
pubblici Registri equivalenti nei diversi Ordinamenti giuridici. A
tal fine questi obblighi sono stati spesso trattati, in passato, sia
come [a] veri e propri diritti reali, che [b] come servitù, che come
[c] altri “vincoli” giuridicamente rilevanti (come, p.es., una
destinazione d’uso) di cui gli immobili risultano gravati.
Negli
ultimi decenni si è affermata la tendenza degli acquirenti di tali
immobili (terreni e fabbricati) di volersi liberare degli obblighi
derivanti da pia volontà, percepiti come effettive limitazioni
del diritto complessivo di proprietà; tale “liberazione”,
tuttavia, non risulta immediatamente possibile per via
amministrativistica (canonica) poiché l’intervento sui pubblici
Registri civili deve sempre (o molto spesso) essere supportato da
adeguato Atto giuridico patrimoniale (civilisticamente adeguato) che
giustifichi il mutamento dello status
del bene immobile in oggetto.
Sotto
il profilo canonico si tratta senza dubbio di una deminutio
patrimonialis,
di una peior
condicio
permanente del patrimonio dell’Ente canonico coinvolto, generando
un Atto di amministrazione straordinaria soggetto a specifico
Procedimento poiché l’Ordinario non è in grado – proprio
Iure –
d’intervenire sulla commutazione e/o estinzione definitiva di un
obbligo derivante da pia volontà (cf. cann. 1310 §3).
In
tali casi occorre chiedere alla Santa Sede la concessione, in prima
battuta, di una “commutazione” dell’obbligo, se e per quanto
essa sia effettivamente possibile (il cambio, cioè, del concreto
modus
adimplendi
proprio in ragione della possibilità concreta di poter continuare ad
adempiere – v.
supra),
diversamente: la sua estinzione,
soprattutto nel caso di una reale sopravvenuta impossibilità di
proseguire l’adempimento.
3.2.3
Impossibilità ad adempiere e retrocessione dei beni
In
situazioni del tutto specifiche – connesse soprattutto al
trascorrere del tempo – potrebbe delinearsi in capo al
destinatario di una pia volontà, regolarmente accettata e costituita
dal punto di vista canonico, un’imprevedibile
impossibilità ad adempiere
l’obbligazione assunta, sia riguardo al modus
che alla realizzazione come tale: si pensi ad una attività dell’Ente
destinatario (= una scuola) che nel frattempo sia stata
dismessa, oppure altra attività divenuta fortuitamente impossibile
sia per eventi naturali che politici, oppure ancora una costruzione,
un restauro, una permuta immobiliare, connesse al necessario
intervento di terzi per la sua realizzazione.
In
tali casi, dopo aver tentato tutte le possibili soluzioni alternative
concordabili con gli aventi causa (eredi/legatari) senza tuttavia
riuscire a raggiungere alcun ragionevole accordo per una diversa
realizzazione dell’obbligazione assunta, potrebbe doversi
intraprendere la via della “retrocessione” agli eredi/legatari
dei beni in oggetto.
La
retrocessione dei beni, non di meno, potrebbe anche essere
espressamente richiesta da parte degli stessi eredi/legatari innanzi
alla constatazione del trascorrere del tempo senza che si metta mano
in nessun modo all’adempimento dell’obbligazione assunta, per
quanto in modo non colpevole.
Per
quanto in sé non si tratti di un’attività particolarmente
difficoltosa è tuttavia necessario adottare grandi cautele
soprattutto per evitare che, anche soltanto a titolo di deperimento
dei beni, l’Ente canonico debba sostenere ulteriori costi. È
pertanto consigliabile affidare l’operazione ad un Professionista
di provata competenza in ambito patrimoniale, soprattutto se il
contesto relazionale non sia “bonario” e collaborativo.
3.2.4
Altri obblighi reali
Fuori
dagli obblighi ai quali gli Enti canonici devono adempiere in ragione
delle pie volontà accettate, nell’attività di Curia si pongono
anche questioni del tutto analoghe riguardanti però obblighi di
privati nei confronti della Chiesa stessa, essi pure derivanti da pie
volontà gravanti – però – su terzi: obblighi spesso
caduti in Prescrizione, per quanto mai formalmente estinti e,
pertanto, ancora presenti nei pubblici Registri immobiliari; obblighi
e vincoli che spesso vengono in risalto in occasioni della
compravendita di tali beni e di cui i compratori vogliano liberarsi
(v.
supra).
È
il caso di beni immobili di proprietà di privati gravati da obblighi
in
favorem Ecclesiæ
ormai non più realisticamente fruibili (= Livelli, seminarie,
legnatici, ecc.). In tali casi si può operare secondo duplice
modalità: 1) attraverso un bonario Processo di “Prescrizione
veloce” (giudiziario civilistico, pienamente formalizzato in
ciascun Ordinamento statale), 2) attraverso il semplice
“affrancamento” dell’obbligo con Contratto privatistico, come
per qualsiasi diritto reale o servitù. In questo caso si deve
procedere alla valutazione realistica (e computo) dell’effettivo
“valore” aggiornato dell’obbligo in questione (in base
solitamente alla c.d. rendita catastale per i fabbricati, o
dominicale per i terreni e/o altri parametri tributari correntemente
in uso nel territorio) e – concretamente – renderlo
oggetto di un vero e proprio Contratto patrimoniale in cui il
titolare dell’immobile riscatta
dal titolare dei benefici derivanti dall’obbligo stesso (cioè
l’Ente canonico) la valorizzazione attualizzata dell’obbligo,
divenendone così l’unico pieno titolare ed estinguendo il
diritto/servitù di terzi (= la Chiesa) sulla proprietà del
bene in oggetto. Tale – parte del – Contratto entrerà
a far parte in modo costitutivo del Rogito di compravendita del bene
immobile originariamente gravato dall’obbligo; la trascrizione del
Rogito comporterà anche la cancellazione dai pubblici Registri
dell’obbligo pre-esistente.
Dal
punto di vista del Procedimento canonico occorre ottenere
dall’Ordinario competente la Licenza per compiere un atto di
straordinaria amministrazione consistente nell’alienazione di un
diritto (proprio) su bene di terzi (con depauperamento “formale”
del proprio patrimonio stabile); alienazione
che deve essere realizzata dietro “corrispettivo” di fatto: o
compravendita accessoria alla vendita principale del bene immobile in
questione, oppure donazione all’Ente canonico da parte
dell’acquirente di una somma che equivalga alla valorizzazione
pattuita. Ciò per evitare che tale atto risulti alla fine una mera
elargizione a privati di patrimonio ecclesiastico.
3.3
Estinzione delle pie Fondazioni non-autonome
Questione
del tutto specifica nella prassi di Curia è quella riguardante
l’estinzione delle pie Fondazioni non-autonome, per le quali il
can. 1303 §2 prevede espressamente la diversa destinazione del
patrimonio a seconda [a] dell’espressa volontà del Fondatore,
che rimane sempre sovrana, oppure [b] della natura della persona
giuridica (pubblica) affidataria della pia Fondazione. Secondo il
can. 1303 §2, infatti: se la persona giuridica è soggetta al
Vescovo diocesano il patrimonio deve passare all’Istituto/Fondo per
il sostentamento del clero (cf. can. 1274 §1) «a
meno che il fondatore non abbia espressamente manifestato una volontà
diversa»;
se, invece, tale persona giuridica non è soggetta al Vescovo
diocesano il patrimonio rimane di proprietà dell’Ente che l’ha
gestito.
La
disposizione di Legge, in realtà, “crea” un evidente problema
poiché, in ragione della sua applicazione, gli Enti canonici che
gestiscono pie Fondazioni non-autonome finirebbero per essere solo
destinatari passivi – e di fatto immotivati – del
gravame
puramente gratuito (e quindi potenzialmente iniquo ed arbitrario)
della loro gestione: tanto varrebbe, dunque, costituire da subito la
pia Fondazione non-autonoma in capo all’Istituto di cui al can.
1274 con l’obbligo che le sante Messe che ne derivano siano però
celebrate presso l’Ente di iniziale conferimento e lo stesso si
faccia per altri tipi di obblighi. Una tale configurazione, tuttavia,
finirebbe per ridursi alla mera trasmissione al Parroco o altro
sacerdote delle sole “intenzioni di sante Messe” e della relativa
offerta (cf. cann. 945-958).
-
Per quanto il disposto normativo risponda alla “presunzione” che
le offerte destinate alla celebrazione di sante Messe abbiano una
“indiretta” ma intrinseca destinazione al sostentamento del Clero
e, pertanto, come tali vadano interpretati anche i patrimoni ad esse
funzionali, tale presunzione risulta tutta da verificarsi – di
fatto – nella mente dei fedeli che, solitamente, intendono
– invece – conferire ultimativamente
i loro beni, per quanto secondo specifici “modi”,
alla “propria” Parrocchia o, comunque, allo specifico Ente
designato.
-
In termini equitativi poi – fatti salvi i patrimoni puramente
finanziari che non generano costi di mantenimento – sarebbe
doveroso considerare anche i costi che l’Ente affidatario può aver
dovuto sostenere per assicurare il funzionamento del patrimonio
(immobiliare) della pia Fondazione… costi dei quali non dovrebbe
ritrovarsi patrimonialmente onerato, come accadrebbe nel caso della
“riconsegna” del bene all’Istituto di cui al can. 1274.
Proprio
sulla base della “eccezione” prevista dallo stesso can. 1303 §2
(= la diversa volontà del Fondatore), oltre che della
necessaria equità patrimoniale, nella pratica di molte Curie
diocesane il patrimonio viene attribuito alla persona giuridica che
lo ha amministrato – custodito e manutenuto – per tutta
la durata della vita della pia Fondazione stessa, poiché è solo la
necessità dell’obbligo di durare per un “ampio spazio di tempo”
che costringe a creare un mero “dispositivo tecnico-gestionale”
(vera e propria fictio
Iuris)
chiamato pia Fondazione non-autonoma: il disponente in realtà aveva
espressamente destinato i suoi beni, per quanto soggetti a
specificità di adempimento, a quella specifica persona giuridica.
Pare, pertanto, saggio che già il Decreto istitutivo della pia
Fondazione non-autonoma contenga la statuizione sulla destinazione
finale del patrimonio.
Per
le Fondazioni autonome, costituite cioè in persona giuridica
(pubblica), la destinazione finale del patrimonio è, invece,
elemento costitutivo degli Statuti, fatta salva la presunta
perpetuità delle persone giuridiche canoniche.