Pie volontà e pie Fondazioni: uno sguardo ad una prassi di Curia spesso disattesa




Col trascorrere dei decenni dalla nuova modulazione del c.d. Diritto patrimoniale canonico, o meglio: la “gestione dei beni temporali della Chiesa”, l’interesse per gli ultimi 12 Canoni del Libro V del CIC (cann. 1299-1310) è progressivamente diminuito sino alla loro sostanziale irrilevanza canonistica. I Canoni vengono semplicemente illustrati e commentati nelle diverse Opere di approccio sistematico al Codice o nei Trattati di materia, ma in modo prevalentemente teorico e spesso senza che emerga la consapevolezza di cosa concretamente sia ciò a cui le Norme si riferiscono e, molto maggiormente, delle reali ed articolatissime implicazioni che ne derivano, soprattutto nella vita reale delle persone giuridiche canoniche. Diverso è l’approccio di coloro che nella propria attività di Curia (sia diocesana che religiosa) si trovano, invece, a dover gestire innumerevoli questioni connesse proprio alla materia regolamentata in tali Canoni: è condivisa, infatti, la sensazione di spaesamento del neo addetto di Cancelleria diocesana che si ritrova a dover “gestire” le Messe o i Legati – o altre denominazioni tradizionali o di prassi curiale – che rimandano comunque alle “pie volontà”. Similmente accade quando l’Ordinario chieda consulenza o parere al fine di rilasciare a qualche Ente canonico – generalmente Parrocchie – l’Autorizzazione ad accettare una Donazione modale o un’Eredità gravata da adempimenti (cf. can. 1267 §2).

Dalla consapevolezza pratica del “curiale”, più che dall’espressa volontà di contribuire in modo attivo alla dottrina ed alla Scienza in materia, nasce il presente sguardo operativo sulla prassi che dalle Norme codiciali vigenti a livello “universale” dovrebbe derivare e, forse, alle stesse Norme chiederebbe maggior aderenza alla reale situazione dei nostri giorni, non più riconducibile a quella che per secoli ha costituito il sistema – unico – di riferimento.



1. Le pie volontà

Secondo il can. 1299 §1 «chi è in grado di disporre liberamente dei propri beni per Diritto naturale e canonico, può lasciarli per cause pie sia con atto tra vivi sia con atto valevole in caso di morte»: è questo il fondamento di un’attività, insieme spirituale e patrimoniale, che ha trovato espressione lungo i secoli in tutti gli Ordinamenti giuridici di matrice romanistico-giustinianea tanto da essere contemplato anche a livello civilistico in molti Stati contemporanei, oltre che configurarsi come Istituto giuridico tipico all’interno dell’Ordinamento canonico.

«Le pie volontà si definiscono tradizionalmente come disposizioni di beni temporali in favore di una causa pia, poste in essere da un soggetto sia con atto inter vivos sia con atto mortis causa. Gli elementi essenziali della pia volontà sono: 1) la causa pia, in cui favore si rivolge la pia volontà; 2) l’intenzione soprannaturale (inerente all’ambito religioso), in virtù della quale si compie la disposizione dei beni […]; 3) la pietà del disponente».

In tal modo la volontà personale che s’indirizza verso una “causa” di natura religiosa o morale (= causa pia) dà origine ad una “pia volontà”, intesa come specifica attività cultuale o pastorale che il fedele – per “virtù di religione” (o di “pietà”) – demanda in modo costitutivo al compimento da parte di terzi, dopo aver provveduto ad un’adeguata dotazione patrimoniale che ne permetta l’espletamento per un tempo anche ragionevolmente lungo (cf. can. 1303 §1,2°), spesso successivamente alla propria morte (= mortis causa). È il demandare a terzi il compimento della propria volontà che distingue l’opera di Culto o di beneficienza (che il singolo compie direttamente nel corso della vita, realizzando in proprio quanto voluto) dalla pia volontà (il cui compimento è – comunque – demandato ad altri: visto che ci si riferisce a Donazioni ed Eredità).

La particolare destinazione di questi beni (= Culto o beneficienza) li rende del tutto specifici all’interno del Diritto canonico, che riserva loro il Titolo IV del Libro V del Codice latino (cann. 1299-1310), imponendo di pari passo un peculiare mandato all’Ordinario competente, che il can. 1301 designa quale “esecutore (legale) di tutte le pie volontà”: per tale ragione quest’ambito operativo si colloca tra quelli in qualche modo “connaturali” all’attività di Curia, trattandosi di peculiari spettanze dell’Ordinario (in realtà: “doveri d’Ufficio”), ambito proprio del Diritto amministrativo canonico.

Nella prassi curiale odierna – non senza incongruità con l’ambito civilistico e “giuridico” generale – le pie volontà vengono usualmente distinte in “Legati pii” e “pie Fondazioni” a seconda che il loro adempimento debba avvenire una tantum (= Legato pio) oppure perdurare nel tempo (= pia Fondazione). La specifica canonicità di tali Istituti giuridici li differenzia sotto vari aspetti dai loro “sinonimi” (= falsi amici) di cui invece si occupa, generalmente, il Diritto privato in ambito statale.

Poiché la fattispecie tipica di pia volontà consiste nella costituzione di “obbligo” in capo a specifiche persone giuridiche canoniche (= Diocesi, Parrocchie, Istituti religiosi, Seminari, Monasteri, ecc.), occorre considerare che in linea di principio la chiara volontà dei fedeli è che i loro beni siano ultimativamente destinati non in modo generico “alla Chiesa” come tale (seppur in modo vincolato riguardo alla loro fruizione, parziale o almeno temporanea) ma alla singola realtà ecclesiale da loro stessi designata. Di tale implicita volontà sarà necessario tener conto quale sommo criterio interpretativo per tutte le problematiche che si dovranno affrontare in relazione a tali volontà, obblighi e beni.

1.1 Tipologie di “pia volontà” e loro creazione

Affinché possa parlarsi di “pia volontà” nel senso “tecnico” sopra indicato è necessario che sussista [1°] un patrimonio, strutturalmente connesso alla [2°] specifica volontà che un soggetto diverso dal suo titolare originario [3°] realizzi attraverso di esso qualche attività benefica o cultuale, sia determinata che indeterminata.

Il concetto di “patrimonio” è costitutivo per differenziare la “pia volontà” da una semplice “offerta” che i fedeli facciano sia ad altri fedeli (chierici o religiosi) sia ad Enti canonici (Parrocchie, Conventi, Diocesi, Seminari, Fondazioni, Istituti, ecc.) al fine di contribuire al “sostentamento” ordinario di singole persone – nel primo caso – o alla “gestione” ordinaria delle attività di qualche Ente (cf. cann. 531; 1267). Anche se in dottrina non pare considerata la necessità di distinguere tra offerta come tale e patrimonio, poiché ritiene “offerta” qualunque dazione spontanea da parte dei fedeli – indipendentemente dal suo valore –, con il semplice intento di distinguerla da dazioni dovute, come sono Tasse e Tributi, la prassi di Curia, invece, ha la necessità d’individuare una distinzione più chiara possibile tra le due fattispecie [a] sia per la loro accettazione nel caso esista uno specifico modus adimplendi (v. infra) che [b] in relazione agli adempimenti del can. 1267 §2 che, per le persone giuridiche pubbliche “in affari di maggior importanza”, prevede la Licenza dell’Ordinario per il loro rifiuto. La differenza, inoltre, potrebbe ricadere sul Diritto tributario proprio della singola Circoscrizione ecclesiastica che potrebbe prevedere indici di imposizione differenti per le “entrate” generiche degli Enti soggetti, o per i loro “avanzi di gestione” o anche per altre forme di “entrata” in qualche modo “straordinaria”, oltre che per Eredità e formali Atti di donazione. Nella prassi curiale si tende a parlare di patrimonio – e non di semplici offerte – sulla base di fattori estrinseci ed oggettivi, come [a] la differenza tra beni mobili ed immobili, o [b] la necessità di realizzare (oppure no) specifici Atti giuridici (generalmente di natura contrattuale oppure amministrativa) per entrare nella piena disponibilità dei beni. Anche [c] la differenza tra proprietà e possesso nei confronti dei beni in oggetto può risultare significativa nella loro differenziazione, così come [d] la specifica modalità scelta dal donante per trasferire i beni, come avviene con la Donazione o il Testamento; non di meno risulta significativa pure [e] la differenza tra dotazione patrimoniale e contributo alla gestione che i beni assumeranno in riferimento al Bilancio dell’Ente destinatario. Se pochi dubbi sussistono in relazione ai beni immobili o ai c.d. cespiti o ai diritti reali, in riferimento ai quali il necessario “passaggio di proprietà” civilistico crea vere situazioni giuridiche sia esigibili che tutelabili in capo ai loro nuovi titolari, la questione identificativa rimane invece aperta per il denaro, a causa della sua versatilità ed aspecificità che non lasciano molte alternative alla valutazione dal punto di vista quantitativo, dovendosi ragionare in termini di “valore” e di “ripetibilità” (un’offerta può essere effettuata più volte da parte di un donante, sia generico che specifico, anche entro l’anno). Quale sia, però, il criterio tecnico per individuare le offerte in base alla loro quantità non risulta determinabile in modo univoco, poiché ciò dipende da vari fattori anche circostanziali come, p.es., gli importi che le Leggi civili del luogo assoggettano a specifiche Procedure di documentazione o di contabilizzazione, soprattutto tributaria.

Tralasciando le offerte e riferendosi soltanto ad insiemi di beni considerabili come veri e propri “patrimoni”, si è già detto che le finalità in qualche modo tipiche delle pie volontà si dividono in due tipologie di massima: cultuali e pastorali.

- Si indicano come pie volontà cultuali tutte quelle connesse a vario titolo alla celebrazione del Culto cristiano come indicato dal Libro IV del CIC: Sacramenti e Sacramentali (= pie volontà cultuali-liturgiche), ma anche luoghi di Culto, beni sacri, ecc. (= pie volontà cultuali-specifiche). Per quanto infatti la maggior parte di esse consista nella celebrazione di sante Messe di suffragio per il disponente (ed i suoi famigliari), la prassi ininterrotta conosce anche la costruzione di edifici di Culto, oppure il loro restauro, oppure anche l’arredamento, allo stesso tempo che la realizzazione di opere d’arte connesse al Culto, la dotazione di arredi, vasi sacri e paramenti, fino agli addobbi floreali in occasione di speciali ricorrenze o festività. - Per pie volontà pastorali, invece, s’intendono tutte quelle che abbiano quale destinazione diretta o indiretta le diverse attività svolte dalla Chiesa sia in campo materiale che spirituale, tanto generico che specifico. In tal modo è possibile ricondurre a quest’ambito praticamente ogni genere di attività assistenziale, educativa, missionaria, sia sotto forma di strutture fisiche (= asili, ospizi, ospedali, case di riposo, scuole, orfanotrofi, ecc.) che di attività di gestione di iniziative di tal genere o di altre ancora che rispondano in qualche modo a finalità istituzionali della Chiesa a livello pastorale o caritativo.

Dal punto di vista operativo (fatta salva la distinzione tra offerta e patrimonio), solitamente, una pia volontà sorge da una Donazione o da un Testamento attraverso cui il disponente trasferisce una parte o la totalità dei propri averi ad altro soggetto vincolando l’intero trasferimento, oppure una sua parte soltanto, all’esecuzione di una determinata attività (v. supra). Non si può parlare di pia volontà, invece, quando si tratti di Donazione o Eredità non accompagnata da vincoli o modus adimplendi che non obblighino in modo specifico il destinatario ma soltanto ne accrescano la dotazione patrimoniale personale o istituzionale facendone un semplice beneficiario. La pia volontà, inoltre, può sorgere sia da un trasferimento patrimoniale diretto (quando il destinatario canonico è nominato erede o è il beneficiario della Donazione) che indiretto, quando è un altro soggetto che riceve il patrimonio in questione ma con l’onere di darne una parte ad un destinatario canonico (generalmente attraverso l’istituzione di un Legato civilistico o di un Fedecommesso). In entrambi i casi, se esistono vincoli che riguardano l’adempimento da parte della Chiesa, dal punto di vista canonico si deve ragionare in termini di pia volontà, non importa che il destinatario sia un Ente canonico oppure un fedele (generalmente un chierico o un religioso). Se, tuttavia, la pia volontà affidata in modo indiretto (= Legato imposto ad altri) non comporta solitamente altre incombenze per il destinatario canonico rispetto al – semplice – assolvimento dell’obbligazione assunta nel momento in cui si sono accettati i beni conferiti (spesso di valore apprezzabile per quanto non eccessivo), nell’affidamento diretto della pia volontà potrebbero profilarsi (e di fatto si profilano spesso) notevoli problemi connessi alla qualifica di “erede” (sia parziale che universale). Quando, infatti, un Ente canonico diventa erede capita spesso che si trovi onerato dal comando di consegnare ad altri (principalmente come Legato civilistico) una parte anche significativa dell’eredità ricevuta, oppure di dover eseguire attività particolarmente gravose a livello di gestione dei beni.

1.2 Adempimenti di pia volontà

Indipendentemente da come una pia volontà sia stata affidata ad un soggetto canonico (solitamente un Ente), una volta che essa sia stata accettata, l’Ordinamento ecclesiale prevede in capo a tale soggetto una serie di incombenze – di portata morale oltre che giuridica – connesse all’adempimento dell’obbligazione assunta, per quanto indirettamente. In qualunque caso, infatti: «Le volontà dei fedeli […] una volta legittimamente accettate devono essere scrupolosamente adempiute, anche circa il modo dell’amministrazione e dell’erogazione dei beni» (can. 1300), divenendo dal punto di vista canonico vere e proprie “obbligazioni”.

Come già indicato: dal punto di vista strutturale la pia volontà si compone di un patrimonio e di un adempimento subordinato, che costituisce però la motivazione stessa del possesso di tale patrimonio, il suo “presupposto”; dal punto di vista operativo, poi, l’adempimento si configura secondo due tipologie fondamentali: 1) le obbligazioni da assolversi una tantum (= “Legato pio”) e 2) quelle da assolversi per un spazio di tempo prolungato (= “pia Fondazione”).

1.2.1 Il Legato pio

Costitutivo del Legato pio è – oggi – l’utilizzo integrale dei beni conferiti per il raggiungimento della finalità assegnata, al punto che l’adempimento e l’estinzione dell’obbligazione coincidono con la venuta meno dei beni conferiti per quello scopo. Dal punto di vista operativo rientrano nella categoria sostanziale di “Legato pio” due generi di adempimenti: 1) quelli da assolversi una tantum (= Legato pio unitario); 2) quelli da assolversi in tempi più distesi, per quanto – di per sé – non ragionevolmente superiori ai 20 anni (= Legato pio ripetitivo).

Per parte propria la prassi di Curia tende ormai a considerare “Legato pio” lo stesso obbligo/modus connesso ai beni ricevuti, in quanto obbligazione contrattuale (= do ut facias).

- Il Legato pio unitario riguarda obbligazioni da assolversi una tantum (cioè una volta soltanto; una volta per tutte), e che con tale assolvimento si estinguono. Si tratta di tutte le obbligazioni che si possano assolvere attraverso un’unica attività, qualunque essa sia: dare qualcosa a qualcuno, celebrare un certo numero (non eccessivo) di sante Messe (v. infra), costruire un edificio, distribuire risorse o beni. L’elemento costitutivo e definitorio del Legato pio unitario si pone espressamente nel suo pronto assolvimento, da realizzarsi con una sola attività, oppure con una serie ridotta di attività successive e progressive che realizzino – in poche “tappe” – e in tempi ragionevolmente brevi quanto imposto. Un buon criterio pratico d’individuazione è quello dei cinque anni, utilizzato comunemente in ambito giuridico generale (civilistico) per racchiudere “prestazioni” di carattere personale; prestazioni che dopo tale tempo passano in Prescrizione, non risultando più esigibili. - Il Legato pio ripetitivo riguarda obbligazioni cui si deve assolvere in modo ripetitivo – generalmente a scadenza annuale – realizzando ogni volta attività sostanzialmente uguali, come la celebrazione di sante Messe (v. infra), o la distribuzione di risorse o di beni (= contributi, borse di studio, ecc.). Si tratta di una esecuzione normalmente disposta in modo “cautelativo” per evitare che tutti i beni conferiti vengano immediatamente esauriti, preferendo invece assicurare un apporto costante all’attività ordinaria di un Ente oppure, in campo cultuale, mantenere viva la memoria delle persone e la preghiera a loro favore lungo un certo periodo di tempo, non eccessivamente breve.

1.2.2 La pia Fondazione

Costitutiva di qualunque “Fondazione” in quanto tale è la sua specifica modalità gestionale, che prevede la rigida distinzione tra capitale e suoi redditi, in modo tale che il capitale non possa mai essere intaccato per realizzare le finalità istituzionali e lo scopo si consegua solo attraverso i redditi, per tutta la durata della Fondazione stessa. Non di meno, ogni Fondazione dovrà gestire la propria eventuale estinzione secondo le Norme stabilite nel suo Statuto (= le “Tavole di fondazione” dei cann. 1306; 1308) o secondo il Diritto vigente, sia canonico che – eventualmente – civile.

Quando l’obbligazione da assolversi secondo la volontà del disponente richieda un lungo spazio di tempo, [a] per la natura stessa della realizzazione comandata, o [b] per la natura dei beni conferiti, o [c] per espressa volontà del disponente, si parla di “pia Fondazione”, rimandando direttamente alla necessità di apposite “strutture di gestione” in grado di assicurarne l’adempimento per tempi anche molto prolungati.

Una pia Fondazione potrebbe avere l’obbligo di sostenere nel tempo particolari attività di educazione o assistenza (come la gestione di scuole, ospedali, ospizi) o sovvenzionare specifiche attività (preparazione al sacerdozio, missioni, ecc.), come sotteso al dettato del can. 1308 §4 in riferimento agli “Istituti ecclesiastici”, oppure anche quella di far celebrare sante Messe di suffragio per lunghi periodi; in passato Monasteri, Seminari, Conventi, Istituti religiosi, assumevano spesso celebrazioni anche in perpetuo.

1.3 Le sante Messe di suffragio

Un adempimento di pia volontà divenuto “tipico” in ambito canonico e che riveste ancor oggi grande rilievo e delicatezza – arrivando anche a costituire uno specifico “ramo” dell’attività di Curia – è quello che prevede la celebrazione di sante Messe di suffragio, secondo un uso che risale fino al Medio Evo, quando addirittura interi Monasteri o chiese “collegiate” venivano costruiti (o dotati di patrimoni immobiliari o rendite) con l’obbligo che i loro membri pregassero in perpetuo per l’anima dell’offerente ed i suoi familiari (= la c.d. donatio pro anima)… e fu questa una delle principali fonti di dotazione patrimoniale degli Enti canonici fin dalla metà del primo millennio cristiano. A questa pratica consolidata sono connessi anche un certo numero di Canoni del CIC (cf. cann. 945-958) proprio in materia di celebrazione di sante Messe, soprattutto per quanto riguarda il c.d. stipendium Missæ e la tenuta del “Registro delle Messe”, sia degli Enti che dei singoli sacerdoti. La questione è particolarmente delicata poiché s’interseca ed integra con quella del sostentamento del clero al quale lo stipendium Missæ ha sempre portato un apporto fondamentale (cf. can. 946), visto che «è lecito ad ogni sacerdote che celebra la Messa, ricevere l’offerta data affinché applichi la Messa secondo una determinata intenzione» (can. 945 §1).

I vari elementi che intervengono in tale ambito fanno sì che l’adempimento della pia volontà (cultuale-liturgica) ponga un certo numero di problemi anche tecnici che riguardano innanzitutto il numero di sante Messe da celebrare, la loro frequenza, la durata, il luogo di celebrazione, i soggetti che devono assolvere l’obbligo e l’ammontare dell’offerta. L’antichità e diffusione della pratica ha creato in varie parti del mondo vere e proprie Consuetudini, per quanto non sempre di evidente razionalità (cf. can. 24), soprattutto in relazione ai rapidi cambiamenti economici dell’ultimo secolo. Non si può trascurare neppure il fatto che tale adempimento può risultare sia originario che derivato. Si considera “originario” l’adempimento che non preveda nessun’altra attività oltre la celebrazione delle sante Messe, cosicché l’intera somma consegnata debba essere utilizzata per le celebrazioni. Si considera “derivato” l’adempimento che si ponga come accessorio rispetto ad una differente destinazione dei beni (p.es.: un fabbricato per sostenere un’opera di formazione, educazione o carità); in tale caso il soggetto destinatario dei beni (di solito un Ente canonico) dovrà assolvere l’obbligo di far celebrare le sante Messe, secondo quanto richiesto.

- Il numero di sante Messe da celebrare dovrà rispondere alla volontà del disponente, se lo ha espressamente stabilito (e per quanto ciò risulti effettivamente possibile in ragione della somma consegnata); diversamente è ragionevole (oltre che estremamente funzionale) applicare il computo proporzionale secondo la formula “tot quot”: “tante quante” si possono celebrare con la somma di denaro a disposizione (cf. can. 950), secondo il valore della offerta fissata dal Concilio provinciale o da altra “riunione” dei Vescovi della Provincia (cf. can. 952) e perciò comunemente detta “offerta sinodale”. Il computo proporzionale, inoltre, permette di ridefinire automaticamente il numero delle celebrazioni da effettuare al variare dell’offerta sinodale sia nel tempo, sia in differenti luoghi. - Per quanto riguarda la frequenza delle celebrazioni si pongono più possibilità. 1) Innanzitutto occorre verificare se la volontà del disponente prevedesse una qualche forma di ripetitività delle celebrazioni (p.es.: a scadenza mensile o annuale) oppure una loro semplice effettuazione una tantum; in tal caso sarà necessario identificare (anche in modo generico o istituzionale – p.es.: il Parroco) il sacerdote che debba provvedere a tali celebrazioni e se questi sia in grado di effettuarle entro un anno (cf. can. 953) oppure si renda necessario farle celebrare anche ad altri, altrove (cf. can. 954). 2) Capita spesso, invece, che il disponente abbia espresso la volontà che le sante Messe (in numero determinato o determinabile) siano celebrate in modo ripetitivo per un certo numero di anni, anch’esso a sua volta determinato oppure determinabile. In tali casi, se il periodo di celebrazione richiesto è superiore ai cinque anni, è bene procedere ad un minimo di strutturazione e formalizzazione dell’obbligo o [1] attraverso l’istituzione di una “pia Fondazione” non-autonoma (v. infra) da affidare a un Ente canonico che possa provvedere, oppure [2] ripartendo il numero di sante Messe per il numero di anni determinati dal disponente (o determinabili). La scelta delle modalità dovrà tener conto di vari fattori tra cui, prima di tutto, l’ammontare della somma da dedicarsi specificamente alla celebrazione delle sante Messe in oggetto. A tal proposito è ragionevole calcolare se tale somma sia in grado di produrre una rendita pluriennale sufficiente alla celebrazione di un numero ragionevole di sante Messe annue (= pia Fondazione non autonoma), oppure se sia più congruo dedicare l’intera somma alle celebrazioni (= Legato pio ripetitivo). - La durata dell’assolvimento dell’obbligazione può essere stata determinata dal disponente, oppure essere determinabile in base ad altri elementi da calcolarsi soprattutto in base all’entità della somma disponibile per le celebrazioni. Per quanto in passato – all’interno di economie molto più stabili delle attuali – si accettassero (e si proponessero anche) “Messe perpetue”, oggi è palese che tal genere di obbligazioni non è più assumibile. I termini di prassi, pertanto, entro cui muoversi risultano sostanzialmente tre: 1) decennale, 2) ventennale, 3) proporzionale. 1) Decennale: il termine entro cui programmare l’estinzione dell’obbligazione assunta quando si tratta di celebrare un numero di Messe anche alto ma solo nella forma del Legato pio ripetitivo. Di fatto, quando la somma di denaro consegnata è molto alta, pare più ragionevole utilizzare lo strumento della pia Fondazione non-autonoma così da celebrare le sante Messe per tempi anche molto maggiori; in tal caso rimane comunque aperta la doppia forma di estinzione della pia Fondazione (v. infra, § 2). 2) La durata ventennale dell’obbligazione pare ragionevole nel caso di istituzione di pia Fondazione non-autonoma costituita “a termine”. Allo scadere dei venti anni le somme che costituiscono il patrimonio della pia Fondazione possono essere destinate totalmente, oppure solo in parte, alla celebrazione di ulteriori sante Messe – ormai nella forma del Legato pio unitario – mentre l’eventuale somma residua potrebbe essere assegnata in conto capitale o all’Ente che ha gestito la pia Fondazione oppure all’Istituto o Fondo per il sostentamento del clero, secondo il disposto del can. 1303 §2. La cosa dev’essere valutata in sede istitutiva e potrebbe costituire materia precipua per emanare eventuale Normativa diocesana in merito. 3) La forma c.d. proporzionale costituisce la mera applicazione estensiva del principio “tot quot”. In tal caso si procede all’istituzione di una pia Fondazione non-autonoma e si prevede la sua estinzione automatica (contestuale a quella dell’obbligazione cui adempiere) quando i redditi annui del patrimonio non permettano più neppure la celebrazione di una sola santa Messa al valore dell’offerta vigente al tempo. - In passato ha rivestito una peculiare importanza anche il luogo della celebrazione delle sante Messe, fino alla specifica dell’altare presso cui celebrarle. Per quanto oggi ciò non abbia più alcun senso poiché l’altare di celebrazione ordinaria nelle varie chiese è uno soltanto, è tuttavia cosa buona stabilire presso quale chiesa debbano essere celebrate le Messe, in tal modo risulterà più facile all’Ordinario il controllo del regolare adempimento degli obblighi cultuali. La designazione del luogo specifico di celebrazione potrebbe risultare in alcuni casi fonte di problemi in ragione del numero di sante Messe da celebrare (circa 300 all’anno per ciascun sacerdote stabilmente presente); in tali casi sarebbe meglio prevedere l’espressa possibilità di “far celebrare altrove” una parte delle stesse. - In certi casi potrebbe doversi considerare anche l’eventuale designazione del celebrante; il disponente potrebbe infatti aver stabilito chi sia (o siano) colui (coloro) che deve (devono) celebrare le sante Messe in oggetto. Tale eventuale determinazione è fondata nel fatto che l’offerta per la celebrazione della Messa è “personale” di colui che la “applica secondo l’intenzione del richiedente”, divenendo parte del suo sostentamento. Motivatamente legami di parentela, amicizia, o anche solo istituzionali potrebbero privilegiare un sacerdote (o un Istituto religioso clericale et similia) rispetto ad altri, garantendo a lui una parte del sostentamento necessario. Specificamente in questo caso si pone la questione del numero di Messe annue da celebrare e della reale possibilità per tale sacerdote di assumere la nuova obbligazione in aggiunta ad eventuali altre già assunte. - Da ultimo non si può trascurare neppure la determinazione dell’offerta dovuta per la celebrazione. La questione si pone, al di là del can. 952 §1, in ragione dello specifico sorgere per via istituzionale (e non direttamente da parte di singoli fedeli) dell’obbligo celebrativo. In tale prospettiva l’offerta sinodale va considerata come lo stipendium Missæ minimo da applicarsi per il computo del numero di celebrazioni “risultanti”; potrebbe tuttavia accadere che specifiche circostanze permettano di prevedere uno stipendium maggiore, soprattutto in ragione dell’identità dell’autore della pia volontà. Caso del tutto particolare (ed in costante riduzione) è quello delle c.d. “Messe gregoriane” che, proprio in ragione del particolare onere di continuità per chi ne assume l’impegno, sono tradizionalmente “remunerate” con uno stipendium anche sensibilmente maggiore (nell’ordine del 200 o anche 300% rispetto all’offerta sinodale vigente).

In ogni modo, alla base di qualunque ragionamento e considerazione giuridica in materia di celebrazione di sante Messe deve collocarsi il “fatto” che esse costituiscono ad ogni effetto un vero “costo” economico (e finanziario) per il soggetto obbligato alla loro celebrazione (Enti canonici compresi) il quale dovrà sempre consegnare l’offerta al singolo celebrante. Ciò vale specificamente per le Parrocchie nei confronti del Parroco o chi per esso abbia provveduto alla celebrazione (= Vicario parrocchiale o altri). Si tratta, comunque, di autentiche “uscite di cassa” che come tali devono risultare nei bilanci degli Enti, oltre che nei rendiconti di gestione delle pie volontà, per quanto riguarda l’assolvimento degli obblighi.

1.4 Istituzione della pia volontà

Pur avendo di solito la pia volontà la propria origine costitutiva nell’Atto di Donazione o nel Testamento, essa diventa tuttavia effettiva e giuridicamente efficace solo con l’accettazione di tale Donazione/Eredità da parte del beneficiario, il quale – prima di accettare – dovrà sempre valutare la portata dell’obbligazione accollatagli dal disponente rispetto al patrimonio trasmessogli. Le Leggi civili in materia abbondano già dal Diritto romano che voleva comunque difendere un reale “vantaggio” in capo all’erede, salvaguardandolo così dall’assunzione di obblighi sproporzionati rispetto al reale beneficio risultante. Per questo la costituzione di pie volontà in capo a persone giuridiche canoniche pubbliche (= Parrocchie, Monasteri, Seminari, ecc.) richiede all’Ordinario, che deve autorizzare l’accettazione di tali conferimenti modali, un’attenzione notevole nel valutare la reale possibilità del soggetto di soddisfare gli obblighi che andrebbe ad assumersi (cf. can. 1304) e, ancor maggiormente, per evitare che vengano accollati a tali Enti obblighi del tutto estranei alla loro natura religiosa o tali da assorbire un’irragionevole quantità di risorse gestionali senza, per altro, averne nessun tipo di “vantaggio” almeno equivalente per il proprio fine istituzionale. Non è purtroppo un’eccezione la pretesa di chi vorrebbe ancor oggi strumentalizzare la Chiesa (nelle sue varie articolazioni istituzionali) al compimento di opere che, seppur meritorie in se stesse, nulla hanno di religioso od autenticamente caritativo; da tali rischi è necessario che gli Enti canonici siano preservati senza esitazioni. Non di meno, presumendo che gli eredi non onoreranno la memoria dei testatori (visto che l’eredità spetta ormai per Legge attraverso la c.d. – quota – legittima, indipendentemente dalla “qualità” dei rapporti intrattenuti), capita di frequente che qualcuno, per assicurarsi la cura della tomba ed un certo numero di sante Messe di suffragio, cerchi di addossarle ad un Ente canonico nella forma del Legato (civilistico).

In questa prospettiva, proprio per evitare che la pia volontà venga istituita automaticamente con la sola accettazione della sua “causa” senza che nessuno ne intraprenda il fedele adempimento, è utile che essa riceva opportuna formalizzazione canonica attraverso un’adeguata istituzione per mezzo di specifico Provvedimento dispositivo dell’Ordinario, diocesano o religioso a seconda del soggetto cui sono stati affidati i beni. La Normativa in materia risulta di per sé indirizzata a chiunque riceva beni destinati a pia volontà: sia persone fisiche che giuridiche, tanto canoniche che no. Il can. 1302 in particolare esige da tutti loro che ne informino l’Ordinario perché provveda in merito; la Norma tuttavia non considera la radicale differenza di condizione giuridica esistente tra i diversi possibili destinatari o fiduciari, lasciando così aperto un vasto spettro di possibili questioni, non sempre facilmente risolvibili.

Per quanto la cosa abbia ricevuto scarso interesse sotto il profilo teoretico generale, dal punto di vista propriamente amministrativistico la domanda sulla nascita o istituzione della pia volontà ha, invece, specifico rilievo. Si tratta, infatti, di conoscere con certezza in quali modalità e soprattutto con quali decorrenze e responsabilità l’oggetto della pia volontà possa/debba trovare attuazione giuridicamente vincolante ed esigibile, tanto in riferimento ai fedeli astretti da tale volontà che – più specificamente – dell’Ordinario che ne risulta a tutti gli effetti canonici “esecutore” legale. Fulcro della problematica è l’accettazione del patrimonio in oggetto e – contestualmente – delle modalità d’impiego ad esso costitutivamente correlate. In linea del tutto teorica, infatti, e secondo il disposto dello stesso Codice, il momento istitutivo della pia volontà coinciderebbe con l’accettazione del conferimento modale in oggetto, senza nessuna esigenza di alcunché di aggiuntivo da parte di alcuno. Di fatto, però, ciò non offre alcuna garanzia né a riguardo dell’esecuzione della pia volontà, né a riguardo dei necessari controlli da porre in atto per rispettare la volontà del disponente, alla quale si è tenuti per obbligo tanto giuridico che morale. Ne segue che la costituzione di pia volontà per semplice accettazione può darsi realisticamente solo quando il suo contenuto sia espresso in modo sufficiente chiaro e richieda un adempimento semplice (= una tantum, non ripetitivo) a cui si possa dare attuazione immediata senza aggiungere altro (è il caso del c.d. Legato pio unitario) e la cui “verifica” sia palese. Quando, al contrario, tale adempimento richiedesse un minimo di strutturazione, funzionalità ed organizzazione a causa della durata o della ripetitività, diventerebbe necessario almeno formalizzarlo e regolamentarlo attraverso una vera e propria “istituzione” che delinei e fissi con certezza i modi e le responsabilità di adempimento della pia volontà in oggetto.

Nel caso infatti dell’automatismo di costituzione per semplice accettazione, si avrebbero pie volontà ad efficacia ed esigibilità immediata, senza alcuna reale consistenza istituzionale né regolamentazione di esecuzione, con grave pregiudizio della certezza dell’obbligo – almeno quanto al suo assolvimento –. Tale costituzione inconsapevole di un obbligo istituzionale, tra l’altro, sarebbe difficilmente conciliabile coi princìpi generali del Diritto. La soluzione salomonica – ma soprattutto efficace – consiste nel non dare mai Autorizzazioni ad accettare Donazioni o Testamenti gravati da pia volontà senza allegare contestuale Atto istitutivo degli adempimenti ed obblighi che ne derivano, sia essa attuabile in forma di Legato pio, come – e a maggior ragione – di pia Fondazione.

Non si può ignorare, poi, come la costituzione di pia volontà a carico di persone fisiche o persone giuridiche canoniche private si configuri in modo molto differente a causa della loro non soggezione patrimoniale alla Legge canonica e all’Ordinario, che potrà solo indirizzar loro l’ammonimento circa l’obbligo morale – e spesso anche civile – di adempiere le volontà dei disponenti (cf. combinato disposto dei cann. 1299 §2 e 1302) ma senza poter intervenire direttamente.



2. Le pie fondazioni

Espressione tradizionale della pia volontà in ambito canonico è la “pia Fondazione”, la cui storia coincide con quella di molte Istituzioni ecclesiastiche del mondo occidentale, chiese, Monasteri, ospedali, scuole, ecc. Si è già indicato che per “Fondazione” (dal punto di vista semplicemente giuridico senza ulteriori accezioni canoniche o civilistiche) deve intendersi [a] una massa di beni (= patrimonio), [b] destinata a rimanere compatta e ad essere oggetto di gestione unitaria, [c] per lungo tempo, al fine di [d] produrre un reddito attraverso il quale – e solo attraverso di esso(!) – [e] conseguire gli scopi che ne hanno giustificato la creazione.

2.1 Il concetto di pia Fondazione

[a] Quando il disponente lo abbia stabilito – almeno implicitamente – o [b] quando l’obbligo cui dover assolvere da parte della Chiesa si dispieghi su di un “ampio spazio di tempo” (prudenzialmente oltre i dieci anni), oppure [c] l’esecuzione della volontà del disponente richieda uno specifico impegno ed una organizzazione autonoma per la sua gestione, si profilano gli estremi per dar vita ad una pia Fondazione la quale racchiuda [1°] patrimonio, [2°] finalità ed [3°] organizzazione specifica, all’interno di un’unica realtà – almeno – funzionale che si curi di assolvere gli obblighi assunti. Il can. 1303 distingue due tipi di pie Fondazioni: autonome e non-autonome; quelle autonome sono tali in quanto costituite in persona giuridica – pubblica –, le non-autonome sono invece “affidate” ad una persona giuridica canonica pubblica già esistente. L’autonomia o meno della pia Fondazione dipende [a] innanzitutto dalla volontà – anche inespressa – del disponente ma anche [b] dalla opportunità o meno secondo il giudizio dell’Ordinario, tenendo conto soprattutto delle presunte attività di gestione della Fondazione stessa che non devono gravare oltremodo sulla vita ed attività di persone giuridiche pubbliche già esistenti con ben altro scopo istituzionale, come accade spesso per le Parrocchie (o anche Case religiose o Monasteri), che finirebbero per doversi piegare alla gestione di opere sociali, case di riposo, scuole, ecc. che, pur benemerite, non costituiscono comunque attività “istituzionali” per tali Enti canonici.

2.1.1 Le pie Fondazioni autonome

Per quanto riguarda le pie Fondazioni autonome non si pongono specifici problemi “formali” derivanti dalla peculiarità della loro “pia” origine, poiché si tratta in tutto e per tutto di erigere una persona giuridica pubblica (meglio se riconosciuta anche civilmente) adatta a perseguire gli scopi fondazionali stabiliti dal disponente. Gli elementi specifici connessi all’adempimento imposto debbono essere opportunamente inseriti a livello statutario, meglio se attraverso l’incorporazione del Testamento o dell’Atto di Donazione all’interno dell’Atto costitutivo della Fondazione stessa; le modalità specifiche cui attenersi variano da luogo a luogo, soprattutto in ragione di quanto ammesso o richiesto dalle Leggi civili (o previsto a livello concordatario) per la validità dell’Atto.

È invece sotto il profilo sostanziale che occorre prestare particolare attenzione all’effettiva “autonomia” patrimoniale dell’erigendo Ente (canonico e civile) poiché spesso accade che il patrimonio conferito sia solo idealmente adatto a realizzare la pia volontà annessa; come accadrebbe innanzi al conferimento di un fabbricato antico (spesso fatiscente) da dedicarsi all’esercizio di un’attività assistenziale, senza tuttavia aver previsto anche la disponibilità degli ingenti fondi necessari per la sua ristrutturazione e reale messa in funzione, oltre che la “gestione” per un periodo di tempo ragionevolmente esteso. In tali casi l’accettazione della pia volontà e la sua istituzione in pia Fondazione autonoma costringerebbe soggetti diversi dal disponente (spesso Enti canonici pre-esistenti) a contribuire al finanziamento, anche prevalente, dell’opera stessa, vincolando – indirettamente ma realmente – patrimonio ecclesiastico alla realizzazione di volontà che rimangono ad ogni effetto “private”, anche se “pie”. L’estemporaneità del proporsi di volontà individuali – per quanto moralmente e spiritualmente meritevoli – costituisce spesso un grave pregiudizio per l’attività ecclesiale, sempre bisognosa di tempi lunghi di discernimento, oltre che necessitata a porre in opera preferibilmente ciò che possa effettivamente sostenersi in modo autonomo sotto il profilo economico. A maggior ragione tali pie volontà non devono essere “accollate” ad Enti canonici istituzionali (= Parrocchie, Diocesi, IVC) nella forma di pie Fondazioni non-autonome, procurando a tali Enti gravissime difficoltà patrimoniali e gestionali. Con prudenza e realismo si potrebbe invece valutare la possibilità di far confluire il patrimonio in oggetto all’interno di Enti assistenziali (in genere Fondazioni) già esistenti ed anche concretamente idonei a realizzare la pia volontà in questione. Trattandosi tuttavia di disporre in modi differenti da quelli originariamente fissati, sarà sempre necessario operare col pieno consenso di tutti coloro che potrebbero legittimamente sollevare obiezioni ed impugnare (quasi sempre in campo civile, in caso di Testamento) la non piena esecuzione della pia volontà.

Soprattutto in occasione di grandi lasciti patrimoniali (idealmente adatti a trasformarsi in pie Fondazioni autonome) è normale che vengano imposti anche obblighi di carattere cultuale-liturgico (= celebrazione di sante Messe); in tali casi è necessario individuare correttamente chi sia tenuto a sovvenzionare il loro assolvimento che, come già indicato, costituisce comunque un “costo vivo” per l’obbligato (v. supra). Ragionevolezza ed equità indirizzano verso il mantenimento dell’unità delle diverse componenti della pia volontà originaria, cosicché sia tenuto all’obbligo cultuale-liturgico chi effettivamente ha ricevuto il patrimonio in questione, nel caso: la pia Fondazione autonoma in questione. In passato, anzi, tale unità di esecuzione della pia volontà ha portato spesso alla creazione di vere “cappellanie” che costringevano i singoli Enti di assistenza/beneficienza ad assicurare la celebrazione anche quotidiana della santa Messa a suffragio dei fondatori della pia Istituzione.

2.1.2 Le pie Fondazioni non-autonome

L’enunciato del can. 1303 §1, 2° riconduce alla fattispecie delle pie Fondazioni non-autonome la maggior parte delle pie volontà quando si presentino alcune caratteristiche:

a) devoluzione – comunque – a persona giuridica canonica pubblica, b) obbligo di esecuzione/assolvimento per un ampio spazio di tempo, c) finalizzazione alla celebrazione di sante Messe (o altre funzioni ecclesiastiche), o al supporto di altri fini ecclesiastici o di assistenza, beneficienza, ecc., almeno compatibili con le finalità della Chiesa, d) da conseguire soltanto in ragione dei redditi annui.

Di fatto lo strumento fondazionale non-autonomo permette molto agevolmente di “isolare” all’interno del patrimonio di un Ente una determinata massa di beni stabilendone finalità e regole proprie di gestione in modo che non intralcino indebitamente la vita ordinaria delle persone giuridiche canoniche né ad essa vengano incautamente mescolate fino a sparire, mettendone a rischio l’adempimento: rischio molto concreto quando si tratti di beni immobili. Dal punto di vista operativo il concetto di pia Fondazione non-autonoma comporta oggi che si proceda a:

a) precisa individuazione di una massa di beni, b) sua circoscrizione formale, c) sua destinazione unitaria per lo scopo stabilito, d) sua messa a reddito per il periodo stabilito (o prudente frazione di esso),

escluso, di per sé, lo svolgimento diretto di attività commerciali o d’impresa che, di fatto, trasformerebbero la pia Fondazione non-autonoma in vera e propria “azienda”, stravolgendone la natura e comportando una vera e propria “gestione” assimilabile a quella di un Ente (autonomo) propriamente detto che in questo caso, però, coinvolgerebbe direttamente l’Ente affidatario della pia Fondazione stessa.

Le tipologie di beni ordinariamente conferiti e gestibili come pia Fondazione non-autonoma sono [a] immobili (= terreni e fabbricati), oppure [b] somme di denaro o altri strumenti di natura finanziaria, oppure anche [c] veri e propri redditi già costituiti (= Azioni, partecipazioni societarie, affitti); in ogni caso la dinamica costitutiva capitale-reddito impone la “custodia” del bene e la sua “messa a reddito” in modo che con le somme ricavate si possa assolvere l’obbligo originario.

- La concretizzazione più comune di pia Fondazione non-autonoma consiste nell’investire la somma di denaro conferita, in modo che si possano facilmente trarne rendite finanziarie certe e regolari (semestrali o annuali): le c.d. “cedole”, tipiche dei Titoli di Stato o delle Obbligazioni finanziarie in genere. Ciò permetterà annualmente di avere a disposizione le somme necessarie per soddisfare l’obbligo (cultuale o pastorale) della pia Fondazione. - In caso di beni immobili la messa a reddito coincide sostanzialmente con la loro locazione in modo che ne derivi un provento certo. La necessità, tuttavia, di mantenere la fruibilità dei beni stessi potrebbe sollecitare la previsione dello scorporo dai redditi annui di una “quota” di riserva destinata ad essere accantonata (= patrimonializzazione) per sostenere gli oneri di manutenzione e tenuta in sicurezza che – civilisticamente – gravano sulla proprietà degli immobili. In caso diverso tali costi patrimoniali verrebbero, infatti, a gravare – illegittimamente – sulla persona giuridica che ha ricevuto in “affidamento” la pia Fondazione non-autonoma, non senza coinvolgere le problematiche connesse alla devoluzione finale del patrimonio (v. infra). - Una pia Fondazione non-autonoma potrebbe conseguire la propria finalità anche “esternalizzando” l’adempimento di specifiche realizzazioni, p.es.: caritative, senza farne ricadere sull’Ente titolare gli oneri della gestione. È quanto potrebbe accadere – esemplificativamente – per un fabbricato lasciato in eredità ad una Parrocchia perché lo destini a chi è in particolari condizioni di necessità. La Parrocchia potrebbe affidarne la gestione alla Caritas diocesana attraverso un contratto di uso o di diritto di superficie (valido ai fini civili). In questo modo sarà la Caritas a gestire completamente l’appartamento, a pagarne le Imposte, le manutenzioni, a decidere chi ne fruisce ed a quali condizioni, ecc. lasciando la Parrocchia completamente sgravata di qualunque obbligo, pur adempiendo la pia volontà originaria.

2.2 La pia Fondazione cultuale non-ecclesiastica

Come già in passato, anche attualmente può presentarsi la necessità di “dare forma” a pie Fondazioni (di per sé non-autonome) in capo a soggetti non immediatamente dipendenti da un Ordinario in senso proprio, come potrebbe accadere per semplici cittadini o anche fedeli (veri e propri) o Enti civilistici o altro, comunque patrimonialmente autonomi rispetto all’Ordinamento canonico: ciò che in passato si è definito “Cappellania laicale”, proprio perché non “eretta” dall’Autorità ecclesiastica. Dal punto di vista del Procedimento sono i cann. 1306-1307 a fornire le indicazioni sostanziali, non solo per quanto concerne le pie Fondazioni, loro oggetto specifico, ma anche per le pie volontà in genere.

La fattispecie più concreta riguarda la costituzione di una pia Fondazione cultuale-liturgica (laicale) per la celebrazione di sante Messe di suffragio. In tali casi l’Ordinario, avuta notizia dell’avvenuto conferimento a qualcuno di beni destinati a pia volontà di sua competenza (cf. can. 1302 §1):

1) deve documentarsi accuratamente circa la qualità e quantità dei beni in oggetto, le volontà del disponente, gli obblighi annessi, normalmente attraverso la lettura dell’Atto di Donazione/Testamento; 2) deve quindi informare l’erede o il legatario dell’obbligo morale e giuridico-civile (soprattutto se tale volontà risultasse da un Testamento) di provvedere al corretto adempimento della pia volontà affidatagli dal disponente; se il donatario/erede sia battezzato anche dell’obbligo canonico. 3) Dovrà quindi procedere – di comune accordo col soggetto stesso – alla redazione dell’Inventario dei beni in oggetto ed alla loro collocazione “al sicuro” (patrimonialmente parlando), stabilendone congrue modalità di amministrazione e fruizione in modo tale che almeno annualmente sia possibile soddisfare agli obblighi della celebrazione delle sante Messe di suffragio. Gli strumenti utilizzabili a questo fine possono essere i più disparati tra quelli messi a disposizione dal Diritto civile vigente nel territorio di appartenenza: depositi bancari, contratti di locazione, accordi bilaterali, convenzioni e quant’altro, a seconda della natura dei beni stessi. 4) Dovrà poi fissare (eventualmente determinare) il numero di sante Messe di suffragio da farsi celebrare e la chiesa, o il presbitero, o l’Istituto religioso incaricato di tale celebrazione. Il numero di sante Messe da far celebrare dovrà rispondere alla volontà del disponente, se lo ha stabilito, secondo il valore dell’offerta sinodale vigente. Nel caso, invece, si debba determinare tale numero sarà necessario procedere con particolare cura ed attenzione, tenendo conto senza dubbio del valore del patrimonio in oggetto (Inventario dell’Eredità/Donazione/Legato) e di tutti gli altri elementi e circostanze attinenti la questione. In questi casi non pare conveniente che la trattativa sia gestita direttamente da ecclesiastici, dando l’impressione di “commercio sacramentale”; meglio affidare la questione ad un buon Avvocato civilista che provveda secondo ragionevolezza (ed eventuale analogia giurisprudenziale con altre prestazioni o servitù passive). 5) L’accordo complessivo raggiunto per tale gestione dev’essere formalizzato almeno con apposita “Scrittura privata” pienamente valevole per ottenere in sede civile l’osservanza dell’accordo stesso da parte del soggetto vincolato e dei terzi. 6) L’Ordinario costituisca canonicamente la pia Fondazione non-autonoma in oggetto con normale Decreto istitutivo contenente gli estremi di quanto già pattuito col donatario/erede, allegando tutta la documentazione del caso, e dandone copia al beneficiario. La Curia dovrà conservare in modo ordinato il Decreto istitutivo e controllarne il puntuale adempimento e – potenzialmente – certificare l’avvenuto assolvimento dell’obbligo, consegnando a chi ne era gravato apposita Dichiarazione di pieno assolvimento (cf. can. 1301 §2).

Il Procedimento rimane sostanzialmente identico qualora l’oggetto della pia Fondazione non-autonoma non sia cultuale ma caritativo, assistenziale o promozionale (= borse di studio), esigendosi in questo caso – semplicemente – che la soddisfazione annuale dell’obbligo sia adempiuta attraverso l’elargizione di somme in denaro, o di servizi di equivalente valore economico, a vantaggio di coloro che la volontà del disponente abbia indicato (invece che per la celebrazione di sante Messe).

Tra le eventualità di una certa frequenza in materia di pie volontà non ecclesiastiche – o laicali – (in capo, cioè a privati o Enti non canonici) emerge negli ultimi anni il c.d. riscatto/affrancazione, soprattutto per ciò che riguarda l’obbligo di celebrazione di sante Messe da parte di Enti civilistici di assistenza e beneficienza (Fondazioni, Monti di pietà, Opere pie, ecc.). È frequente, infatti, la richiesta di giungere ad un accordo (in realtà un vero contratto) che, a fronte di un esborso finanziario anche significativo a favore di un Ente canonico, liberi l’Ente originario dal dover assolvere annualmente il proprio obbligo cultuale. La questione si pone in modo prevalente per Enti (come quelli pubblici o semi-pubblici) la cui gestione privilegi l’aspetto “economico” rispetto a quello “patrimoniale”; in tal modo un esborso patrimoniale straordinario, per quanto ingente, risulta preferibile per gli Amministratori rispetto al protrarsi di costi annuali del tutto estranei alla “gestione” vera e propria… di qui la richiesta, spesso pressante, di “riscattare” l’obbligo cultuale. La dinamica normalmente proposta è la stessa utilizzata in ambito civilistico per il riscatto della proprietà immobiliare a fronte del versamento di un certo numero – significativo – di canoni di locazione, sul modello dell’affrancazione di Enfiteusi: ragionevolmente 20 anni. Concretamente: l’Ente obbligato all’assolvimento versa ad un Ente canonico (di solito la Diocesi) la somma equivalente a quando annualmente dovuto, moltiplicato per 20; in tal modo si costituisce a carico dell’Ente canonico una (nuova) pia Fondazione non-autonoma destinata all’assolvimento dell’obbligo “riscattato” cosicché le pie volontà in questione vengono comunque onorate, anche se da un soggetto diverso dall’originario il quale, però, ha provveduto in modo – contrattualmente – corretto all’assolvimento cui era tenuto. Per quanto una tale condotta non sia di per sé illegittima, in quanto l’obbligo cultuale viene comunque assolto secondo la volontà originaria, non di meno occorre molta cautela e ponderazione, soprattutto in momenti in cui le rendite finanziarie risultino particolarmente ridotte, poiché si corre il rischio di non ottenere rendite significative dall’investimento finanziario della somma ricevuta in “riscatto” e, pertanto, di non poter assolvere l’obbligo celebrativo assunto. Il non riscatto dell’obbligo, per contro, non avrebbe alcuna influenza sul numero di sante Messe che l’obbligato deve comunque far celebrare permettendo, per di più, all’Ordinario di esigere l’esecuzione di quanto (anche civilisticamente) dovuto. Trattandosi, in ogni modo, di una “modifica” strutturale dell’obbligo precedentemente assunto da un altro soggetto, occorre l’intervento della Santa Sede che la autorizzi o la ponga in atto in modo espresso (v. infra).

2.3 La pia Fondazione cultuale ecclesiastica

La fattispecie, ed il relativo Procedimento, risulta più semplice quando destinataria della pia volontà sia una persona giuridica canonica pubblica soggetta al Diritto canonico (= Diocesi, Parrocchia, Monastero, Convento, Santuario…); in tale caso è drasticamente semplificata tutta la parte più direttamente patrimoniale (civilistica) del Procedimento stesso in quanto già direttamente attuato secondo i normali Procedimenti autorizzativi in tema di conferimenti modali (cf. can. 1267 §2). Nulla cambia a riguardo del Decreto istitutivo della pia volontà in capo all’Ente canonico stesso che dovrà assolvere direttamente agli obblighi in oggetto, siano essi cultuali o no. Con la Licenza di accettazione l’Ordinario dovrà indicare anche le modalità di adempimento degli obblighi (v. supra).



3. La riduzione ed estinzione delle pie volontà Tra gli elementi che conseguono alla creazione di pie Fondazioni e all’adempimento delle pie volontà in genere – e di cui una Curia è chiamata ad occuparsi – vanno considerati in modo esplicito l’estinzione dell’obbligo e/o il suo ridimensionamento a causa soprattutto del trascorrere del tempo: variabile fondamentale in materia economica. Il problema non si pone, ordinariamente, per i Legati pii poiché la loro esecuzione “immediata” (una tantum) o la loro breve durata (ripetitivi) non dovrebbero incontrare serie difficoltà nell’adempimento, data la loro natura sostanzialmente finanziaria. Inoltre la specificità del Legato quale obbligo diretto rispetto al patrimonio oggetto di conferimento non crea problemi circa la sua estinzione: l’obbligo cade con il proprio assolvimento (coincidente con l’estinzione dei beni di riferimento).

3.1 La riduzione (e modifica) degli obblighi soprattutto cultuali

Tra le vicissitudini che possono intervenire nella vita di una pia Fondazione – tanto autonoma che non-autonoma – si pone, soprattutto in determinate situazioni economiche (instabilità finanziaria, crisi economica, deflazione, ecc.), l’impossibilità di continuare ad adempiere gli obblighi assunti. In tali casi il can. 1310 §2 riconosce all’Ordinario (diocesano o religioso) la facoltà di ridimensionare tali obblighi (la c.d. riduzione), avendo tuttavia la cura di provvedere in modo specifico per quanto concerne la celebrazione delle sante Messe, oggetto di tutela specialissima in ambito canonico.

3.1.1 Il numero delle sante Messe

Quando a causa della diminuzione delle rendite annue del patrimonio delle pie Fondazioni non sia più possibile soddisfare al numero di sante Messe da far celebrare (fissate a livello istitutivo della pia volontà), il can. 1308 §3 riconosce al – solo – Vescovo diocesano la facoltà di “ridurre” il loro numero. La c.d. riduzione delle sante Messe si opera quando il loro numero risulti fissato in modo certo nel Decreto d’istituzione della pia Fondazione e non, invece, quando si fosse già utilizzata la formula “tot quot” poiché, in questo caso, la riduzione successiva all’unità (= una Messa all’anno) equivarrebbe alla completa estinzione dell’obbligo (che costituisce altra fattispecie). Il Provvedimento di riduzione delle sante Messe si configura spesso come semplice trasformazione della modalità di calcolo da “assoluta” a “proporzionale”: dal numero fisso predeterminato, alla formula proporzionale “tot quot”, contemplando così già automaticamente il ripristino della precedente condizione quando le rendite del patrimonio dovessero tornare alla primitiva consistenza e senza la necessità di dover nuovamente intervenire col mutare dell’andamento economico. Il can. 1308 §4 prevede la possibilità di ridurre allo stesso modo il numero di sante Messe da celebrare a carico di “Istituti ecclesiastici” (= Collegi, Seminari, ecc.) quando le rendite, originariamente ingenti, non permettano più il perseguimento dei fini istituzionali. L’esempio tipico è quello dei Seminari o Collegi che in ragione degli immobili ricevuti in donazione lungo i secoli si trovino a dover “far celebrare” qualche migliaio di sante Messe all’anno (per di più a Presbiteri “esterni” all’Istituto): l’avvenuta dismissione di buona parte di tale patrimonio immobiliare o l’esiguità della sua attuale rendita (specie per i terreni) metterebbero infatti tali Istituzioni nella difficile circostanza di dover spendere una parte significativa delle già esigue entrate di gestione dell’Opera come tale per onorare impegni cultuali assunti in tempi ormai lontani e non più adeguatamente supportati sotto il profilo economico.

3.1.2 La “sede” di celebrazione delle sante Messe

Alla “riduzione” degli obblighi si affianca – ormai nella Consuetudine generale – anche la loro “permuta” (o commutazione), secondo il principio (morale) di tutela sostanziale dell’adempimento, pure in forme differenti dall’originaria: meglio adempiere in modo difforme che non adempiere, soprattutto in sacris!

Come già indicato: è possibile che tra gli elementi caratterizzanti un obbligo cultuale-liturgico (= celebrazione di sante Messe) si ponga anche, soprattutto a riguardo del passato, lo stretto vincolo dell’adempimento presso una specifica “sede”: [a] un determinato altare di una chiesa (derivante dall’uso post-tridentino di celebrare anche in contemporanea più sante Messe “su” altari diversi), oppure [b] una chiesa specifica o, più spesso, una cappella (anche privata). Tali vincoli costituiscono a tutti gli effetti elementi del “modus adimplendi”, accettato e quindi giuridicamente dovuto; ciò potrebbe porre, a distanza di secoli, problemi d’interferenza con le vicende legate all’esistenza del fabbricato stesso.

È il caso, sempre meno eventuale, della “riduzione ad uso profano” dell’edificio di Culto (cf. can. 1222 §2) o anche soltanto della sua formale “chiusura al Culto”, come accade soprattutto per chiese, oratori o anche cappelle di origine antica (in genere in città), casomai già appartenenti ad Istituti religiosi o ad Enti di assistenza o ad Opere pie o Confraternite (e come tali fortemente beneficiati ma anche onerati). In tali occasioni alle volte sorgono questioni circa la pretesa “impossibilità” di porre in essere tali Provvedimenti (amministrativi) da parte dell’Ordinario poiché la cessazione del Culto presso tali edifici comporterebbe l’inadempimento di obblighi cultuali in essi domiciliati. La questione non è sempre infondata, per quanto molto spesso non abbia alcuna reale consistenza giuridica.

- Quando l’adempimento dello specifico obbligo di Culto non sia stato la “causa” propriamente intesa per l’edificazione dell’edificio stesso (non importa di quale tipologia) non si può ipotizzare che la presenza dell’obbligo cultuale possa in qualsiasi modo influenzare le vicende afferenti l’edificio come tale, quasi ne fossero “costitutive”. Semplicemente: la collocazione presso quell’edificio dell’adempimento dell’obbligo cultuale, avvenuta in tempi successivi alla sua edificazione (e da essa indipendente), va intesa come “uno” soltanto degli elementi – ad oggi non sostanziali – del “modus adimplendi” dell’obbligo stesso che non pregiudica – di per sé – una differente modalità puramente “geografica” dell’adempimento stesso, configurandosi al massimo come “riduzione” qualitativa anziché quantitativa dell’adempimento dell’obbligo. In tal modo: quando l’adempimento dell’obbligo cultuale diventasse impossibile in forma specifica (per intervenuta distruzione dell’edificio di Culto o altra vicenda che non lo renda fruibile allo scopo) esso dovrebbe comunque essere rimodulato quanto alla sua forma/modus così da salvarne la sostanza (= celebrazione delle sante Messe), vero oggetto dell’obbligazione assunta dalla Chiesa. D’altra parte: se ciò è ammesso e normato in caso d’insufficienza delle rendite che permettano l’adempimento dell’obbligo come tale – ed è solo questa circostanza (= la rendita) che rende effettivo l’obbligo –, a maggior ragione dovrà esserlo per le modalità formali del suo adempimento. Non per nulla al momento costitutivo l’obbligo viene accettato ed assunto proprio dopo aver valutato la reale ed effettiva possibilità di adempiervi. L’intervenuta impossibilità di adempiere, fatta salva l’eventuale modifica o commutazione, va pertanto interpretata nella linea della sopravvenuta causa di forza maggiore che potrebbe – inizialmente – scusare dall’adempimento in forma specifica, e – in seguito – motivare la necessaria “rimodulazione” dell’adempimento dell’obbligo stesso così da salvarne la sostanza. Il Procedimento di maggior tutela per l’Autorità che interviene sull’edificio di Culto è la richiesta alla Santa Sede di “commutazione” (nella forma di “delocalizzazione”) dell’assolvimento degli obblighi cultuali. - Il caso si profila diverso quando – invece – l’obbligo cultuale sia stato la “causa” specifica per l’edificazione dell’edificio stesso ad esso funzionalmente strumentale: in tal caso qualunque forma di riduzione funzionale dell’edificio influirebbe in modo diretto sull’adempimento dell’obbligo, ostacolandolo. Allo stesso tempo, tuttavia, i costi economici che verrebbero a gravare sulla proprietà per il mantenimento in attività dell’edificio (= manutenzioni straordinarie, tenuta a Norma, restauri) genererebbero una palese ed ingiustificata sproporzione tra il valore economico corrispondente all’obbligazione cultuale da assolvere ed i costi di mantenimento funzionale del loro “presupposto”. In questi casi non si può escludere a priori la possibilità di adire – funzionalmente (anziché in modo contenzioso) – un Tribunale (canonico o civile) per porre la questione dell’intervenuta impossibilità di adempiere all’obbligazione, certificando in tal modo per via giudiziale quanto potenzialmente contestabile (o già conteso) in via semplicemente “amministrativa”. La Sentenza, nel caso, potrà preparare in Iure la commutazione dell’assolvimento dell’obbligo in questione. Questo genere di rarissime situazioni, riconducibili in massima parte ad Enti non appartenenti alla struttura gerarchica della Chiesa (diversi, cioè da Diocesi, Parrocchie e Seminari), dovrebbe essere preso in considerazione caso per caso, valutando previamente tutti gli elementi, fattori, circostanze, comunque coinvolti, fatta sempre salva la possibilità – conosciuta e gestita dalla Legge canonica – della riduzione (e/o commutazione) degli obblighi intesa in modo tale da proteggere al massimo la reale ed oggettiva componente spirituale in essi realmente implicata.

3.2 L’estinzione degli obblighi

3.2.1 Obblighi cultuali

Secondo la stessa logica: una volta constatata l’irreversibilità della situazione reddituale dei patrimoni conferiti alle pie Fondazioni, e dopo aver già provveduto alla “riduzione” temporanea degli obblighi stessi da parte del competente Vescovo diocesano, l’Ordinario (diocesano o religioso) potrà chiedere alla Santa Sede l’estinzione completa dell’obbligo – tanto cultuale che non – a norma del can. 1310 §3. Tale concessione, opportunamente documentata nella sua richiesta, è solitamente accordata dalla Santa Sede a fronte della devoluzione di una certa quota del patrimonio in questione (o dello stesso nella sua interezza) per l’assolvimento conclusivo, una tantum, dell’obbligo in oggetto, sia che si tratti di sante Messe che di altro, trasformando di fatto la pia Fondazione (interamente o parzialmente) in Legato pio.

In quest’ottica è ormai prassi di un certo numero di Curie effettuare una revisione periodica (p.es.: decennale) dello stato di effettività delle pie Fondazioni cultuali-liturgiche (= sante Messe) di propria competenza chiedendo poi alla Santa Sede non tanto di “estinguere” quelle i cui patrimoni siano divenuti ormai improduttivi, ma di poter “accorpare” quelle i cui patrimoni siano solo finanziari (o funzionalmente tali) istituendone di nuove che siano in grado di continuare a sovvenzionare la celebrazione di sante Messe per tutti i precedenti aventi causa.

3.2.2 Obblighi non-cultuali

A riguardo dell’estinzione di obblighi non-cultuali derivanti da pia volontà connessi soprattutto a beni immobili si pongono spesso, almeno in Europa, questioni di portata anche espressamente civilistica legate alla trascrizione di tali obblighi sui Registri immobiliari, al Catasto terreni o fabbricati o altri pubblici Registri equivalenti nei diversi Ordinamenti giuridici. A tal fine questi obblighi sono stati spesso trattati, in passato, sia come [a] veri e propri diritti reali, che [b] come servitù, che come [c] altri “vincoli” giuridicamente rilevanti (come, p.es., una destinazione d’uso) di cui gli immobili risultano gravati. Negli ultimi decenni si è affermata la tendenza degli acquirenti di tali immobili (terreni e fabbricati) di volersi liberare degli obblighi derivanti da pia volontà, percepiti come effettive limitazioni del diritto complessivo di proprietà; tale “liberazione”, tuttavia, non risulta immediatamente possibile per via amministrativistica (canonica) poiché l’intervento sui pubblici Registri civili deve sempre (o molto spesso) essere supportato da adeguato Atto giuridico patrimoniale (civilisticamente adeguato) che giustifichi il mutamento dello status del bene immobile in oggetto. Sotto il profilo canonico si tratta senza dubbio di una deminutio patrimonialis, di una peior condicio permanente del patrimonio dell’Ente canonico coinvolto, generando un Atto di amministrazione straordinaria soggetto a specifico Procedimento poiché l’Ordinario non è in grado – proprio Iure – d’intervenire sulla commutazione e/o estinzione definitiva di un obbligo derivante da pia volontà (cf. cann. 1310 §3). In tali casi occorre chiedere alla Santa Sede la concessione, in prima battuta, di una “commutazione” dell’obbligo, se e per quanto essa sia effettivamente possibile (il cambio, cioè, del concreto modus adimplendi proprio in ragione della possibilità concreta di poter continuare ad adempiere – v. supra), diversamente: la sua estinzione, soprattutto nel caso di una reale sopravvenuta impossibilità di proseguire l’adempimento.

3.2.3 Impossibilità ad adempiere e retrocessione dei beni

In situazioni del tutto specifiche – connesse soprattutto al trascorrere del tempo – potrebbe delinearsi in capo al destinatario di una pia volontà, regolarmente accettata e costituita dal punto di vista canonico, un’imprevedibile impossibilità ad adempiere l’obbligazione assunta, sia riguardo al modus che alla realizzazione come tale: si pensi ad una attività dell’Ente destinatario (= una scuola) che nel frattempo sia stata dismessa, oppure altra attività divenuta fortuitamente impossibile sia per eventi naturali che politici, oppure ancora una costruzione, un restauro, una permuta immobiliare, connesse al necessario intervento di terzi per la sua realizzazione. In tali casi, dopo aver tentato tutte le possibili soluzioni alternative concordabili con gli aventi causa (eredi/legatari) senza tuttavia riuscire a raggiungere alcun ragionevole accordo per una diversa realizzazione dell’obbligazione assunta, potrebbe doversi intraprendere la via della “retrocessione” agli eredi/legatari dei beni in oggetto. La retrocessione dei beni, non di meno, potrebbe anche essere espressamente richiesta da parte degli stessi eredi/legatari innanzi alla constatazione del trascorrere del tempo senza che si metta mano in nessun modo all’adempimento dell’obbligazione assunta, per quanto in modo non colpevole.

Per quanto in sé non si tratti di un’attività particolarmente difficoltosa è tuttavia necessario adottare grandi cautele soprattutto per evitare che, anche soltanto a titolo di deperimento dei beni, l’Ente canonico debba sostenere ulteriori costi. È pertanto consigliabile affidare l’operazione ad un Professionista di provata competenza in ambito patrimoniale, soprattutto se il contesto relazionale non sia “bonario” e collaborativo.

3.2.4 Altri obblighi reali

Fuori dagli obblighi ai quali gli Enti canonici devono adempiere in ragione delle pie volontà accettate, nell’attività di Curia si pongono anche questioni del tutto analoghe riguardanti però obblighi di privati nei confronti della Chiesa stessa, essi pure derivanti da pie volontà gravanti – però – su terzi: obblighi spesso caduti in Prescrizione, per quanto mai formalmente estinti e, pertanto, ancora presenti nei pubblici Registri immobiliari; obblighi e vincoli che spesso vengono in risalto in occasioni della compravendita di tali beni e di cui i compratori vogliano liberarsi (v. supra). È il caso di beni immobili di proprietà di privati gravati da obblighi in favorem Ecclesiæ ormai non più realisticamente fruibili (= Livelli, seminarie, legnatici, ecc.). In tali casi si può operare secondo duplice modalità: 1) attraverso un bonario Processo di “Prescrizione veloce” (giudiziario civilistico, pienamente formalizzato in ciascun Ordinamento statale), 2) attraverso il semplice “affrancamento” dell’obbligo con Contratto privatistico, come per qualsiasi diritto reale o servitù. In questo caso si deve procedere alla valutazione realistica (e computo) dell’effettivo “valore” aggiornato dell’obbligo in questione (in base solitamente alla c.d. rendita catastale per i fabbricati, o dominicale per i terreni e/o altri parametri tributari correntemente in uso nel territorio) e – concretamente – renderlo oggetto di un vero e proprio Contratto patrimoniale in cui il titolare dell’immobile riscatta dal titolare dei benefici derivanti dall’obbligo stesso (cioè l’Ente canonico) la valorizzazione attualizzata dell’obbligo, divenendone così l’unico pieno titolare ed estinguendo il diritto/servitù di terzi (= la Chiesa) sulla proprietà del bene in oggetto. Tale – parte del – Contratto entrerà a far parte in modo costitutivo del Rogito di compravendita del bene immobile originariamente gravato dall’obbligo; la trascrizione del Rogito comporterà anche la cancellazione dai pubblici Registri dell’obbligo pre-esistente. Dal punto di vista del Procedimento canonico occorre ottenere dall’Ordinario competente la Licenza per compiere un atto di straordinaria amministrazione consistente nell’alienazione di un diritto (proprio) su bene di terzi (con depauperamento “formale” del proprio patrimonio stabile); alienazione che deve essere realizzata dietro “corrispettivo” di fatto: o compravendita accessoria alla vendita principale del bene immobile in questione, oppure donazione all’Ente canonico da parte dell’acquirente di una somma che equivalga alla valorizzazione pattuita. Ciò per evitare che tale atto risulti alla fine una mera elargizione a privati di patrimonio ecclesiastico.

3.3 Estinzione delle pie Fondazioni non-autonome

Questione del tutto specifica nella prassi di Curia è quella riguardante l’estinzione delle pie Fondazioni non-autonome, per le quali il can. 1303 §2 prevede espressamente la diversa destinazione del patrimonio a seconda [a] dell’espressa volontà del Fondatore, che rimane sempre sovrana, oppure [b] della natura della persona giuridica (pubblica) affidataria della pia Fondazione. Secondo il can. 1303 §2, infatti: se la persona giuridica è soggetta al Vescovo diocesano il patrimonio deve passare all’Istituto/Fondo per il sostentamento del clero (cf. can. 1274 §1) «a meno che il fondatore non abbia espressamente manifestato una volontà diversa»; se, invece, tale persona giuridica non è soggetta al Vescovo diocesano il patrimonio rimane di proprietà dell’Ente che l’ha gestito. La disposizione di Legge, in realtà, “crea” un evidente problema poiché, in ragione della sua applicazione, gli Enti canonici che gestiscono pie Fondazioni non-autonome finirebbero per essere solo destinatari passivi – e di fatto immotivati – del gravame puramente gratuito (e quindi potenzialmente iniquo ed arbitrario) della loro gestione: tanto varrebbe, dunque, costituire da subito la pia Fondazione non-autonoma in capo all’Istituto di cui al can. 1274 con l’obbligo che le sante Messe che ne derivano siano però celebrate presso l’Ente di iniziale conferimento e lo stesso si faccia per altri tipi di obblighi. Una tale configurazione, tuttavia, finirebbe per ridursi alla mera trasmissione al Parroco o altro sacerdote delle sole “intenzioni di sante Messe” e della relativa offerta (cf. cann. 945-958).

- Per quanto il disposto normativo risponda alla “presunzione” che le offerte destinate alla celebrazione di sante Messe abbiano una “indiretta” ma intrinseca destinazione al sostentamento del Clero e, pertanto, come tali vadano interpretati anche i patrimoni ad esse funzionali, tale presunzione risulta tutta da verificarsi – di fatto – nella mente dei fedeli che, solitamente, intendono – invece – conferire ultimativamente i loro beni, per quanto secondo specifici “modi”, alla “propria” Parrocchia o, comunque, allo specifico Ente designato. - In termini equitativi poi – fatti salvi i patrimoni puramente finanziari che non generano costi di mantenimento – sarebbe doveroso considerare anche i costi che l’Ente affidatario può aver dovuto sostenere per assicurare il funzionamento del patrimonio (immobiliare) della pia Fondazione… costi dei quali non dovrebbe ritrovarsi patrimonialmente onerato, come accadrebbe nel caso della “riconsegna” del bene all’Istituto di cui al can. 1274.

Proprio sulla base della “eccezione” prevista dallo stesso can. 1303 §2 (= la diversa volontà del Fondatore), oltre che della necessaria equità patrimoniale, nella pratica di molte Curie diocesane il patrimonio viene attribuito alla persona giuridica che lo ha amministrato – custodito e manutenuto – per tutta la durata della vita della pia Fondazione stessa, poiché è solo la necessità dell’obbligo di durare per un “ampio spazio di tempo” che costringe a creare un mero “dispositivo tecnico-gestionale” (vera e propria fictio Iuris) chiamato pia Fondazione non-autonoma: il disponente in realtà aveva espressamente destinato i suoi beni, per quanto soggetti a specificità di adempimento, a quella specifica persona giuridica. Pare, pertanto, saggio che già il Decreto istitutivo della pia Fondazione non-autonoma contenga la statuizione sulla destinazione finale del patrimonio.

Per le Fondazioni autonome, costituite cioè in persona giuridica (pubblica), la destinazione finale del patrimonio è, invece, elemento costitutivo degli Statuti, fatta salva la presunta perpetuità delle persone giuridiche canoniche.


in: PERIODICA DE RE CANONICA, [1° parte] 105 (2016) 595-622; [2° parte] 106 (2017) 1-27.