Bilancio canonistico della Decima Giornata canonistica interdisciplinare
Premessa
Il bilancio canonistico (diverso da le conclusioni) dei lavori
della Decima Giornata canonistica interdisciplinare (tenutasi nella primavera
dellanno 2015, nellintermezzo tra le due Assemblee generali del Sinodo dei
Vescovi sulla famiglia) prende volentieri le proprie mosse da una prima
constatazione di carattere non meramente funzionale, e non del tutto scontata:
pur con forti riferimenti terminologici ed istituzionali, la riflessione
effettuata riuscita a non identificare il tema del consultare e consigliare
nella Chiesa con quello della sinodalit tout-court.
Losservazione – e pi ancora il fatto in s – riveste
per la Canonistica unimportanza di carattere anche epistemologico in ragione delle grandi attenzioni che da molte
parti, soprattutto in ambito teologico, si sono attivate negli ultimi tempi nei
confronti del Sinodo dei Vescovi in quanto Istituzione ecclesiale maturata
attraverso il Concilio Vaticano II per prolungarne, in qualche modo, lo
spirito. Sebbene, infatti, termini e temi quali sinodalit e Sinodi
(nelle loro pi diverse configurazioni istituzionali) siano stati anche oggetto
specifico di ricerca e trattazione da parte di alcuni Relatori della Giornata,
allo stesso tempo un certo numero di elementi significativi della riflessione
si indirizzato ad altri ambiti
della vita e, soprattutto, delle dinamiche intra-ecclesiali; quasi a voler
esprimere – e promuovere – la consapevolezza che: 1) non esiste solo lIstituzione Sinodo, 2)
una vera sinodalit non compiutamente
traducibile in nessuna singola
Istituzione (giuridica).
Proprio in questa prospettiva si pu, forse, ritenere che lesito
maggiore della riflessione condotta nellevento lateranense possa consistere
nel sostanziale ampliamento della
semantica consiliare e sinodale sospinta al di l del normale intendimento
delle parole, il cui comune utilizzo troppo spesso risulta limitare sia i
ragionamenti che le prospettive, soprattutto in campi complessi come quello del
consultare e consigliare nella Chiesa. In questottica, allo stesso tempo
terminologica e concettuale, pu risaltare con maggior suggestione il fatto
che, dal punto di vista linguistico, lInglese non sappia distinguere tra
Consiglio e Concilio – e pure Associazione –
(= Council); non di meno lo
stesso Latino (e le lingue romanze derivate) non fa distinzione tra il
consiglio come suggerimento/parere e lOrganismo pluripersonale (in
genere istituzionale) che potrebbe offrire tale apporto. Allo stesso tempo:
loriginario syn-odos, prima di
essere variamente istituzionalizzato, non indicava altro che una strada
percorsa insieme.
Le considerazioni e note emerse dai Relatori, insieme ad alcuni
elementi di carattere pi generale che si esporranno qui di seguito, ora come
sottolineatura ora come rilancio, suggeriscono di cercare ci che caratterizza
– e deve caratterizzare – la vita ecclesiale nella linea
non principalmente dei meccanismi istituzionali o delle Istituzioni ed istituti
giuridici come tali, quanto piuttosto nei modi
specifici di gestire la decisionalit comunitaria, cercando di applicare e
tutelare il syn/cum quale vero principio, identitario prima che istituzionale.
In tal modo synodus, concilium, ecc. non indicheranno
principalmente forme giuridiche immediate ma modalit; allo stesso tempo le
decisioni che ne emergeranno, sia singolari che generali, godranno la garanzia
della condivisione dei loro presupposti e delle loro finalit, dando corpo alle
dinamiche pi autentiche dellecclesialit, ricuperando pienamente ci che
stato affermato per la Chiesa antica:
Nella prospettiva della Chiesa primitiva, questo consensus diviene pure unanimitas, intesa non tanto come un modo di prendere una decisione, ma come
la forma corretta di intendere la
stessa Istituzione ecclesiale, la quale si comporta come una realt nuova, che
man mano prende coscienza di essere di pi della somma dei singoli membri (e
della loro volont),
sopportando in tal modo – e al contempo
integrando – anche esitazioni e dissensi che mantengano viva la
vigilanza, sia dello Spirito che degli spiriti, evitando troppo facili
concordismi, di dubbio profilo ed autenticit spirituale.
1. Concetti, attivit e
modalit
Riflettere in modo espresso sul consultare e consigliare nella
Chiesa a partire dai loro presupposti
ed in ragione delle loro intrinseche motivazioni
e finalit, al di l dellattuale
– circostanziale(?) – rilancio di unintensa attivit
sinodale di natura e pertinenza espressamente pontificia, costituisce uno stimolo ad approfondire, prima di tutto
in campo teologico e pastorale, una riflessione sopita da secoli poich quasi
esclusivamente delegata o relegata alle finezze giuridiche ed alle loro
necessarie distinzioni tra Istituzioni [a] che portano lo stesso nome ma esprimono realt affatto differenti, oppure [b] che
portano nomi diversi ma che
realizzano una stessa realt/funzione sostanziale. Non inutilmente, infatti,
nella Giornata di studio si scelto di riflettere sulle due forme verbali
(= consultare, consigliare) anzich su quelle sostantive
(= consultazione, consiglio): proprio per non rimanere intrappolati nelluso comune dei sostantivi, lasciando
invece esprimere ai due verbi sia la vis,
che la virtus che li caratterizzano,
tanto allinterno che al di fuori di tutte e singole le Istituzioni
(socio-politiche o ecclesiali) che intendono in qualche modo dar loro corpo e
corso. In realt – a ben vedere, e con grande
appropriatezza – la Chiesa ha sempre utilizzato il termine
celebrazione ed il verbo celebrare sia in riferimento ai Concili che ai
Sinodi che ai Capitoli; come anche – in modo eminente –
per la Liturgia, in quanto attivit pubblica o di popolo.
Questo, tuttavia, non pare ancora sufficiente, infatti: anche
ragionare in termini di consultare e consigliare, non risulta
significativamente pi ampio che farlo in termini di consultazione e di consiglio,
dovendo prendere atto che luso dei verbi – per propria
natura – conserva la presenza strutturale di soggetti ben
determinati che attuano una
(soltanto) delle due specifiche
attivit, riducendo gli altri partecipanti allattivit stessa a sostanziali
oggetti (= il Consiglio, il Collegio, la Comunit, ecc.). Occorrerebbe
invece approfondire e privilegiare un approccio attento al come tali attivit
vengono effettivamente realizzate, ragionando cio in termini di avverbio (= sinodalmente; in modo
sinodale). Palesemente, infatti, le distinte attivit di consultare e consigliare mantengono una sorta di
bilateralit strutturale: qualcuno che consulta,
qualcuno che consultato; qualcuno
che consiglia, qualcuno che consigliato; bilateralit che, invece,
dovrebbe essere superata proprio in modo altrettanto strutturale: come se
consultare e consigliare costituissero due
espressioni della stessa modalit
operativa. questo, non di meno, che vorrebbero sollecitare le due particelle
syn e cum che da due millenni danno corpo e spessore al vasto
vocabolario ecclesiale al quale si fatto ricorso durante la riflessione.
La questione non meramente formale n, tanto meno, filologica
soltanto, ma pone in risalto la sostanza stessa della problematica, poich
qualunque separazione delle due fasi (o movimenti, si direbbe con linguaggio
musicale) non riesce, di fatto, a disinnescare la duplicit dei soggetti
partecipanti: quella duplicit che li mantiene comunque ad una certa distanza
funzionale, pregiudicando radicalmente il syn/cum
di cui, invece, si sta progressivamente riscoprendo e valorizzando limportanza
espressamente teologica. Proprio questa distanza
e bilateralit, tuttavia, sono state
colte e formalizzate a livello giuridico nei diversi istituti canonici che
vedono laffiancamento o la collaborazione tra unAutorit ecclesiale ed il
suo Consiglio i quali, nella quasi totalit delle situazioni previste dai
Codici canonici, non lavorano syn/cum,
ma soltanto audito riducendo
troppo spesso unoriginaria – e costitutiva – dinamica
ecclesiale ad una mera formalit giuridica di sola legittimazione anzich di reale fondamento.
Lesperienza socio-antropologica, non di meno, mostra con evidenza
come – fuori della Chiesa – esistano Consigli che in
realt non consigliano nessuno ma decidono
secondo la logica del syn/cum: un
Consiglio di Amministrazione, un Consiglio comunale esattamente in assenza di
soggetti ed oggetti grammaticali e sintattici, realizzando dinamicamente e
relazionalmente unattivit unitaria.
Pensare di sottrarsi alla problematica semplicemente evidenziando che, in
realt, tali Consigli sono veri Collegi, non risolve il problema
– ecclesiologico – di fondo: il come (= syn/cum), cio, del loro operare,
indipendentemente dal fatto che il punto di arrivo della loro attivit sia
immediatamente esecutivo (quando la decisione collegiale sia soltanto messa
in atto dal Rappresentante del Collegio stesso) oppure solo consultivo
(quando, cio, la decisione esecutiva devessere presa da un soggetto diverso
da tale consesso). Elemento, questo, sul quale troppe riflessioni e teorie,
invece, finiscono per arenarsi, in ostaggio ad una falsa dinamica.
Occorre anche prendere in considerazione ci che accade per un
certo numero di Consiglieri e Consulenti i quali pure, come accade nel
Diritto internazionale, intervengono in modo sostanziale sulle decisioni,
sebbene – di per s – possiedano capacit soltanto
tecniche (spesso solo negative: non
consenso). Tuttavia: proprio questa neutralit riguardo ai fini specifici del decidente costituisce
in molte situazioni unautentica garanzia non tanto della forma ma della sostanza stessa delle cose, dovendosi
tutelare soggetti (o interessi) terzi rispetto a quelli immediatamente
correlati al decidente e, pertanto, estranei alla sua autorit e discrezionalit
in relazione alla sua missione/funzione istituzionale (= politica). Una
prospettiva, questa, che apre orizzonti anche in materia di rappresentanza e
rappresentativit, portando a dover distinguere i modi di rendere presenti, p.es., soggetti o
situazioni, cos come di entrare in rapporto con esse (v. infra: 3,2).
2. Istituti giuridici, loro dinamiche e funzionalit
La sostanzialit della questione cos posta (ma non ancora
affrontata adeguatamente a 60 anni dal Concilio Vaticano II) chiede un
approccio maggiormente consapevole non solo – n tanto –
alle Istituzioni e Norme canoniche oggi vigenti, ma ai loro ben pi radicali presupposti ecclesiologici, sia positivi
(= ottimalit da perseguire) che
negativi (= inautenticit da
evitare). Questo, per, sollecita alcune attenzioni operative e concettuali che
superino le presunzioni teoretiche ed interpretative di cui rigurgita la
dottrina canonica, spesso sullorlo del cortocircuito tra prassi e teoria.
2.1 Norme e
dinamiche di consultazione
La prima attenzione – operativa – riguarda
le modalit della consultazione che i
Codici impongono, p.es., ai Vescovi diocesani (in relazione soprattutto al
Consiglio presbiterale): generalmente si tratta di una discussione intorno ad
una tematica posta allordine del giorno e che si realizza con un giro di
pareri da parte dei soliti (yes man
e bastian contrari, di turno), sancito – ben presto –
dal cambio dellargomento di trattazione per passare al punto successivo
dellordine del giorno. Lasciare che, per qualche decina di minuti, alcuni
membri del Consiglio si esprimano pro o contro, nel silenzio generale degli
altri, costituisce davvero una consultazione di tale Organismo? Allo stesso
modo: chi interviene dicendo la sua offre davvero un/il consilium effettivamente necessario e sostanzialmente esigito dal
Diritto? Non sarebbe maggiormente appropriato chiedere al Consiglio come tale
di esprimere collegialmente il proprio parere/consilium attraverso la votazione di una o pi mozioni
espressamente e motivatamente formulate, cosicch risulti chiaro quale sia il
parere/consilium che lOrganismo come
tale (e non qualcuno soltanto dei suoi membri) suggerisce di adottare,
soprattutto in riferimento alla previsione del Can. 127 2, 2 che pare voler
offrire un certo ruolo costitutivo a tale apporto? Va, infatti, considerato che
parlare e votare sono attivit differenti e vota anche chi non parla.
Lesempio concreto suindicato offre la possibilit dinterrogarsi
sul rapporto tra consultazione e consiliarit ponendo in evidenza come si
tratti di due dinamiche che possono risultare anche profondamente diverse sia
per quantit e qualit di soggetti coinvolti sia per intensit di relazione con essi e tra di essi: due elementi ecclesiologicamente non privi di
significato e valore soprattutto nella prospettiva del syn/cum gi valorizzata. La differenza emerge con chiarezza
considerando che la consultazione ormai tipologica a livello di percezione e
concezione culturale quella elettorale (statale) in cui, in modo anonimo e
puramente statistico, alcune idee o programmi ricevono lapprovazione o il
rifiuto da parte di una quantit impersonale di soggetti che, semplicemente,
esprimono – in pochi secondi – una propria generica
preferenza senza, in realt, alcun rapporto significativo con chi ha proposto
la consultazione stessa (spesso: la Legge). La consiliarit, al contrario, si
regge su piccoli numeri di partecipanti e sui rapporti corti della conoscenza
personale diretta, sia con chi d avvio al suo dinamismo, sia con la maggior
parte di coloro che ne partecipano, finendo per sviluppare una vera dinamica
almeno comunitaria, se non propriamente comunionale. Realizzare una
consultazione (casomai di massa) o far lavorare un Consiglio non sono
attivit equivalenti!
La disparit sostanziale tra le due dinamiche trova ulteriori
evidenze – almeno per lambito ecclesiologicamente e canonicamente
rilevante – nel considerare che la consultazione, in quanto rapporto
generalmente lungo ed indiretto, di solito non genera n sinodalit n comunione, caratterizzandosi quasi
strutturalmente in modo unidirezionale (dai consultati al consultante) in un
rapporto che assume ordinariamente due connotazioni: 1) quella del mero
consenso (accordato o negato), oppure 2) quella della raccolta indifferenziata
di informazioni, desideri, valutazioni, ecc.
Di tuttaltro profilo
qualitativo si presenta, invece, il riunirsi insieme dei membri di un
Consilio (al di l della sua denominazione istituzionale) per ragionare e
confrontarsi, spesso in modo del tutto paritario
(= syn/cum), su tematiche di
comune conoscenza – e non solo interesse individuale o pertinenza
istituzionale –, senza che in nulla rilevi il fatto che
– eventualmente – alla fine si debba o meno assumere una
comune decisione operativa. Alla differenza qualitativa tra le due modalit
concorrono anche le componenti spazio-temporali che, mentre risultano (spesso
in modo problematico dal punto di vista organizzativo) costitutive per
lattivit di un Consiglio (legittimato ad operare solo se presente nella
dovuta maggioranza dei membri), non lo sono invece per la maggior parte delle
attivit consultive: queste, infatti, possono essere svolte nelle modalit pi
diverse sia nello spazio che nel tempo, spesso senzalcuna interazione con
nessun altro dei partecipanti alla stessa attivit, stratificando anche vota non riguardanti le stesse res (eventualmente mutate nello scorrere
del tempo o radicalmente diverse da un luogo allaltro).
2.2
Consultivit e decisionalit
Innanzi agli elementi differenziali – ed
irriducibili – che caratterizzano consultazione e consiliarit,
linteresse concreto del canonista attento alleffettiva corrispondenza che
deve intercorrere tra i fondamenti e gli istituti giuridici (e le Norme) che
ne derivano, non pu sfuggire alla successiva domanda circa lidentificabilit
in senso propriamente giuridico tra consultazione, nelle sue differenti
forme, e voto consultivo: una problematica che sinsinua anche a livello
normativo canonico laddove, un esempio per molti altri, il Can. 127 impone che
il collegio o il gruppo debba essere ritualmente convocato anche quando si
tratti di richiedere soltanto il consiglio (salvo che non sia stato disposto
altrimenti dal Diritto particolare o proprio), ammettendo tuttavia che nel
caso venga richiesto il consenso, sia
necessario il voto della maggioranza assoluta dellOrganismo riunito per la
consultazione oppure (= aut),
pi nebulosamente, che omnium exquiratur
consilium. Di pari problematicit fondativa
risult anche la questione – esattamente sullo stesso
Canone – circa lappartenenza o meno del Superiore religioso al
proprio Consiglio nel caso in cui si trattasse di accordare un consenso
alla propria richiesta: questione su cui la Commissione interprete si espresse
negativamente nel 1985.
In merito va osservato come la dottrina, anche recente, abbia
utilizzato con una certa disinvoltura la terminologia, parlando
indifferentemente di [a] Organismi di consultazione, di [b] consultazione
tout-court e di [c] voto
consultivo, senza particolari attenzioni critiche verso questioni
apparentemente soltanto filologiche, finendo altres per non far risaltare in
nulla (e, forse, neppure accorgersi) che lo stesso Organismo pu svolgere funzioni
assolutamente differenti pur senza mutare in nulla la propria natura n la
propria operativit: come accade per il Collegio dei Consultori o il Consiglio
diocesano per gli affari economici quando siano chiamati ad esprimere un
parere anzich un consenso. Concretamente: 1) un Organismo che deve
rilasciare un vero e proprio consenso ad
validitatem pu essere definito Organismo di consultazione? 2) La richiesta
di un consenso, pu accontentarsi del solo voto finale dellOrganismo di cui
si tratta, prescindendo dalle motivazioni emerse nel dialogo tra (o con) i suoi
membri? La audizione (= audito/a)
di tali Organismi consiste nella – necessaria – presenza
ed attivit dellAutorit allinterno del dialogo tra i suoi membri, oppure ne
sono sufficienti le eventuali conclusioni o il solo Verbale? 3) Il fatto che si
tratti di un apporto non vincolante e, pertanto, solo consultivo pu ridurre
lattivit dellAutorit alla sola richiesta del voto tendenzialmente
favorevole oppure critico nei confronti della richiesta effettuata, casomai
tramite altri, senza interessarsi alle discussioni e motivazioni sottostanti?
In altri termini: quanto
e come la
– mera – natura consultiva dellintervento di un
Organismo ecclesiale pu o deve condizionare le modalit del suo coinvolgimento e la qualit del suo apporto? Quanto e come ci pu o deve
ricadere sulla dinamica e le modalit dellattivit stessa?
Non di meno: la natura/funzione consultiva anzich deliberativa
di un apporto ne legittima [a] la scarsa qualit e/o [b] la sostanziale
irrilevanza ai fini della decisione finale?
Si permetta, in merito, di osservare come anche un parere
vincolante, collocato nella fase costruttiva e non in quella deliberativa di
una decisione, possa condizionarla in modo sostanziale, pur senza partecipare
attivamente della sua assunzione. Tale apporto infatti, pur non esprimendo
potest n indicando specifici esiti da perseguire (espressioni tipiche e
peculiari del governo propriamente inteso), non rimane affatto esterno
dalla decisione in oggetto, partecipando invece a renderla pi razionale o
fondata o sostenibile proprio in ragione degli specifici contenuti di cui esso
stesso si fatto portatore (in quanto parere) e garante (in quanto
vincolante). Si pensi a cosa potrebbe accadere a livello ecclesiale qualora i
livelli maggiormente significativi di consultivit potessero (o dovessero)
esprimersi anche soltanto a questo livello, indirizzando – seppure
solo tecnicamente – le decisioni delle Autorit personali (come sono
quelle gerarchiche).
Nella stessa prospettiva: pure un semplice nulla osta rilasciato
da un Ufficio (tecnico) o da un Organismo consultivo assume la medesima
funzione, che e rimane dichiarativa
e non costitutiva, ma pu offrire supporto e conforto (= rationabilitas) alla scelta da
effettuare, oppure ostacolarla.
Le ricadute espressamente normative del significato e valore
concretamente attribuito alle istanze cos esposte sono di palmare evidenza.
Proprio per non fare sconti n teoretici n istituzionali, ci si chieda: quali
possono essere i presupposti per cui, a norma del Can. 344, 5, il Papa pu
– per Legge – far presiedere ad un altro lAssemblea del
Sinodo dei Vescovi? Basta la natura c.d. consultiva di tale Istituzione
centrale della Chiesa a giustificarne la non necessaria presidenza, e quindi
anche lassenza?
La stessa questione, nonostante il sostanziale parallelo tra i
Cann. 338 e 344, non si pone invece – oggi – per il
Concilio ecumenico, poich non si tratta di attivit di natura consiliare n
consultiva (rispetto al romano Pontefice) ma di evento a cui il Collegio
episcopale (impropriamente detto: v.
infra: 3,3), sub Petro et cum Petro,
d vita quale propria peculiare espressione, configurando identit e valore
ecclesiologici completamente diversi tra le due Istituzioni. In passato tra
laltro, in vigenza di altre
Ecclesiologie, la maggior parte dei Concili non-romani non vide il Pontefice
presente di persona ma solo attraverso propri Legati, incaricati pure di
presiederli, come fu anche a Trento.
3. Identit ecclesiale, partecipazione e collegialit
3.1 Identit
ecclesiale e partecipazione
Oltre allincerto vocabolario
della consultazione, la dottrina
istituzionale degli ultimi decenni ha utilizzato anche quello della partecipazione, ritenendolo maggiormente
adeguato alla natura e dinamica ecclesiale: essere consultati e partecipare non
, infatti, la stessa cosa. Molte istanze post-conciliari, daltra parte, si
erano indirizzate in chiave di sostanziale orizzontalit
ecclesiologica ed istituzionale: le questioni che hanno portato al
declassamento della categoria di Popolo di Dio proprio a causa
dellorizzontalismo che aveva contraddistinto troppe sue interpretazioni (ed
applicazioni) ne danno triste testimonianza. Il paradigma (a suo modo)
conciliare della hierarchica communio,
per contro, aveva sembrato offrire maggiori spazi di manovra
– bilaterale – a seconda dellelemento su cui cadeva
laccento di ciascuno: la gerarchicit della Chiesa, oppure la sua
comunionalit. La necessit di correggere ancora una volta il tiro attraverso
lintervento della Congregazione per la dottrina della fede con la Nota Communionis Notio (a soli otto anni
dalla proclamazione della communio
quale chiave ermeneutica del Concilio) rese visibile, non di meno, come
neppure il principio comunionale (seppur trattenuto entro un contesto
gerarchico) poteva essere utilizzato troppo intensivamente a livello
ecclesiologico generale, dovendosi saldamente mantenere la preminenza
dellelemento verticale (inteso in senso spirituale, ben prima che
gerarchico) da cui la Chiesa stessa continua a trarre la propria origine ed
identit.
Il quadro concettuale va arricchito considerando pure che negli
anni 60-70 del Novecento (= limmediato post-Concilio) si era
progressivamente sviluppato nel mondo occidentale (extra-ecclesiale) il linguaggio
partecipativo, apparentemente poco pretenzioso dal punto di vista
teologico-dogmatico, ma con ricadute istituzionali di grande portata: la
partecipazione, infatti, significa e richiede presenza, o almeno rappresentanza
e, conseguentemente, democrazia
Ambiti semantici completamente estranei a quelli che al tempo allarmavano
lEcclesiologia (magisteriale), ma che, ecclesiologicamente e canonicamente,
inducevano le stesse conseguenze sulla struttura e funzionalit espressamente
gerarchiche della Chiesa che, attraverso tali categorie, venivano di fatto
raggirate. Al di l dei discorsi, infatti, si ricadeva nelle questioni gi
illustrate dal punto di vista istituzionale-giuridico: che partecipazione
sarebbe quella solo consultiva? davvero partecipazione quella che non pu
decidere?
Per quanto – qui giunti – sia forte la
sensazione che molte categorie concettuali extra-ecclesiali (abitualmente
adottate anche in ambito teologico ed istituzionale) non siano in grado di
offrire alla vita della Chiesa apporti realmente utili, non di meno la
riflessione condotta per un decennio attraverso le Giornate canonistiche
interdisciplinari offre prospettive che, pur indirette – o forse
proprio perch tali –, permettono di dare correttamente corpo e
spessore a quanto riguarda le concrete modalit di prendere decisioni, sia
dindirizzo che esecutive, senza nascondersi dietro a categorie ancora troppo
poco delineabili quali la sinodalit:
quanto ricade negli ambiti concettuali ed operativi del discernimento e della corresponsabilit
cui gi le Giornate canonistiche interdisciplinari hanno dedicato spazio.
Discernere, infatti, non si riduce mai n al chiedere n al dare
consigli, e tanto meno al collezionare informazioni o pareri per poi fare di
testa propria. La corresponsabilit, per parte propria, costituisce
lesercizio attivo di un munus
(= dono e compito) condiviso, diverso dal semplice bene comune: si
tratta infatti della comune dedizione
– anzich richiesta – allo stesso scopo, in modo che
ciascuno apporti qualcosa in vista dellesito finale. Una responsabilit
– attiva – che chiede a tutti e ciascuno: E tu cosa fai?
Qual il tuo contributo alla causa?
3.2 Identit
ecclesiale e rappresentativit
Lattenzione alla partecipazione – come gi accennato –
comporta inevitabilmente la considerazione da attribuirsi ad un altro fattore
variamente coinvolto nelle tematiche illustrate: quello della rappresentanza,
postosi nella riflessione a vari livelli ed in riferimento a problematiche
piuttosto diversificate. Buona parte della problematicit del tema, in realt,
pare derivare dallinsufficienza
della terminologia comunemente utilizzata in ambito giuridico principalmente
per il fatto che ormai la rappresentanza si imposta a livello culturale
generale in concreta dipendenza dalla natura
elettiva o deliberativa della
maggior parte delle consultazioni o votazioni attraverso cui si fanno operare
gli strumenti della c.d. democrazia. Un utilizzo di strumenti, Istituzioni e
concetti che ne hanno acquisito – almeno al comune sentire e
pensare – la mera dimensione numerica
anzich qualitativa, rischiando anche
in ambito ecclesiale lassunzione di concezioni e condotte meramente
statistiche, da una parte, e di sostanziale disimpegno, dallaltra, poich
tutto si riduce al mettere ai voti persone o richieste.
Listanza ecclesiologica di riferimento (e fondamento) per il tema
potrebbe essere invece la meno abusata e, pertanto, meno ambigua significatio: il rapporto, cio, che
realizza la verit teologica della
realt di cui si tratta come avviene in modo eminente nei Sacramenti, i quali,
lungi dal rappresentare (in senso partecipativo)
la realt teologica di cui sono portatori, la realizzano (in senso performativo e sostanziale), entro uno
spazio semantico e concettuale in cui reprsentatio
e significatio risultano due
sfaccettature – molto prossime – della stessa realt e
dinamica.
Cedere la reprsentatio
a vantaggio della significatio
porterebbe conseguenze giuridiche di grande importanza poich permetterebbe di
realizzare ulteriori bonifiche del vocabolario giuridico-istituzionale
canonico rimodulando, p.es., i modi (e le rationes)
in cui i Vescovi rappresentano le Chiese di cui sono Pastori, analogamente
– mutatis mutandis –
per il rapporto tra Parroci e Parrocchie loro affidate, non senza evidenziare
palesi problematicit, p.es., dei Cann. 393 e 532, proprio in riferimento
semantico a tal genere di rappresentanza che, se pur sensata per quanto
riguarda le persone giuridiche come tali, non altrettanto appare per i soggetti
ecclesiali propriamente intesi: la Portio
Populi Dei (cfr. Can. 369) o la Communitas
Christifidelium (cfr. Can. 515) di cui si tratta.
La dinamica reprsentatio-significatio, non di meno, coinvolge
espressamente, sebbene ci non sembri generalmente intuito, molte delle
circostanze ed istituti giuridici ed Istituzioni che vedono il concorrere dei Vescovi diocesani: dal Sinodo dei
Vescovi della Chiesa universale, alle Conferenze episcopali, ai Concili
plenari, fino ai Sinodi diocesani realt, tutte, in cui
– palesemente – le comuni concettualizzazioni della
rappresentanza si mostrano gravemente insufficienti.
Indubbiamente pi vicina alla significatio
si mostra la rappresentativit, nella quale (come pure nellopposizione
autorit-autorevolezza) lelemento formale (ed, eventualmente, numerico) deve
cedere il passo a quello sostanziale, sebbene
– eventualmente – antistatistico, come fu a lungo nella
Chiesa medioevale per la c.d. sanior pars,
pur allinterno di Istituzioni espressamente collegiali. Mentre, infatti, la
rappresentanza tende a riferirsi (soltanto) a persone, la rappresentativit
evoca ed esprime una realt pi ampia, fatta pure di circostanze, situazioni, sensibilit, esigenze, attese, prospettive, ecc. Tutto ci che, in
qualche modo, consente di rendere presente non un determinato gruppo di
persone ma unintera realt esistenziale.
La profondit della significatio,
daltra parte, ha il proprio corrispettivo (e presupposto) nella Chiesa
concepita e percepita come mistero e non come semplice realt di fatto
(= la societas bellarminiana o
dello Ius publicum ecclesiasticum
dellOttaviani). il mistero, daltra parte, che si realizza e si celebra
mentre una societas, cos come una
persona giuridica, pu anche essere solo rappresentata. Tanto pi che la reprsentatio-significatio non si d per via di legittimazione formale, al
contrario della reprsentantia.
3.3 Identit
ecclesiale e collegialit
Il tema della hierarchica
communio, per parte propria, era strutturalmente legato (ne costituiva,
anzi, la soluzione) a quello della collegialit, emerso al Vaticano II
in chiave episcopale, e da cui unimmensa letteratura sgorgata negli ultimi
decenni. Molto si preteso dire e pure fare, a livello istituzionale e
giuridico, a partire da questa prospettiva, assumendo il concetto in modo
indubitato ed intraprendendo con immediatezza i vari cicli deduttivi sui quali
si regge ancor oggi parte significativa delle dottrine teologiche ed
istituzionali. Pensieri, proposte ed attivit che non tennero per nulla in
conto che in realt quello episcopale non un Collegium in senso strettamente giuridico! Si legge, infatti, nella
Nota Explicativa Prvia:
Collegium non intelligitur
sensu stricte iuridico, scilicet de ctu qualium, qui potestatem suam Prsidi
suo demandarent, sed de ctu stabili, cuius structura et auctoritas ex
Revelatione deduci debent. Quapropter in responsione ad Modum 12 explicite de Duodecim
dicitur quod Dominus eos constituit ad modum collegii seu ctus stabilis [].
Ob eandem rationem, de Collegio Episcoporum passim etiam adhibentur vocabula Ordo vel Corpus.
Ci rende ordinariamente inadeguato lutilizzo ecclesiale del
linguaggio della collegialit (v. infra) gi a partire dallambito
episcopale, come ben evidenziano le delicate questioni sulla sua effettivit
o mera affettivit che – significativamente – popolano
il linguaggio ecclesiastico degli ultimi decenni, a partire proprio dal Sinodo
dei Vescovi del 1985 sulla recezione del Vaticano II in chiave di communio.
In merito si permetta al giurista – in questa
sede – di offrire un approccio critico a molte (vulgate) trattazioni
in tema di collegialit, in riferimento soprattutto allutilizzo di un suo
presuntissimo principio, ritenuto significativo in campo ecclesiologico
probabilmente – solo – a causa della sua lunga permanenza
nellarmamentario dei canonisti a partire dalla Regula Iuris XXIX di Bonifacio VIII: quod omnes tangit debet ab omnibus approbari. Regula Iuris, si noti, che allinterno del Corpus Iuris canonici non norma, ma supporto strumentale
– questa la natura di quelle proposizioni –
allinterpretazione e soprattutto allapplicazione delle Norme quando, se del
caso, si debba stabilire o valutare il modus
procedendi in occasione di una determinata questione di natura
espressamente collegiale, come tante ce nerano state nel Medio Evo.
Tale criterio – suapte
natura – non mostra alcuna legittimit n fondatezza per la
realt e vita ecclesiale: esso, infatti, fu dato
– originariamente – come Norma dallImperatore Giustiniano, in ambito puramente
privatistico, per gestire la Tutela o Curatela congiunta verso un unico
pupillo, senza alcuna pertinenza, n possibili fondamenti a livello
ecclesiologico. Le questioni espressamente ecclesiali infatti, poich non
riguardano lamministrazione di patrimoni (ubi
non divisa est administratio), non si pongono singulis pro suis partibus vel regionibus ma uti in unum, poich unica la Ecclesia Christi. N si giustifica in alcun modo lassunzione
postuma di tale criterio di formazione della volont collegiale quale principio
ecclesiologico per il semplice fatto circostanziale (per quanto reiterato nei
secoli) di essere stato utilizzato ed invocato nella gestione di molte Universitates bonorum di natura ecclesiastica,
sebbene non sempre espressamente ecclesiale. Nei vari Collegia patrimoniali/beneficiali, infatti (= Capitoli,
Collegiate, ecc.) sia ecclesiastici che laicali, si trattava della gestione di
veri e propri condomni indivisi (= non
divisa est administratio) di natura patrimoniale, amministrati
collegialmente dal loro unico proprietario e titolare: il Collegium, in cui si creava e gestiva la voluntas di tali Universitates,
sia reali che personali. Una regula
che, di fatto, aveva come unico esito concreto lunanimit: ab omnibus adprobari debet in quanto in
tali ambiti la maggioranza non pu prevaricare sul singolo che non sia
disposto a realizzare quanto di sua spettanza o competenza (p.es.: la vendita
della propria quota di partecipazione al condominio indiviso, oppure la
rinuncia alla propria percentuale di rendite patrimoniali).
La questione risalta ancora maggiormente dal punto di vista
ecclesiologico se (e quanto) si considera che – in
realt – il vocabolario della collegialit (episcopale in primis) risulta a tutti gli effetti
di recentissima (ri-)adozione, ma soprattutto consapevolezza, dopo che per
circa tredici secoli (da Nicea a Trento) gli stessi Concili avevano radunato
non tanto la Ecclesia ma la Christianitas, vedendo presenti ed
operanti pi le Nationes (= Partes Imperii nei primi 4 secoli) che
le Ecclesi. Non di meno lartifizio
letterario della collegialit affettiva, che dallanno 1985 presidia il campo
di gioco, ha contribuito a mantenere a distanza
di sicurezza qualunque elemento e forma di collegialit effettiva non
tanto ecclesiale ma anche soltanto episcopale. Elementi tutti che rendono il
principio legale giustinianeo sempre meno probabile quale plausibile assioma
ecclesiologico, esigendo a tuttoggi quella che lEditoriale di Concilium del 1965 chiam
de-giuridizzazione della Teologia.
3.4
Consultare, consigliare e missione ecclesiale
Gli elementi, fattori e ruoli ecclesiologici ed istituzionali sin
qui posti in evidenza al loro stato attuale di configurazione e funzionalit
non vanno tuttavia assolutizzati come se esprimessero – o potessero
esprimere – lintera realt ecclesiale ed ecclesiologica. Va infatti
considerato con attenzione e cautela che lambito di riferimento pi
espressamente giuridico a cui si fatto riferimento – e a cui
ordinariamente ci si riferisce quando si tratta questo genere di
tematiche – non coincide con lEcclesia
come tale e nel suo insieme, ma soltanto con alcune componenti ed espressioni del munus Ecclesi regendi: quello, appunto, delle decisioni
espressamente connesse alla guida della Chiesa, il suo governo.
Una specificazione di questo tipo non pleonastica poich
presuppone un netto cambio di prospettiva ecclesiologica rispetto a quella
tradizionale calcificatasi nel Diritto canonico classico e novum di stampo cristocentrico, consacrata dalle Assise tridentina
e protovaticana. Se, infatti, la Ecclesia
tota rispecchia – e deve rispecchiare, quasi in una seconda
incarnazione – il Christus
totus, allora qualunque sua caratteristica e funzionalit non potr che
essere monolitica e totalizzante In tal modo lirriducibile verticalit del munus sanctificandi (espressione tipica
della c.d. potestas Ordinis) si
trasforma inevitabilmente in gerarchicit
totale a qualunque livello ed in ogni campo. Se, invece, la Ecclesia corpus Christi Capitis
abitata ed animata dallo Spirito santo (secondo linsegnamento del Vaticano II
in continuit con la Teologia neotestamentaria), ogni carisma e ministero ha
una propria parte irrinunciabile allinterno della sinfonia comune, sia della
vita cristiana che della c.d. Pastorale, alla quale il governo ecclesiale
sindirizza, di per s, non con funzione costitutiva ma di supporto ed
armonizzazione delle molteplici risorse che lo Spirito distribuisce tra i
fedeli per lefficacia della missione ecclesiale.