Bilancio canonistico della Decima Giornata canonistica interdisciplinare

Premessa

Il bilancio canonistico (diverso da le conclusioni) dei lavori della Decima Giornata canonistica interdisciplinare (tenutasi nella primavera dellanno 2015, nellintermezzo tra le due Assemblee generali del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia) prende volentieri le proprie mosse da una prima constatazione di carattere non meramente funzionale, e non del tutto scontata: pur con forti riferimenti terminologici ed istituzionali, la riflessione effettuata riuscita a non identificare il tema del consultare e consigliare nella Chiesa con quello della sinodalit tout-court. Losservazione – e pi ancora il fatto in s – riveste per la Canonistica unimportanza di carattere anche epistemologico in ragione delle grandi attenzioni che da molte parti, soprattutto in ambito teologico, si sono attivate negli ultimi tempi nei confronti del Sinodo dei Vescovi in quanto Istituzione ecclesiale maturata attraverso il Concilio Vaticano II per prolungarne, in qualche modo, lo spirito. Sebbene, infatti, termini e temi quali sinodalit e Sinodi (nelle loro pi diverse configurazioni istituzionali) siano stati anche oggetto specifico di ricerca e trattazione da parte di alcuni Relatori della Giornata, allo stesso tempo un certo numero di elementi significativi della riflessione si indirizzato ad altri ambiti della vita e, soprattutto, delle dinamiche intra-ecclesiali; quasi a voler esprimere – e promuovere – la consapevolezza che: 1) non esiste solo lIstituzione Sinodo, 2) una vera sinodalit non compiutamente traducibile in nessuna singola Istituzione (giuridica).

Proprio in questa prospettiva si pu, forse, ritenere che lesito maggiore della riflessione condotta nellevento lateranense possa consistere nel sostanziale ampliamento della semantica consiliare e sinodale sospinta al di l del normale intendimento delle parole, il cui comune utilizzo troppo spesso risulta limitare sia i ragionamenti che le prospettive, soprattutto in campi complessi come quello del consultare e consigliare nella Chiesa. In questottica, allo stesso tempo terminologica e concettuale, pu risaltare con maggior suggestione il fatto che, dal punto di vista linguistico, lInglese non sappia distinguere tra Consiglio e Concilio – e pure Associazione – (= Council); non di meno lo stesso Latino (e le lingue romanze derivate) non fa distinzione tra il consiglio come suggerimento/parere e lOrganismo pluripersonale (in genere istituzionale) che potrebbe offrire tale apporto. Allo stesso tempo: loriginario syn-odos, prima di essere variamente istituzionalizzato, non indicava altro che una strada percorsa insieme.

Le considerazioni e note emerse dai Relatori, insieme ad alcuni elementi di carattere pi generale che si esporranno qui di seguito, ora come sottolineatura ora come rilancio, suggeriscono di cercare ci che caratterizza – e deve caratterizzare – la vita ecclesiale nella linea non principalmente dei meccanismi istituzionali o delle Istituzioni ed istituti giuridici come tali, quanto piuttosto nei modi specifici di gestire la decisionalit comunitaria, cercando di applicare e tutelare il syn/cum quale vero principio, identitario prima che istituzionale.

In tal modo synodus, concilium, ecc. non indicheranno principalmente forme giuridiche immediate ma modalit; allo stesso tempo le decisioni che ne emergeranno, sia singolari che generali, godranno la garanzia della condivisione dei loro presupposti e delle loro finalit, dando corpo alle dinamiche pi autentiche dellecclesialit, ricuperando pienamente ci che stato affermato per la Chiesa antica:

Nella prospettiva della Chiesa primitiva, questo consensus diviene pure unanimitas, intesa non tanto come un modo di prendere una decisione, ma come la forma corretta di intendere la stessa Istituzione ecclesiale, la quale si comporta come una realt nuova, che man mano prende coscienza di essere di pi della somma dei singoli membri (e della loro volont),

sopportando in tal modo – e al contempo integrando – anche esitazioni e dissensi che mantengano viva la vigilanza, sia dello Spirito che degli spiriti, evitando troppo facili concordismi, di dubbio profilo ed autenticit spirituale.

1. Concetti, attivit e modalit

Riflettere in modo espresso sul consultare e consigliare nella Chiesa a partire dai loro presupposti ed in ragione delle loro intrinseche motivazioni e finalit, al di l dellattuale – circostanziale(?) – rilancio di unintensa attivit sinodale di natura e pertinenza espressamente pontificia, costituisce uno stimolo ad approfondire, prima di tutto in campo teologico e pastorale, una riflessione sopita da secoli poich quasi esclusivamente delegata o relegata alle finezze giuridiche ed alle loro necessarie distinzioni tra Istituzioni [a] che portano lo stesso nome ma esprimono realt affatto differenti, oppure [b] che portano nomi diversi ma che realizzano una stessa realt/funzione sostanziale. Non inutilmente, infatti, nella Giornata di studio si scelto di riflettere sulle due forme verbali (= consultare, consigliare) anzich su quelle sostantive (= consultazione, consiglio): proprio per non rimanere intrappolati nelluso comune dei sostantivi, lasciando invece esprimere ai due verbi sia la vis, che la virtus che li caratterizzano, tanto allinterno che al di fuori di tutte e singole le Istituzioni (socio-politiche o ecclesiali) che intendono in qualche modo dar loro corpo e corso. In realt – a ben vedere, e con grande appropriatezza – la Chiesa ha sempre utilizzato il termine celebrazione ed il verbo celebrare sia in riferimento ai Concili che ai Sinodi che ai Capitoli; come anche – in modo eminente – per la Liturgia, in quanto attivit pubblica o di popolo.

Questo, tuttavia, non pare ancora sufficiente, infatti: anche ragionare in termini di consultare e consigliare, non risulta significativamente pi ampio che farlo in termini di consultazione e di consiglio, dovendo prendere atto che luso dei verbi – per propria natura – conserva la presenza strutturale di soggetti ben determinati che attuano una (soltanto) delle due specifiche attivit, riducendo gli altri partecipanti allattivit stessa a sostanziali oggetti (= il Consiglio, il Collegio, la Comunit, ecc.). Occorrerebbe invece approfondire e privilegiare un approccio attento al come tali attivit vengono effettivamente realizzate, ragionando cio in termini di avverbio (= sinodalmente; in modo sinodale). Palesemente, infatti, le distinte attivit di consultare e consigliare mantengono una sorta di bilateralit strutturale: qualcuno che consulta, qualcuno che consultato; qualcuno che consiglia, qualcuno che consigliato; bilateralit che, invece, dovrebbe essere superata proprio in modo altrettanto strutturale: come se consultare e consigliare costituissero due espressioni della stessa modalit operativa. questo, non di meno, che vorrebbero sollecitare le due particelle syn e cum che da due millenni danno corpo e spessore al vasto vocabolario ecclesiale al quale si fatto ricorso durante la riflessione.

La questione non meramente formale n, tanto meno, filologica soltanto, ma pone in risalto la sostanza stessa della problematica, poich qualunque separazione delle due fasi (o movimenti, si direbbe con linguaggio musicale) non riesce, di fatto, a disinnescare la duplicit dei soggetti partecipanti: quella duplicit che li mantiene comunque ad una certa distanza funzionale, pregiudicando radicalmente il syn/cum di cui, invece, si sta progressivamente riscoprendo e valorizzando limportanza espressamente teologica. Proprio questa distanza e bilateralit, tuttavia, sono state colte e formalizzate a livello giuridico nei diversi istituti canonici che vedono laffiancamento o la collaborazione tra unAutorit ecclesiale ed il suo Consiglio i quali, nella quasi totalit delle situazioni previste dai Codici canonici, non lavorano syn/cum, ma soltanto audito riducendo troppo spesso unoriginaria – e costitutiva – dinamica ecclesiale ad una mera formalit giuridica di sola legittimazione anzich di reale fondamento.

Lesperienza socio-antropologica, non di meno, mostra con evidenza come – fuori della Chiesa – esistano Consigli che in realt non consigliano nessuno ma decidono secondo la logica del syn/cum: un Consiglio di Amministrazione, un Consiglio comunale esattamente in assenza di soggetti ed oggetti grammaticali e sintattici, realizzando dinamicamente e relazionalmente unattivit unitaria. Pensare di sottrarsi alla problematica semplicemente evidenziando che, in realt, tali Consigli sono veri Collegi, non risolve il problema – ecclesiologico – di fondo: il come (= syn/cum), cio, del loro operare, indipendentemente dal fatto che il punto di arrivo della loro attivit sia immediatamente esecutivo (quando la decisione collegiale sia soltanto messa in atto dal Rappresentante del Collegio stesso) oppure solo consultivo (quando, cio, la decisione esecutiva devessere presa da un soggetto diverso da tale consesso). Elemento, questo, sul quale troppe riflessioni e teorie, invece, finiscono per arenarsi, in ostaggio ad una falsa dinamica.

Occorre anche prendere in considerazione ci che accade per un certo numero di Consiglieri e Consulenti i quali pure, come accade nel Diritto internazionale, intervengono in modo sostanziale sulle decisioni, sebbene – di per s – possiedano capacit soltanto tecniche (spesso solo negative: non consenso). Tuttavia: proprio questa neutralit riguardo ai fini specifici del decidente costituisce in molte situazioni unautentica garanzia non tanto della forma ma della sostanza stessa delle cose, dovendosi tutelare soggetti (o interessi) terzi rispetto a quelli immediatamente correlati al decidente e, pertanto, estranei alla sua autorit e discrezionalit in relazione alla sua missione/funzione istituzionale (= politica). Una prospettiva, questa, che apre orizzonti anche in materia di rappresentanza e rappresentativit, portando a dover distinguere i modi di rendere presenti, p.es., soggetti o situazioni, cos come di entrare in rapporto con esse (v. infra: 3,2).

2. Istituti giuridici, loro dinamiche e funzionalit

La sostanzialit della questione cos posta (ma non ancora affrontata adeguatamente a 60 anni dal Concilio Vaticano II) chiede un approccio maggiormente consapevole non solo – n tanto – alle Istituzioni e Norme canoniche oggi vigenti, ma ai loro ben pi radicali presupposti ecclesiologici, sia positivi (= ottimalit da perseguire) che negativi (= inautenticit da evitare). Questo, per, sollecita alcune attenzioni operative e concettuali che superino le presunzioni teoretiche ed interpretative di cui rigurgita la dottrina canonica, spesso sullorlo del cortocircuito tra prassi e teoria.

2.1 Norme e dinamiche di consultazione

La prima attenzione – operativa – riguarda le modalit della consultazione che i Codici impongono, p.es., ai Vescovi diocesani (in relazione soprattutto al Consiglio presbiterale): generalmente si tratta di una discussione intorno ad una tematica posta allordine del giorno e che si realizza con un giro di pareri da parte dei soliti (yes man e bastian contrari, di turno), sancito – ben presto – dal cambio dellargomento di trattazione per passare al punto successivo dellordine del giorno. Lasciare che, per qualche decina di minuti, alcuni membri del Consiglio si esprimano pro o contro, nel silenzio generale degli altri, costituisce davvero una consultazione di tale Organismo? Allo stesso modo: chi interviene dicendo la sua offre davvero un/il consilium effettivamente necessario e sostanzialmente esigito dal Diritto? Non sarebbe maggiormente appropriato chiedere al Consiglio come tale di esprimere collegialmente il proprio parere/consilium attraverso la votazione di una o pi mozioni espressamente e motivatamente formulate, cosicch risulti chiaro quale sia il parere/consilium che lOrganismo come tale (e non qualcuno soltanto dei suoi membri) suggerisce di adottare, soprattutto in riferimento alla previsione del Can. 127 2, 2 che pare voler offrire un certo ruolo costitutivo a tale apporto? Va, infatti, considerato che parlare e votare sono attivit differenti e vota anche chi non parla.

Lesempio concreto suindicato offre la possibilit dinterrogarsi sul rapporto tra consultazione e consiliarit ponendo in evidenza come si tratti di due dinamiche che possono risultare anche profondamente diverse sia per quantit e qualit di soggetti coinvolti sia per intensit di relazione con essi e tra di essi: due elementi ecclesiologicamente non privi di significato e valore soprattutto nella prospettiva del syn/cum gi valorizzata. La differenza emerge con chiarezza considerando che la consultazione ormai tipologica a livello di percezione e concezione culturale quella elettorale (statale) in cui, in modo anonimo e puramente statistico, alcune idee o programmi ricevono lapprovazione o il rifiuto da parte di una quantit impersonale di soggetti che, semplicemente, esprimono – in pochi secondi – una propria generica preferenza senza, in realt, alcun rapporto significativo con chi ha proposto la consultazione stessa (spesso: la Legge). La consiliarit, al contrario, si regge su piccoli numeri di partecipanti e sui rapporti corti della conoscenza personale diretta, sia con chi d avvio al suo dinamismo, sia con la maggior parte di coloro che ne partecipano, finendo per sviluppare una vera dinamica almeno comunitaria, se non propriamente comunionale. Realizzare una consultazione (casomai di massa) o far lavorare un Consiglio non sono attivit equivalenti!

La disparit sostanziale tra le due dinamiche trova ulteriori evidenze – almeno per lambito ecclesiologicamente e canonicamente rilevante – nel considerare che la consultazione, in quanto rapporto generalmente lungo ed indiretto, di solito non genera n sinodalit n comunione, caratterizzandosi quasi strutturalmente in modo unidirezionale (dai consultati al consultante) in un rapporto che assume ordinariamente due connotazioni: 1) quella del mero consenso (accordato o negato), oppure 2) quella della raccolta indifferenziata di informazioni, desideri, valutazioni, ecc.

Di tuttaltro profilo qualitativo si presenta, invece, il riunirsi insieme dei membri di un Consilio (al di l della sua denominazione istituzionale) per ragionare e confrontarsi, spesso in modo del tutto paritario (= syn/cum), su tematiche di comune conoscenza – e non solo interesse individuale o pertinenza istituzionale –, senza che in nulla rilevi il fatto che – eventualmente – alla fine si debba o meno assumere una comune decisione operativa. Alla differenza qualitativa tra le due modalit concorrono anche le componenti spazio-temporali che, mentre risultano (spesso in modo problematico dal punto di vista organizzativo) costitutive per lattivit di un Consiglio (legittimato ad operare solo se presente nella dovuta maggioranza dei membri), non lo sono invece per la maggior parte delle attivit consultive: queste, infatti, possono essere svolte nelle modalit pi diverse sia nello spazio che nel tempo, spesso senzalcuna interazione con nessun altro dei partecipanti alla stessa attivit, stratificando anche vota non riguardanti le stesse res (eventualmente mutate nello scorrere del tempo o radicalmente diverse da un luogo allaltro).

2.2 Consultivit e decisionalit

Innanzi agli elementi differenziali – ed irriducibili – che caratterizzano consultazione e consiliarit, linteresse concreto del canonista attento alleffettiva corrispondenza che deve intercorrere tra i fondamenti e gli istituti giuridici (e le Norme) che ne derivano, non pu sfuggire alla successiva domanda circa lidentificabilit in senso propriamente giuridico tra consultazione, nelle sue differenti forme, e voto consultivo: una problematica che sinsinua anche a livello normativo canonico laddove, un esempio per molti altri, il Can. 127 impone che il collegio o il gruppo debba essere ritualmente convocato anche quando si tratti di richiedere soltanto il consiglio (salvo che non sia stato disposto altrimenti dal Diritto particolare o proprio), ammettendo tuttavia che nel caso venga richiesto il consenso, sia necessario il voto della maggioranza assoluta dellOrganismo riunito per la consultazione oppure (= aut), pi nebulosamente, che omnium exquiratur consilium. Di pari problematicit fondativa risult anche la questione – esattamente sullo stesso Canone – circa lappartenenza o meno del Superiore religioso al proprio Consiglio nel caso in cui si trattasse di accordare un consenso alla propria richiesta: questione su cui la Commissione interprete si espresse negativamente nel 1985.

In merito va osservato come la dottrina, anche recente, abbia utilizzato con una certa disinvoltura la terminologia, parlando indifferentemente di [a] Organismi di consultazione, di [b] consultazione tout-court e di [c] voto consultivo, senza particolari attenzioni critiche verso questioni apparentemente soltanto filologiche, finendo altres per non far risaltare in nulla (e, forse, neppure accorgersi) che lo stesso Organismo pu svolgere funzioni assolutamente differenti pur senza mutare in nulla la propria natura n la propria operativit: come accade per il Collegio dei Consultori o il Consiglio diocesano per gli affari economici quando siano chiamati ad esprimere un parere anzich un consenso. Concretamente: 1) un Organismo che deve rilasciare un vero e proprio consenso ad validitatem pu essere definito Organismo di consultazione? 2) La richiesta di un consenso, pu accontentarsi del solo voto finale dellOrganismo di cui si tratta, prescindendo dalle motivazioni emerse nel dialogo tra (o con) i suoi membri? La audizione (= audito/a) di tali Organismi consiste nella – necessaria – presenza ed attivit dellAutorit allinterno del dialogo tra i suoi membri, oppure ne sono sufficienti le eventuali conclusioni o il solo Verbale? 3) Il fatto che si tratti di un apporto non vincolante e, pertanto, solo consultivo pu ridurre lattivit dellAutorit alla sola richiesta del voto tendenzialmente favorevole oppure critico nei confronti della richiesta effettuata, casomai tramite altri, senza interessarsi alle discussioni e motivazioni sottostanti?

In altri termini: quanto e come la – mera – natura consultiva dellintervento di un Organismo ecclesiale pu o deve condizionare le modalit del suo coinvolgimento e la qualit del suo apporto? Quanto e come ci pu o deve ricadere sulla dinamica e le modalit dellattivit stessa?

Non di meno: la natura/funzione consultiva anzich deliberativa di un apporto ne legittima [a] la scarsa qualit e/o [b] la sostanziale irrilevanza ai fini della decisione finale?

Si permetta, in merito, di osservare come anche un parere vincolante, collocato nella fase costruttiva e non in quella deliberativa di una decisione, possa condizionarla in modo sostanziale, pur senza partecipare attivamente della sua assunzione. Tale apporto infatti, pur non esprimendo potest n indicando specifici esiti da perseguire (espressioni tipiche e peculiari del governo propriamente inteso), non rimane affatto esterno dalla decisione in oggetto, partecipando invece a renderla pi razionale o fondata o sostenibile proprio in ragione degli specifici contenuti di cui esso stesso si fatto portatore (in quanto parere) e garante (in quanto vincolante). Si pensi a cosa potrebbe accadere a livello ecclesiale qualora i livelli maggiormente significativi di consultivit potessero (o dovessero) esprimersi anche soltanto a questo livello, indirizzando – seppure solo tecnicamente – le decisioni delle Autorit personali (come sono quelle gerarchiche).

Nella stessa prospettiva: pure un semplice nulla osta rilasciato da un Ufficio (tecnico) o da un Organismo consultivo assume la medesima funzione, che e rimane dichiarativa e non costitutiva, ma pu offrire supporto e conforto (= rationabilitas) alla scelta da effettuare, oppure ostacolarla.

Le ricadute espressamente normative del significato e valore concretamente attribuito alle istanze cos esposte sono di palmare evidenza. Proprio per non fare sconti n teoretici n istituzionali, ci si chieda: quali possono essere i presupposti per cui, a norma del Can. 344, 5, il Papa pu – per Legge – far presiedere ad un altro lAssemblea del Sinodo dei Vescovi? Basta la natura c.d. consultiva di tale Istituzione centrale della Chiesa a giustificarne la non necessaria presidenza, e quindi anche lassenza?

La stessa questione, nonostante il sostanziale parallelo tra i Cann. 338 e 344, non si pone invece – oggi – per il Concilio ecumenico, poich non si tratta di attivit di natura consiliare n consultiva (rispetto al romano Pontefice) ma di evento a cui il Collegio episcopale (impropriamente detto: v. infra: 3,3), sub Petro et cum Petro, d vita quale propria peculiare espressione, configurando identit e valore ecclesiologici completamente diversi tra le due Istituzioni. In passato tra laltro, in vigenza di altre Ecclesiologie, la maggior parte dei Concili non-romani non vide il Pontefice presente di persona ma solo attraverso propri Legati, incaricati pure di presiederli, come fu anche a Trento.

3. Identit ecclesiale, partecipazione e collegialit

3.1 Identit ecclesiale e partecipazione

Oltre allincerto vocabolario della consultazione, la dottrina istituzionale degli ultimi decenni ha utilizzato anche quello della partecipazione, ritenendolo maggiormente adeguato alla natura e dinamica ecclesiale: essere consultati e partecipare non , infatti, la stessa cosa. Molte istanze post-conciliari, daltra parte, si erano indirizzate in chiave di sostanziale orizzontalit ecclesiologica ed istituzionale: le questioni che hanno portato al declassamento della categoria di Popolo di Dio proprio a causa dellorizzontalismo che aveva contraddistinto troppe sue interpretazioni (ed applicazioni) ne danno triste testimonianza. Il paradigma (a suo modo) conciliare della hierarchica communio, per contro, aveva sembrato offrire maggiori spazi di manovra – bilaterale – a seconda dellelemento su cui cadeva laccento di ciascuno: la gerarchicit della Chiesa, oppure la sua comunionalit. La necessit di correggere ancora una volta il tiro attraverso lintervento della Congregazione per la dottrina della fede con la Nota Communionis Notio (a soli otto anni dalla proclamazione della communio quale chiave ermeneutica del Concilio) rese visibile, non di meno, come neppure il principio comunionale (seppur trattenuto entro un contesto gerarchico) poteva essere utilizzato troppo intensivamente a livello ecclesiologico generale, dovendosi saldamente mantenere la preminenza dellelemento verticale (inteso in senso spirituale, ben prima che gerarchico) da cui la Chiesa stessa continua a trarre la propria origine ed identit.

Il quadro concettuale va arricchito considerando pure che negli anni 60-70 del Novecento (= limmediato post-Concilio) si era progressivamente sviluppato nel mondo occidentale (extra-ecclesiale) il linguaggio partecipativo, apparentemente poco pretenzioso dal punto di vista teologico-dogmatico, ma con ricadute istituzionali di grande portata: la partecipazione, infatti, significa e richiede presenza, o almeno rappresentanza e, conseguentemente, democrazia Ambiti semantici completamente estranei a quelli che al tempo allarmavano lEcclesiologia (magisteriale), ma che, ecclesiologicamente e canonicamente, inducevano le stesse conseguenze sulla struttura e funzionalit espressamente gerarchiche della Chiesa che, attraverso tali categorie, venivano di fatto raggirate. Al di l dei discorsi, infatti, si ricadeva nelle questioni gi illustrate dal punto di vista istituzionale-giuridico: che partecipazione sarebbe quella solo consultiva? davvero partecipazione quella che non pu decidere?

Per quanto – qui giunti – sia forte la sensazione che molte categorie concettuali extra-ecclesiali (abitualmente adottate anche in ambito teologico ed istituzionale) non siano in grado di offrire alla vita della Chiesa apporti realmente utili, non di meno la riflessione condotta per un decennio attraverso le Giornate canonistiche interdisciplinari offre prospettive che, pur indirette – o forse proprio perch tali –, permettono di dare correttamente corpo e spessore a quanto riguarda le concrete modalit di prendere decisioni, sia dindirizzo che esecutive, senza nascondersi dietro a categorie ancora troppo poco delineabili quali la sinodalit: quanto ricade negli ambiti concettuali ed operativi del discernimento e della corresponsabilit cui gi le Giornate canonistiche interdisciplinari hanno dedicato spazio.

Discernere, infatti, non si riduce mai n al chiedere n al dare consigli, e tanto meno al collezionare informazioni o pareri per poi fare di testa propria. La corresponsabilit, per parte propria, costituisce lesercizio attivo di un munus (= dono e compito) condiviso, diverso dal semplice bene comune: si tratta infatti della comune dedizione – anzich richiesta – allo stesso scopo, in modo che ciascuno apporti qualcosa in vista dellesito finale. Una responsabilit – attiva – che chiede a tutti e ciascuno: E tu cosa fai? Qual il tuo contributo alla causa?

3.2 Identit ecclesiale e rappresentativit

Lattenzione alla partecipazione – come gi accennato – comporta inevitabilmente la considerazione da attribuirsi ad un altro fattore variamente coinvolto nelle tematiche illustrate: quello della rappresentanza, postosi nella riflessione a vari livelli ed in riferimento a problematiche piuttosto diversificate. Buona parte della problematicit del tema, in realt, pare derivare dallinsufficienza della terminologia comunemente utilizzata in ambito giuridico principalmente per il fatto che ormai la rappresentanza si imposta a livello culturale generale in concreta dipendenza dalla natura elettiva o deliberativa della maggior parte delle consultazioni o votazioni attraverso cui si fanno operare gli strumenti della c.d. democrazia. Un utilizzo di strumenti, Istituzioni e concetti che ne hanno acquisito – almeno al comune sentire e pensare – la mera dimensione numerica anzich qualitativa, rischiando anche in ambito ecclesiale lassunzione di concezioni e condotte meramente statistiche, da una parte, e di sostanziale disimpegno, dallaltra, poich tutto si riduce al mettere ai voti persone o richieste.

Listanza ecclesiologica di riferimento (e fondamento) per il tema potrebbe essere invece la meno abusata e, pertanto, meno ambigua significatio: il rapporto, cio, che realizza la verit teologica della realt di cui si tratta come avviene in modo eminente nei Sacramenti, i quali, lungi dal rappresentare (in senso partecipativo) la realt teologica di cui sono portatori, la realizzano (in senso performativo e sostanziale), entro uno spazio semantico e concettuale in cui reprsentatio e significatio risultano due sfaccettature – molto prossime – della stessa realt e dinamica.

Cedere la reprsentatio a vantaggio della significatio porterebbe conseguenze giuridiche di grande importanza poich permetterebbe di realizzare ulteriori bonifiche del vocabolario giuridico-istituzionale canonico rimodulando, p.es., i modi (e le rationes) in cui i Vescovi rappresentano le Chiese di cui sono Pastori, analogamente – mutatis mutandis – per il rapporto tra Parroci e Parrocchie loro affidate, non senza evidenziare palesi problematicit, p.es., dei Cann. 393 e 532, proprio in riferimento semantico a tal genere di rappresentanza che, se pur sensata per quanto riguarda le persone giuridiche come tali, non altrettanto appare per i soggetti ecclesiali propriamente intesi: la Portio Populi Dei (cfr. Can. 369) o la Communitas Christifidelium (cfr. Can. 515) di cui si tratta.

La dinamica reprsentatio-significatio, non di meno, coinvolge espressamente, sebbene ci non sembri generalmente intuito, molte delle circostanze ed istituti giuridici ed Istituzioni che vedono il concorrere dei Vescovi diocesani: dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa universale, alle Conferenze episcopali, ai Concili plenari, fino ai Sinodi diocesani realt, tutte, in cui – palesemente – le comuni concettualizzazioni della rappresentanza si mostrano gravemente insufficienti.

Indubbiamente pi vicina alla significatio si mostra la rappresentativit, nella quale (come pure nellopposizione autorit-autorevolezza) lelemento formale (ed, eventualmente, numerico) deve cedere il passo a quello sostanziale, sebbene – eventualmente – antistatistico, come fu a lungo nella Chiesa medioevale per la c.d. sanior pars, pur allinterno di Istituzioni espressamente collegiali. Mentre, infatti, la rappresentanza tende a riferirsi (soltanto) a persone, la rappresentativit evoca ed esprime una realt pi ampia, fatta pure di circostanze, situazioni, sensibilit, esigenze, attese, prospettive, ecc. Tutto ci che, in qualche modo, consente di rendere presente non un determinato gruppo di persone ma unintera realt esistenziale. La profondit della significatio, daltra parte, ha il proprio corrispettivo (e presupposto) nella Chiesa concepita e percepita come mistero e non come semplice realt di fatto (= la societas bellarminiana o dello Ius publicum ecclesiasticum dellOttaviani). il mistero, daltra parte, che si realizza e si celebra mentre una societas, cos come una persona giuridica, pu anche essere solo rappresentata. Tanto pi che la reprsentatio-significatio non si d per via di legittimazione formale, al contrario della reprsentantia.

3.3 Identit ecclesiale e collegialit

Il tema della hierarchica communio, per parte propria, era strutturalmente legato (ne costituiva, anzi, la soluzione) a quello della collegialit, emerso al Vaticano II in chiave episcopale, e da cui unimmensa letteratura sgorgata negli ultimi decenni. Molto si preteso dire e pure fare, a livello istituzionale e giuridico, a partire da questa prospettiva, assumendo il concetto in modo indubitato ed intraprendendo con immediatezza i vari cicli deduttivi sui quali si regge ancor oggi parte significativa delle dottrine teologiche ed istituzionali. Pensieri, proposte ed attivit che non tennero per nulla in conto che in realt quello episcopale non un Collegium in senso strettamente giuridico! Si legge, infatti, nella Nota Explicativa Prvia:

Collegium non intelligitur sensu stricte iuridico, scilicet de ctu qualium, qui potestatem suam Prsidi suo demandarent, sed de ctu stabili, cuius structura et auctoritas ex Revelatione deduci debent. Quapropter in responsione ad Modum 12 explicite de Duodecim dicitur quod Dominus eos constituit ad modum collegii seu ctus stabilis []. Ob eandem rationem, de Collegio Episcoporum passim etiam adhibentur vocabula Ordo vel Corpus.

Ci rende ordinariamente inadeguato lutilizzo ecclesiale del linguaggio della collegialit (v. infra) gi a partire dallambito episcopale, come ben evidenziano le delicate questioni sulla sua effettivit o mera affettivit che – significativamente – popolano il linguaggio ecclesiastico degli ultimi decenni, a partire proprio dal Sinodo dei Vescovi del 1985 sulla recezione del Vaticano II in chiave di communio.

In merito si permetta al giurista – in questa sede – di offrire un approccio critico a molte (vulgate) trattazioni in tema di collegialit, in riferimento soprattutto allutilizzo di un suo presuntissimo principio, ritenuto significativo in campo ecclesiologico probabilmente – solo – a causa della sua lunga permanenza nellarmamentario dei canonisti a partire dalla Regula Iuris XXIX di Bonifacio VIII: quod omnes tangit debet ab omnibus approbari. Regula Iuris, si noti, che allinterno del Corpus Iuris canonici non norma, ma supporto strumentale – questa la natura di quelle proposizioni – allinterpretazione e soprattutto allapplicazione delle Norme quando, se del caso, si debba stabilire o valutare il modus procedendi in occasione di una determinata questione di natura espressamente collegiale, come tante ce nerano state nel Medio Evo.

Tale criterio – suapte natura – non mostra alcuna legittimit n fondatezza per la realt e vita ecclesiale: esso, infatti, fu dato – originariamente – come Norma dallImperatore Giustiniano, in ambito puramente privatistico, per gestire la Tutela o Curatela congiunta verso un unico pupillo, senza alcuna pertinenza, n possibili fondamenti a livello ecclesiologico. Le questioni espressamente ecclesiali infatti, poich non riguardano lamministrazione di patrimoni (ubi non divisa est administratio), non si pongono singulis pro suis partibus vel regionibus ma uti in unum, poich unica la Ecclesia Christi. N si giustifica in alcun modo lassunzione postuma di tale criterio di formazione della volont collegiale quale principio ecclesiologico per il semplice fatto circostanziale (per quanto reiterato nei secoli) di essere stato utilizzato ed invocato nella gestione di molte Universitates bonorum di natura ecclesiastica, sebbene non sempre espressamente ecclesiale. Nei vari Collegia patrimoniali/beneficiali, infatti (= Capitoli, Collegiate, ecc.) sia ecclesiastici che laicali, si trattava della gestione di veri e propri condomni indivisi (= non divisa est administratio) di natura patrimoniale, amministrati collegialmente dal loro unico proprietario e titolare: il Collegium, in cui si creava e gestiva la voluntas di tali Universitates, sia reali che personali. Una regula che, di fatto, aveva come unico esito concreto lunanimit: ab omnibus adprobari debet in quanto in tali ambiti la maggioranza non pu prevaricare sul singolo che non sia disposto a realizzare quanto di sua spettanza o competenza (p.es.: la vendita della propria quota di partecipazione al condominio indiviso, oppure la rinuncia alla propria percentuale di rendite patrimoniali).

La questione risalta ancora maggiormente dal punto di vista ecclesiologico se (e quanto) si considera che – in realt – il vocabolario della collegialit (episcopale in primis) risulta a tutti gli effetti di recentissima (ri-)adozione, ma soprattutto consapevolezza, dopo che per circa tredici secoli (da Nicea a Trento) gli stessi Concili avevano radunato non tanto la Ecclesia ma la Christianitas, vedendo presenti ed operanti pi le Nationes (= Partes Imperii nei primi 4 secoli) che le Ecclesi. Non di meno lartifizio letterario della collegialit affettiva, che dallanno 1985 presidia il campo di gioco, ha contribuito a mantenere a distanza di sicurezza qualunque elemento e forma di collegialit effettiva non tanto ecclesiale ma anche soltanto episcopale. Elementi tutti che rendono il principio legale giustinianeo sempre meno probabile quale plausibile assioma ecclesiologico, esigendo a tuttoggi quella che lEditoriale di Concilium del 1965 chiam de-giuridizzazione della Teologia.

3.4 Consultare, consigliare e missione ecclesiale

Gli elementi, fattori e ruoli ecclesiologici ed istituzionali sin qui posti in evidenza al loro stato attuale di configurazione e funzionalit non vanno tuttavia assolutizzati come se esprimessero – o potessero esprimere – lintera realt ecclesiale ed ecclesiologica. Va infatti considerato con attenzione e cautela che lambito di riferimento pi espressamente giuridico a cui si fatto riferimento – e a cui ordinariamente ci si riferisce quando si tratta questo genere di tematiche – non coincide con lEcclesia come tale e nel suo insieme, ma soltanto con alcune componenti ed espressioni del munus Ecclesi regendi: quello, appunto, delle decisioni espressamente connesse alla guida della Chiesa, il suo governo.

Una specificazione di questo tipo non pleonastica poich presuppone un netto cambio di prospettiva ecclesiologica rispetto a quella tradizionale calcificatasi nel Diritto canonico classico e novum di stampo cristocentrico, consacrata dalle Assise tridentina e protovaticana. Se, infatti, la Ecclesia tota rispecchia – e deve rispecchiare, quasi in una seconda incarnazione – il Christus totus, allora qualunque sua caratteristica e funzionalit non potr che essere monolitica e totalizzante In tal modo lirriducibile verticalit del munus sanctificandi (espressione tipica della c.d. potestas Ordinis) si trasforma inevitabilmente in gerarchicit totale a qualunque livello ed in ogni campo. Se, invece, la Ecclesia corpus Christi Capitis abitata ed animata dallo Spirito santo (secondo linsegnamento del Vaticano II in continuit con la Teologia neotestamentaria), ogni carisma e ministero ha una propria parte irrinunciabile allinterno della sinfonia comune, sia della vita cristiana che della c.d. Pastorale, alla quale il governo ecclesiale sindirizza, di per s, non con funzione costitutiva ma di supporto ed armonizzazione delle molteplici risorse che lo Spirito distribuisce tra i fedeli per lefficacia della missione ecclesiale.


in: APOLLINARIS, LXXXIX (2016), 609-628