Prospettive epistemologiche per un rinnovato approccio al Diritto amministrativo canonico

1. Nuove circostanze e necessità di approccio Il Diritto amministrativo della Chiesa cattolica sta vivendo negli ultimi anni una fase di rinnovata attenzione sia da parte del mondo canonistico (si pensi al Congresso internazionale di Diritto canonico di Varsavia nel 2011) che di quello giuridico più generale, come risulta anche da un certo numero d’interessamenti alla sua comparazione con il Diritto amministrativo civile, sia statale che “globale”, emergente sia in iniziative internazionali di ricerca che in altre occasioni, più puntuali, di riflessione e confronto.

I tempi appaiono ormai maturi per sollecitare all’interno della Canonistica una maggiore attenzione e consapevolezza circa la specificità del Diritto amministravo della Chiesa rispetto alle declinazioni che di tale ambito normativo ed operativo hanno effettuato gli Ordinamenti civili – presi troppo spesso come modello ispiratore – rispondendo in tal modo ad una duplice necessità: 1) quella di una migliore individuazione dell’ambito di vita ecclesiale oggetto di tale branca del Diritto canonico, 2) quella di un suo più consapevole approccio metodologico che possa anche, eventualmente, sorreggerne una più adeguata concezione e più compiuta sistematizzazione scientifica. Non di meno, uno sguardo attento coglie come queste siano anche le istanze portanti della più ampia riflessione epistemologica in corso in quest’area giuridica generale, entro la quale la comparazione inter-ordinamentale e le consapevolezze che sorgono soprattutto in riferimento alla dimensione “globale” che il Diritto amministrativo sta progressivamente assumendo in contesti politico-giuridici sempre più diversi dallo Stato ottocentesco che lo aveva – originariamente – generato (vedasi, oggi, l’Unione Europea), hanno progressivamente smosso la riflessione.

La questione costituisce anche uno degli assi portanti della riflessione amministrativistica contemporanea in campo civile, come ben dimostrano iniziative di ampio respiro quali: 1) l’articolazione di una “nuova Scienza del Diritto amministrativo” (= neue Verwaltungsrechtswissenschaft) emersa dalla dottrina amministrativistica statale tedesca dell’ultimo quarto di secolo; 2) il passaggio dallo studio del Diritto sulla Pubblica Amministrazione allo studio del Diritto prodotto dalla stessa Pubblica Amministrazione, sollecitato in Italia soprattutto dalla riflessione di Sabino Cassese e della “scuola” di pensiero che gli fa capo. Due linee di riflessione giuspublicistica che, in realtà, non paiono distanziarsi molto da quanto già teorizzato in riferimento al Diritto in sé e per sé nella dottrina statunitense nota come “realismo giuridico”, attraverso la presa di coscienza della tensione – di fatto strutturale – tra “Law in the books” e “Law in action”: una tensione tanto più viva in ambito amministrativistico a causa del prevalere quasi totalizzante della prassi (soprattutto: il Procedimento) rispetto alla norma (che, civilisticamente, prevede quasi esclusivamente la Procedura). Ciò in cui consiste il nuovo approccio anche teoretico al Diritto amministrativo inteso come attività anziché come applicazione, come efficacia anziché come tutela, come fisiologia anziché come patologia, come governo responsabile anziché come responsabilità del governo: administration in action anziché administration in the Law.

In questa stessa linea si svilupperanno anche le, poco più che iniziali, riflessioni che seguono in ambito espressamente canonico, tenendo conto che, per loro natura, le istanze epistemologiche tendono a maturare a partire dalle questioni metodologiche più radicali.

2. Metodo e Diritto amministrativo canonico 2.1 Un primo avvicinamento L’individuazione e messa a punto del corretto metodo da utilizzare per lo studio del Diritto amministrativo, sia canonico che civile (sia statale che globale), non può prescindere oggi da alcune consapevolezze ed acquisizioni previe riguardanti il Diritto come tale, la sua natura ed il suo rapporto con la vita giuridica dei diversi Ordinamenti in cui esso si genera ed opera. In tale prospettiva va considerata la necessità di «concepire il Diritto come una Scienza sociale viva e non come un insieme di prescrizioni e dicta e, soprattutto, nello spirito critico e lungimirante che da sempre anima la sua attività scientifica»; tanto più che «il Diritto non è un insieme di proposizioni normative, ma un coacervo di norme, istituzioni, consuetudini, prassi» che, tutte insieme – e spesso non senza evidenti contraddizioni –, danno corpo all’attività giuridica che solo per comodità – e semplicisticamente – viene chiamata “Diritto”, come se si trattasse davvero di “qualcosa” (= una res) e non – soltanto – di una complessa dinamica relazionale.

Con questa identità e consistenza dell’oggetto di studio deve fare i conti la concezione stessa del metodo da utilizzare in tale attività: esso, infatti, dev’essere adeguato e proporzionato all’oggetto d’applicazione, com’è stato sagacemente scritto: «non si può con una scavatrice fare tenere carezze […] non si può neppure ripulire il fondo dell’Arno con sensibili polpastrelli», poiché «ogni tipo di strumento ha un suo sensato ambito di utilizzazione».

Non di meno: il mondo scientifico attuale non potrebbe accettare la proposta di uno statuto epistemologico per una Disciplina scientifica privo di un’adeguata – e coerente – impostazione e proposta metodologica che ne permetta il concreto utilizzo e l’applicazione, almeno di principio. È in quest’ottica, pertanto, che diventa necessario che «la pratica amministrativa (la si chiami come si vuole: esperienza, prassi, normazione interna, condotta amministrativa – anche se ognuno di questi termini ha significati diversi) sia al centro della riflessione giuridica, non sia messa da parte come fatto puramente sociale o fattuale, rilevante per sociologi, politologi, cultori di Scienza dell’amministrazione».

Una tale consapevolezza pone immediatamente in evidenza che «il primo grande applicatore di Diritto è il potere esecutivo, l’Amministrazione. E, poi, va considerata anche la società, che è a sua volta un applicatore-creatore di Diritto», «il Diritto amministrativo si forma dal basso, in base ad esperienze e correzioni, interpretate dagli Uffici, anche se poi regole, procedure e princìpi finiscono in Leggi». È questo il motivo per cui «lo studioso di Diritto amministrativo dovrebbe conoscere e studiare le pratiche amministrative, che sono il vero Diritto amministrativo, senza lasciarle come patrimonio proprio alla Scienza dell’amministrazione».

Va pertanto criticata, già a partire dall’ambito civile, «l’erronea impostazione secondo la quale il Diritto amministrativo è il Diritto sull’Amministrazione (le Leggi che la riguardano), e non anche il Diritto dell’Amministrazione. [...] Si dimentica la “potenza legiferatrice della burocrazia”. Si tralasciano le Circolari, le prassi, le interpretazioni amministrative, l’uso dei tempi fatto dagli Apparati».

Allo stesso modo: il Diritto amministrativo “legislativo”, che ha fatto a lungo la parte del leone intorno al fulcro della “legittimità” derivante dal principio di legalità (più o meno assoluta), oggi non risulta più sufficiente né a delineare, né a comprendere quanto davvero dev’essere ricondotto al Diritto amministrativo realmente posto in essere all’interno della vita sociale. Non di meno: «la terra incognita è il Diritto amministrativo dell’Amministrazione stessa. Finché non lo studieremo, conosceremo ciò che si dice dell’Amministrazione, non ciò che è davvero amministrazione. C’è un grande vuoto culturale e politico da riempire. Ci sono regole, stili, consuetudini, prassi da studiare».

La proposta di Cassese, così sommariamente richiamata, di parlare di Diritto amministrativo come Diritto della “amministrazione-attività” nel senso del Diritto che viene generato dall’attività amministrativa, e non in quello prodotto dal Legislatore che ha l’Amministrazione-soggetto come suo destinatario, risulta coerente con lo statuto epistemologico già individuato per il Diritto amministrativo canonico come «l’insieme (e lo studio) delle norme che regolano l’efficace attività giuridica dei fedeli secondo la loro collocazione istituzionale nella Chiesa (= status, ruoli e funzioni)», all’interno della prospettiva istituzional-personalista.

A questo si aggiunga un’ulteriore consapevolezza – tanto più necessaria per il Diritto amministrativo canonico – rispetto alla forte tendenza emulatoria e modellativa dimostrata dalla dottrina canonistica del secondo Novecento circa il concetto unitario di (Pubblica) Amministrazione, propria dello Stato: un’idea che, anche civilisticamente, risulta «un’idea sbagliata, perché in quella che chiamiamo Amministrazione vi sono numerose componenti, un corpo di almeno un migliaio di funzionari politici, quelli che scrivono le Leggi e preparano le politiche; un numero di poco più ampio di alti amministratori, che prendono le decisioni; un’arca intermedia, servente; infine, una base di esecutori».

2.2 Diritto amministrativo canonico e sue “sedi” Quanto rimarcato in ambito amministrativistico generale a riguardo del nuovo sguardo da assumere per uscire dall’empasse dottrinale e sistematico di una mera Scienza delle norme sull’Amministrazione-soggetto (e la derivata dialettica tra Atto amministrativo e Contenzioso amministrativo che ne caratterizzerebbero l’attività) chiede concretamente di spostare l’attenzione dagli istituti (e princìpi) del Diritto amministrativo alle sue sedi di concreto esercizio. Sono, infatti, le “sedi” d’esercizio dell’attività amministrativa le fucine che forgiano e temprano il Diritto amministrativo, permettendo d’individuarne sia il vero oggetto che le concrete modalità.

Principalmente dalla concreta individuazione della sede tipica di esercizio del Diritto amministrativo canonico dipenderà pertanto la sua stessa individuazione e, di conseguenza, il corretto metodo da utilizzare per il suo studio e la sua sistematizzazione. Partire dal “dove” (= ubi sit) invece che dal “cosa” (= quid sit) è una necessità obbligata in quanto – come la dottrina e la Scienza contemporanee evidenziano ampiamente – il Diritto amministrativo canonico non gode ancora di un condiviso statuto epistemologico circa il suo oggetto. Non di meno: è già stato possibile rendersi ampiamente conto che proprio la sede d’esercizio costituisce il discriminante sostanziale delle “Epistemologie” tra cui continua il confronto.

La questione, in termini di sede dell’attività amministrativa, si pone sostanzialmente tra il Tribunale (sede pressoché esclusiva secondo la dottrina e Scienza dominanti) e la Curia (sede prevalente secondo la presente proposta teoretica), senza poter tuttavia affermare – né voler lasciare intendere – che una sede escluda l’altra: non si tratta, infatti, di “esclusività” della sede ma di sua “tipicità”. D’altra parte: se non si può trascurare come, in modo pressoché universale, il nucleo originario di condensazione ed evoluzione del Diritto amministrativo in sé e per sé sia stato proprio il Tribunale amministrativo, allo stesso tempo non si può disconoscere che a tale sede arrivavano le questioni sorte non nella vita quotidiana tra i cittadini (come accade per il Tribunale civile o penale) ma dall’esercizio dell’attività pubblica/istituzionale degli Organi o Uffici di governo. Anche in questo, nonostante le marcate differenze costituzionali che intercorrono tra Ordinamento canonico ed Ordinamenti civili, l’approccio epistemologico non presenta reali difficoltà d’impostazione.

2.2.1 Il Tribunale Che l’elemento fontale per la nascita del Diritto amministrativo canonico, così come oggi conosciuto e recepito, sia stata la costituzione della “Sectio Altera” del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica ad opera di Paolo VI nell’agosto del 1967 non è discusso né discutibile. La creazione di una “giurisdizione” speciale in grado di giudicare l’applicazione della Legge da parte dei supremi Organi di governo della Chiesa cattolica (= i Dicasteri della Curia Romana) si presentò allora come una vera rivoluzione, dopo che Pio X – attraverso il Codex – aveva “ridotto” ogni questione di governo ecclesiale a semplice “affaire” di Curia visto che, secondo il Can. 1601 del CIC-17, «contra Ordinariorum Decreta non datur Appellatio seu Recursus ad Sacram Rotam; sed de eiusmodi Recursibus exclusive cognoscunt Sacræ Congregationes». Cinquant’anni di centralizzazione autoritaria in cui si decideva ratione auctoritatis, senza discutere né verificare ratione Iudicii, avevano ben mostrato la grave insufficienza della prassi codiciale rimasta in vigore fino al Codice oggi vigente, e da questo stesso in qualche modo rilanciata (sic) attraverso il deferimento delle questioni al “Superiore”, operato dal Can. 1400 §2, erede formale e sostanziale del precedente Can. 1601 del CIC-17.

L’idea e la prospettiva che le Congregazioni romane potessero essere convenute e giudicate nella loro applicazione della Legge indusse vasti ambiti dottrinali, soprattutto ecclesiasticistici italiani e spagnoli, a “modellare” – in quegli anni – un Diritto amministrativo canonico (ancora pressoché inesistente) partendo dall’ormai secolare esperienza civilistica che aveva visto nascere Tribunali amministrativi e Consigli di Stato per giudicare l’Amministrazione-soggetto nei suoi rapporti coi cittadini. Altrettanto si pensò e si disse dopo quell’agosto 1967 (per quanto non in modo sempre preciso e tecnicamente consapevole), al punto d’inserire tali idee nel Settimo Principio per la revisione codiciale proposto dai Consultori al Sinodo del Vescovi del successivo settembre e da questo approvato nella sua richiesta/previsione di creare anche nella Chiesa veri Tribunali amministrativi. La dottrina s’impegnò prontamente, allora, nell’importazione dal civile al canonico di concetti, sistematiche, Procedure ed istituti giuridici del coevo Diritto amministrativo statale, con particolare attenzione all’attività giudiziale dei Tribunali amministrativi (locali), per quanto nella Chiesa essi non esistessero ancora. La revisione codiciale, che ne previde l’esistenza (si vedano ancora oggi i “relitti” dei Cann. 149 §2; 1400 §2), insieme all’iniziale attività giudiziale della Sectio Altera della Segnatura Apostolica, sembrarono giustificare un tal genere d’impegno ed attività teoretica, ben al di là di quanto sia la Legge che l’Ordinamento come tale prevedevano e permettevano e per circa quindici anni (1967-1982) il Diritto amministrativo canonico finì per prendere corpo e configurarsi in vista e funzione di Istituzioni giudiziali ancora inesistenti: i Tribunali amministrativi e le loro Procedure. Con somma delusione generale il Codice del 1983 – pur menzionandoli espressamente – non dispose nulla circa la creazione di tali Tribunali, né qualcosa è stato disposto sino ad oggi a loro riguardo per via extra codiciale. Lo stesso accadde con l’inutile succedersi di Leggi e Norme, sia universali (la Costituzione “Pastor Bonus” – anno 1988) che speciali (la “Lex propria” della Segnatura Apostolica – anno 2008), che nulla cambiarono realmente dall’originario intervento di Paolo VI del 1967. In modo paradossale, per quanto non radicalmente ingiustificato, sia la dimensione ormai raggiunta dalla dottrina, sia un certo numero di esiti della (segreta) Giurisprudenza “di legittimità” prodotta dalla nuova giurisdizione, sia la frustrazione dell’attesa creatasi lungo gli anni, finirono per far confluire sulla Segnatura Apostolica – ritenuta l’unico Tribunale amministrativo esistente – tutte le attese e pretese maturate in quegli anni, fino ad “attribuirle” – per sola via dottrinale (sic!) – l’intera materia. I tempi – della dottrina – e le pretese intra-ordinamentali erano ormai così gravidi che lo stesso Tribunale non seppe sottrarsi a tale invocazione, dando l’innesco ad una sorta di “autopoiesi” (= creazione di se stesso) che lo rese – almeno di fatto – “il” Tribunale amministrativo canonico. È questa, di fatto, la prospettiva amministrativistica canonica oggi dominante.

2.2.2 La Curia L’attenzione alla Curia, quasi esclusivamente diocesana e religiosa, costituisce non tanto un innovativo profilo estrinsecamente mutuato dall’ambito civile (com’è accaduto col precedente), ma un autentico progresso epistemologico per il Diritto amministrativo canonico, poiché contribuisce alla miglior individuazione e definizione del suo stesso oggetto, non più nei termini del Diritto “sulla” Pubblica Amministrazione (in quanto soggetto dotato di personalità e potere) ma del Diritto che regola il governo ecclesiale, nell’interazione tra le attività istituzionali esercitate ratione Officii dai titolari di tali ruoli e funzioni e le attività personali esercitate ratione libertatis dai fedeli in genere, sia individualmente che in modalità variamente associate, derivanti in gran parte dai Cann. 204-231 del CIC.

A tal proposito basti qui ricordare come nella Chiesa l’esercizio di governo ordinario, soprattutto nella sua funzione principalmente provvisionale e deliberativa (all’interno delle sue svariate Istituzioni sia gerarchiche che associative o di qualunque altra natura e configurazione e non soltanto il munus Ecclesiæ regendi connesso al Sacramento dell’Ordine), sia conferito e venga esercitato ratione Officii da parte di vari soggetti personali: i c.d. Superiori, maschili e femminili. In tale articolazione istituzionale, il corretto esercizio e la corretta fruizione dei munera docendi e sanctificandi, non meno che dei “carismi” propri delle varie forme di vita consacrata, oltre che la corretta amministrazione dei beni economici dei diversi Enti ed Istituzioni, si realizzano sempre attraverso il supporto di Organismi ed Uffici, sia vicari sia delegati sia semplicemente operativi, che collaborano coi titolari apicali di tali funzioni di governo.

È questa la “Curia” come luogo/sede in cui ci si prende cura delle necessità, utilità, opportunità, dei fedeli, sia singolarmente, sia nelle varie possibili forme di loro libera aggregazione, sia nelle vere e proprie Istituzioni che la Chiesa ha posto al loro servizio, come sono, p.es., le Parrocchie. È questo, non di meno, il luogo, la sede, in cui il Diritto canonico – soprattutto codiciale – viene utilizzato come strumento di strutturazione e sostegno dell’ordinaria attività ecclesiale a servizio della missione della Chiesa, per il bene – almeno minimo – di ciascuno.

È questa, non di meno, anche la c.d. attività amministrativa o amministrazione-attività in cui consiste, in massima parte, il Diritto amministrativo canonico nel suo conoscere e strutturare le attività e le condotte di chi nella Chiesa può – e deve – disporre circa le risorse comuni, sia materiali che personali, per il conseguimento della missione stessa della Chiesa.

3. L’attività amministrativa canonica 3.1 Il Diritto amministrativo tra applicazione ed attività La prospettiva ecclesiologica che vede fedeli ed Autorità ecclesiali uniti nel concorde perseguimento dell’unica missio Ecclesiæ, senza contrapposizioni strutturali tra i diversi munera et officia ecclesiali (cfr. Can. 208 CIC) come avviene invece nella dialettica ormai consolidata tra “Pubblica Amministrazione Ecclesiastica” ed “amministrati”, porta ad identificare il Diritto amministrativo canonico non più come «el Derecho de la Administración pública, considerada como organización o sujeto (régimen, Autoridades, Órganos, Instituciones, etc.: en este sentido se suele hablar de “Administraciones”, en plural); y también como función pública integrada en el poder ejecutivo (potestad atribuida a esa organización, competencias, relaciones con los particulares, actividad, servicios, control, etc.)» sul modello civilistico italiano, ma come «l’insieme (e lo studio) delle norme che regolano l’efficace attività giuridica dei fedeli secondo la loro collocazione istituzionale nella Chiesa (= status, ruoli e funzioni)».

Proprio l’efficacia dell’attività giuridica di fedeli ed Autorità, ciascuno per la sua parte all’interno del comune vivere Ecclesiam, sta alla base dell’attività amministrativa canonica: un’attività concretamente realizzata da svariati soggetti, delle più differenti nature ed identità (individuali o collettive, personali o istituzionali, formali o informali, ecc.) operanti in relazione con la Chiesa nelle sue diverse espressioni, sia dal suo stesso interno (come normalmente accade) sia (più raramente, ma non in modo eccezionale) dal suo esterno.

Come già anticipato, in tale nuova prospettiva diventa necessario parlare espressamente di “attività amministrativa” anziché di “applicazione del Diritto amministrativo” poiché il Diritto amministrativo canonico non è tanto un Corpus di norme definite e coordinate in modo sistematico, tali da potersi applicare – appunto – come un teorema geometrico, ma un vero e proprio ambito operativo della vita ecclesiale, coincidente con l’amministrazione-attività svolta in massima parte – per quanto non esclusivamente – da chi ha compiti di governo della Comunità ecclesiale.

Concentrarsi sull’attività anziché sull’applicazione evidenzia, da un ulteriore punto di vista, la già indicata debolezza dell’approccio amministrativistico tradizionale (v. supra) che individua nelle norme sulla Pubblica Amministrazione e sulla sua condotta legalmente vincolata l’oggetto primordiale ed originante del Diritto amministrativo stesso. D’altra parte, il forte presupposto epistemologico sotteso a tale prospettiva dipende in larga misura dal fatto che – anche in ambito canonico – molti giuristi accademici provenivano e provengono dall’ambito forense amministrativo, sia per attività diretta che attraverso legami indiretti, come quello giurisprudenziale: «di qui la scelta [prevalente] di temi legati al contenzioso che trattano o di cui hanno cognizione diretta», con la conseguenza che anche l’aspetto teoretico e sistematico generale sono polarizzati dalle problematicità connesse all’esecuzione degli Atti amministrativi (= patologia) e dai conflitti tra Autorità di governo e destinatari del governo stesso (“amministratori” ed “amministrati”, secondo il gergo dottrinale consolidato).

Come già indicato sia per la nuova Scienza del Diritto amministrativo tedesca che per la prospettiva amministrativistica di Cassese, la questione non risulta peculiare dell’ambito canonico ma emerge in termini molto simili anche in sede civile, finendo per sollecitare una prospettiva epistemologica sempre più consapevole che il Diritto – ogni Diritto – «non è un insieme di proposizioni normative, ma un coacervo di norme, Istituzioni, consuetudini, prassi» che rende impossibile «andare alla ricerca di “leggi” che spieghino i fenomeni, perché non esiste una “Fisica” delle Istituzioni. Né può, il giurista, accontentarsi di quelle altre Leggi, che i numerosi Legislatori all’opera in ogni Ordinamento producono con tanta abbondanza, o cercare il principio d’ordine nella Giurisprudenza, come spesso accade nella cultura anglosassone».

Occorre invece «concepire il Diritto come una Scienza sociale viva e non come un insieme di prescrizioni e dicta e, soprattutto, nello spirito critico e lungimirante che da sempre anima la sua attività scientifica».

3.2 Il nuovo approccio al Diritto amministrativo La questione teoretica circa la vera identità del Diritto amministrativo contemporaneo si è posta principalmente in ambito europeo soprattutto a partire dall’inevitabile esigenza di considerare – ormai – e gestire i nuovi “diritti dei cittadini” (= trasparenza, partecipazione, tutela giudiziaria, ecc.) derivanti dai vari Trattati e pronunciamenti europei, insieme all’attenzione obbligata ai dati reali (legali e/o fattuali) concernenti il concreto svolgersi dell’attività amministrativa comunitaria, divenuta ormai il principale “formante” anche per quella intra-statale, travolgendo – senza plausibili resistenze – la maggior parte delle sistematiche (e dogmatiche) saldamente “statalistiche” maturate nel primo Novecento.

A partire da questa realtà, la “nuova Scienza del Diritto amministrativo” ha posto in luce la necessità di basarsi su tre specifici elementi di espressa natura metodologica «a) la scelta dei settori dai quali reperire il materiale normativo utile alla costruzione del sistema e a individuare i compiti dell’Amministrazione; b) l’adattamento del metodo tradizionale attraverso la considerazione non solo dell’Atto amministrativo ma anche dell’attività dei soggetti pubblici e privati e delle reciproche interazioni; c) una visione più realistica dell’Amministrazione, della sua organizzazione e attività, nonché dei suoi rapporti con i cittadini e la Legge».

Alla base del nuovo indirizzo epistemologico deve riconoscersi il passaggio ampliativo da un approccio normativistico (di stampo codiciale) ad uno più fattuale, soprattutto tenendo conto che «la conoscenza dei vari strati di cui è composta l’Amministrazione è essenziale. Chi non li conosce, chi ignora le ragioni di certe decisioni, gli usi di certi Uffici, le tradizioni di certi Apparati, non può né gestirli, né modificarli».

Per questo ogni studioso di Diritto amministrativo «dovrebbe conoscere e studiare le pratiche amministrative, che sono il vero Diritto amministrativo» senza ritenerle mere “funzionalità”, oggetto specifico della – sola – Scienza dell’amministrazione, orbitante più in ambito sociologico ed economico che non giuridico.

È questo un principio epistemologico che vale anche canonicamente, imponendo all’amministrativista ecclesiale di porre attenzione non solo alla struttura di governo della Chiesa ed alle sue modalità di esercizio e (contro-) tutela ad normam Iuris (= principio di legalità), ma – e forse principalmente – alle concrete attività svolte in nome e per conto della Chiesa come tale o all’interno delle aree di sua specifica competenza (evangelizzazione, Culto e carità, prima di tutto), chiunque sia ad intraprenderle.

Posto il principio in linea epistemologica generale, si tratta però di mostrarne anche la specifica miglioratività rispetto alle posizioni dottrinali ancor oggi dominanti l’ambito canonico. È questo, d’altra parte, il vero propulsore della Scienza: una nuova legge scientifica, una nuova Teoria sistematica, un nuovo paradigma metodologico, devono [a] comunque “contenere” e “mantenere” la validità esplicativa e funzionale di tutto il passato, [b] permettere, inoltre, attività e conseguire risultati sinora preclusi, oltre a [c] aprire ad un futuro più organico e completo.

Le nuove prospettive epistemologiche in campo amministrativistico generale e comparato, da una parte, il sostanziale cul de sac in cui si trova dal punto di vista teoretico il Diritto amministrativo canonico all’inizio del terzo millennio ecclesiale (come illustrato a più riprese in sede di “fondamenti”) dall’altra, stimolano ora il tentativo di sondare nuovi terreni metodologici e dogmatici, non fosse altro che per sancire – eventualmente – l’impossibilità di procedere per altre strade rispetto a quelle del passato, ricuperandole così non in modo aprioristico e deduttivo ma per la loro confermata effettività.

4. Attuali teorizzazioni del Diritto amministrativo canonico 4.1 La “giustizia amministrativa” La prospettiva teoretica più consolidata ed in qualche modo “originaria” dell’attuale Diritto amministrativo canonico, che lo accompagna fin dalle sue origini più formali (= la creazione della “Sectio Altera” del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica nel 1967), è quella che fa riferimento alla c.d. giustizia amministrativa, intesa – in modo più evocativo che concettuale – come la possibilità di sottoporre ad un vero e proprio Giudice (diverso sia dall’Autorità che ha emesso l’Atto impugnato, sia anche da un suo “superiore”) l’esame della stretta corrispondenza alla Legge (e/o al Diritto) dell’attività delle diverse Autorità ecclesiali in rapporto ai soggetti sottoposti al loro governo… così come avviene da tempo nel mondo giuridico europeo continentale attraverso i diversi Tribunali Amministrativi che giudicano l’attività della Pubblica Amministrazione in rapporto ai cittadini.

In altri termini: si tratta della possibilità di principio di impugnare per via giudiziale gli Atti di governo dell’Autorità di governo ecclesiale affinché ne venga riconosciuta – e condannata – l’eventuale illegittimità e, di conseguenza, sia il non obbligo di loro esecuzione da parte del destinatario, sia il risarcimento dei danni conseguiti a tale Atto, se ve ne siano. Un luogo formale, quindi, in cui sottoporre a Giudizio i Superiori ecclesiali, in una sorta di parallelismo funzionale rispetto a quanto avviene tra “pari” innanzi al c.d. Giudice ordinario in caso di violazione dei “diritti” di cui ci si ritenga legittimi titolari (cfr. Can. 1400 §1).

Un luogo formale che, in realtà, nella Chiesa non esiste affatto poiché – almeno oggi – tali Tribunali sono del tutto assenti e l’unica reale Giurisdizione coinvolgibile (in senso lato) per tali questioni (= la Segnatura Apostolica) non è adibile da chiunque, né giudica i vari Superiori ecclesiali, ma esclusivamente gli Atti singolari posti dai Dicasteri della Curia Romana, anche a conferma (gerarchica) di Atti già emanati da Autorità inferiori. La vera natura e funzione di tale Giurisdizione, infatti, è impedire strutturalmente il costante ricorso al romano Pontefice contro le decisioni della “sua” Curia… come potrebbe e dovrebbe essere in tutti i casi di questione circa l’operato di qualunque Vicario (cfr. Can. 65 §§2-3, per il principio). Contro i Dicasteri della Curia Romana, infatti, non si ricorre per via gerarchica (al Papa) ma per via collaterale attraverso un Tribunale speciale competente non solo ratione materiæ ma prima di tutto, se non esclusivamente, ratione subiecti.

La pretesa che “questa” giustizia amministrativa sia (e debba essere) il fulcro del Diritto amministrativo canonico è saldamente radicata nella dottrina dominante, la quale continua a costruire l’intera materia intorno al principio di stretta legalità in modo da poter disporre di una salda base su cui far leva per tentare in qualunque modo di scalfire o incrinare la compattezza dell’attività di governo ecclesiale rendendone inefficace almeno una parte, a tutela di diritti ed interessi dei singoli battezzati (o loro raggruppamenti). Tale concezione deriva, in fondo, dal presupposto che «un’Amministrazione corposa, estesa e onnivalente, non assurge ancora alla dimensione della giuridicità se essa vuol essere, o è, “tutto” nella società; se non s’intravede e non si riconosca un interesse della persona (del fedele) al suo corretto funzionamento, da far valere in molteplici modi (e sui modi si deve certo riflettere, per trovare quelli adatti alle peculiari esigenze della società) nei confronti dei titolari della funzione amministrativa; e che, alla fin fine, le sorti della dimensione pubblica (amministrativa) della Chiesa, e, dunque, di un Diritto amministrativo nella Chiesa, sono paradossalmente legate alle sorti della dimensione privata, dei diritti soggettivi in essa; che là dove vi è solo “pubblico” non vi è, né vi può essere, “giustizia della cosa pubblica” (amministrativa); e che questa resta mortificata là dove il “privato” è mortificato».

Il Diritto amministrativo canonico che ne deriva dal punto di vista pratico è saldamente polarizzato dall’attività di governo ecclesiastico propriamente detto (connesso, cioè, all’esercizio della c.d. sacra potestas dei chierici) con interesse preminente [a] agli Atti amministrativi singolari ed [b] alle loro patologie, ai temi [c] degli interessi degli amministrati, [d] della responsabilità dell’Amministrazione soprattutto per danno (cfr. Can. 128), [e] al contenzioso amministrativo, [f] alle sue tipologie e fasi, ecc., lasciando in ombra molta parte dell’attività reale sia delle Curie diocesane che religiose, sia di molti fedeli che con la loro attività partecipano pleno Iure anche alle dinamiche istituzionali della vita ecclesiale.

Vale anche canonicamente la critica già mossa a questa prospettiva in campo civile generale: «Questa cultura risale all’origine della Scienza amministrativistica, che nasce come cultura della giustizia amministrativa, interessata ai rapporti contenziosi cittadino-Amministrazione. La distinzione, poi, è stata rafforzata dalla forte presenza di Avvocati e di Giudici amministrativi tra gli studiosi. Da questo deriva l’attenzione particolare per gli Atti amministrativi e per tutte le zone nelle quali vi sono contenziosi Amministrazione-cittadino.

Perché questo è sbagliato? Perché così si dimentica il fortissimo condizionamento che discende dagli assetti interni sull’attività amministrativa. Perché una larga parte del fenomeno amministrativo finisce per cadere fuori dell’esame degli studiosi. Perché così la realtà amministrativa viene separata in due parti, come le due facce della luna, una illuminata, l’altra no. [...] Finiamo per studiare un Diritto amministrativo che solo in piccola parte sta al centro della vita reale dell’Amministrazione».

4.2 Il “buon governo” La seconda prospettiva di approccio e teorizzazione del Diritto amministrativo canonico, delineatasi in tempi più recenti sempre in riferimento a presupposti statuali, approccia la materia come Teoria del buon governo ecclesiale.

All’interno di una concezione della vita cristiana fortemente impegnata (quanto a tensione individuale, soprattutto morale e spirituale) ma in chiave tendenzialmente individualistica (quanto a fondamento e significatività delle relazioni, anche istituzionali), in cui la prospettiva societaria supera di gran lunga quella comunitaria e la Chiesa finisce per essere poco più che l’arca (communis) salutis e la mera dispensatrice di “utensili” di salvezza individuale – per quanto condivisi –, le questioni connesse al controllo – oltre che alla limitazione – del governo si rivelano irrinunciabili. Per quanto, infatti, il buon governo tenda a presentarsi in chiave tendenzialmente positiva, lo sfondo sostanziale rimane lo stesso della giustizia amministrativa, presupponendo una strutturale dialettica tra governanti e governati, tra pubblico e privato, tra amministratori (pubblici in quanto gerarchicamente costituiti) ed amministrati. Non di meno: proprio la chiave espressamente amministrativa manifesta appieno i presupposti fallaci di tale visione.

L’amministratore, infatti, è tale poiché gestisce beni e risorse che non gli appartengono e di cui deve rendere conto.

- In tale orizzonte, se non è chiaro che nella Chiesa tale attività viene svolta in riguardo a beni e risorse che appartengono alla Chiesa stessa – oltre che a Dio! – (cui occorre rendere conto!), si finisce ben presto per ritenere che essi – invece – appartengano in ultima istanza ai fedeli in quanto “diritti fondamentali”… e che – in fondo – ad essi gli amministratori debbano rendere conto.

- In modo analogo, spesso non è chiaro che l’oggetto passivo di amministrazione non sono i fedeli (come lasciano intendere gli autori che parlano di “amministrati”) ma i beni ecclesiali, Sacramenti in primis, secondo l’affermazione paolina «ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4,1). Per di più nella Chiesa tale titolarità è conferita su base vocazionale, prevalentemente attraverso il Sacramento dell’Ordine, rendendo pressoché impossibile l’esercizio di un vero redde rationem nei confronti dei fedeli.

In tal modo: la scarsa praticabilità concreta della giustizia amministrativa (v. supra) sollecita almeno – partendo dagli stessi presupposti (non-) ecclesiologici – l’esigibilità di un “buon governo”.

Alle difficoltà di carattere teologico, non di meno, se ne associano altre di carattere più espressamente giuridico, poiché

- se di “diritto” si trattasse, dovrebbe essere diritto al governo tout-court… in quanto ministero e cura, senza che la specifica “buon” possa apportare elementi aggiuntivi: un ministero, infatti, una cura (come tutela e garanzia) che non fossero intrinsecamente “buoni” non corrisponderebbero in alcun modo alla loro essenza ed identità.

- Non di meno: il binomio diritto e buono presuppone una strutturale dialettica tra governanti e governati, tra pubblico e privato, tra amministratori ed amministrati, comprensibile – e forse addirittura necessaria – in campo civile ma chiaramente non collocabile a livello ecclesiale, dove tali polarizzazioni non hanno ragioni teologiche d’esistere.

In realtà la ratio sottesa a quest’impostazione proposta per l’ambito ecclesiale non è radicalmente dissimile da quanto avviene a livello civile: poiché infatti nessun cittadino può nulla contro lo Stato e le sue differenti articolazioni, gli si concede almeno di poterne esigere (di qui il diritto) un’attività virtuosa: il buon governo, appunto, che si concretizza in economicità, efficacia, semplificazione, per quanto riguarda l’Amministrazione come tale (= al proprio interno) e imparzialità, pubblicità, trasparenza, partecipazione, responsabilità nei confronti dei soggetti (privati) che con l’Amministrazione devono interfacciarsi.

Non di meno: parlare di “buon governo” significa accomodarsi – e pure in modo parzialmente improprio – sia ai presupposti del recente Diritto amministrativo comunitario europeo (che parla però di “buona amministrazione”) sia a quelli di “buon andamento dell’Amministrazione” già presenti nella cultura amministrativistica di diversi Stati, disattendendo così presupposti teologici di rango costituzionale. Si può parlare, infatti, di un diritto al buon andamento dell’Amministrazione o di un diritto ad una buona amministrazione all’interno della tensione strutturale tra il soggetto Stato – ridotto ormai a puro regolatore locale di prevalenti interessi (economici) privati – ed i soggetti cittadini, che lo Stato stesso dovrebbe esprimere, oltre che tutelare e promuovere. Chi infatti, come cittadino, ha trasferito (anche passivamente, come nei Tributi) allo Stato proprie risorse esige – giustamente – una loro adeguata gestione e soprattutto efficiente restituzione, per quanto in forma non specifica: è la questione della limitazione della libertà in cambio della sicurezza, dei Tributi in cambio di servizi, delle standardizzazioni in cambio della concorrenza, ecc. secondo il modello contrattualistico che – unico – continua a legittimare l’esistenza e l’attività dei diversi soggetti “Stato” e permette, per contro, ai cittadini di potersene anche difendere reclamando il proprio (da cui l’uso della formula “diritto a”). La natura, però, espressamente fondazionale (cioè: top-down) e non consociativa (= bottom-up) della Chiesa non permette né tollera nulla del genere, a nessun livello.

Si aggiunga inoltre che il riferimento costitutivo al governo quale fulcro della vita ecclesiale non risulta fondato in ambito canonico poiché nella Chiesa, a differenza che nello Stato, tale funzione è del tutto accessoria e meramente coordinativa dell’accesso alle risorse comuni costituite dalla Parola di Dio e dai Sacramenti (cfr. Can. 213), risorse altrimenti non disponibili; ben diverso è, invece, il ruolo del governo all’interno degli Stati.

Dal punto di vista operativo entrambe le prospettive, proprio in ragione dell’inevitabile rigida impostazione in termini di legalità e legittimità dell’attività dell’Amministrazione (soggetto), propongono un approccio al Diritto amministrativo canonico di carattere applicativo più che operativo, scostandosi ben poco dalle materie espressamente normate dal Legislatore e concedendo interesse limitato a ciò che, di per sé, non offre ordinariamente occasioni di contenzioso in materia di governo ecclesiale in ragione delle violazione di diritti o interessi individuali (o associativi) dei fedeli.

4.3 L’efficace attività ecclesiale La prospettiva, invece, di cui queste note sollecitano lo sviluppo e l’adozione guarda principalmente alla concreta attività di Curia, nella realistica consapevolezza delle funzionalità ed implicazioni quotidiane dell’attività pastorale (soprattutto diocesana) e della sua interazione con la vita effettiva dei fedeli a cui i Vescovi diocesani, primi fra tutti, devono provvedere.

Poiché il Diritto amministrativo a cui si fa riferimento si concretizza nelle norme «che regolano l’efficace attività giuridica dei fedeli secondo la loro collocazione istituzionale nella Chiesa (= status, ruoli e funzioni)» (v. supra), oggetto d’analisi e sistematizzazione diventano prima di tutto le modalità strutturali ed operative attraverso le quali, all’interno di ciascuna Circoscrizione ecclesiastica (Diocesi in primis), qualche centinaio di Enti (soprattutto Parrocchie) e di Presbiteri (la maggior parte dei quali Parroci), oltre a qualche decina di fedeli possano operare all’interno di uno spazio comune ecclesiale pacificamente condiviso, conseguendo – ciascuno – ciò che ritiene più rispondente alle proprie necessità o anche solo aspirazioni, spesso più materiali che espressamente spirituali (e tanto meno evangeliche). Da tale orizzonte non può restare esclusa neppure la necessaria relazione (per quanto in modo del tutto saltuario) con realtà personali ed istituzionali più o meno estranee alla struttura ed attività pastorale ordinaria della Diocesi: Enti pubblici (o comunque civili), Istituti religiosi, persone varie che non si collocano (o non vogliono farlo) tra i fedeli, né dei fedeli esplicano attività specifiche, oltre ad iniziative ed attività missionarie e caritative che accompagnano da decenni la vita di qualunque Diocesi. Pure il condividere spazi, tempi e risorse (soprattutto personali) con la c.d. società civile non avviene quasi mai senza coinvolgere la relazionalità istituzionale e, pertanto giuridica, anche della Chiesa.

A partire da tale prospettiva, frutto di ormai consolidate esperienze operative, ciò che rileva è principalmente come ottenere serenamente e stabilmente quanto ciascuno nella Chiesa può desiderare (e di fatto desidera): dal Vescovo ai Parroci, da religiosi e religiose alle famiglie, da singoli ad Associazioni, da Enti pubblici ad iniziative spontanee, ecc. Tutto senza scontentare inutilmente nessuno, senza fratture relazionali, né – tanto meno – assumere o accollare oneri permanenti, soprattutto economici, a Diocesi o Parrocchie, o a qualche altro soggetto canonico (associativo, istituzionale o patrimoniale). In questo, infatti, si concreta un munus regendi ecclesiale all’altezza della propria identità ministeriale.

Il cambio di prospettiva è radicale poiché non si parte innanzitutto [a] dalle norme legali, [b] dalla loro stretta applicabilità e [c] dal contenzioso che può derivarne, traguardando costantemente il “faro” del Tribunale della Segnatura Apostolica, ma si deve volgere l’attenzione all’operatività concreta della Curia, sia diocesana che religiosa e, indirettamente, anche “Romana”. Proprio questo, d’altra parte, costituisce l’approccio pratico alla concretezza del vivere giuridico ecclesiale: un approccio non tanto ai Procedimenti e alle Procedure (come ancora di recente proposto in un utile, a suo modo, strumento didattico) ma alle diverse – e crescenti – problematiche concrete che attraversano la vita di persone ed Istituzioni nella Chiesa. È nell’attività della Curia, infatti, che si mette in gioco la maggior parte della componente amministrativistica del vissuto ecclesiale; è nell’attività di governo episcopale che si realizza il maggior numero di interazioni istituzionali tra i fedeli ed i Pastori della Chiesa, in un rapporto che spesso ha dirette origini nella Pastorale e ad essa deve restituire concrete possibilità operative, come sono licenze, dispense, autorizzazioni, ma anche divieti ed ammonizioni.

La questione, tuttavia, non si limita affatto al mero studio della struttura ed attività curiale poiché, anche in ambito canonico, occorre considerare che «il Diritto amministrativo è soprattutto un Diritto di discipline settoriali: ciò che va bene per le acque non va bene per i beni culturali, gli istituti della difesa non sono necessariamente esportabili nel campo dell’ordine pubblico, la conservazione degli archivi è diversa dalla tutela dei monumenti, e così via».

Conclusioni Il percorso sin qui intrapreso, pur in modo molto sommario, ha messo in luce l’estrema frammentazione che ancor oggi caratterizza il Diritto amministrativo canonico in molti dei suoi aspetti di maggior rilievo sistematico, mostrando come la distanza tra la realtà concreta del governo ecclesiale (= l’amministrazione-attività) ed i suoi approcci accademici e dottrinali risulti ancora ampia e non colmabile per via soltanto teoretica.

Tra gli elementi maggiormente problematici, soprattutto in ragione della giovane età della Disciplina, continua a porsi il rapporto con le teorizzazioni civilistiche della materia; sono queste, infatti, che mantengono il ruolo sostanziale d’indirizzo, seppure su livelli differenti, delle sue direzioni di comprensione e sviluppo: quella contenziosa (di matrice intra-statale) e quella regolativa (di matrice sovra-statale), più stabilizzata la prima, emergente la seconda. Rispetto agli anni Settanta-Ottanta del XX secolo, tuttavia, l’approccio canonistico appare oggi più avveduto e meno disposto a ricalcare acriticamente modelli di provenienza statale, stimolato in questo anche dai recenti sviluppi di un approccio comparatistico che, ampliando gli orizzonti di comprensione, favorisce legittime autonomie strutturali soprattutto in ragione dei differenti presupposti costituzionali dei diversi Ordinamenti, Chiesa cattolica inclusa.

L’alternativa epistemologica che s’impone ai cultori ed operatori della materia rimane, tuttavia, quella di sempre: un approccio deduttivo che prenda le mosse dagli esiti finali delle vicende relazionali (= il Tribunale che applica la Legge) oppure un approccio induttivo che si strutturi a partire dall’attività di Curia, che opera per realizzare le finalità che la Legge intende (solo) tutelare.



in: ANUARIO DE DERECHO CANONICO, 6 (2017), 89-118