Il ruolo del Diritto nella riforma e riformabilità della Chiesa

 

Parlare di Diritto canonico in modo plausibile per dei teologi non è cosa facile; tanto vale correre al contempo un altro rischio non minore: quello di farlo sull’attualità istituzionale della Chiesa, in modo che la riflessione possa non fermarsi alle Norme soltanto, come troppo spesso si contesta ai canonisti. Lo stimolo alla particolare lettura canonistica che si proporrà deriva in modo esplicito dall’indirizzo espressamente metodologico di questo “Secondo Seminario” della S.I.R.T. su “La Chiesa che verrà… Modelli culturali e istanze di riforma”; e proprio su istanze di riforma e modelli culturali/concettuali si concentrerà l’attenzione del canonista, lasciando il resto alla mera cronaca.

 

Punto di riferimento delle considerazioni che seguono sarà soprattutto la vera riforma giuridico-canonica (l’unica, in realtà) operata sino ad oggi da Papa Francesco: il Processo per il riconoscimento della nullità del Matrimonio, attuata con la promulgazione – del tutto irrituale – dei due motu proprio “Mitis Iudex” e “Mitis et Misericors Iesus” del 15 agosto 2015 con cui un intero Processo speciale (= quello matrimoniale) è stato mutato in entrambi i Codici canonici vigenti. È questa, ad ogni buon conto, l’unica vera riforma giuridico-canonica realizzata sino ad oggi dall’attuale Pontefice, poiché l’accorpamento – più o meno enfatico – di Organismi di Curia (com’è per il nuovo Dicastero creato il 4 giugno 2016) o la creazione di nuovi Organismi soprattutto amministrativo-economici (operata dall’inizio del pontificato), ed anche recentemente integrata, vanno letti nella linea del mero “cambiamento”… ed ogni buon teologo sa bene quanto questo concetto differisca da quello di “riforma”. Ogni riforma, infatti, è “cambiamento”, ma non ogni cambiamento è perciò stesso anche riforma… spesso “si cambia” proprio per “non cambiare”. Questo a maggior ragione in ambito giuridico e – molto maggiormente – in ambito istituzionale. Non si può infatti dimenticare che il giuridico è solo “una” delle espressioni dell’istituzionale: la più immediata ma anche, spesso, la meno evidente – per quanto assolutamente costitutiva – un po’ come lo scheletro nel corpo di un vertebrato (presente e portante… ma invisibile).

 

 

1. Diritto e riforme

 

Per delineare il quadro globale entro cui individuare in cosa consista una vera riforma giuridico-canonica è necessario prendere atto della difficoltà ad indicare a priori che cosa possa fare (e come possa realizzarlo) il Diritto in sede di mutamento, non solo della vita ecclesiale: le attività e potenzialità del Diritto infatti, poiché strettamente connesse alla vita reale di singoli e collettività (secondo il principio: ius sequitur vitam), sono le più ampie ed imprevedibili: come ben dimostrano i fatti attraverso cui ogni giorno la cronaca evidenzia che cosa ogni nuova Norma – anche impercettibile – permetta di fare. In questa prospettiva, proprio riferendosi in chiave metodologica ai “modelli culturali”, vanno sollecitate due specifiche attenzioni, preliminari a qualunque discorso e considerazione che vogliano essere davvero giuridici.

 

a) Prima di tutto la consapevolezza irrinunciabile da cui è sempre necessario partire in ambito giuridico – ma della quale la maggior parte dei giuristi, Legislatori inclusi, si mostra spesso del tutto priva (v. infra) – riguarda la funzionalità sistemica anziché sistematica del Diritto: esso, infatti, produce conseguenze concatenate tra loro anche senza – e ben al di là di – qualunque loro “strutturazione” e “previsione” e ciò non solo in modo costruttivo ed intenzionale ma anche decostruttivo e puramente fattuale. Al di là, infatti, delle varie forme di Idealismo (di cui il Positivismo è solo una espressione, per quanto macroscopica) nessun Ordinamento giuridico è un vero “sistema” che deriva ed evolve in senso deduttivo partendo soltanto dagli assiomi stabiliti dalle sue Leggi. Detto in altri termini: nessun Ordinamento giuridico viene interamente “progettato” e “costruito” come si fa per una qualunque “macchina”. Non solo: come nessuna macchina è mai fine a se stessa né trova in se stessa il proprio senso, allo stesso modo il Diritto serve all’uso da parte di chi non lo ha creato ma ne dispone concretamente nella vita reale. Due esempi “laici” per farsi un’idea di cosa significhi “sistemico” anziché “sistematico” in campo giuridico: 1) le Norme sul c.d. utero in affitto e la stepchild adoption; 2) il Trattato di Schengen e la gestione dei profughi ed immigrati che premono sulle frontiere europee.

- Nel primo ambito ciò che si è immediatamente verificato appena approvate nuove Norme in materia è stato il trasferimento di alcune persone negli Stati che permettevano di “commissionare” legalmente a terzi la nascita di un figlio per poi rientrare nei propri Paesi di residenza ed esigere anche in essi il riconoscimento legale della propria “genitorialità”; cosa simile per lo snaturamento totale dell’ultramillenario Istituto giuridico dell’Adozione.

     Se ogni Ordinamento giuridico fosse davvero un “sistema”, esso sarebbe e resterebbe impermeabile all’esterno… geometricamente dedotto (come volevano Leibnitz, Kant, Hegel, Kelsen, ecc.) dai propri “assiomi” ed organicamente sigillato. Ciò che, invece, si vede e si sperimenta è che una relazione giuridica una volta creata – non importa “dove” – tende a voler attraversare la vita anche sociale (e quindi giuridica) praticamente ovunque, rivendicando la propria legittimità in modo “universale”.

- Di altro genere e portata è la questione dei c.d. migranti in relazione ai Trattati economici sui quali si regge (in malo modo, sic!) l’Unione Europea. Secondo tali Trattati (di cui Schengen è solo una tappa) all’interno dell’Unione Europea non devono esiste ostacoli di nessun tipo al libero spostamento di persone (in realtà: lavoratori), merci e capitali, motivo per cui furono di fatto abolite le “frontiere” interne all’Unione conseguendo un enorme risparmio in termini di costo dei trasporti sia di materie prime che di manufatti. Il sistema funzionava fintanto che le persone in spostamento erano gli stessi cittadini/lavoratori europei (integrati nell’unico sistema economico comunitario), nel momento però in cui tali transitanti sono diventati non-cittadini/non-lavoratori che attraversano in quantità e senza alcun controllo i Confini intra-comunitari, generando notevoli costi di assistenza e gestione, un certo numero di Stati si è posto il problema di controllare tali flussi, minacciando di riattivare almeno alcuni controlli doganali.

     Anche in questo caso la realtà degli avvenimenti (= qualche centinaio di migliaia di migranti) travolge un intero “sistema” com’è quello meramente economico creato in Europa, rischiando di portare al collasso i presupposti stessi dell’esistenza dell’Unione Europea come tale.

b) Un secondo elemento da tenere sempre in somma considerazione è la “natura” strumentale e non ontologica del Diritto, almeno a partire dalla Modernità e dal suo maggior influsso in campo giuridico attraverso la massimizzazione della Legge negli Ordinamenti diventati di “civil Law”, cui anche l’Ordinamento canonico si è troppo presto e profondamente assimilato e auto-ridotto. È la prospettiva – e realtà – della funzione espressamente “politica” del Diritto, come si vede in modo chiaro nei regimi parlamentari dove sono i politici a fare le Leggi (e con esse a modellare le società) secondo le convinzioni prevalenti in ciascun momento storico. In tale contesto socio-culturale il Diritto è un mero strumento – muto – per conseguire ciò che per altre vie si è individuato e scelto in base a concezioni (o ideologie) filosofiche, religiose o economiche: strumento della volontà in vista del conseguimento di “interessi”, o anche sole “opportunità”, comuni o appetibili a molti individui. Una volontà condivisa negli esiti individuali(stici) di ciascun cittadino/elettore così da presentarsi “prevalente” e generare Norme giuridiche cui tutti dovranno attenersi. In questo modo il Diritto perde la sua funzione originaria di “stabilizzare” la realtà sociale riconducendo ad essa ed ai suoi interni equilibri gli smodati desideri/impulsi di qualche individuo (= danno o delitto), come accade ancor oggi nei Sistemi giuridici di “common Law”, divenendo invece strumento di una dinamica socio-politica che agisce sempre più cambiando le regole del gioco; spesso senza consapevolezza alcuna che in tal modo si cambia anche il gioco come tale.

        Lo stacco rispetto alla concezione ontologica del Diritto, che di fatto aveva generato il c.d. Diritto naturale, è abissale: in tale prospettiva, infatti, era la “natura stessa delle cose” (= la loro veritas) a costituire il fondamento del Diritto ed il suo stesso fine di mantenimento dell’ordine – cosmico ed ontologico – costituito, all’interno di un orizzonte in cui realtà, oggettività, proporzione, ragionevolezza, si imponevano a qualunque desiderio e volontà individuali mantenendo ciascun soggetto all’interno di una realtà ben più ampia della percezione e pretesa individualistica.

 

        Proprio la dialettica tra strumentalità ed ontologia del Diritto costituisce il vero impasse in cui si trova la Chiesa post-conciliare col proprio Diritto canonico. È palese, infatti, che il Concilio fu un evento fortemente “politico”, così come recentemente lo è stato anche il doppio Sinodo dei Vescovi sulla famiglia. Due eventi politici che hanno dato corso a due vere e proprie riforme giuridiche ecclesiali: 1) il Codice canonico del 1983; 2) la modifica dei suoi Canoni sul Processo matrimoniale del 2015; per quanto, poste in questi termini, si tratti di vere approssimazioni adatte solo a questo genere di note. È a questo livello, tuttavia, che si colloca il grave momento che il Diritto canonico – e con esso tutta la vita ecclesiale – sta attraversando dall’inizio del millennio: si fanno Norme – in buona parte estemporanee dal punto di vista tecnico ed istituzionale – semplicemente per rispondere a “richieste” provenienti addirittura dall’esterno della Chiesa stessa. Bastino tre riferimenti espliciti (ma non esaustivi) a cavallo dei tre Pontificati coinvolti: i c.d. “graviora Delicta”, il riconoscimento della “forma straordinaria del Rito Romano”, la struttura finanziaria della Santa Sede. In circostanze di tal fattura, mentre da una parte si vuole uno specifico e puntualissimo risultato – politico –, dall’altra si creano situazioni istituzionali (e pertanto generali e strutturali) di portata dilagante ed incontrollabile, come sono alcune Norme economiche le quali, introdotte per lo Stato della Città del Vaticano per non rinchiuderlo nella c.d. Black List dei Paesi non interfacciabili col sistema finanziario occidentale, sono poi rimbalzate sull’intera Santa Sede divenendo anche “canoniche” in quanto coinvolgenti la Curia Romana… e, a caduta, l’intera Chiesa. In tal modo la “fretta” operativa e l’assoluta “parzialità” della risposta da fornire non permettono né l’esercizio della “prudentia Iuris”, né il ricorso alle necessarie consultazioni e verifiche previe circa le soluzioni giuridiche approntate per modificare quanto era costato decenni di avveduta elaborazione giuridica.

 

Le due attenzioni metodologiche preliminari così evidenziate nella loro strutturalità per l’intero ambito giuridico, permettono di porre ora in evidenza una problematica che nella Chiesa non pare essere ancora giunta neppure a livello di percezione: la problematica espressamente metodologica (ma in realtà epistemologica) del rapporto tra (singola) Norma e vita istituzionale. La problematica che, in fondo, costituisce il vero discrimen tra modifiche e riforme e che si traduce nella necessaria costitutiva reciprocità tra “forma” e “sostanza”, tra metodo e contenuto, che la maggior parte del clero – Pontefici compresi – dimostra reiteratamente di non percepire soprattutto nell’esercizio della funzione normativa, cui fanno capo la maggior parte delle speranze e possibilità di riforma della Chiesa.

 

 

2. Un esempio emblematico: il mancato schema del nuovo CIC

 

Paradigmatica dell’inconsapevolezza “ecclesiastica” circa la costitutiva reciprocità tra metodo e contenuto, soprattutto in ambito giuridico, è la vicenda dello “Schema” del vigente Codice di Diritto Canonico che prese corpo nei primi anni del post Concilio, all’inizio dei lavori per la revisione del Codice del 1917: quella revisione che avrebbe dovuto “tradurre” il Vaticano II in Diritto canonico secondo le direttive di “Lumen Gentium” e “Gaudium et Spes”.

La vicenda, normalmente ignorata dalla dottrina canonistica, potrebbe rendersi con una semplice affermazione: il Codice di Diritto Canonico del 1983 fu elaborato senza un’organica visione d’insieme. I Verbali dei lavori della Commissione di revisione e dei diversi Gruppi di studio parlano chiaro: le materie di cui si sarebbe composto il futuro Codice furono individuate (e le elaborazioni iniziarono) fin dal gennaio 1966, mentre lo “Schema adumbratum provisorium” fu terminato il 20 aprile 1968 e venne approvato il 28 maggio 1968, oltre due anni dopo. La cosa, tuttavia, non avvenne fortuitamente, né semplicemente “accadde”, poiché i Verbali mostrano che l’incongruità di costruire una Legge generale universale (= “il” Codex Iuris Canonici) senza averne previamente approntato uno schema fu, in realtà, espressamente considerata ma venne immediatamente cortocircuitata proprio per via “metodologica” (sic!) affermando che

 

«hæc materiæ distributio cum ordine systematico Codicis vigentis congruebat tantum ob exigentias practicas laboris, quin ullum præiudicium afferret novo ordini Codicis Iuris Canonici, qui quidem ex ipsis studiis peractis ac peragendis apparere debebat».

 

Come dire che l’individuazione delle materie, la loro delineazione (anche contenutistica), il loro concatenamento, ecc. non avevano alcun rilievo nei confronti delle Norme giuridiche che dovevano essere approntate per tradurre il Concilio in vita ecclesiale. In fondo le Norme sono solo Norme e valgono in quanto tali: strutture e collocazioni, per contro, sono fattori del tutto accidentali che non possono influire seriamente sulla “sostanza” delle cose (= le Norme). L’esito, anch’esso in buona parte ignoto ai più, è un Codice disorganico, a volte contraddittorio, contenente pure (gravi) problemi teologici, la cui struttura finale non segue per nulla quella che l’Ecclesiologia del Vaticano II aveva concretamente indicato e lo stesso Legislatore sancito (v. supra). D’altra parte il “non detto”, per quanto espressamente evidente, non lasciava dubbi sulla concezione meramente adeguatoria (= revisione) del lavoro da svolgere: il Diritto canonico è una realtà “oggettiva”, così come la sua organizzazione in forma di “Codice” (= concezione ontologica/sostanzialista); viste tuttavia le decisioni assunte dal Concilio era necessario scartare dai Canoni le Norme che il Vaticano II aveva cassato ed inserire quelle nuove che aveva introdotte (= concezione strumentale/formalistica). Il risultato, ancor oggi sotto gli occhi di tutti, fu un concreto “cambiamento” del Codice, ma non una reale “riforma” del Diritto canonico! D’altra parte l’assenza di un vero “progetto”, quale palinsesto che struttura l’operare secondo precisi significati ed obiettivi, non poteva offrire esiti differenti.

Basti qui rimandare a due fatti emblematici espressivi di quel contesto “culturale”: 1) la bocciatura e dispersione dello Schema “De Procedura administrativa”; 2) la non promulgazione – e conseguente scorporo normativo – della “Lex Ecclesiæ Fundamentalis”.

 

- Uno degli assi portanti del Codice di Diritto Canonico post-conciliare avrebbe dovuto essere – senza incertezza alcuna – un nuovo corso delle modalità di governo all’interno della Chiesa, come evidenziano almeno la metà dei c.d. “Princìpi della revisione codiciale”: la giuridicità del Codice (n. 1), la miglior distinzione tra foro interno ed esterno (n. 2), l’umanità (n. 3), l’assenza di arbitrarietà e il rispetto della dignità delle persone (n. 6), la distinzione tra le funzioni di governo, la protezione giudiziale dalla sua arbitrarietà (n. 7). Un insieme di elementi che intendevano rompere in modo strutturale e definitivo con gli atteggiamenti moralistici, paternalistici e soprattutto autoritari, che avevano caratterizzato il governo ecclesiastico e religioso (i laici in realtà non avevano alcun vero problema in merito!) durante tutto il secondo millennio attraverso il continuo cortocircuito – e la perdurante ambiguità – tra Morale e Diritto, coscienza e giurisdizione, obbedienza e assoggettamento, ascesi e umiliazione. Anche la separazione operativa della potestà ecclesiastica in tre “funzioni” (= legislativa, esecutiva, giudiziale) tecnicamente non assimilabili nelle loro espressioni ed attività, insieme con la possibilità di sottoporre a vero “Giudizio” gli Atti di governo indirizzati ai singoli, contribuivano a creare le premesse istituzionali necessarie per il felice esito di tale vera “riforma”. Ne nacque una proposta normativa organica – affidata al Gruppo di studio sul Diritto processuale – che intendeva raccogliere ed organizzare le modalità di creazione dei Provvedimenti di governo destinati a singoli soggetti (persone o Istituzioni o gruppi), insieme a quelle per la loro contestazione e successiva verifica anche in sede giudiziale: lo Schema “De Procedura administrativa” che parve già adatto all’immediata promulgazione in forma di “motu proprio” prim’ancora che il Codice fosse terminato… e così se ne parlò al tempo. Il testo venne sottoposto, come tutti gli Schemi di revisione, alla consultazione esterna e finì nel nulla già dal 1974. Alcuni Canoni furono ricollocati secondo criteri di pertinenza con altri agglomerati dispositivi in giro per il Codice e, non solo l’idea stessa di una “Procedura amministrativa” (non prevista tra le materie in elaborazione dal 1966) sparì definitivamente nella Chiesa cattolica, ma gli stessi Tribunali amministrativi locali da crearsi per giudicare secondo quanto previsto in tali Norme furono cancellati dal nuovo Codice canonico, per quanto non in ogni loro traccia.

- La vicenda dello Schema generale del Codice canonico latino è intimamente connessa pure con quella della “Lex Ecclesiæ Fundamentalis” che avrebbe dovuto contenere le Norme comuni alla Chiesa cattolica latina ed a quelle orientali, secondo una sorta di piramide normativa che andava dall’universale al particolare: al primo livello la LEF per le Norme riguardanti l’intera Chiesa cattolica come tale (Ius communiore); al secondo livello il CIC per le Norme specifiche della Chiesa latina (Ius commune latinum) e il CCEO per le Norme comuni alle Chiese cattoliche orientali (Ius commune Ecclesiarum orientalium); al terzo livello il Diritto particolare e quello proprio delle diverse Circoscrizioni ecclesiastiche e degli Istituti di vita consacrata ed analoghi (Ius particulare, Ius proprium).

         La novità, almeno formale, della LEF portò il Gruppo di lavoro incaricato della sua stesura (in parallelo con tutti gli altri incaricati delle diverse materie del CIC) a darle una vera “struttura” fedelmente modellata sulla struttura di Lumen Gentium e ad essa corrispondente nell’impostare una “nuova” percezione e concezione della Chiesa davvero conciliare (= Popolo di Dio e tria munera). Quando però nel 1980, a causa del grave fraintendimento ideologico che aveva progressivamente sviato il progetto della LEF (facendone una sorta di “Costituzione” rigida per la Chiesa, sul modello degli Stati post-bellici), Giovanni Paolo II decise di non promulgarla, anche la struttura giuridica fondamentale della Chiesa cattolica ad mentem Concilii Vaticani secundi cadde nel nulla ed il Codice canonico promulgato dallo stesso Pontefice nel 1983 mantenne la stessa struttura sostanziale di quello del 1917… salvo alcune inserzioni di Canoni “salvati” dallo Schema della LEF.

 

 

3. La riforma processuale matrimoniale del 2015

 

La dialettica – al limite della schizofrenia – tra “natura” strumentale oppure ontologica del Diritto, così come quella tra sua funzionalità sistemica oppure sistematica segnano in modo profondissimo la riforma del Processo matrimoniale operata dal supremo Legislatore due mesi prima dell’inizio dei lavori del Sinodo ordinario dei Vescovi sulla famiglia nell’ottobre 2015. Ed è proprio dal rapporto coi due Sinodi dei Vescovi sulla famiglia che occorre partire per effettuare un’analisi giuridico-istituzionale di quella che unanimemente è ritenuta una vera riforma ecclesiale e potrebbe, non irragionevolmente, costituire almeno un prodromo, se non proprio un modello de “la Chiesa che verrà”, ponendo tuttavia seri dubbi sull’adeguatezza dell’attuale capacità tecnico-giuridica del Legislatore universale.

 

3.1 Natura e portata “politica” della riforma

Il primo elemento da osservare è la decisa opzione per la concezione strumentale del Diritto: quella che lo pone a diretto servizio della “politica” (ecclesiale in questo caso). È infatti evidente come la decisione d’intervenire sul Processo canonico di riconoscimento della nullità del Matrimonio risponda ad alcune delle esigenze maggiormente sentite durante il Sinodo straordinario dell’ottobre 2014: quelle stesse che costituiscono oggi la Sezione dottrinale del m.p. “Mitis Iudex” e “giustificano” nell’intenzione del Legislatore le nuove Norme promulgate. La stessa intenzionalità politica ha permesso (o forse esigito) che tali Norme entrassero in gioco nel bel mezzo del percorso bi-sinodale così da chiudere tali questioni in modo strutturale prima dell’Assemblea del 2015, [a] sgravandola di incombenze improprie che rischiavano di sviarne i lavori e [b], nello stesso tempo, evitando l’insorgenza di “soluzioni” meno gradite (tra quelle già prospettatesi nell’ottobre 2014). Merita osservare in questa sede come tale condotta pontificia non sia affatto nuova visto che – notoriamente – già Paolo VI risolse “in proprio” alcune questioni la cui soluzione, se rimessa direttamente all’Aula conciliare, avrebbe portato esiti tutt’altro che prevedibili, non tanto per i contenuti ma per le dinamiche che potevano scaturire dalla discussione assembleare: Sinodo dei Vescovi, celibato sacerdotale, contraccezione.

 

Prendere però atto dell’uso politico-strumentale del Diritto canonico non rende ragione sufficiente della profonda portata delle modifiche introdotte, visto che le stesse Norme – secondo l’inconsapevolezza metodologica già segnalata – mostrano anche un’indubitata certezza che i cambiamenti riguardino soltanto la “forma” del Processo matrimoniale, lasciando del tutto intatto il c.d. Diritto sostanziale contenuto nel Libro IV del CIC sul Matrimonio in quanto Sacramento. La prospettiva – poiché “culturale” (sic!) – è pienamente omogenea con quella di “Summorum Pontificum” che, pur non dicendo nulla sull’Eucaristia e gli altri Sacramenti, allo stesso tempo permette di ignorare completamente il pensiero teologico “conciliare”, se è vero che di fatto il “ritus” non è mera “forma” e il “come” si celebra dipende da “cosa” si pensa di celebrare (secondo il principio, richiamato dal Legislatore e contestualmente rinnegato, “lex orandi - lex credendi”). Non per nulla si è immediatamente passati dalla Messa a tutti gli altri Sacramenti ed alla catechesi per preparare la loro celebrazione… elemento però che apre alla funzionalità sistemica (cui si darà spazio più oltre). Non si ignori neppure come la “concessione” intenzionalmente ed espressamente fatta ad extra (= i Lefevriani) sia stata ben presto trasformata in una – incontrollata e spesso aggressiva – sostanziale “promozione” ad intra di tali concezioni teologico-sacramentali.

 

Non di meno, la disattesa reciprocità tra contenitore e contenuto, forma e sostanza, costituisce uno dei maggiori problemi di quella che, comunque, risulta essere una vera “riforma” a causa della discontinuità sostanziale rispetto alla precedente concezione non tanto del Processo matrimoniale ma del Matrimonio stesso. Lo snodo problematico – e la debolezza strutturale dell’intervento normativo effettuato – è ben visibile se si considera che il nuovo Processo di nullità matrimoniale si concentra unicamente sulle persone e la “qualità” del Consenso matrimoniale espresso: tutto il resto finisce per non contare (più) nulla poiché è, e sarà, solo il Consenso a poter “dire la propria” in Tribunale per dimostrare la nullità del proprio Matrimonio – visto che è per questo che si attiva il Processo – e su questo si era discusso nel Sinodo del 2014. Tale Processo, anzi, va promosso ed incentivato, dovendolo ormai considerare un’espressa pratica pastorale.

La questione, in realtà, è molto più profonda e tocca – in modo sistemico – l’intero impianto che la Chiesa cattolica ha lentamente costruito lungo i secoli intorno al Matrimonio ed alla sua “validità”; validità che di fatto, e significativamente (come anche per l’Ordine) passa prima dal Tribunale che dall’altare, ponendo problemi tutt’altro che secondari dal punto di vista espressamente teologico. La questione, tra l’altro, ha conosciuto una significativa evoluzione lungo l’ultimo secolo manifestandosi nelle sue vere coordinate soltanto a livello processualistico, sfuggendo così ai più. Col nuovo Processo matrimoniale, infatti, non si tratta più di sottoporre a verifica umana un evento metafisico (qual era il Sacramento tridentino e neoscolastico) ma solo un’attività umana, qual è il Consenso dei nubenti. L’aver tolto la necessità della doppia Sentenza conforme prevista dal CIC del 1983 per passare ad un unico Grado di Giudizio e, a maggior ragione, anche ad un Processo “più breve” affidato ad un’unica persona – per quanto “Vescovo” – non può non porre in evidenza questo sostanziale declassamento della “materia” del nuovo Processo, di fatto parificato così a qualunque “altra” questione di “diritti individuali” possa essere presentata ai Tribunali della Chiesa (cfr. Can. 1400). La cosa, in realtà, non meraviglia – anzi: viene confermata – poiché già nel passaggio dal Processo del CIC del 1917 a quello del 1983 erano mutati vari elementi e fattori proprio in questa prospettiva (come la caduta dell’Appello obbligatorio pro vinculo prescritto dal Can. 1986 del CIC del 1917). In tal modo: la nuova “forma” per verificare la validità del Matrimonio coinvolge direttamente anche la sua “sostanza” che, da quæstio metaphisica (= il Sacramento) diventa prevalentemente quæstio anthropologica (= il Consenso).

Nella stessa linea, e ben più profondamente, non risulta possibile supporre che quanto espressamente elencato nelle “Rationes procedendi” per l’applicazione del m.p. non influisca direttamente sul concetto stesso di Consenso matrimoniale. In esse, infatti, sono espressamente menzionate – con valore dispositivo, per quanto non esaustivo – specifiche circostanze sino ad oggi rintracciabili solo nella Giurisprudenza e nella derivata dottrina:

 

«Quella mancanza di fede che può generare la simulazione del Consenso o l’errore che determina la volontà, la brevità della convivenza coniugale, l’aborto procurato per impedire la procreazione, l’ostinata permanenza in una relazione extraconiugale al tempo delle nozze o in un tempo immediatamente successivo, l’occultamento doloso della sterilità o di una grave malattia contagiosa o di figli nati da una precedente relazione o di una carcerazione, la causa del Matrimonio del tutto estranea alla vita coniugale o consistente nella gravidanza imprevista della donna, la violenza fisica inferta per estorcere il consenso, la mancanza di uso di ragione comprovata da documenti medici, ecc.» (Rat.Proc., Art. 14 § 1).

 

Da ultimo – ma non banalmente dal punto di vista di una possibile futura “riforma” della Chiesa – anche le concrete modalità di realizzazione di una riforma “politica” di questa portata destano parecchie perplessità dal punto di vista tecnico-giuridico. Di fatto la modifica di una delle peculiarità assolute del Diritto della Chiesa (che costituisce anche la quasi totalità d’esercizio dell’attività giudiziale canonica) è stata realizzata in pochi mesi, da un gruppo di solo 11 persone, nel più assordante silenzio e osservando uno dei “segreti pontifici” più stretti (ed efficaci) che la storia della Chiesa ricordi. Se nulla pare eccepibile dal punto di vista dell’intervento “politico” – fulmineo e dirompente, a quaranta giorni soltanto dall’inizio dell’Assemblea sinodale del 2015 –, lo stesso non può dirsi dal punto di vista giuridico… tanto più se si confronta tale operatività – e molto maggiormente il (non) coinvolgimento tecnico e la consultazione – sia con quella che durante gli anni dal 1966 al 1980 aveva caratterizzato la precedente formulazione dei 21 Canoni in questione… sia, e più ancora, con la tanto “chiacchierata” – e politicamente non meno urgente – riforma del Libro VI (= Diritto penale) del CIC, in corso da anni, affidata al Pontificio Consiglio per i testi legislativi.

 

3.2 Funzionalità e portata sistemica della riforma

Il secondo gruppo di osservazioni riguarda l’ineliminabile reciprocità tra forma e contenuto, metodo e sostanza, chiedendo che venga data un’attenzione del tutto specifica alla funzionalità sistemica del Diritto: a quella caratteristica, cioè, che strappa il Diritto dalle mani – e, più ancora, dall’intenzione – del Legislatore per farne una delle tante “res” che popolano il quotidiano e gli uomini utilizzano “legittimamente” a proprio specifico vantaggio. D’altra parte, dopo Suárez e Kant, che cosa è più “doveroso” e “corretto” del Diritto? Chi può, infatti, contestare ciò che “il” Diritto ammette?

È questa una delle maggiori problematiche e debolezze della riforma giuridica appena attuata poiché – [a] in modo sostanzialista ed ontologico, [b] all’interno di una concezione ancora sistematica del Diritto – si è supposto che il semplice mutamento di 21 Canoni processuali non portasse conseguenza alcuna sull’Ordinamento giuridico ecclesiale in sé e per sé, implicando la possibilità di travalicare quanto “immaginato” dal Legislatore che voleva “soltanto” dare prossimità, celerità e gratuità ai Processi matrimoniali.

 

Le conseguenze reali, tuttavia, non si fermano affatto al mutamento indiretto degli elementi giuridici sostanziali del Matrimonio (v. supra) ma hanno coinvolto, soprattutto in Italia, l’intera struttura dei Tribunali ecclesiastici, che significa decine di Giudici e varie centinaia di Avvocati (“rotali” compresi) con gli effetti di un vero “tornado” che non ha ancora lasciato cadere a terra tutto quello che aveva sollevato. I fatti sono eloquenti in merito: dopo il 15 agosto 2015 si sono susseguiti vari interventi pontifici, diretti ed indiretti, connessi all’applicabilità e all’applicazione della riforma; anche in Italia, nonostante il regime del tutto peculiare dei suoi 19 “Tribunali ecclesiastici regionali” per la nullità dei Matrimoni. Al di là di molte questioni tecniche non utili alla presente riflessione, ciò che maggiormente rileva sotto il profilo sistemico è il fatto che mai nessun’altra Legge canonica avesse creato un tal numero di incertezze e reali difficoltà applicative in re… tali da sollecitare il Legislatore – soprattutto materiale (sic!) – a dover intervenire per evitare forme più o meno palesi di sostanziale rifiuto delle Norme, oltre che di loro non corretta applicazione.

Singolare, non di meno, è stata anche la “previsione” – che in realtà ha tutte le caratteristiche di una petitio principii – circa la necessità che sia la “prassi” ad indicare le adeguate modalità di applicazione della riforma effettuata… lasciando così che il de-strutturato (= il precedente sistema processuale) vada alla deriva ma senza fornire, al tempo stesso, indicazioni adeguate per rendere effettivamente fruibile il ri-strutturato (= il nuovo sistema riformato).

 

Dal punto di vista sistemico, poi, la situazione italiana è di grande interesse per l’istituzionalista poiché offre una chiara rappresentazione di cosa comporti il cambio delle Norme assunte in sé e per sé (in prospettiva ontologica) senza tenere in conto alcuno che cosa accadrà con la loro applicazione, soprattutto a riguardo delle concrete ricadute operative, spesso anche extra-canoniche, come accade (in Italia) per i contratti di lavoro dei Giudici laici che dovrebbero venir assunti dai vari Tribunali che i Vescovi diocesani dovrebbero erigere (le Diocesi italiane sono oltre 200!) ma senza disporre dei mezzi finanziari per potersi accollare tali costi; la C.E.I. (che fino ad oggi ha finanziato attraverso l’8x1000 il costo quasi totale dei 19 Tribunali matrimoniali eretti da Pio XI nel 1938) per parte propria, ha (inizialmente) detto che non si assumerà ulteriori oneri finanziari…

La questione vale anche per una parte almeno degli Avvocati ammessi a patrocinare le varie Cause: si è infatti parlato e scritto di “gratuità” dei Processi di nullità – e questo può riguardare i costi d’esercizio dei Tribunali (= le c.d. spese processuali del Can. 1649 §1, 1°-2°) –, ma chi dovrebbe pagare i professionisti che vengono coinvolti a sostegno delle posizioni di parte? In fondo, la loro è una professione autonoma e di alto profilo che non può perdere consistenza semplicemente per motivi economici. Più complessa – e, in realtà, aporetica – la situazione creatasi presso la Rota Romana che, dovendo offrire un servizio pienamente gratuito, si accolla anche i costi degli Avvocati forniti d’Ufficio alle parti, costi tuttavia fissati in tariffe oggettivamente inadeguate (alcune centinaia di € a Causa) e gravanti, oggi, sulle casse della Santa Sede. Tanto più che presso la Rota Romana possono patrocinare – ad oggi – solo Avvocati che abbiano conseguito l’apposito Diploma triennale rilasciato dallo “Studium Romanæ Rotæ”, dopo aver conseguito il Dottorato in Diritto canonico… e alle stesse Norme sono assoggettati anche i Patroni del Tribunale del Vicariato di Roma (e per l’intero Lazio).

 

 

4. Elementi conclusivi

Al termine dell’excursus critico qui presentato sul ruolo del Diritto canonico nella riforma e riformabilità attuale o futura della Chiesa, pare possibile fissare qualche elemento di carattere strutturale.

- In primis, parlare oggi di riforma della Chiesa non risulta un tabù dal punto di vista giuridico anche se, in effetti, sarebbe meglio parlare di “riforme nella” Chiesa, vista la grave frammentarietà ed il discutibile livello tecnico di quanto operato (in fretta) negli ultimi decenni.

- Una seconda acquisizione, non scontata, riguarda una sostanziale rinnovata attenzione (per quanto non sia ancora “fiducia”) verso il Diritto canonico e le sue reali potenzialità d’incidenza sulla concreta vita ecclesiale.

- Permane tuttavia, e risulta accresciuto negli ultimi anni, un grave deficit sia a livello concettuale che tecnico; deficit che può compromettere in modo anche fatale ogni cambiamento concepito in modo non-sistemico: cioè soltanto politico-pastorale, oppure soltanto giuridico.

 

Paolo Gherri (PUL)