PREMESSA
La presenza ed attività dei consacrati all’interno della vita ecclesiale costituisce una ricchezza indubitabile non solo per la Chiesa come tale (in senso universale), ma anche all’interno delle varie Circoscrizioni ecclesiastiche presenti sul territorio (Diocesi in primis). Il territorio, nondimeno, è lo spazio – unico – condiviso (o da condividere) tra le diverse espressioni ecclesiali che hanno preso vita lungo i secoli; un territorio che però, in quanto tale, continua ad avere per il Diritto canonico una referenzialità del tutto primaria, pur riconoscendo che non si tratta dell’unica possibilità d’individuare ed aggregare fedeli né di offrire loro la necessaria cura pastorale. In fondo, canonicamente, continua a valere il principio che solo la territorialità assicura a tutti e ciascuno i fedeli (ed anche i non tali) una referenzialità certa nei confronti di chi deve provvedere alla loro cura, indipendentemente dall’attività e solerzia dei singoli. Le forme di cura pastorale “personale”, invece, così come la vita religiosa (in quanto associata), esigono per loro stessa natura un plus d’impegno ed attività dei singoli per partecipare alla vita ecclesiale loro propria, quando non siano, invece, da ricondurre a situazioni di oggettiva limitazione della mobilità, come accade per l’ambito militare, carcerario oppure ospedaliero.
Da qui la scelta strutturale canonica (in realtà: un vero principio) che l’Autorità gerarchica territoriale (= il Vescovo diocesano, ed equiparati) risulti l’ultimo garante – e responsabile – di quanto si svolge sul territorio di sua competenza. Ciò soprattutto nei confronti delle forme di vita ecclesiale non-gerarchiche quali sono, prima di tutto, gli Istituti religiosi (e quanto giuridicamente ad essi comparabile almeno dal punto di vista funzionale). Il principio è coerente con la natura e la funzione espressamente “apostolica” del ministero episcopale riconosciuta nuovamente nel Concilio Vaticano II, mentre nel millennio precedente la sua trasposizione e concentrazione pontificia aveva fatto sì che sovente i religiosi (di Diritto pontificio) esercitassero tale apostolicità in nome e per mandato del Papa, spesso in dialettica proprio con l’Episcopato locale.
Ne consegue il profilarsi – e l’essersi ormai consolidato – di uno specifico ambito amministrativistico canonico dedicato proprio alle relazioni tra Vescovi diocesani (o Autorità gerarchiche territoriali equiparate) e religiosi (et similia): ambito divenuto di rinnovata attualità proprio a partire dalle affermazioni conciliari sul ministero episcopale che hanno indotto una rimodulazione e riproporzionamento di molti elementi e fattori, sia pratici che di principio, soprattutto a riguardo della cura pastorale, come mostra la Nota direttiva “Mutuæ Relationes” del 1978.
MINISTERO PASTORALE E VITA CONSACRATA
Il Capitolo V della Parte III del Libro II (Cann. 673-683): De apostolatu Institutorum, affronta sommariamente una tematica di grande interesse storico e teoretico direttamente connessa alla c.d. esenzione dei religiosi dall’Autorità episcopale territoriale, precisandone poco più che i criteri sostanziali senza, tuttavia, fornire sufficienti elementi di Procedimento adatti a gestire la materia in questione.
I Canoni più significativi al riguardo risultano il 678, il 681 ed il 683, rispettivamente in tema di:
- soggezione dei religiosi alla potestà episcopale nella cura animarum, nell’esercizio del Culto pubblico e delle opere di apostolato;
- affidamento ai religiosi di Opere specifiche, tra cui la cura pastorale di Parrocchie (Can. 520);
- Visita pastorale;
- cui va aggiunto il Can. 682 a riguardo del conferimento di Uffici ecclesiastici diocesani ai religiosi.
Il Codice menziona espressamente (cfr. Can. 681) la necessità di una “Convenzione scritta” tra il Vescovo diocesano ed il competente Superiore religioso solo al riguardo dell’affidamento di specifiche Opere (tra cui la Parrocchia – v. infra), limitandosi negli altri casi a prevedere semplicemente una “reciproca intesa” (= collatis consiliis) circa la quale, però, non si danno indicazioni di sorta ma che, ragionevolmente, è bene che non rimanga puramente orale.
a) Sotto il profilo della consistenza di queste “intese” le indicazioni del Can. 681 sono assolutamente esigue, prevedendosi soltanto: 1) quanto riguarda l’attività da svolgere, 2) il numero di religiosi da destinare all’attività, 3) gli aspetti economici. Queste tre indicazioni, sebbene debbano essere definite “expresse et accurate” non sono tuttavia sufficienti a riqualificare la genericità del prescritto codiciale che esplicita l’irrinunciabilità di questi tre elementi “inter alia”: tra tutte le altre cose di cui si ha consapevolezza, ma nessuna delle quali risulta comunque indicata. Con evidenza il “che cosa” (= l’opus) ed il “quanto” (= religiosi e soldi) sono gli elementi più delicati dell’accordo ed i primi a creare problemi o ad entrare in crisi, ciononostante la complessità del vissuto ha ben mostrato che anche il “come” non è meno importante, soprattutto quando si tratti di Opere proprie della Chiesa particolare che vengano commissionate all’Istituto religioso, il quale ha comunque una propria specifica modalità di vedere le cose e di attuarle secondo il Carisma ed il “patrimonio proprio” che la Chiesa stessa gli ha riconosciuto approvando l’Istituto stesso.
b) La specifica del modo scritto della Convenzione indicata dal Can. 681 §2 per i tre elementi sostanziali del rapporto di affidamento permette di evidenziare la labilità (aleatorietà) delle altre forme di accordo tra Vescovo diocesano e Superiore religioso indicate al Can. 678 §3 con un semplice e generico “collatis consiliis” che, nel cambio di persone, condizioni e circostanze, non risulta in grado di offrire certezze relazionali ed istituzionali stabili nel tempo. L’estrema utilità di un “Accordo quadro” (scritto) che accompagni ed adegui la presenza in Diocesi degli Istituti di vita consacrata in genere (e SVA) non può oggi essere considerata secondaria né inutile soprattutto nel delineare gli Organismi di rapporto e collaborazione tra la struttura diocesana (= Uffici pastorali e Consigli diocesani) e la presenza ed attività delle diverse forme della vita consacrata. L’esperienza dimostra, purtroppo, come la non tempestiva strutturazione (e messa in funzione) degli Organismi di collaborazione (e di controllo) tra Diocesi e IVC/SVA sia spesso destinata a creare grandi problemi relazionali, finendo per coltivare diffidenze, sfiducie, unilateralità ed arbìtri difficilmente ricomponibili in armonia e tutela delle reciproche pretese.
c) D’importanza non trascurabile sotto il profilo pastorale generale è anche il tema delle Associazioni di fedeli legate agli IVC/SVA (cfr. Cann. 312 §2; 611 2°; 677) che spesso, negli ultimi anni, hanno subìto grandi trasformazioni rispetto alle forme originarie ed ormai tradizionali (e ben conosciute) comunemente dette “Terzi Ordini”. Non pare trascurabile neppure la forte deriva movimentista che si va manifestando negli ultimi decenni attraverso un esplicito avvicinamento di singoli religiosi o d’intere Comunità religiose a c.d. Movimenti ecclesiali alla cui attività finiscono per dedicarsi direttamente (attraverso forme di ospitalità o di cura diretta) anche al di fuori delle linee pastorali e delle direttive diocesane; questioni tanto più complesse quando gli Istituti ospitanti sono clericali e possiedono un “proprio” Ordinario.
d) Alla tematica del rapporto pastorale con gli IVC/SVA appartiene anche, per gli Istituti laicali (= tutti i femminili), l’ambito dei Cappellani (cfr. Cann. 564; 565; 567) e Confessori che ne possano seguire la vita spirituale, liturgica e sacramentale attraverso un ministero stabile nei confronti di ciascuna Casa religiosa. Il reperimento in loco di Presbiteri adatti cui affidare tale Ufficio ecclesiastico deve essere convenuto tra Vescovo e Superiore religioso, così come la eventuale capacità dello stesso Istituto religioso di provvedere autonomamente a tale ministero ricorrendo a religiosi chierici di spiritualità identica (= ramo maschile) o fortemente affine (cfr. Can. 614 per i Monasteri femminili associati ad Istituti clericali).
e) Ulteriore fattispecie di rapporti pastorali tra Chiese particolari ed IVC/SVA è la gestione da parte di Istituti clericali di chiese aperte al pubblico, Santuari in particolare. La situazione rileva in modo specifico quando tale chiesa non assolva funzioni di chiesa parrocchiale, come avviene spesso in città o in luoghi storici di pellegrinaggio dei fedeli. Si tratta – storicamente – di situazioni di estrema delicatezza che richiedono, sia da parte dei religiosi che delle Chiese particolari, grande equilibrio e saggezza pastorale a causa del forte impatto spirituale, culturale ed emotivo che tali Opere hanno su grandi quantità di fedeli, spesso estranei alle ordinarie strutture parrocchiali. Mentre un tempo il maggior numero di dispute riguardava questioni economiche (= le offerte ed i c.d. diritti di stola), oggi si è molto più sensibili alle questioni legate alla celebrazione dei Sacramenti (= orario delle ss. Messe, Battesimi, Cresime, Matrimoni) e più ancora alla loro preparazione in ambito parrocchiale. La presenza di aggiornati – ed adeguati – strumenti di convenzione si rivela certamente un’efficacissima opportunità di collaborazione pastorale.
f) Sempre a quest’ambito dei rapporti ratione pastoralis tra Vescovo diocesano ed IVC/SVA vanno ricondotte alcune forme di presenza ed attività pastorale straordinaria di religiosi sul territorio diocesano: l’esempio più tipico è quello delle “Missioni al popolo” alle quali si dedica un certo numero di Istituti anche di nuova istituzione. Pur nella sua generalità (e genericità) il Can. 678 §1 permette (e richiede) ai Vescovi diocesani d’intervenire in merito anche vagliando, se del caso, l’opportunità di determinate “presenze” personali (= un determinato predicatore) e “manifestazioni” più o meno liturgico-pastorali. A ciò si aggiungano le norme sulla vigilanza in tema di predicazione, celebrazioni liturgiche ed amministrazione di Sacramenti previste dai Libri III e IV del CIC a carico dei Parroci e degli Ordinari del luogo. In questo caso sono i Parroci ad assumere una particolare importanza, ed è a loro che il Vescovo diocesano può indirizzare specifiche indicazioni o Provvedimenti in materia.
g) Anche l’Incardinazione in Diocesi di chierici appartenenti ad IVC/SVA di Diritto non pontificio richiede specifici Procedimenti: dalle Litteræ dimissoriæ perché si possa procedere alla loro Ordinazione diaconale o presbiterale (cfr. Cann. 1018; 1019 et passim) alla pattuizione delle loro “disponibilità” pastorali per il ministero nella Chiesa particolare. La fattispecie rileva in modo maggiormente specifico quando si tratti di chierici membri di IVC/SVA di Diritto diocesano o, più ancora, di Associazioni di fedeli, sempre di Diritto diocesano, che non siano ancora giunte all’erezione in IVC/SVA. In questi casi urge allo stesso Vescovo diocesano, che ricopre due funzioni concomitanti di controllo (se non anche di governo diretto), la strutturazione – attraverso adeguati Statuti, Regolamenti ed altre disposizioni normative – della tutela giuridica e sostanziale degli elementi implicati: 1) appartenenza alla Chiesa particolare (= Incardinazione e ministero), 2) tutela dell’adesione personale del chierico ad un Carisma che la stessa Chiesa particolare ha iniziato a riconoscere e promuovere.
EREZIONE, SOPPRESSIONE E USO DI CASE RELIGIOSE
Erezione di Casa religiosa
Una delle attività di maggior rilievo del Vescovo diocesano nei rapporti con gli IVC/SVA è costituita dall’Autorizzazione che egli deve rilasciare per la “erezione delle Case religiose”. Non è infatti possibile agli IVC/SVA collocarsi in modo stabile all’interno di una Chiesa particolare senza il beneplacito del Vescovo diocesano, o equiparato, non tuttavia del semplice Ordinario del luogo.
Il Can. 609 tratta ex professo dell’erezione all’interno della Diocesi di “Case di un Istituto religioso”: per esse occorre il consenso scritto del Vescovo diocesano. Senza la “Casa”, d’altra parte, non sarebbe possibile per l’Istituto religioso rendersi presente in modo stabile e legittimo in un territorio, poiché il Can. 608 aveva già stabilito che “la Comunità religiosa deve abitare in una Casa legittimamente costituita”, per dare la giusta visibilità ed ufficialità all’Istituto la cui presenza costituisce già di per sé una risorsa ecclesiale e pastorale (cfr. Cann. 673; 675).
a) In merito a tale “costituzione legittima” della Casa religiosa, non è recepibile la distinzione – artificiosa – tra il “legittimamente costituita” del Can. 608 e la “erezione della Casa” del Can. 609, recentemente affermata in dottrina, secondo cui
«va anzitutto detto che la costituzione di una Casa religiosa non è lo stesso che la erezione di una Casa. L’erezione ha un significato tecnico preciso: riguarda un Atto che dà origine a una persona giuridica. La costituzione invece di una Casa religiosa significa semplicemente la determinazione di una Casa in modo che in essa i religiosi in fedeltà al loro obbligo di abitare in una Casa religiosa per la vita comune, ci stiano legittimamente in quanto religiosi».
Un tal modo di porsi, infatti, va espressamente contro la mens della Normativa che esige il consenso scritto del Vescovo diocesano affinché i religiosi possano abitare/risiedere/dimorare… stabilmente – a qualunque titolo – all’interno del territorio diocesano, e ciò Casa per Casa. È evidente che altrimenti l’effettiva valutazione (e controllo) episcopale sulla presenza ed attività dei religiosi nel territorio diocesano non potrebbe realizzarsi, né si realizzerebbe l’equilibrio “pastorale” presupposto alla fruttuosità di tali presenze. La questione merita di non essere sottovalutata poiché capita spesso che per una serie di “buone ragioni” molti IVC/SVA – soprattutto non clericali – realizzino in vari luoghi “convivenze” anche pluriennali senza istituire giuridicamente la Casa religiosa di cui al Can. 608 e, soprattutto, senza l’Autorizzazione del Can. 609. In tali casi i religiosi rimangono ascritti alla Casa di provenienza e nella nuova sede viene a crearsi una semplice presenza di fatto ma extra/contra Ius, configurando forme minori di presenza istituzionale che evitano l’incombenza di chiedere l’apposito consenso scritto del Vescovo diocesano, creando così situazioni di vera illegittimità canonica (= non coincidenza dello status Iuris con lo status facti) cui il Vescovo dovrà opporsi prima che diventi troppo tardi. Col passare del tempo, infatti, la presenza – ovviamente “pubblica” e spesso anche ministeriale – di tali religiosi metterà il Vescovo nella difficile situazione di dover forzosamente accordare l’Autorizzazione all’erezione di tale Casa religiosa, privandosi del necessario spazio di discernimento previsto dal Diritto stesso. Nondimeno: un rifiuto alla erezione di tale Casa religiosa potrebbe trovare proprio nella “irregolarità” del suo iter costitutivo un valido motivo giuridicamente spendibile. Resta però il fatto che – per contro – la tolleranza episcopale (lungamente) accordata a tale condotta da parte dell’Istituto potrebbe costituire motivo di legittima pretesa (o aspettativa) da parte dei religiosi stessi (v. infra).
b) Ciò che riguarda la necessaria valida costituzione di Casa religiosa, tuttavia, non riveste importanza solo per il Vescovo diocesano, ad essa infatti dev’essere ricondotta anche la questione (e connessa Normativa) circa il domicilio canonico dei membri di tali IVC/SVA; domicilio che coincide con la Casa religiosa di assegnazione e dal quale dipende la corretta ed efficace identificazione del Superiore immediato del religioso stesso (= Superiore della Casa e correlata Comunità), oltre che il luogo geografico (e fisico) in cui la persona deve dimorare stabilmente ed esercitare il proprio ministero o la propria funzione in dipendenza dall’IVC/SVA di appartenenza. La questione rileva soprattutto per motivi disciplinari (e penali) poiché l’assenza protratta e non giustificata (o legittima) dalla Casa di assegnazione costituisce un motivo ormai standardizzato di possibile/necessario intervento da parte dei Superiori (cfr. Can. 665). Una “Casa” disarticolata in più “dimore” sarebbe una fonte di problemi non irrilevanti anche per l’Istituto come tale.
c) Operativamente, per quanto riguarda la natura formale del Provvedimento richiesto al Vescovo diocesano, il Can. 609 parla di “consenso scritto”, indicando così un Atto che – sebbene portatore di una vera decisione sostanziale – comporta tuttavia, per sua stessa natura, una richiesta da parte di un soggetto interessato, profilando però un Rescritto più che un Decreto, con le relative ricadute, soprattutto a livello di tutele. La differente “qualità/identità” dell’Atto episcopale, infatti, apre orizzonti procedimentali diversi in caso di mancata concessione del consenso, sia espressa che tacita (v. infra). A norma di Codice latino parrebbe non percorribile la via del Decreto poiché, secondo il Can. 48, esso qualifica un Atto “originario” dato per “applicare la Legge” in due direzioni fondamentali: “decidere” una questione disputata o “provvedere” a qualche funzionalità della vita ecclesiale (Uffici ecclesiastici in primis, ma non esclusivamente). In questa prospettiva deve invece considerarsi che un “consenso” riguarda sempre l’attività di altri, alla quale non si pongono ostacoli: un’attività che non potrebbe esser “fatta propria” come, p.es., la concessione di una “grazia” motu proprio (cfr. Cann. 38; 63). Nondimeno un consenso, di per sé, non costituisce necessariamente attività potestativa, visto che molti dei consensi conosciuti dal CIC non provengono affatto da Autorità di governo ma sono vere “condizioni” per emettere Atti di governo. Non pare, pertanto, possibile uscire dall’ambito della risposta discrezionale – comunque non arbitraria –, sebbene necessariamente “fondata” e sostenibile anche innanzi a terzi eventualmente coinvolti nella trattativa.
Il Procedimento sostanziale risulta comporsi, pertanto, di due Atti formali redatti per iscritto:
- la Richiesta della competente Autorità religiosa di poter erigere la Casa religiosa di cui al Can. 608 (che è bene citare nella domanda),
- l’Atto episcopale con cui si concede il consenso di cui al Can. 609 (che è bene citare nella risposta).
Un Procedimento di questo livello, tuttavia, sebbene semplice in linea teorica, pone non pochi problemi sotto il profilo sostanziale, soprattutto nel caso in cui si tratti di un IVC/SVA non ancora presente in Diocesi o, più ancora, di un Istituto “nuovo” quanto a fondazione/riconoscimento, oppure ancora, proveniente da altri contesti socio-culturali. In questa prospettiva, infatti, la fattispecie codiciale – unica – “erezione di nuova Casa religiosa” (cfr. Can. 609) finisce per sdoppiarsi in due differenti tipologie: 1) nuova Casa religiosa di un Istituto già presente ed operante in Diocesi, 2) nuova Casa religiosa di un Istituto che si presenti come nuovo per la Diocesi in cui si chiede di erigere tale Casa (v. infra).
a) Nell’autorizzare l’erezione in Diocesi di una nuova Casa religiosa il Vescovo non può trascurare alcuni elementi, a prima vista solo formali, che rivestono però una particolare importanza sostanziale nel qualificare la portata e fondatezza della decisione che gli viene chiesta, soprattutto per le conseguenze intrinseche che l’Autorizzazione di fatto “contiene”. Erigere una Casa religiosa, infatti, comporta ex Lege alcune autorizzazioni implicite concesse agli IVC/SVA in questione; autorizzazioni che non riguardano l’attività interna alla Casa stessa (su cui il Vescovo diocesano, di per sé non ha alcuna possibilità d’interferire) ma attività esterne rivolte espressamente alla generalità dei fedeli presente sul territorio circostante ed affidato alla cura pastorale e responsabilità del Vescovo stesso.
Le Autorizzazioni codiciali sono due, sempre valide per ogni Istituto:
- svolgere le “Opere proprie” dell’Istituto, secondo il Carisma (cfr. Can. 611),
- fondare ed accompagnare eventuali Associazioni di fedeli connesse al Carisma dell’Istituto stesso (cfr. Can. 312);
- nel caso, poi, si trattasse di Istituti “clericali” (che, cioè, assumono l’esercizio del ministero come loro Carisma) non si potrà vietar loro la disponibilità di una chiesa, come edificio aperto al Culto pubblico (cfr. Can. 611, 3°).
b) Riguardo alla formulazione del “consenso scritto” del Vescovo, soprattutto in base alla “qualità” attribuitagli occorre fare qualche considerazione. Se, infatti si trattasse di un Decreto, il Can. 51 prescrive che tale provvedimento autoritativo contenga, saltem summarie, le motivazioni; se, al contrario, si tratta di un Atto di maggior discrezionalità, le motivazioni non risultano di per sé costitutive, sebbene non irrilevanti. Mentre, poi, nel caso in cui la decisione sia affermativa non appare difficile corredarla anche di una gran quantità di elementi a favore, più delicato risulta, invece, il caso contrario: una risposta negativa, infatti, non sufficientemente motivata non solo potrebbe suscitare reazioni negative da parte del richiedente, ma potrebbe dar adito anche a possibili “questioni” da parte del Superiore religioso che si vedesse negato il consenso all’erezione della nuova Casa religiosa, potendosi giungere anche al Ricorso gerarchico presso la Congregazione per gli IVC/SVA (cfr. Can. 1733 §1).
c) Il Procedimento di per sé non può trascurare neppure il fatto dei tempi ordinariamente previsti dal Codice per le “risposte” cui l’Autorità di governo è tenuta: tre mesi. Trascorso inutilmente tale termine, il Superiore religioso potrà indirizzare al Vescovo un proprio “sollecito” chiedendo di provvedere alla richiesta inoltratagli, in quanto la lunga attesa risulta un (oggettivo) aggravio per le attività e/o lo sviluppo dell’Istituto. A rigor di Codice non pare possibile utilizzare in questi casi quanto previsto dal Can. 57 (e connesso Can. 1734 §3) per “impugnare” (in senso lato) i Decreti, poiché – nel caso specifico – si tratta di “consenso” ed il Canone, di per sé, non vale per i Rescritti ma solo per i Decreti. Allo stesso modo non risulta realmente ipotizzabile una Remonstratio, in quanto essa ha senso solo contro il “contenuto” di una decisione: si fa rimostranza verso un contenuto che non si condivide; la sua assenza – invece – non permette rimostranza. Né il semplice silenzio rispetto ad una richiesta apre di per sé lo spazio delle “tutele”, se non quando specificamente previsto per specifici Atti. Gli strumenti codiciali ordinari non paiono in grado di offrire altre vie per ottenere il necessario consenso. Ciò non esclude che si possa coinvolgere, da parte del Superiore religioso, la Congregazione per gli IVC e le SVA per impostare la vicenda secondo modalità di maggior efficacia.
d) A seguito dell’Autorizzazione episcopale, l’erezione canonica della Casa religiosa è Atto (= Decreto di erezione) della legittima Autorità dell’Istituto erigente, secondo quanto stabilito per i diversi Istituti dalle loro Costituzioni. La nuova persona giuridica pubblica, infatti, verrà eretta all’interno di una Provincia o di altra ripartizione interna dell’Istituto.
Soppressione di Casa religiosa
Come l’erezione della Casa religiosa è opera dell’Autorità dell’Istituto, secondo il dettato delle Costituzioni dell’Istituto stesso, allo stesso modo la sua soppressione deve avvenire per Provvedimento della competente Autorità dell’Istituto erigente: a norma del Can. 616 §1 il Moderatore supremo (o chi altro stabilito dalle Costituzioni).
a) Giova ricordare in questa sede come la soppressione di Casa religiosa sia un Atto necessario e dovuto quando tale Casa abbia con certezza interrotto le proprie attività e la presenza dei religiosi sia ormai definitivamente cessata. L’attributo giuridico di “Casa religiosa” infatti non riguarda la struttura muraria come tale (= il fabbricato), ma la sua specifica destinazione ad ospitare una precisa Comunità religiosa di un determinato IVC/SVA.
b) In caso d’inadempienza del Superiore religioso competente, sebbene il Codice non stabilisca nulla in merito, tocca comunque all’Ordinario del luogo (visto che si tratta di potestà esecutiva e non esiste riserva di Legge) rendersi parte diligente nell’esigere dall’Istituto stesso la soppressione della Casa religiosa ogni qual volta essa venga abbandonata (in modo stabile, cioè senza evidente intenzione di ritornarvi a breve) dall’Istituto religioso che l’abitava, in modo – anche – da evitarne la futura revivescenza. Risponde comunque a correttezza anche giuridica la pretesa dell’Autorità esecutiva di governo che lo status Iuris che formalizza e gestisce la correttezza delle relazioni intraecclesiali coincida – quanto prima e quanto meglio possibile – con lo status facti di quanto accade nella Chiesa, onde evitare l’insorgere di spiacevoli situazioni dovute proprio a differenti “presunzioni” in merito alla realtà stessa delle cose.
c) Poiché, tuttavia, il Can. 616 §1 attribuisce tale competenza tendenzialmente al Moderatore supremo dell’IVC in questione, è necessario che l’Ordinario del luogo lo interpelli segnalando le circostanze e chiedendo formalmente che si proceda a quanto dovuto per Legge. Dal punto di vista del Procedimento si tratta della legittima richiesta di un Atto dovuto per Legge a cui l’Autorità destinataria dovrà rispondere secondo le norme già stabilite per i Rescritti in genere (= tre mesi); il silenzio dell’interpellato dà adito alla possibile messa in atto della Procedura dei Cann. 1732ss. (= Remonstratio per la negazione di un Atto dovuto, Ricorso al Superiore gerarchico: nel caso specifico la Congregazione per gli IVC/SVA se l’Istituto in questione è di Diritto pontificio). Dal punto di vista procedimentale:
1°) una volta avuta notizia dell’allontanamento definitivo dei religiosi (= chiusura della Casa), l’Ordinario ne chieda conferma scritta al Parroco unitamente alle circostanze del fatto;
2°) l’Ordinario scriva al Moderatore supremo dell’Istituto in base alle informazioni in suo possesso e chiedendo la soppressione della Casa religiosa in questione;
3°) trascorsi inutilmente i tre mesi l’Ordinario inoltri allo stesso Moderatore supremo la propria Remonstratio per l’inadempienza da cui si trova “onerato” nel non ricevere un Atto dovuto la cui assenza, per di più, rende di Diritto impossibile accogliere presso lo stesso immobile un nuovo Istituto religioso che – infatti – non potrebbe erigere la propria Casa religiosa nello stesso fabbricato in cui già/ancora ne sussista una di altro Istituto.
Tale Procedimento va effettuato indipendentemente dalla proprietà della Casa religiosa che non ha alcuna interferenza con la sua specifica destinazione d’uso; a maggior ragione tuttavia se il fabbricato appartiene alla Parrocchia o ad un altro Ente canonico soggetto al Vescovo diocesano, onde evitare complicazioni a causa di eventuali diritti reali e prescrizioni che potessero maturare nel frattempo a favore dell’Istituto religioso occupante.
Cambio di destinazione d’uso di Casa religiosa
Fattispecie giuridicamente analoga a quella di erezione della Casa religiosa è il suo cambio di destinazione d’uso (cfr. Can. 612), in quanto in tal modo vengono a mutare sia i motivi della richiesta del Superiore religioso per erigere quella Casa, in quel luogo, con quelle caratteristiche, sia quelli del Vescovo per la sua (non) Autorizzazione. Alla base della norma sta la necessità che in tal modo non venga stravolta la fisionomia della presenza religiosa in Diocesi e, quindi, l’intera relazionalità.
La questione non è meramente formale, come potrebbe apparire a prima vista; la trasformazione, infatti, di un’infermeria per religiosi, o di una scuola in una casa di spiritualità, oppure in uno studentato universitario comporta un inevitabile contraccolpo sul ruolo di quella Casa, ma soprattutto della Comunità religiosa ivi residente, all’interno del tessuto pastorale locale, come pure degli equilibri pastorali diocesani (come potrebbe risultare, p.es., per Pastorale giovanile in questo caso).
a) La delicatezza della circostanza rileva in espressa connessione coi “diritti” annessi ex Lege all’erezione della Casa, soprattutto quando il cambio d’uso riguardi strutture in qualche modo tecniche dell’Istituto religioso (= Case di formazione per i membri; infermeria; Curia provinciale, ecc.) trasformate in strutture dedite in modo più espresso alle Opere proprie dell’Istituto: Opere differenti per ciascun Istituto, con la possibilità che qualcuna di esse risulti non adeguata oppure non opportuna, a giudizio del Vescovo, per il territorio in questione o gli equilibri della vita diocesana.
In ogni modo si ripropone la dinamica di base dell’erezione: domanda del Superiore e risposta scritta del Vescovo.
b) Come già per la soppressione della casa religiosa, anche per il cambio di destinazione d’uso il Vescovo può (e deve) farsi parte attiva verso i Superiori dell’Istituto stesso, chiedendo ragione – inizialmente – del cambio delle attività svolte presso la Casa, quindi – in modo incrementale – esigere la corrispondenza tra status facti e status Iuris, e le necessarie richieste per mutare l’utilizzo della Casa; eventuali scorrettezze da parte dei religiosi in questa materia possono essere contestate dal Vescovo come a qualunque altro soggetto ecclesiale, tanto più che i Cann. 609 e 612 risultano di assoluta chiarezza e tutelabilità giuridica.
ACCOGLIENZA IN DIOCESI DI NUOVI IVC E SVA
Si è già segnalato come nulla sia stabilito direttamente nel CIC a riguardo dell’ingresso in Diocesi (o altra Circoscrizione territoriale ecclesiastica) degli IVC e SVA; un ingresso che si configura sotto ogni profilo come fattispecie del tutto autonoma rispetto alle insufficienti previsioni codiciali. A sostegno della necessità d’Autorizzazione all’ingresso sta indirettamente anche il Can. 312 §2 a riguardo dell’erezione in Diocesi di sezioni di Associazioni pubbliche di fedeli, anche sostenute da Privilegio apostolico: è sempre necessaria l’Autorizzazione scritta del Vescovo diocesano.
a) La principale differenza tra Istituti già presenti in Diocesi ed Istituti di nuova ammissione si colloca essenzialmente a livello di conoscenza: mentre infatti nel primo caso la familiarità personale e pastorale acquisita e consolidata in decenni o secoli di presenza e rapporto rende plausibile che le questioni da esaminare per la nuova erezione siano di carattere poco più che circostanziale e di opportunità spirituali, pastorali ed economiche (cfr. Can. 610), nel secondo caso si pone il problema previo di una vera conoscenza dell’IVC/SVA richiedente, del suo Carisma, della sua spiritualità, delle Opere ed iniziative pastorali connesse alla sua presenza, delle Associazioni di fedeli collegate e promosse, della sua organizzazione, della possibile integrazione nel tessuto sociale, ecclesiale e pastorale, ecc. Si aggiungano a ciò domande e legittime previsioni circa la fruttuosità spirituale e pastorale dell’inserimento dei nuovi arrivati, sia chierici che non.
b) Dal punto di vista del Procedimento di per sé gli elementi da considerare sono gli stessi già illustrati: domanda del Superiore, risposta scritta del Vescovo entro tre mesi (v. supra). Risulta tuttavia necessario aggiungere qualche considerazione specifica per la fattispecie in riferimento alla tempistica del Procedimento.
La natura delle cose, infatti, non può far trascurare l’insufficienza dei tempi previsti dal Can. 57 §1 per i Rescritti: tre mesi per rispondere alla petizione del Superiore religioso richiedente. Un tale tempo, infatti, per decidere e rispondere appare del tutto insufficiente nel caso poiché, sebbene la previsione complessiva e sommaria del Can. 50 non permetta di dedurre specifici Procedimenti di consultazione, vista però la delicatezza e particolarità del caso, appare necessario che il Vescovo, pur in piena libertà, proceda ad una consultazione degna dei “maggiori momenti” della vita diocesana. Anche se non è possibile stilare una lista completa di Organismi da consultare, pare tuttavia logico non trascurarne alcuni costitutivamente adatti al genere di questione: Consiglio episcopale (se presente), Consiglio presbiterale, Consiglio pastorale diocesano, Consulta o Vicario/Delegato diocesano per la vita consacrata, responsabili degli Uffici pastorali diocesani, Vicari foranei, ecc.
Il fattore tempo acquisisce così un ruolo fondamentale nella strutturazione del Procedimento imponendo – o suggerendo – cautele operative per non trovarsi pressati da troppi elementi che non permettano un adeguato discernimento. Se, infatti, in tre mesi non dovrebbe esser difficile mettere a punto gli elementi per l’apertura di una nuova Casa di un Istituto religioso già conosciuto e presente in Diocesi, lo stesso periodo di tempo risulta certamente inadeguato per conoscere un nuovo Istituto e valutarne l’impatto pastorale con la complessità della realtà diocesana. In tal caso è opportuno che il Vescovo, o chi si occupa in via preliminare della trattativa per l’accoglienza del nuovo Istituto, strutturi un percorso previo di avvicinamento e conoscenza della nuova realtà, avviando anche le fasi portanti della consultazione e chiedendo tempi ragionevoli per valutare e decidere. Solo al termine di questa fase istruttoria (che potrebbe anche chiedere tempi che vanno oltre l’anno) si potrà attivare la fase decisoria vera e propria: richiesta del Superiore religioso e risposta scritta del Vescovo diocesano.
c) Al di fuori dello stretto Procedimento tecnico per la redazione del consenso o del rifiuto dell’ingresso in Diocesi del nuovo Istituto occorre non tralasciare altri elementi che entrano comunque in gioco in questo genere di questioni: si tratta della redazione di un vero e proprio Accordo quadro che stabilisca gli elementi portanti del rapporto che si instaurerà tra Diocesi ed Istituto religioso come tale, prevedendo in modo chiaro i reciproci impegni e le disponibilità, le questioni relative all’impegno pastorale dei religiosi (v. infra) e le condizioni patrimoniali ed economiche relative alla fruizione degli immobili necessari alla loro residenza ed attività, soprattutto nei casi in cui tali IVC/SVA non possiedano – né intendano possedere – propri fabbricati in cui risiedere e presso cui svolgere le loro attività.
Tale Accordo non risulta prescritto dal Diritto comune, ma la complessità delle relazioni e gli elementi d’instabilità numerica ed organizzativa che affliggono in modo significativo tanti Istituti (in ragione del c.d. calo di vocazioni) lo consigliano caldamente a tutela reciproca, affinché non vengano coltivate attese o pretese che portino poi a difficoltà relazionali e dissapori davanti a richieste cui non sia possibile rispondere positivamente.
d) Le questioni circa l’accoglienza in Diocesi di nuovi IVC/SVA rivestono oggi in alcune parti del mondo un’importanza non secondaria, soprattutto in riferimento all’innovativa mobilità dimostrata da tante Congregazioni femminili (specialmente asiatiche) disponibili – o interessate – ad una collocazione nel mondo occidentale con ruoli spesso differenti da quelli che le religiose vi avevano già occupato storicamente. Il fatto rileva ancor di più a livello diocesano a causa dell’intraprendenza di tanti Parroci che, pur di assicurarsi una presenza religiosa che faccia in qualche modo fronte alla diminuzione di clero, riescono spesso a provvedere in modo autonomo accogliendo in Parrocchia nuovi Istituti religiosi femminili d’origine extra-europea senza neppure “passar parola” alle competenti Autorità diocesane, che in tal modo, nel giro di qualche decennio, vedranno completamente rivoluzionato il quadro della vita religiosa locale senza aver potuto provvedere all’organizzazione ed indirizzo di una componente così significativa e fondamentale della vita cristiana.
In questo contesto di “fai da te” parrocchiale non si può trascurare il forte rischio d’invalida costituzione della Casa religiosa (con quanto ad essa connesso a livello pastorale) proprio per l’assenza dei requisiti richiesti dal Can. 609 e connessi; né può esser certamente considerata valida a tal fine la precedente erezione da parte di altro Istituto non più presente.
CONVENZIONI CON IVC/SVA PER L’AFFIDAMENTO DI PARROCCHIE
Il già accennato Can. 520 §2 esplicita (in sede completamente estranea all’apostolato degli Istituti) la particolarità storica dell’affidamento di una Parrocchia ad un IVC/SVA clericale: la formula testuale adottata è praticamente identica a quella già illustrata del Can. 681 §2 per le altre Opere che il Vescovo diocesano affidi ai religiosi. La particolarità della circostanza merita tuttavia alcuni approfondimenti anche prendendo spunto dalla “Bozza di Convenzione” messa a punto per l’Italia dalla C.I.S.M. e dalla C.E.I. col patrocinio della Congregazione per IVC e SVA.
a) Il primo elemento che tale Convenzione deve contenere riguarda la durata di tale affidamento: in perpetuo (senza cioè fissare previamente una scadenza, ma con una prospettiva che non preveda, di per sé, recesso) o per un determinato tempo più e meno lungo (da 3 a 20 o 30 anni, p.es.).
b) Il secondo elemento riguarda la proprietà dei beni immobili destinati all’utilizzo quale chiesa parrocchiale, casa canonica, opere parrocchiali e loro pertinenze. Tali beni potrebbero appartenere originariamente sia alla Parrocchia stessa che viene affidata ai religiosi con (tutte) le proprie strutture, sia ad un IVC/SVA i cui fabbricati (ed immobili in genere) vengano messi a disposizione – parziale – quale sede della Parrocchia. È necessario dedicare a questa tematica accurate attenzioni poiché la materia si è sempre prestata nei secoli a querelles e questioni di vario tipo che hanno visto sovente le Diocesi soccombere a vantaggio dei religiosi, costrette spesso a “riscattare” le strutture parrocchiali (soprattutto di nuova costruzione) o ad indennizzare i religiosi per opere di manutenzione ed ampliamento non espressamente trattate negli accordi d’inizio collaborazione e le cui spese sono state sostenute in buona parte dai fedeli della Parrocchia stessa, seppur coordinati dal Parroco religioso.
c) Ancora in termini patrimoniali è necessario concordare e stabilire i criteri della corretta attribuzione (e titolarità) delle spese di gestione dei fabbricati adibiti ad uso parrocchiale e di quelli adibiti a Casa religiosa; allo stesso modo per le entrate e le offerte di vario genere che il Codice stesso disciplina con chiarezza ai Cann. 531 e 1267 §1; lo stesso dicasi per la distinzione dei conti correnti bancari (ed altre forme di deposito/investimento finanziario) tra Parrocchia e Casa religiosa. I religiosi in questione sono tenuti altresì alla corretta e precisa compilazione e presentazione dei Rendiconti parrocchiali di cui al Can. 1287 §1, alla costituzione e funzionamento del Consiglio parrocchiale per gli affari economici, al versamento delle c.d. Imposte diocesane relative all’attività della Parrocchia, nulla ostando in queste materie la specifica condizione di religiosi né l’eventuale duplicità di strutture ed adempimenti in ragione della doppia configurazione della loro attività, come Parrocchia e come Casa religiosa, soggetta sì a due Ordinari ma in ragione di vincoli differenti e non conflittuali.
d) Anche il numero di presbiteri da dedicare espressamente al ministero parrocchiale dev’essere precisato in Convenzione, così come il loro rapporto con l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero (o equivalenti fuori dall’Italia) che non può assumere il carico di tutti i religiosi della Casa se non nella misura in cui svolgano l’effettiva mansione di Vicari parrocchiali.
e) La vita ed attività, invece, della Casa religiosa come tale – al di là delle funzioni/attività parrocchiali – dev’essere adeguatamente tenuta distinta, così come la sua gestione economica, le attività ed Opere proprie dell’Istituto e/o di suoi membri residenti in tale Casa religiosa che, proprio per tali fini, dev’essere mantenuta adeguatamente distinta dalla c.d. Casa canonica o almeno dagli Uffici parrocchiali, in modo tale che sia facilmente possibile distinguere anche dall’esterno a “quale” dei due soggetti giuridici (Parrocchia o Casa religiosa) vadano attribuite specifiche attività, referenze e – soprattutto – responsabilità. Anche la non-identificazione del Parroco col Superiore della Casa è sempre una buona scelta sotto questo profilo.
CONVENZIONI E CONTRATTI CON IVC/SVA
Trattando delle Convenzioni tra Enti gerarchici ed altri Enti canonici si è già fatto cenno al possibile affidamento ad IVC/SVA sia di Opere che di attività da parte, soprattutto, di Diocesi o Parrocchie (v. supra: capitolo decimo). Al di là di quanto già illustrato a tal proposito, è necessario in questa sede dedicare attenzioni più specifiche a tale materia tenendo espressamente conto – questa volta – delle peculiarità, soprattutto operative, degli IVC/SVA.
a) La prima ed irrinunciabile attenzione riguarda il fatto che gli IVC/SVA, sottoscrivendo un’apposita Convenzione, possono coinvolgersi in attività/Opere di terzi fondamentalmente secondo due differenti modalità di realizzazione: quella diretta e quella indiretta.
- Si parla di realizzazione diretta quando è l’Istituto come tale (cioè: in quanto Ente canonico) ad assumere l’attività/Opera attraverso una propria specifica organizzazione e dedizione di risorse personali e strumentali, facendosene completamente carico in modo molto simile alla gestione di “proprie” attività/Opere;
- la realizzazione risulta, invece, indiretta quando sono soltanto membri dell’Istituto ad assumere in modo individuale – sebbene condiviso – tale impegno, senza che l’Istituto in sé e per sé figuri in nulla in tale attività.
Nella prima modalità l’Istituto assume direttamente la gestione, p.es., della scuola o della casa di riposo (diocesana o parrocchiale), nella seconda, semplicemente, fornisce il personale (religioso) a chi gestisce tali Opere (= la Diocesi o la Parrocchia).
b) La diversa modalità di coinvolgimento dell’Istituto, pur risultando spesso impercettibile ai destinatari dell’attività (i quali semplicemente si trovano a contatto con i religiosi anziché con personale laico), comporta enormi differenze dal punto di vista giuridico per entrambi i contraenti della Convenzione soprattutto negli ambiti economico, giuslavoristico, tributario e patrimoniale. Proprio le precise e consapevoli implicanze e ricadute delle diverse configurazioni operative, pertanto, devono orientare la scelta del tipo di affidamento da proporre (e, correlativamente, accettare) attraverso la Convenzione che, in realtà, costituisce soltanto un Accordo quadro in cui i contraenti fissano le proprie richieste e disponibilità, sia [a] a riguardo dell’attività/Opera come tale, sia [b] in riferimento alle risorse personali e materiali da porre in gioco, sia [c] in riferimento alla durata dell’accordo stesso. Tutto il resto – almeno nel mondo occidentale – dev’essere declinato attraverso il Diritto civile e tributario del luogo.
Realizzazione diretta
Le attività/Opere che, in genere vengono affidate da un Vescovo (o Parroco) ad un IVC/SVA sono fondamentalmente di tre tipi: 1) cultuali, 2) religiose, 3) non cultuali.
a) Per quanto riguarda le attività/Opere cultuali, oltre al caso tipico dell’affidamento di Parrocchia (v. supra), è possibile che ad un Istituto clericale venga affidata la gestione di un Santuario o altro luogo di Culto. Tali attività/Opere, poiché espressamente cultuali, in genere non creano particolari difficoltà in ambito civilistico e tributario, soprattutto in ragione del fatto che solo i chierici come tali possono svolgerle direttamente.
b) Si può parlare di attività religiose, più che di vere Opere, in riferimento soprattutto alla Catechesi e all’esercizio di attività espressamente pastorali quali, p.es., la visita alle famiglie e ai malati, l’animazione liturgica, ecc.; attività che possono essere svolte senz’alcuna limitazione sia da religiosi che da religiose, soprattutto a livello parrocchiale dove la presenza di due o tre religiose (di solito) costituisce una grande ricchezza per la vita ecclesiale. Anche queste, come le cultuali, in ragione della loro completa extra-commercialità del loro esercizio non generano, in linea di massima, particolari problemi sotto il profilo civilistico.
c) Tutte le altre attività, invece, ricadendo a vario titolo nei campi dell’istruzione, della formazione o dell’assistenza, sono facilmente soggette alle Normative statali (e sovrastatali) relative a tali attività, in ragione, principalmente, dell’aspetto giuslavoristico e tributario che le riguarda. Scuole, cliniche, Istituzioni educative ed assistenziali, rientrano ormai a pieno titolo tra le attività che chiunque, a livello civile, può svolgere, ponendone in risalto l’aspetto oggettivo (= ciò che viene realizzato) anziché quello soggettivo (= chi lo realizza) cosicché, indipendentemente da chi le svolga (religiosi, volontariato, Società cooperative sociali, imprenditori) le modalità organizzative (= lavoro, finanziamento, Imposte) sono pressoché uguali per tutti.
In tal modo: assumere direttamente un’attività/Opera non cultuale comporta l’immediato assoggettamento al Diritto commerciale/tributario/del lavoro del luogo di sua realizzazione, sia che l’attività/Opera esista già, sia che la si debba “mettere in piedi”. Per realizzare quanto concordato nella Convenzione l’Istituto dovrà pertanto creare in proprio o acquistare dall’Ente commissionante l’attività d’Impresa corrispondente, facendone in tutto e per tutto un’attività/Opera dell’Istituto stesso – sebbene non originaria –, oppure creando un apposito Ente strumentale per la sua gestione.
Nello stipulare la Convenzione per una realizzazione diretta è necessario che entrambi i contraenti abbiano piena consapevolezza di alcuni elementi di carattere gestionale non immediatamente percepibili ai più.
a) Prima di tutto: se l’Istituto possiede tutto il personale necessario alla realizzazione dell’attività/Opera, l’unica incombenza strutturale che rimane a suo carico è quella tributaria, in relazione all’Utile effettivamente realizzato e – soprattutto – soltanto per la durata della realizzazione intrapresa;
b) se invece, per mancanza di personale proprio, l’Istituto dovesse ricorrere a mano d’opera esterna (= lavoratori dipendenti) si attiverebbero a suo carico anche posizioni giuslavoristiche, la cui “durata” nel tempo potrebbe costituire un serio problema in caso di cessazione dell’attività concordata.
c) Altra questione di sommo interesse per ciascuno dei firmatari della Convenzione è quella che riguarda il finanziamento dell’attività/Opera: se, infatti, essa risulta essere “diocesana” o “parrocchiale”, l’Istituto esecutore pretenderà legittimamente dal committente – oltre alle entrate proprie dell’attività da svolgere (tipicamente: le rette) – un significativo apporto economico annuale in grado di coprire tutti i principali costi strutturali di gestione (= utenze, servizi e personale) e/o di garantire il “pareggio di Bilancio” dell’attività/Opera come tale. Palesemente, infatti, non è ragionevole che l’attività svolta per conto di altri impoverisca l’Istituto come tale.
d) Connesse al finanziamento sono anche le questioni relative alla modalità di fruizione dei fabbricati di cui l’attività/Opera si serve: una fruizione che l’Istituto pretenderà essere gratuita, o pressoché tale, ritenendo non sensato spendere per l’uso delle strutture necessarie a svolgere una funzione di fatto esternalizzata dal loro proprietario (e precedente gestore). La problematica – priva di soluzione univoca e duratura – è totalmente di natura tributaria e dev’essere gestita in funzione della Normativa vigente tenendo conto che in alcuni Paesi (come l’Italia) l’utilizzo non diretto dei propri immobili genera imposizione tributaria per i proprietari, indipendentemente dalla loro concessione gratuita (= Comodato d’uso) oppure onerosa (= Locazione).
e) Ultimo elemento da considerare con estrema lucidità in sede stipulatoria è la specifica ed autonoma remunerazione dell’Istituto per la propria collaborazione: non è, infatti, pensabile – né può essere preteso – che un Istituto dedichi forze e risorse ad un’attività altrui senza trarne “utilità” per la vita dell’Istituto stesso il quale, a propria volta, possiede proprie Opere da far funzionare (e finanziare), proprie attività, propri costi di struttura e funzionamento, proprie necessità di assistenza dei membri anziani o ammalati, propri costi d’impianto ed espansione in nuovi territori. Sono, pertanto, due i livelli economico-patrimoniali da considerare: 1) quello immediatamente connesso all’attività/Opera da realizzare (senza costi per l’istituto!), 2) quello indiretto di consolidamento ed incremento della patrimonialità dell’Istituto stesso, al di là di qualsiasi altro “vantaggio” non economico (= spirituale, carismatico, vocazionale, ecc.) legato all’adempimento della Convenzione. Le concrete modalità in cui ciò possa realizzarsi dipendono – ancora una volta – in gran parte dai regimi tributari vigenti, tenendo comunque conto che la “territorialità” di riferimento della Convenzione può anch’essere diversa da quella dell’attività/Opera da realizzare.
Realizzazione indiretta
Le problematiche connesse alla realizzazione indiretta di un’attività altrui da parte di un IVC/SVA risultano molto minori, almeno dal punto di vista strutturale, rispetto a quelle già indicate per la sua realizzazione diretta, sebbene gli elementi sollecitati debbano sempre essere mantenuti in sottofondo e mai sottovalutati. Proprio essi, infatti, alcune volte possono risultare complementari, altre volte, invece, possono costituire i motivi stessi per scegliere una realizzazione indiretta.
a) Caratteristico della realizzazione indiretta soprattutto di un’attività (totale o parziale, v. supra: capitolo decimo) gestita da altri è il coinvolgimento esclusivamente di membri dell’Istituto e non dell’Istituto come tale: un coinvolgimento che si realizza, nella maggior parte dei casi, col mettere a disposizione religiosi o religiose in qualità di personale dipendente (docenti, infermieri, educatori, ausiliari, ecc.).
Le concrete modalità di tale realizzazione dipendono completamente dal Diritto del lavoro vigente nel territorio in cui l’attività viene realizzata e non delineano, di solito, elementi di specialità contrattualistica rispetto al resto del (eventuale) personale dipendente. Pur tuttavia: il fatto che si tratti di religiosi o religiose offre al gestore canonico dell’attività/Opera in questione una serie di presupposti e garanzie che possono risultare anche effettivamente preferibili all’impiego di personale laico, non tanto in termini di competenze e prestazioni lavorative – ormai quasi universalmente fissati per Legge –, quanto invece a livello motivazionale e comportamentale. Sebbene, infatti, l’affidabilità ed adeguatezza etica e morale vengano di per sé valutate come elementi di “specificità” anche in ambito civile in relazione alle c.d. Organizzazioni di tendenza, nondimeno millantati princìpi antidiscriminatori e l’esasperata riduzione (giuridica) del lavoro a pura questione occupazionale e reddituale, creano spesso grandi problemi a molte attività espressamente confessionali svolte dalla Chiesa nel mondo occidentale.
b) L’introduzione dell’espressa componente giuslavoristica nella realizzazione indiretta delle attività oggetto di Convenzione con gli IVC/SVA offre l’occasione per operare un’ulteriore considerazione di natura economica, generalmente ignorata, circa il “lavoro” di religiosi e religiose.
Non si può – né si deve – infatti ignorare che l’attività lavorativa svolta da religiosi e religiose al di fuori dell’Istituto di appartenenza assicura alla Casa religiosa di assegnazione (e, di conseguenza, all’intero Istituto) un introito finanziario utile al sostentamento della singola persona e della sua Comunità di appartenenza, oltre a porre i presupposti della copertura previdenziale e pensionistica necessaria una volta raggiunta l’età fissata dalla Legge. La questione non può più essere sottovalutata in sede ecclesiale generale poiché molti Istituti, anche di lunga tradizione, si trovano ormai quasi del tutto privi delle necessarie rendite economiche che ne avevano sostenuto ed incrementato la vita ed il patrimonio lungo i secoli. La riduzione del numero di religiosi e religiose, l’innalzamento della loro età media, l’intervenuta insostenibilità legale – e subordinatamente economica – di molte Opere proprie, la sproporzione (dei costi di mantenimento) del patrimonio immobiliare, costituiscono ormai – almeno in Europa – problemi pressoché insolubili per gli IVC/SVA che fanno ormai del “lavoro dipendente” dei propri membri, prestato all’esterno dell’istituto stesso, una vera àncora di salvezza per molte Case religiose e loro Province di appartenenza.
Altre problematiche specifiche
A margine degli elementi e fattori sin qui menzionati è necessario dedicare attenzione a due ulteriori problematiche connesse alla realizzazione per conto altrui di attività/Opere da parte degli IVC/SVA.
1 Soggetto contraente la Convenzione
La differenza tra l’affidamento diretto (e correlata accettazione) di attività oppure di Opere oggetto di Convenzione pone un serio problema di “soggettualità” del contraente con cui l’IVC/SVA viene di volta in volta a relazionarsi: tale contraente, infatti, potrebbe essere sia il Vescovo (o anche il Parroco) che la Diocesi (o la Parrocchia), delineando in tal modo differenti configurazioni sia della Convenzione come tale, sia della contrattualistica ad essa strumentale. La questione si pone in ragione della possibilità del Vescovo (e per pura analogia del Parroco) di agire sia in ragione del proprio Ufficio ecclesiastico sia in rappresentanza dell’Ente giuridico Diocesi (o Parrocchia). È palmare, infatti, che, mentre l’affidamento ad un IVC/SVA di una Parrocchia o di un Santuario (con propria personalità giuridica) è attività inerente l’Ufficio ecclesiastico di Vescovo senza che in nulla intervenga l’Ente giuridico canonico (ed eventualmente civile) Diocesi, l’affidamento di un’attività/Opera non cultuale già svolta dalla Diocesi in quanto Ente giuridico tenderà ad attuarsi come attività contrattuale di tale Ente (di cui lo stesso Vescovo è legale Rappresentante). La questione rileva in modo peculiare in riferimento ad eventuali (ma spesso necessari e continui) trasferimenti di denaro verso l’Istituto convenzionato: trasferimenti che possono avvenire solo tra Ente ed Ente e rivestono peculiare portata tributaria dovendo risultare ad ogni effetto – e correttamente – nei Bilanci civilistici del soggetto che svolge l’attività e riceve tali finanziamenti.
Analogamente per la contrattualistica e la remunerazione del personale religioso assunto come lavoratore dipendente, sempre di un Ente e mai della persona fisica del Vescovo/Parroco.
Nel caso specifico di un’attività esclusivamente religiosa svolta da membri di un IVC/SVA (solitamente a livello parrocchiale o interparrocchiale) la completa assenza sia della componente economico-commerciale che di quella giuslavoristica non richiede, di per sé, alcuna attività contrattuale tra l’Ente Parrocchia e l’Istituto. Restano tuttavia da valutare e definire con attenzione i modi civilisticamente legittimi ratione loci attraverso i quali la Parrocchia, o chi per essa, possa corrispondere all’Istituto quanto concordato nella Convenzione quale “ristoro” dei costi sostenuti per il mantenimento in loco della Casa religiosa (v. supra) e “compenso” per l’attività pastorale svolta: una valutazione e definizione che non possono prescindere dalla considerazione del crescente controllo e tracciamento di qualunque attività finanziaria attivi nel mondo occidentale, oltre che della configurazione tributaria di qualunque soggetto attivamente coinvolto in scambi di denaro.
Qualificazione lavoristica del personale religioso
Fatte salve le attività cultuali e quelle esclusivamente religiose, le prestazioni di religiosi e religiose in connessione ad attività lavorative – o comunque ad esse comparabili in sede legale – devono tener conto pure, a differenza del passato, della stringenza (e costrittività) di due elementi: 1) la qualifica professionale, 2) l’attitudine lavoristica legale.
a) Nel primo caso si tratta di tener conto che quasi tutte le attività economico-commerciali offerte a terzi, specie in qualità di “servizi”, richiedono oggi specifica qualificazione professionale, soprattutto nell’ambito didattico ed in quello sanitario e para-sanitario. Allo stesso tempo la diffusa mentalità – e Normativa – occupazionale e reddituale, insieme all’imperante pretesa giuridica circa le prestazioni da darsi e riceversi, diviene sempre più spesso occasione di questioni e conflitti sui luoghi di lavoro, creando non pochi grattacapi ai gestori di Opere espressamente confessionali (= scuole, cliniche, ecc.) che, soprattutto a causa degli standard qualitativi richiesti (= legalmente imposti) nell’erogazione di tali servizi, faticano sempre più a mantenere il personale religioso sia in posizioni apicali, sia in funzioni ausiliarie. Ciò in particolar modo per religiosi e religiose ormai fuori dai limiti dell’attività lavorativa o ad essi prossimi, oppure per membri dell’Istituto provenienti da Paesi diversi da quelli occidentali, muniti di formazione professionale non (ancora) adeguata.
b) Proprio il ricambio generazionale – soprattutto su base geografica – interno a molti Istituti, in particolar modo femminili, pone il problema dell’attitudine lavoristica legale connessa alla specificità dei “Permessi di soggiorno” loro accordati nei Paesi occidentali. In merito va tenuto conto che la vera ossessione occupazionale che attraversa soprattutto il mondo europeo, se da un lato permette un facile ottenimento di Permessi di soggiorno per motivi di studio o anche espressamente “religiosi” (come accade in Italia), non permette però ai loro possessori di svolgere alcuna – significativa – attività di carattere potenzialmente lavorativo o anche solo assimilabile o “concorrenziale” dal punto di vista occupazionale. Nondimeno: l’impossibilità legale per tali soggetti di svolgere attività di carattere lavorativo potrebbe generare enormi inconvenienti dal punto di vista assicurativo sia in caso di infortunio alla persona stessa che per danni procurati ad altri o loro cose.