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Canonistica, metodo ed ideologia
Questioni di metodo. Introduzione. Il metodo Affidabilità della ragione.
Tutela della ragione. Cautele gnoseologiche. Il giudizio. La formazione. La logica.
L’evidenza. Il linguaggio. L’ermeneutica. La ricerca. Gli ambiti della ricerca. Conclusione.
Questioni di metodo. Introduzione. La conoscenza. Il metodo. Affidabilità della
ragione. Tutela della ragione. Cautele gnoseologiche. Il giudizio. La formazione.
La Logica. L’evidenza. L’ermeneutica. La ricerca. Conclusione.
Questioni di metodo
La recensione di M. Mingardi allo studio “I tempi di nomina dei Parroci. Can.
522 del CIC” contesta la struttura utilizzata per l’interpretazione del Canone in
oggetto manifestando meraviglia per
"l’ordine in cui è distribuita la materia: prima si fa l’analisi del contenuto
del Canone (cap. Il), e solo dopo si esaminano gli antecedenti diretti della
normativa vigente: la situazione precedente al Vaticano II (cap. IV), le statuizioni
del Concilio (cap. V), e l’iter di revisione del Codice (cap. Vl); mentre è
evidente che questo cammino ha inciso sulla formulazione del Canone e deve
orientarne l’interpretazione, e quindi andrebbe logicamente affrontato prima,
pena il rischio di una precomprensione derivante dalla lettura del Canone in se stesso,
e che può influenzare anche la successiva analisi dei passi previ alla redazione
del testo normativo" .
Si tratta di un semplice esempio della confusione che regna ancor oggi in ambito
canonistico non solo a livello ‘fondazionale’ ma, ben più drammaticamente,
a livello metodologico dove non pare esistere una sufficiente consapevolezza della
necessità d’individuare e mettere a punto metodi efficaci, ma soprattutto fondati,
di approccio al testo normativo canonico, nonostante il proliferare di saggi e pubblicazioni
in materia .
In realtà lo status quæstionis in materia pare abbastanza semplice
da delineare: dopo l’imposizione nel 1917 del c.d. ‘metodo esegetico’ per accostare
il CIC pio-benedettino non si sono avute altre reali possibilità ‘tecniche’
al di fuori di quella —per altro ‘non-allineata’— della Scuola ecclesiasticista laica
italiana, assunta poi nelle sue linee portanti dagli autori della Scuola di Navarra;
l’alternativa quindi a questo approccio sistematico ed ‘ordinamentale’ è rimasta
per tutti gli altri quella sostanzialmente ‘esegetica’, accolta e praticata ancor
oggi —seppur in diverse ‘modulazioni’— dalla maggioranza degli autori quale l’unica
possibilità ‘tecnica’ esperibile per chi non si riconosca nella linea dottrinale
proposta da P. Lombardia e discepoli .
A ben vedere, tuttavia, non è neppure ‘certo’ che di vera ‘esegesi’ si tratti;
più spesso infatti pare ci si accontenti di semplice ‘commento’ ai Canoni, accostati
in modo piuttosto generico e, soprattutto, quali ‘attualizzazioni’ (nel senso forte
del termine) di istituti e norme ormai ‘fissati’ nella storia e ritenuti come tali
pressoché irreformabili quanto alla sostanza, che ci si contenta di riesporre
in una sorta di contestualizzazione ecclesiologico-pastorale adatta al momento presente,
quasi prescindendo "dalla lettura del Canone stesso"!
La questione stimola a prendere consapevolmente atto che l’adozione di un metodo,
in qualunque ramo della ricerca ed a qualunque suo ‘livello’, costituisce sempre
una pre-giudiziale alla ricerca stessa ed ai risultati che sarà possibile perseguire
ed ottenere dalla sua applicazione; anzi: la ‘qualità’ di tali risultati, la
loro significatività e condivisibilità dipendono proprio dal metodo adottato
per ‘ottenerli’.
Si delinea in tal modo la necessità di approfondire, prim’ancora che singoli
metodi d’indagine canonistica intesi quali procedimenti tecnici da adottare nello
studio del Diritto canonico, ciò che li precede: la visione preconcetta che
fonda la necessità di operare in un modo piuttosto che in altri; ‘visione preconcetta’
che, quando massimalizzata, o più semplicemente non riconosciuta nella sua ‘presenza’
e ‘relatività’, può diventare vera e propria ‘ideologia’, indipendentemente
dalla consapevolezza che se ne possa avere. D’altra parte quando si tratta di questioni
legate alla ricerca scientifica, ed ai metodi necessariamente correlati, non è
possibile evitare di far riferimento, anche implicito, ad una qualche teoria della
conoscenza la quale a sua volta, fornendo i cardini della ‘possibilità’ stessa
del conoscere, condiziona radicalmente ogni successiva acquisizione, costituendone
il vero elemento ‘previo’ discriminante.
Le note che seguono, pur caratterizzate da una certa aspecificità riguardo alla
Canonistica, cercheranno di considerare in modo abbastanza generale i principali
meccanismi gnoseologici comunque attivi in ogni ricercatore per offrire un utile
apporto alla delineazione concreta di significativi percorsi metodologici propriamente
tali anche sotto il profilo tecnico-applicativo, senza smarrirsi negli spazi eterei
di troppi discorsi sul metodo .
Introduzione
Legare metodologia ed ideologia può sembrare un azzardo destabilizzante,
anche se non si può negare
"una dipendenza del metodo dalla ideologia, o meglio una inerenza dell’ideologia
al metodo, nel senso che il metodo implica sempre ed esprime una concezione della
realtà, una visione del mondo e dell’uomo" ,
d’altra parte, risulta certamente più difficile sostenere una ‘purezza’ metodologica
non intaccata da precomprensione alcuna. In effetti
"il metodo è più che un procedimento ordinato e sistematico volto
a raggiungere conoscenze, fondate e tra loro connesse, su un determinato campo della
realtà. Il cammino verso la verità (méthodos) può essere
solo alla fine la verità stessa. Al ricercatore, che si pone il problema della
verità, questa deve già brillare in antecedenza. Perciò i problemi
sul metodo sono sempre già problemi di contenuto" .
Senza dubbio trattare la questione in termini di ‘ideologia’ —almeno nella sua accezione
negativa normalmente recepita— risulta sproporzionato a riguardo della maggioranza
delle metodologie, ciò non toglie la doverosa consapevolezza ed attenzione che
ciascuno studioso deve porre ai ‘pre-supposti’ propri e del proprio metodo di lavoro,
che deve sempre essere individuato e scelto in conformità (o compatibilità)
coi propri ‘valori’ e principi di riferimento religioso, culturale e ‘scientifico’
.
In fondo, parafrasando molto liberamente Heisemberg nell’enunciazione del suo “Principio
d’indeterminazione”, la nostra conoscenza si comporta come un ‘prodotto’ tra più
fattori; al mutare di un fattore corrispondono necessariamente altri mutamenti che
non permettono la ‘stabilizzazione’ del prodotto stesso, tanto che ogni intervento
sul sistema in esame lo sconvolge rendendo impossibile conoscere nello stesso tempo
il ‘contenuto’ (obiectum formale quod) del sistema esaminato ed il ‘punto
di vista’ (obiectum formale quo) dell’osservatore.
Allo stesso modo anche le nostre pre-comprensioni. Ogni volta infatti che accostiamo
il ‘reale’, vi introduciamo ‘qualcosa’ che ne muta irrimediabilmente gli equilibri
e le proporzioni, permettendoci di determinare solo ‘qualcuno’ dei fattori che lo
costituiscono. Né il cambiare continuamente la nostra ‘posizione’ (il ‘punto
di vista’), o l’oggetto ‘osservato’, potrà condurre a risultati sufficientemente
‘complementari’ da poter conseguire in modo deduttivo ‘la’ visione completa del reale
stesso.
La conoscenza e consapevolezza delle proprie pre-comprensioni diventa, allora, un
fattore determinante nella ‘scelta’ o, molto di più, nella ‘creazione’ del metodo
con cui investigare ciò che ci circonda, ci coinvolge o ci interessa.
La portata di questo ‘snodo’ è tale da pregiudicare irrimediabilmente tutto
il lavoro di ricerca scientifica, al punto che è probabilmente questa ‘prima
soglia’ il vero ostacolo col quale confrontarsi prima ancora di pensare ad un qualunque
‘metodo’ corretto di lavoro.
Ignorare o bypassare le motivazioni che hanno determinato la scelta di un
metodo piuttosto che di altri, significa esporre tutta la propria fatica all’esito
certo della vanità: semplici ‘opinioni’… tot capita, tot sententi¾.
D’altra parte la conoscenza umana, anche quando possa avvenire ‘per intuizione’ ,
non può esprimersi se non per ‘concetti’ i quali, tranne che in una prospettiva
innativista (insostenibile), non risiedono già previamente dentro di noi, semplicemente
‘risvegliati’ dall’esperienza che li rende ‘attivi’.
L’uomo impara attraverso l’astrazione del ‘concetto’ dalla realtà che percepisce
attraverso i propri sensi , in un processo di sempre nuovi confronti tra ciò
che già conosce ‘meglio’ e ciò che ancora risulta sconosciuto. Nessun concetto
nasce mai dal nulla ma ‘evolve’ per similitudini e dissimilitudini da concetti più
elementari via via stratificatisi fino a costituire la stessa forma mentis
del soggetto conoscente.
Ogni ‘novità percettiva’ viene in noi filtrata e vagliata attraverso complicatissime
‘griglie’ di lettura e confronto che ‘scavano’ le stesse sensazioni, ‘scarnificandole’
fino all’osso della fisionomia di base per coglierne i tratti fondamentali, il concetto
sintetico non ulteriormente semplificabile, al di là di ogni accidentale apparenza
sensoriale o emotiva.
Ogni conoscenza umana risulta così caratterizzata da ‘pre-comprensioni’ intimamente
‘soggettive’ poiché ‘dipendenti’ dall’esperienza vissuta da ciascun singolo
ed inseparabili (forse ‘indistinguibili’) dalla sua stessa vita.
Ecco perché non basta ‘usare’ la ragione, ecco perché non basta ‘leggere’
dei dati, ecco perché non basta nessuna attività intellettiva singolarmente
presa, ma è necessario considerare la globalità del complesso ambito gnoseologico,
non solo in linea teorica ma, molto di più, nella concretezza —anche operativa—
del suo articolarsi e dispiegarsi nell’esistenza quotidiana dell’uomo, cosciente
o no della portata del suo ‘sapere’.
La conoscenza
Queste sollecitazioni conducono così al primo ‘bivio’ del nostro percorso:
la scelta del ‘modello gnoseologico’ da adottare per ‘illustrare’ e comprendere il
‘come’ del conoscere umano; solo così si potrà essere coscienti anche del
‘cosa’ l’uomo possa davvero dire —o sperare— di conoscere, giungendo —solo a questo
punto— a delineare le modalità più congrue di ‘conoscenza’ e ricerca nei
diversi ambiti del sapere: i c.d. ‘metodi’.
Di fatto, come la storia della Scienza ben dimostra, a differenti modelli di conoscenza
corrispondono differenti risultati conoscitivi, da conseguirsi applicando differenti
‘metodi’ di ricerca. Die esempi in merito:
- in una concezione gnoseologica agnostica, p.es., l’oggettività degli elementi
di cui si fa esperienza è praticamente nulla con conseguente rilievo delle sensazioni
(emotive ed intellettuali) del soggetto rispetto alla portata oggettiva di quanto
sperimentato; in tale prospettiva le coordinate individuanti il metodo di ricerca
risulteranno opportunamente cumulative ed, al contempo, alternative senza giungere
a nessun ‘risultato’ preferenziale (se non statistico), né individuando ‘criteri’
di valutazione. I metodi utilizzati saranno di carattere descrittivo, formale, strutturale,
con una marcata difficoltà alla sintesi teoretica unitaria; l’esegesi testuale
si presenta come il ‘metodo giuridico’ più assonante con questa impostazione
gnoseologica, pur senza esserne esclusivo;
- in modo del tutto contrario, un’impostazione sostanzialmente ‘realista’ privilegerà
gli elementi oggettivi dell’esperienza, riconoscendo particolare credito alle componenti
statistiche, storiche, funzionali… cercando la concordanza e convergenza dei ‘dati’
rispetto alla loro varietà, privilegiando le regolarità rispetto alle varianti,
non contentandosi di una, pure abbondante, fase analitica ma spingendo decisamente
verso gli elementi di sintesi prospettica; la componente storica appartiene al ‘fenomeno’
stesso definendolo in modo non accidentale. In ambito giuridico le metodologie adottate
saranno d’ispirazione ermeneutica con forte attenzione ai contesti vitali ed agli
elementi circostanziali.
A seconda delle concezioni gnoseologiche di riferimento anche gli ‘strumenti’ conoscitivi
adottati saranno di differente natura e portata, così come il valore ‘probatorio’
assegnato alle idee o ai fatti sarà del tutto differente nella ‘gerarchia delle
fonti’ e nel modo di argomentare.
S’inserisce qui a pieno titolo anche la differente attendibilità cognitiva riconosciuta
ai risultati delle diverse Discipline o Scienze, così come l’annoso problema
del rapporto tra fede e ragione che, soprattutto in ambiti di stretta attinenza alla
vita ecclesiale (com’è il Diritto canonico), non può essere ritenuto non
significativo sotto il profilo cognitivo e metodologico.
Proprio in quest’ottica, anzi, è necessario considerare come in una concezione
‘idealistica’ (in chiave sostanzialmente platonica e non hegeliana) non è data
conoscenza se non a partire dalla fede: credo ut intelligam e l’apporto della
ragione si limita ad elaborare ‘conseguenze’ deduttive, e quindi di minor portata
gnoseologica, rispetto ai principi di riferimento . In tal modo i contenuti della
fede costituiscono la ‘fonte’ unica di tutta la conoscenza:
"solo la Rivelazione può formulare affermazioni vincolanti. Nessuna metafisica
umana —quella di Platone come quella di Aristotele o di Hegel— è capace di dire
cosa sia lo Stato e il Diritto. La realtà può essere conosciuta solo con
la fede e non con la Filosofia per cui l’analogia entis è sostituita
con l’analogia fidei" ;
al punto che: "[Rouco Varela] Io oserei anche diagnosticare la crisi attuale
del Diritto canonico come una crisi di fede di cui sono colpevoli —e vittime allo
stesso tempo— canonisti, teologi, pastori e fedeli.
[Corecco] Una crisi di fede si traduce sempre non solo in una crisi di comportamento
ma anche, a livello scientifico, in una crisi di metodo, poiché il cristianesimo
è essenzialmente un metodo per conoscere e entrare in comunione con il Dio che
si rivela" .
In una concezione ‘realistica’ (di stampo più aristotelico-tomista), invece,
la fede concorre ad ‘accrescere’ non solo la quantità ma, molto di più,
la qualità dei ‘dati’ disponibili per la ricerca, incrementando la portata delle
conoscenze disponibili, poiché arricchisce l’esperienza umana dei contenuti
della Rivelazione (accolti come reali per fede) offrendo così alla ragione un
orizzonte più ampio entro cui condurre le proprie indagini, per un risultato
conoscitivo maggiormente certo, corroborando in tal modo anche la stessa fede: intelligo
ut credam.
Il metodo
Proprio con attenzione alla questione gnoseologica (risolta in chiave ‘realista’),
risulta particolarmente efficace riferirsi alla proposta di B. Lonergan che, pur
senza rinnegare i migliori risultati della riflessione teologica e metafisica ‘tradizionale’,
ha saputo porre una speciale attenzione all’apporto delle Scienze naturali ed umane
in una prospettiva di dialogo ed integrazione con la ‘cultura’ (scientifica, tecnica,
filosofica e teologica) occidentale del XX sec. e, proprio partendo dal funzionamento
e dalla struttura dell’intelligenza umana , giunse ad individuare e descrivere le
‘operazioni’ fondamentali che ogni essere umano compie nel suo rapportarsi con la
realtà:
"vedere, udire, toccare, odorare, gustare, indagare, immaginare, capire, concepire,
formulare, riflettere, disporre in ordine e pesare l’evidenza, giudicare, deliberare,
valutare, decidere, dire, scrivere" .
Partendo da queste ‘operazioni’ —come status de facto del funzionamento della
conoscenza umana— il Gesuita canadese propose i fondamenti di un ‘metodo sintetico’,
ed al contempo generale, adottabile quale ‘palinsesto’ di riferimento ed integrazione
tra (le) diverse tipologie di conoscenza; metodo che egli illustrò specificamente
per l’ambito teologico.
Ciò che Lonergan maggiormente rileva —e propone— come fulcro del conoscere ed
operare metodologico è la persona, quale ‘soggetto’ non solo sempre presente,
ma sempre decisivo nel configurare ogni conoscenza:
"le nostre operazioni consce e intenzionali avvengono a quattro livelli distinti
e [che] ogni livello ha un risultato ed un fine suo proprio. Così il risultato
ed il fine del primo livello, quello dell’esperienza, è l’apprensione dei dati,
quello del secondo livello, l’intendimento, è l’intelligenza dei dati appresi;
quello del terzo livello, il giudizio, è l’accettazione o il rifiuto delle ipotesi
e delle teorie avanzate dall’intendimento per spiegare i dati; quello del quarto
livello, la decisione, è il riconoscimento dei valori e la scelta dei metodi
o di altri mezzi che portano alla loro attuazione" .
Esperienza, intelligenza, giudizio, decisione, si susseguono in una circolarità
mai conclusa e che spinge sempre più a fondo la portata dell’investigare umano,
mai ‘sazio’ di quanto ‘conosciuto’.
In quest’ottica Lonergan propone un’idea di ‘metodo’ come "schema normativo
di operazioni ricorrenti e connesse tra di loro che danno risultati cumulativi e
progressivi" che costringe a non accontentarsi di qualunque ragionamento
o accumulo di dati su di un qualche ‘fenomeno’, ma induce a spingere la propria analisi
ben oltre il semplice ragionamento ‘logico’ e le sue ‘prime’ conclusioni.
Venendo più direttamente al tema in esame (presupposti e precomprensioni), è
già possibile/necessario fare alcune considerazioni circa la non ‘neutralità’
dei concetti di ‘metodo’ e di conoscenza presi a riferimento da Lonergan:
1 - è manifesta, anzitutto, la convinzione assiomatica ed indimostrabile circa
l’essenza strutturata o quanto meno ordinata/organizzata (almeno in modo molto elementare),
del ‘reale’ oggetto dell’umana esperienza che, altrimenti, passerebbe nella categoria
delle ‘casualità’ (troppo spesso usata per nascondere in realtà la propria
ignoranza o irragionevolezza) alle quali non si può applicare un procedimento
cumulativo e progressivo.
2 - come indicato da Lonergan, poi, il ‘punto di osservazione’ umana (e quindi conoscitiva)
è ‘interno’ alla realtà stessa, le appartiene e la condiziona con la propria
‘soggettività’: giudizio e decisione, in particolare;
3 - le c.d. ‘operazioni’ attraverso cui l’intelligenza giunge alla comprensione,
e quindi alla conoscenza, prendono avvio dalle ‘esperienze sensoriali’: il ‘percepito’
attraverso i sensi costituisce la ‘base’ irrinunciabile che ‘innesca’ ogni processo
intellettivo e conoscitivo divenendone, allo stesso tempo, immancabile ‘verifica
conclusiva’ e nuovo inizio d’indagine a partire dalle consapevolezze sino ad allora
acquisite in una logica “cumulativa e progressiva” ;
4 - in questo modo:
"l’indagine trasforma la mera esperienza nell’esame della osservazione. Ciò
che è osservato, è fissato in una descrizione. Descrizioni contrastanti
danno origine a problemi e i problemi vengono risolti mediante scoperte. Ciò
che è scoperto, è espresso in un’ipotesi. Dall’ipotesi vengono dedotte
le sue implicazioni e queste suggeriscono quali esperimenti si devono fare. Per cui
le molte operazioni sono in relazione tra di loro, le relazioni formano uno schema
e lo schema definisce il modo in cui va eseguita l’indagine scientifica. Infine,
i risultati delle indagini sono cumulativi e progressivi. Infatti, il processo della
sperimentazione fornisce nuovi dati, nuove osservazioni, nuove descrizioni le quali
possono confermare o no la ipotesi sottoposta a prova" .
La prospettiva di Lonergan offre, a differenza di altre teorie conoscitive (e conseguentemente
metodologiche) ancora oggi utilizzate come punti di riferimento soprattutto in ambito
filosofico e teologico , il grande vantaggio non solo di non-ignorare la portata
delle attuali metodologie e conoscenze scientifiche ma, ben più radicalmente,
di farne un effettivo punto di partenza e di ‘controllo ciclico’ per la verifica
della ‘integralità’ della conoscenza umana, rivalutando —anche in ambiti più
generali della conoscenza— l’imprescindibilità della conoscenza scientifica
quale ‘strumento’ privilegiato ed ‘originario’ (e ‘originante’) di approccio all’esperienza,
con il vantaggio —non trascurabile— di non cadere nelle angustie che la tripartizione
classica del sapere (Scienza, Filosofia e Teologia) a volte comporta.
In questa prospettiva, giustamente indicata come ‘empirica generalizzata’, si supera
anche la sterile contrapposizione che qualcuno ancora si ostina a propagandare tra
‘esperimento’ ed ‘esperienza’ poiché è comunque la totalità dell’agito
e del vissuto del soggetto a costituirne l’orizzonte di comprensione.
L’unitarietà del modello conoscitivo e del conseguente metodo d’indagine proposto
da Lonergan permette opportunamente di non contrapporre le ‘logiche’ interne dei
tre citati ambiti della conoscenza come se ne fosse presunta una radicale differenza
e, quasi, la ‘incompatibilità’ anche dei risultati. Ciò pare particolarmente
vantaggioso ed apprezzabile per queste considerazioni su quanto si colloca ‘a monte’
delle scelte di metodo dalle quali attendiamo i risultati delle nostre ricerche.
Affidabilità della ragione
L’attenzione verso i pre-supposti soggiacenti ad ogni opzione metodologica si
rivela tanto più importante in quegli ambiti del sapere nei quali la ragione
—o forse meglio, il ‘ragionare’— rischia di non avere nessuna istanza critica di
confronto, procedendo così in modo presuntamente ‘logico’ attraverso evidenze,
deduzioni, analogie o altri procedimenti di natura unicamente intellettuale, senza
poter o dover confrontare le proprie conclusioni con nessuna istanza di ‘altro’ genere
che ne possa confermare la plausibilità rendendole generalmente condivisibili.
Di fatto gli ultimi due secoli di riflessione, soprattutto filosofica, hanno evidenziato
con abbondanza la concretezza di questo ‘rischio’ proprio a causa del grande sviluppo
di un’attività intellettiva (logico-razionale) spesso fine a se stessa o, comunque,
disarticolata rispetto ad una concezione globale ed unitaria della conoscenza umana
e dei suoi rapporti con l’unicum reale.
Proprio in questa linea è proficuo richiamare —in modo riassuntivo ed al contempo
emblematico— quanto espresso da Giovanni Paolo II nella sua Lettera Enciclica “Fides
et ratio” sui rapporti tra fede e ragione laddove, a livello introduttivo, osserva
che:
"i positivi risultati raggiunti non devono, tuttavia, indurre a trascurare il
fatto che quella stessa ragione, intenta ad indagare in maniera unilaterale sull’uomo
come soggetto, sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi
verso una verità che lo trascende. Senza il riferimento ad essa, ciascuno resta
in balia dell’arbitrio e la sua condizione di persona finisce per essere valutata
con criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale, nell’errata convinzione
che tutto deve essere dominato dalla tecnica. E’ così accaduto che, invece di
esprimere al meglio la tensione verso la verità, la ragione sotto il peso di
tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace
di sollevare lo sguardo verso l’alto per osare di raggiungere la verità dell’essere.
La Filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato
la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità
che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e
i condizionamenti.
Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato
la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo.
Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino
quelle verità che l’uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità
di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto
che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi
della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo.
A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di vita che provengono dall’Oriente;
in esse, infatti, si nega alla verità il suo carattere esclusivo, partendo dal
presupposto che essa si manifesta in modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie
tra di loro. In questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l’impressione
di un movimento ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è
riuscita a immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina all’esistenza
umana e alle sue forme espressive, dall’altra, tende a sviluppare considerazioni
esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che prescindono dalla questione radicale
circa la verità della vita personale, dell’essere e di Dio. Di conseguenza,
sono emersi nell’uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti
di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell’essere umano.
Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza
più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della
vita umana, personale e sociale" (FR 5).
La ‘fallacia’ di un’attività razionale lasciata a se stessa, senza un autentico
orientamento esistenziale, è richiamata anche in altri passaggi dell’Enciclica:
"non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è
venuto a cambiare il ruolo stesso della Filosofia. Da saggezza e sapere universale,
essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano;
per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre
forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo,
ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la
contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita,
queste forme di razionalità sono orientate —o almeno orientabili— come "ragione
strumentale" al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere. […]
Sulla scia di queste trasformazioni culturali, alcuni filosofi, abbandonando la ricerca
della verità per se stessa, hanno assunto come loro unico scopo il raggiungimento
della certezza soggettiva o dell’utilità pratica. Conseguenza di ciò è
stato l’offuscamento della vera dignità della ragione, non più messa nella
condizione di conoscere il vero e di ricercare l’assoluto" (FR 47).
"Una Filosofia priva della domanda sul senso dell’esistenza incorrerebbe nel
grave pericolo di degradare la ragione a funzioni soltanto strumentali, senza alcuna
autentica passione per la ricerca della verità" (FR 81).
Quanto ‘contestato’, però, dal Pontefice alla Filosofia pare non estraneo anche
alla stessa Teologia, pure richiamata a verificare l’universalità e l’accettabilità
delle proprie conclusioni attraverso un efficace incontro con la Filosofia metafisica:
"la Teologia ha sempre avuto e continua ad avere bisogno dell’apporto filosofico.
Essendo opera della ragione critica alla luce della fede, il lavoro teologico presuppone
ed esige in tutto il suo indagare una ragione concettualmente e argomentativamente
educata e formata. La Teologia, inoltre, ha bisogno della Filosofia come interlocutrice
per verificare l’intelligibilità e la verità universale dei suoi asserti"
(FR 77)
proprio per non ritrovarsi chiusa ed isolata in una propria ‘bolla speculativa’ di
nessun impatto reale col vissuto umano, non solo religioso.
A questa situazione di solo parziale ‘affidabilità’ dell’umano ragionare lasciato
a se stesso va tuttavia accostata —pur senza cadere nel c.d. ‘positivismo logico’—
quella che costituisce senza dubbio una della maggiori novità gnoseologiche
—e quindi metodologiche— del secolo appena conclusosi: il ‘successo ontologico’ del
c.d. sapere scientifico.
La quantità e qualità delle conoscenze e progressi conseguiti attraverso
la c.d. ‘conoscenza scientifica’ (fisico-naturalistica) agli albori del terzo millennio
è infatti ormai tale e di tale efficacia da non poter più essere relegata
al solo livello di ‘ciò che appare’ (il puro fenomeno) lasciando ad ‘altri’
(Filosofia e Teologia) la ricerca e la riflessione su ciò che “è”. La stessa
‘scienza nova’ che con Galileo e Newton era venuta costruendosi attraverso
l’adozione intensiva di ‘ipotesi’ di lavoro del tutto teoretiche senza pretendere
di individuare un’oggettivistica realtà in sé, delineandosi secondo il
carattere tipicamente ipotetico del “come se” , ha dovuto cedere il passo ad una
Scienza che
"superando ogni remora filosofica e epistemologica che si opponeva al passaggio
del come se al come è, si spostò decisamente per quanto riguarda la cosmologia
sul piano del come è, sviluppando e perfezionando gli strumenti sperimentali
e teorici maturati in precedenza. Concorse a questo passaggio anche la tecnologia,
che apprestò strumenti sempre più perfezionati e nuovi, fra i quali ricordiamo
i radiotelescopi, la tecnologia spaziale […] e la tecnologia dei computer, che ha
permesso di eseguire in tempi particolarmente ristretti calcoli altrimenti impensabili.
In definitiva, nella seconda metà del Novecento pervenne a maturazione quel
bagaglio teorico-sperimentale che, convergendo nella ricerca astrofisica, sancì
in maniera irreversibile il passaggio dal come se al come è" .
Tutela della ragione
Forte di questi ed altri successi, l’impostazione dottrinale nota come ‘realismo
critico’ propugna la non-casuale corrispondenza delle conoscenze e tecnologie scientifiche
con ciò che ‘accade’ o almeno —per i più scettici— è possibile ‘far
accadere’ (sperimentalmente), rivendicando legittimamente anche per l’approccio tecnico-scientifico
un’innegabile portata ‘ontologica’ non trascurabile neppure per gli approcci più
‘profondi’ della conoscenza del reale (Filosofia e Teologia).
Proprio a proposito di questo approccio empirico, corrispondente alle prime cinque
‘operazioni’ di Lonergan, è necessario sottolineare come alla ragione umana
non basti il semplice ‘vedere’ (percepire) che ‘qualcosa’ accade per poi interrogarsi
sull’esperienza fatta (riflessione filosofica); occorre invece anche ‘osservarlo’
e ‘misurarlo’ accuratamente (anche in modo sperimentale) fino a cogliere perché
accade in tal modo e ‘cosa’ presumibilmente accade, al di là di quanto l’uomo
possa aver visto (o creduto di vedere) : è il c.d. ‘procedimento scientifico’.
"Quando parliamo di procedimento scientifico non ci riferiamo a ciò che
distingue una Scienza dall’altra ma a ciò per cui tutte sono Scienze, nonostante
le diversità degli oggetti considerati. Nello sviluppo di ogni Scienza particolare
c’è un procedimento che è essenzialmente identico a tutte e che, perciò,
si può chiamare procedimento scientifico.
Lo scienziato, in primo luogo, parte sempre dall’osservazione empirica.
In secondo luogo, la tensione della ricerca e dell’indagine culmina in un atto d’intelligenza.
Questo momento dell’intelligenza è centrale in tutto il procedimento scientifico:
ogni volta che si chiede il “perché” di qualche cosa si cerca una ragione, un
motivo che spieghi un certo fenomeno. Cogliere tale ragione o motivo è capire,
avere un atto di intelligenza.
In terzo luogo, una volta capito e perché ha capito, lo scienziato elabora ciò
che ha capito e lo formula in una ipotesi.
In quarto luogo, c’è la verifica. Principio fondamentale del procedimento scientifico
è di non accettare alcuna teoria o ipotesi che non sia verificata con opportuni
esperimenti.
In quinto luogo, c’è la legge scientifica. Se l’ipotesi è verificata in
un numero sufficiente di esperimenti, se tale teoria non è solo coerente con
i dati del problema o gli aspetti del fenomeno, ma anche aiuta alla soluzione di
altri problemi o apre la strada ad applicazioni tecniche, allora la teoria diventa
legge scientifica.
Tali sono, dunque, le parti o i momenti del procedimento scientifico: l’osservazione,
l’indagine che porta all’intelligenza, la formulazione in ipotesi di ciò che
si è capito, la verifica dell’ipotesi, e, se la verifica è positiva, la
conversione dell’ipotesi in legge scientifica" .
La questione si fa ancor più pregnante passando dalle ‘Scienze naturali’ (sperimentali)
a quelle ‘antropologiche’ (esperienziali), nelle quali scopo principale della ricerca
scientifica è proprio la ‘definizione’ dell’essenza del fenomeno antropologico
stesso che, non potendo essere ricondotto a strutture atomiche o molecolari sulle
quali esercitare poi diversi tipi di misurazione ed influssi chimico-fisici, chiede
in modo specifico di essere ‘definito’ concettualmente secondo categorie che, pur
essendo a tutti gli effetti ‘ontologiche’, sono tuttavia considerate —in quest’ambito—
pienamente ‘scientifiche’, come ben testimonia K. Popper:
"[…] mentre i metodi delle Scienze naturali sono fondamentalmente nominalistici,
la Scienza sociale è costretta ad adottare un essenzialismo metodologico. Si
è detto che il compito della Scienza sociale è comprendere e spiegare quelle
entità sociologiche come lo stato, l’azione economica, il gruppo sociale, ecc.
E che ciò può farsi soltanto col penetrare nelle loro essenze. Ogni entità
sociologica di qualche importanza presuppone termini universali per la sua descrizione,
e per questo suo compito sarebbe futile introdurre liberamente […] nuovi termini.
Il compito della Scienza sociale è descrivere tali entità con chiarezza
e in modo appropriato, cioè distinguere l’essenziale dall’accidentale; ma ciò
richiede la penetrazione della loro essenza. Problemi come: “cos’è lo stato?”
e “che cos’è il cittadino?” (considerati da Aristotele come problemi fondamentali
della sua Politica), oppure “che cos’è il credito?” o anche “in che cosa consiste
la differenza essenziale fra il seguace di una chiesa e il seguace di una setta religiosa
[…]?” sono non soltanto perfettamente legittimi, ma sono precisamente quella sorta
di domande alle quali le teorie sociologiche devono rispondere" .
Allo stesso tempo una certa esemplarità metodologica delle Scienze fisico/naturali
non può essere rifiutata o trascurata proprio per il grado avanzato di questi
campi del sapere che, nelle Scienze sperimentali e nelle loro tecnologie applicative,
comportano metodi più precisi e sviluppati , facendo del rigore e della precisione
la propria forza e ‘credibilità’. Senza cadere in derive sperimentaliste ciò
dovrebbe tuttavia rendere avvertiti coloro che si riferiscono alla sola ‘esperienza’
della necessità irrinunciabile di diffidare di un approccio non sufficientemente
‘strutturato’ all’unico dato loro disponibile —l’esperienza, appunto— cercando comunque
di corroborare le proprie percezioni con altri ‘adiuncta et elementa’ di ragionevole
affidabilità empirica per giungere ad una percezione non singolarista ed individualista
del reale.
Si aggiunga poi un ulteriore vantaggio del metodo scientifico moderno rispetto alla
Filosofia: la non necessità di ‘parole’ e l’essenzialità e brevità
degli asserti, espressi preferibilmente attraverso simboli e formule relazionali,
ciò che sostanzia il c.d. ‘postulato di proposizione’; ciò difende la stessa
ragione dal verboso narcisismo intellettualista, costringendola alla chiarezza concettuale
e relazionale, oltre che all’universalità della portata dei propri asserti.
Proprio in questa prospettiva la rilevanza attribuita da Lonergan all’elemento ‘empirico’
fornisce un buon equilibrio all’attendibilità globale della conoscenza raggiungibile
facendo tesoro delle peculiarità della conoscenza c.d. scientifica, e riportandone
i migliori frutti anche agli altri ambiti del conoscere.
Cautele gnoseologiche
Queste considerazioni sull’affidabilità e la portata dell’operato della
ragione vanno tuttavia ridimensionate considerando la difficoltà —tutta umana—
a sottrarsi ai propri bisogni, anche intellettuali, così come la forte tensione
verso risposte sempre più rassicuranti ancor più necessarie col decadere
progressivo delle c.d. ‘ideologie’ (e, forse, religiosità): ciò che già
S. Agostino a suo tempo chiamava “propria voluptas” , che le Scienze psicologiche
chiamano ‘desiderio’ o ‘passione’ e che la Teologia chiama ‘concupiscenza’.
E’ in questa linea che appare proficuo e necessario raccogliere e valorizzare le
sollecitazioni di due grandi teorici della Scienza e dei suoi metodi: K. Popper e
B. Russell che, seppur sotto profili diversi, hanno però efficacemente messo
in guardia dalle ‘scorciatoie’ di natura ‘emotiva’ che possono non solo intaccare
ma anche pregiudicare irreparabilmente gli esiti dell’umana riflessione.
"Che le nostre intenzioni siano buone —sostiene K. Popper— non è sufficiente:
dobbiamo costantemente stare attenti, facendo uso di uno spirito autocritico, alle
loro conseguenze più lontane per correggere in tempo ciò che stiamo facendo.
Questo è il metodo per cercare i nostri errori allo scopo di correggerli presto,
prima che le loro involontarie conseguenze siano diventate troppo gravi per consentirne
la correzione.
La prontezza nel correggere i nostri errori e nell’imparare consapevolmente da essi
è la sostanza dell’approccio che ho denominato "razionalismo critico".
Considero l’approccio critico come un dovere. Ogni altro atteggiamento è megalomane
e irresponsabile, anche se ispirato dalle migliori intenzioni" .
"L’attitudine scientifica —ammonisce da parte sua B. Russell— non è in
un certo qual modo naturale all’uomo; il più delle nostre opinioni sono appagamenti
di desideri, come i sogni nella teoria freudiana" .
"Gli esseri umani trovano difficile, in ogni campo, di basare le opinioni sulle
prove invece che sulle proprie speranze […] Il metodo scientifico spazza via i nostri
desideri e cerca di giungere a opinioni in cui i desideri non c’entrano per nulla.
Vi sono, di certo, dei vantaggi pratici nel metodo scientifico; se così non
fosse, non sarebbe stato mai capace di farsi strada in un mondo di fantasia"
.
"La verità è che gli uomini non possono dare forma adeguata a ipotesi
astratte; l’immaginazione devia sempre la logica, e fa fare quadri di avvenimenti
che non possono vedersi affatto" .
"L’inferenza è completamente inconscia, salvo in quelli che si sono abituati
a uno scetticismo filosofico; ma non è da credersi che una inferenza inconscia
debba essere necessariamente valida. […] Molte delle nostre inferenze inconsce, che
sono, in realtà, riflessi condizionati acquisiti nella nostra più tenera
infanzia, sono altamente dubbie non appena si sottopongono a un esame logico. La
fisica è stata costretta dalle sue stesse necessità a tener conto di alcuni
di questi pregiudizi ingiustificabili".
"È facile inventare una metafisica che abbia per conseguenza che l’induzione
è valida, e molti l’hanno fatto; ma non hanno offerto alcun argomento, per farci
accettare la loro metafisica, oltre il fatto che essa è piacevole" .
A queste ‘intenzioni’ o ‘desideri’ spesso moralmente ineccepibili (psicologicamente
impercettibili) si possono ricondurre i pre-concetti, le pre-comprensioni, i pre-supposti,
i pre-giudizi, fino alla più cieca ideologia, che ‘segnano’ fin dall’inizio
ogni nostra ‘percezione’ del reale sperimentato (negarlo sarebbe il massimo dell’ideologia);
sono questi gli elementi non-neutrali che, poiché alterano l’equilibrio del
sistema, ne permettono una ‘percezione’ solo ‘probabilistica’, secondo il linguaggio
di Heisemberg.
Ecco perché diventa necessario, o almeno inevitabile, trattando di ‘metodi’
o ‘procedimenti’ d’indagine, cautelarsi contro le sviste, le ‘inerzie’, le ‘latenze’,
le approssimazioni, gli abbagli, le velleità, i miti, di cui la ragione stessa
soffre e può cadere vittima. Non a caso nei secoli si è parlato non tanto
di ‘(sola) ratio’ quanto piuttosto di ‘recta ratio’, riconoscendo —propriamente—
come la sola ‘ragione’ non basti a se stessa, né possa —di principio— riuscire
a vigilare sul proprio procedere e sulla congruità dei propri pre-supposti e
risultati , come pare, invece, pretendere un razionalismo idealista (ed ideologico)
che non conosce ‘alterità’ alla ragione stessa. Cade a proposito la nota affermazione
di J. Guitton: “ragionevole” designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza,
"nel “ragionatore” la ragione fa molto uso del ragionamento, mentre nel “ragionevole”
il ragionamento è sottomesso a una specie di istinto di realtà che non
può sempre fornire le proprie prove, dato che il ragionamento non interviene
che come mezzo di esposizione e di controllo" .
Proprio a partire da queste basi i rapporti che progressivamente hanno legato tra
loro le diverse tipologie del sapere umano, dopo la necessaria ‘divisione’ che ha
permesso di distinguerle rendendo autonome le diverse Scienze e Discipline, sono
divenuti sempre più ‘circolari’: la riflessione sulla correttezza dei metodi
di ricerca attraverso cui indagare i ‘fenomeni’ non appartiene —cioè— alla singola
Scienza che li applica, ma avviene ad un livello di astrazione superiore: la Filosofia
della Scienza. Allo stesso modo i portati teoretici della riflessione filosofica
ricevono la propria plausibilità dal confronto con l’esperienza quotidiana
filtrata dall’opportuna conoscenza dei principali nessi di causalità che le
Scienze hanno evidenziato investigando i relativi ‘fenomeni’.
Lungi dal parcellizzare —isolandoli— i diversi risultati della conoscenza umana,
questo approccio ‘circolare’ li mantiene legati all’interno di un ‘campo di forze’
dove diverse modalità del sapere (Scienze, Filosofia e Teologia) contribuiscono
—proprio modo et propria parte— a definire le ‘dimensioni’ dell’unica conoscenza
umana conseguendo conclusioni coerenti a quelle prospettate da Lonergan.
In questa prospettiva ciò che K. Popper denomina ‘razionalismo critico’, ancorando
ferreamente i risultati dell’indagine conoscitiva alla ‘verifica’ sperimentale delle
ipotesi di ricerca per conseguirne ulteriori ‘corroborazioni’ o almeno ‘non-falsificazioni’,
pare costituire ad oggi una posizione gnoseologica irrinunciabile e sostanzialmente
equilibrata, in grado anche di guidare la ragione nel corretto esercizio di se stessa
per l’elaborazione di risultati davvero ‘significativi’ e di portata più ampia
delle opinioni personali o di ‘partito’ che comunque, in ogni ambito, continuano
a generare ignoranza a causa dell’ambiguità, polivalenza ed equivocità
della maggioranza dei concetti utilizzati da chi pretende semplicemente di ‘ragionare’:
ciò che Fides et ratio ‘chiede’ alla Teologia attraverso il confronto
con la Filosofia; ciò che si deve esigere dalla Filosofia attraverso il confronto
con le Scienze; come pure ciò che ogni ricercatore deve chiedere alle Scienze
attraverso il confronto con l’esperienza quotidiana.
Siamo così tornati, di fatto, alla questione di base: il metodo che accompagni
la ragione nel proprio esercizio di riconoscimento, elaborazione e sintesi dei ‘dati’
(che la percezione sensoriale pone instancabilmente a sua disposizione), deve rispondere
a precisi requisiti di ‘consapevolezza’ circa i pre-supposti (assiomi, scelte, opzioni)
indimostrabili che lo precedono, così come dev’essere efficace nel conseguire
i risultati ‘esperienziali’ di cui la corroborazione delle ipotesi scientifiche di
ricerca ha necessità.
Il giudizio
Lo specifico ‘taglio giuridico’ cui fanno riferimento queste riflessioni non
può che trovare nella proposta di B. Lonergan altri elementi di forte ‘consonanza’
proprio nel paradigma conoscitivo di base da lui prospettato: esperienza, intelligenza,
giudizio, decisione.
Il giudizio, secondo Lonergan, è un elemento costitutivo della stessa conoscenza,
che non può accrescersi senza esprimere ‘giudizi’ sull’adeguatezza o meno tra
le ipotesi prospettate e le possibili soluzioni. Non a caso la Scienza giuridica
nella sua globalità viene da sempre definita “giurisprudenza” (prudentia
juris), collocandosi quale tertium genus nell’orizzonte investigativo
razionale: non è sophia, non è logia ma prudentia!
Si conferma in tal modo la piena irrinunciabilità dell’apporto ‘soggettivo’
(non tanto ‘individuale’ quanto piuttosto ‘personale’) di colui che è chiamato
proprio ad esprimere un ‘giudizio’ sulla realtà; giudizio che si concretizzerà
in una ‘decisione’ capace, a sua volta, di influire sulla realtà stessa anche
modificandola e creando nuove situazioni e realtà (giuridiche): libertà
o reclusione, diritto o dovere, ecc. E’ utile, a questo proposito, ricordare come
il ‘giudizio’ sia sempre un’operazione ‘globale’ che la persona (e solo la persona)
compie a partire dai ‘dati’ —spesso qualitativamente non omogenei— posseduti e/o
acquisiti.
Questa ‘globalità’ risalta in modo particolare nella consapevolezza che ogni
giudizio va espresso —e viene comunque espresso— secondo coscienza e non solo secondo
i ‘dati disponibili’ (la c.d. ‘verità processuale’). E’ questo l’ambito più
specifico della ‘prudenza’ cui ogni operatore del Diritto deve attenersi affinché
il suo decidere sulla/della vita di altre persone non risulti cagione di ingiustizia
o nocumento per i suoi destinatari. In ragione di ciò la pratica prima, e la
Scienza giuridica poi, hanno continuamente cercato di ‘proteggere’ e guidare la qualità
del giudizio mettendo a punto differenti dispositivi di valutazione dei ‘dati’: dall’Arbitro
accettato di comune accordo, al Giudice di pace, all’assistenza di Assessori, alla
Corte giudicante, alla Giuria popolare, ecc.
Allo stesso modo la ‘prudenza’ del giudizio dev’essere espressa in modo comprensibile
nelle motivazioni che accompagnano la decisione, che vale non tanto per l’autorità
di chi la proclama, ma per la congruità delle ‘valutazioni’ espresse circa i
‘dati’ sui quali decidere… quando, infatti, tali motivazioni siano giudicate incongrue
in rapporto ai ‘dati’ è prevista la possibilità di ricorso al altro ‘giudice’
.
Protagonista viva ed irrinunciabile del giudizio è sempre la coscienza, che
di fatto esiste ‘autonomamente’ sia dai ‘dati’ in questione che dallo stesso giudizio,
e che, anzi, è chiamata ad esprimere il giudizio proprio attraverso la valutazione
ed il confronto dei ‘dati’ con l’intero patrimonio esperienziale ed esistenziale
della persona che deve decidere.
Ciò basti, senza scendere in particolari non pertinenti queste riflessioni,
a prendere atto che la coscienza giudicante è sempre ‘previa’ rispetto ad ognuna
delle sue espressioni, facendo di ogni giudizio qualcosa di ‘ulteriore’ rispetto
ad altri giudizi ‘anteriori’ già assodati: i ‘pre-giudizi’, la cui accezione
non è necessariamente negativa, ma cronologico-funzionale: ciò che viene
prima.
Pre-giudizi, pre-supposti, pre-comprensioni, costituiscono pertanto —secondo le indicazioni
di Lonergan— l’unica ‘certezza’ di ogni conoscenza; ogni giudizio e decisione conoscitiva,
in una dinamica gnoseologica “cumulativa e progressiva” com’è quella umana,
ne risultano immancabilmente condizionati.
La formazione
Sempre nell’ottica dei pre-supposti di cui ciascuno è ‘portatore’ (attivo
e passivo) occorre prendere coscienza anche delle modalità del loro crearsi
e radicarsi nei diversi soggetti, poiché "la formazione, prima di tutto,
è un evento che accade" !
Parlare di formazione non significa —riduttivamente— considerare l’attività
intenzionalmente progettata e realizzata da una persona verso un’altra (corsi, incontri,
colloqui, esperienze ‘formative’) quanto, molto più profondamente, riferirsi
al processo bio-antropologico attraverso il quale un soggetto umano si struttura
ed alla crescita dell’individualità, della personalità, della coscienza
del soggetto; in tali prospettive la formazione avviene nella persona per il solo
fatto di vivere la ‘propria’ vita .
"E’ la vita che plasma, che dà forma alla persona e alla sua coscienza.
E’ lì che si formano i presupposti, le mediazioni metafisiche che la persona
utilizza per la propria valutazione, giudizio e decisioni sulla realtà . […]
Per comprendere come avvenga la formazione dei presupposti bisognerebbe partire dal
tema della percezione: come l’uomo percepisce il reale? […] Diciamo solo che
l’uomo conosce se stesso e la realtà attraverso una serie di esperienze nelle
quali si percepisce e percepisce. Questo processo è diversificato ed articolato,
ed avviene in buona parte in modo non riflesso. Vi sono diversi fattori che concorrono:
le caratteristiche dell’oggetto percepito, le situazioni emotive del soggetto, le
pressioni di gruppo, le differenze culturali. Il processo della percezione è
la risultante di questi fattori che concorrono insieme.
Quando questo processo non avviene nel modo corretto si generano delle “illusioni
percettive”, cioè delle distorsioni (inevitabili) che portano a condizionare
la veridicità della conoscenza del reale. Per conoscere una realtà non
basta allora farne esperienza, ma bisogna creare le possibilità affinché
il soggetto ne faccia un’esperienza veridica, che cioè colga la realtà
nella sua verità (almeno il più possibile). […] Ogni soggetto cioè
si predispone a ricevere una conoscenza a seconda della sua capacità di ricevere.
Una volta poi fatta l’esperienza di un oggetto le informazioni di varia natura (emotiva,
razionale, religiosa, significati…) che vengono raccolte andranno ad arricchire o
a modificare il bagaglio di predisposizioni che il soggetto possedeva precedentemente.
Naturalmente questo processo di acquisizione non avviene in modo “oggettivo”, ma
è anche’esso predeterminato dalle predisposizioni del soggetto; avviene cioè
una selezione delle informazioni a seconda che risultino più o meno accettabili
e gradite al soggetto.
Questo processo di interpretazione e selezione coinvolge il soggetto in tutta la
sua dinamica coscienziale, anche nella sua parte inconscia. Anzi, il grosso
di questi processi normalmente rimangono ignoti (o quasi) al soggetto" .
Proprio l’esperienza, quindi, emerge in modo assolutamente condizionante ogni successiva
possibilità di percezione e conoscenza del reale, contribuendo in modo sostanziale
al configurarsi della forma mentis e delle categorie concettuali (e linguistiche)
attraverso le quali ogni soggetto provvederà a ‘filtrare’ l’esperienza stessa
per trarne i propri ‘dati’ e le proprie ‘conclusioni’; è questo uno dei portati
maggiormente condivisi nell’epistemologia dell’ultimo mezzo secolo .
L’introduzione, tuttavia, dell’esperienza come elemento rilevante nel cammino della
conoscenza non pare scontata ed ‘indolore’ in ambiti di riflessione che intendano
o debbano relazionarsi —prima o poi— con la riflessione teologica, com’è per
la Scienza del Diritto canonico.
A questo proposito più di un autore (Mouroux , Kasper , Moioli ) ha rilevato
e ‘denunciato’ il forte clima di sospetto maturato a partire dagli inizi del Novecento,
tanto in ambito protestante che cattolico, nei confronti dell’esperienza, evidenziando
la forte fatica della Teologia ad interessarsi di questa componente dell’humanum,
nel timore che, esaltando il ‘soggettivo’ della fede (Teologia liberale protestante
e Modernismo cattolico), si recasse nocumento alla sua oggettività.
Tale fatica permane ancor oggi in gran parte della Teologia occidentale che continua
a preferire la stabilità dei concetti rispetto alla labilità delle diverse
esperienze umane , rischiando però di assumere acriticamente pre-supposti puramente
teoretici che nulla hanno da spartire col datum della Rivelazione. Quando
una Teologia di questo genere pretende di erigersi a condizione —unica— di possibilità
di umana conoscenza, il ‘risultato’ conoscitivo conseguente non può considerarsi
‘più certo’ di quello conseguito a partire dall’esperienza.
La Logica
Altro ambito di fondamentale importanza nella riflessione critica sui ‘pre-supposti’
del conoscere è quello della ‘Logica’ cui fa riferimento la maggior parte degli
strumenti razionali messi a punto ed utilizzati tanto in ambito scientifico, che
filosofico, che teologico. A differenza tuttavia di quanto comunemente recepito non
si tratta di un ambito univoco e ‘certo’, come parrebbe invece lasciare intendere
l’idea che generalmente si dà per acquisita:
[Logica:]"Scienza […] che ha sempre avuto come orizzonte di ricerca l’analisi
dei fondamenti dell’argomentazione, lo studio dei metodi attraverso i quali si giunge
a costruire e articolare le teorie, la classificazione e l’indagine di alcuni concetti
chiave riguardanti le strutture portanti della conoscenza" .
Il progresso delle discipline ausiliarie alla Fisica nelle sue diverse espressioni
(dall’astrofisica alla fisica nucleare) e lo sviluppo delle discipline informatiche
hanno finalmente smascherato il ‘mito’ della “logica”, evidenziando la possibilità
(necessità) di parecchie ‘logiche’ punto differenti tra loro e del tutto funzionali
agli ambiti d’indagine e riflessione che le hanno messe a punto.
Tra esse, senza dubbio, la c.d. ‘logica aristotelica’ continua ad ottenere un altissimo
gradimento negli ambiti della vita quotidiana del mondo Occidentale, così come
in buona parte delle discipline umanistiche in esso sviluppate e da essa dipendenti,
ciò nonostante la sua frettolosa ipostatizzazione quale unica possibilità
‘argomentativa’ rappresenta una vera ‘censura’ delle possibilità speculative
cui la ricerca e la conoscenza possono o devono riferirsi; la posizione di B. Russell
in merito è bruciante:
"Aristotele, dobbiamo dirlo, fu una delle grandi sventure dell’umanità.
Ancora oggi l’insegnamento della logica nel maggior numero delle università
è pieno di stupidaggini delle quali egli è responsabile" .
Di fatto "temi, metodi e finalità [della Logica] hanno avuto una storia
tutt’altro che lineare (spesso quello che per una generazione era stato il centro
della problematica logica, per quella successiva divenne questione morta o marginale)"
.
E’ in questa linea che non si può ignorare come il ‘problema’ sussistesse in
tutta la propria forza già all’interno della stessa riflessione filosofica medioevale
che troppo genericamente viene spesso identificata con la ‘Scolastica’ di matrice
aristotelico-tomistica.
La matrice polemica del “Novum Organum” di F. Bacone nei confronti dell’Aristotelismo
(originale e derivato) è lampante e programmatica: non è tanto problematico
il ‘sillogismo’ aristotelico nella sua struttura ‘logica’ quanto il modo di giungere
alla sua formulazione. Di fatto un sillogismo vale quanto valgono le sue premesse,
e tanto valgono le premesse quanto valgono i concetti, ossia le definizioni, in base
alle quali le premesse sono enunciate ; il vero problema è pertanto quello del
metodo per ottenere le definizioni e gli assiomi e non il come ‘legarli’ reciprocamente
: prima di affannarsi a cercare i modi corretti di “dedurre” da principi generali
(sillogismo) è necessario scoprire come approssimarsi ad essi (da che cosa
dedurre); problema che né Aristotele né la Scolastica hanno risolto, lasciando
buona parte della riflessione filosofica (e poi teologica) in balia di un inefficace
quanto problematico deduttivismo.
La modernità non attenua la portata della critica a questo ‘tipo’ di Logica,
al punto che Kant, e dopo di lui Hegel,
"segna una tappa importante nel processo di assorbimento della ricerca logica
entro quella gnoseologica: alla logica formale, di valore eminentemente propedeutico,
viene contrapposta una logica trascendentale che, basandosi sull’analisi del processo
conoscitivo, sarebbe l’unica in grado di spiegare che cosa sia la verità e come
il discorso umano si rapporti alla realtà. Il passo decisivo in questa direzione,
che segna la totale eliminazione dell’autonomia del discorso formale, si ha con la
dialettica hegeliana. È questo il momento in cui la logica tradizionale “paga”
la sua origine: impedita dal rapporto preferenziale con la metafisica, non riesce
a porsi in contatto con i nuovi sviluppi della Scienza, in cui viene sempre più
esaltato l’aspetto matematico e relazionale dei fenomeni naturali, finendo in un
completo isolamento" .
Dalla fine dell’Ottocento le questioni logiche più pregnanti finirono per passare
quasi completamente all’ambito delle Scienze naturali concentrandosi sugli elementi
‘formali’ di più facile matematizzazione (Frege, Tarski, Gödel) o verso
gli ambiti che saranno poi della Semeiotica o dell’Ermeneutica (Husserl, Wittgenstein,
Carnap), riducendo progressivamente la Logica ad una ‘caratteristica’ del procedimento
attuato nella ricerca, facendone non più un ‘soggetto’ ma un ‘predicato’.
Il sorgere, necessario, di nuove ‘rappresentazioni’ del reale adatte ad ambiti di
ricerca assolutamente imprevedibili tanto per la Scienza antica che per quella ‘moderna’
(quanti, relatività, ecc.), ha quasi completamente ridotto la Logica stessa
a semplice requisito procedurale interno alle singole discipline scientifiche, consegnandoci
tante ‘logiche’ quante le matematiche, le geometrie o comunque gli ‘ambienti’ teoretici
di rappresentazione sintetica dell’esperienza e studio del reale; la portata di questa
‘conquista’ non si limita al solo ambito fisico-naturalistico ma coinvolge anche
quello ‘umanistico’ e filosofico attraverso la teorizzazione delle c.d. ‘logiche
intensionali’ .
Per quanto concerne, poi, l’ambito giuridico è necessario non dimenticare come
la ‘logica’ che lo sostiene e lo anima non sia quella formale-modale (aristotelica),
normalmente utilizzata, ma la c.d. ‘logica deontica’, di tutt’altra natura e specificità,
come ben illustra T. Jiménez Urresti:
"nel sillogismo deontico, la premessa maggiore è la norma, che è di
prescrizione non universale, ma generale, ut in pluribus; e la premessa minore è
il concreto del suo compimento secondo le previsioni, poiché ancora non esiste,
né si tratta di qualcosa di nozionale, né prefissato o sottomesso a necessità,
ma atto libero di condotta prevedibile per il futuro, futuribile. Per questo non
ottiene certezza, ma solo congettura di ciò che sarà quale si prevede.
Si tratta di giungere a sapere se tale atto previsto, che si pone come premessa minore
del sillogismo, sia consonante con la norma prefissata e ne sia compimento. Sempre
sono futuribili due possibilità doppiamente ipotetiche, la cui realizzabilità
fattiva si constaterà nella prassi: una, quella realizzabile secondo la previsione
e in conseguenza si attua o non si attua (rimanendo nel puro futuribile); e l’altra,
quella non realizzabile secondo il previsto, per cui o si corregge secondo il dettato
della prassi sul momento per una nuova decisione e si attua o si rinuncia ad attuare.
Nessuna di queste possibilità è affermabile con certezza; ma la prima è
più prevedibile, presumibile, presupposta che si attuerà, nell’ipotesi
che la previsione risulti, al momento di attuare, quale si previde" .
Il problema ‘logico’ riferito alla Canonistica risalta ancora maggiormente in quanto,
di per sé, questa componente dell’ambito logico era già stata individuata
e messa a fuoco da S. Tommaso, senza che però la Scolastica ed i suoi eredi
ne abbiano colto la portata:
"S. Tommaso d’Aquino formulò già l’essenziale con riflessioni sulla
logica normativa che avrebbero potuto essere sviluppate in seguito nella scuola.
Però non è stato così come dimostrano due fatti in tema d’insufficiente
formazione del Clero in metodologia deontica.
- Uno, che i futuri Chierici, nella formazione filosofica e da varie generazioni,
studiano la disciplina della logica, ma solo l’enunciativa o formale; e nulla, neppure
la menzione, della logica normativa, nonostante tutte le scienze pratiche di condotta
o deontiche che studiano —etica, morale, pastorale, Diritto— e anche le decisioni
di ciascuno quotidianamente, procedano per logica normativa.
- Secondo, che questa deficienza non è stata superata in questa era postconciliare
e l’ultimo manuale di logica, testo di molti seminari, continua senza far menzione
alcuna della logica normativa.
Per queste ragioni, si reclama oggi, come tema attuale e decisivo, la revisione dell’epistemologia
(nel suo significato moderno di critica del metodo di una scienza) delle scienze
deontiche subordinate alla Teologia" .
L’evidenza
Sorte analoga pare doversi riconoscere alla miglior ‘alleata’ della Logica: l’evidenza!
Anche questa ‘categoria’ da una fase altamente ‘oggettiva’ come quella ‘antica’ in
cui veniva identificata con l’azione stessa degli oggetti sugli organi di senso (Epicurei)
o col darsi delle cose ai sensi ed all’intelligenza in modo da risultarne “comprese”
(Stoici) al punto che gli stessi Scettici non rifiutavano ciò che si presentava
come evidente in quanto ‘oggetto’, è progressivamente scivolata verso una sostanziale
soggettivizzazione a partire —principalmente— da Cartesio che ne ha spostato il ‘centro’
sul soggetto, trasformando l’evidenza da caratteristica dell’oggetto percepito in
caratteristica del soggetto che ritiene ‘evidente’ ciò che percepisce
in modo “chiaro” e “distinto” .
La riflessione epistemologica attuale ha recuperato tanto l’accezione oggettiva nell’ambito
della riflessione sui fondamenti epistemologici delle Scienze empiriche, che quella
soggettiva nella forma di una teoria della giustificazione epistemica .
Senza nulla togliere all’importanza dell’evidenza nella relazione che deve esistere
tra l’ipotesi o la teoria da verificare ed i dati sperimentali ed osservativi (primo
ambito) , rimane tuttavia necessario considerare —in questa sede ‘critica’— che l’evidenza
continua a profilarsi come una ‘proprietà’ afferente il soggetto conoscente
e non l’oggetto conosciuto , poiché solo le ‘credenze’ possono conferire
evidenza ai contenuti ed i contenuti stessi non sono evidenti al soggetto se
non in quanto egli vi crede .
"Una proposizione è evidente se ogni uomo che ne ha presente il significato
alla mente, e che si chiede espressamente se essa è vera o falsa, non può
in nessun modo dubitare della sua verità. […]
Non basterebbe [tuttavia] dire che una proposizione è evidente se un uomo che
la pensi non può dubitare che essa sia vera, infatti questa impossibilità
di dubitare può essere tipica del suo stato mentale (alienazione, passione,
pregiudizio, educazione, ecc.); e il linguaggio comune a ragione distingue ciò
che sembra evidente (a un individuo) e ciò che lo è effettivamente (per
ogni mente).
Inversamente, sarebbe eccessivo chiedere che l’intelligenza cui appare l’evidenza
fosse sottratta a ogni influenza dell’abitudine, del sentimento o della volontà.
Questo isolamento è infatti soltanto un’astrazione irrealizzabile, forse anche
contraddittoria, e la forza dell’evidenza si manifesta appunto nel fatto di vincere
le ripugnanze" .
"Quale supporto evidenziale per l’evidenza? Il legame tra esperienza e credenza
è del tutto problematico, poiché la sola credenza non autorizza a ritenere
immediatamente la realtà tale come ci appare, e viceversa la costituzione della
realtà non sempre produce in noi la giusta credenza: in effetti problemi analoghi
a questi sono suscitati dalle indagini sulla nostra conoscenza del mondo esterno
e sulla conoscenza delle altre menti e Feldman ha rilevato che ritenere l’evidenza
fondata allorché un soggetto ha una credenza perché coglie il legame tra
l’evidenza e la proposizione creduta è eccessivamente intellettualistico"
.
Di fatto la ‘soggettività’ dell’evidenza è oggetto di quotidiana riprova
per chiunque si trovi ad operare in situazioni di pluralità, al punto da metterne
spesso in dubbio l’efficacia concreta: nulla è meno evidente dell’evidenza;
"anzi, a partire dai maestri del sospetto si è affermato che noi dobbiamo
dubitare proprio di ciò che ci appare massimamente evidente (a cominciare dai
dati della coscienza) e che l’evidenza, in quanto segno o criterio di verità,
è solo un’illusione prodotta da interessi, convenzioni sociali, equivoci linguistici,
razionalizzazioni secondarie ecc." .
Se in una prospettiva di ‘realismo critico’ la radicalità di questa posizione
non può essere assunta come conclusiva, non si può tuttavia neppure ignorare
come molto (troppo) spesso la dichiarata evidenza di una connessione ‘logica’ sia,
in realtà, la ‘confessione’ formale della propria incapacità ‘dimostrativa’
nei confronti del risultato che s’intende ottenere.
Il linguaggio
Un’altra ‘componente metodologica’ cui è necessario accordare opportuna
attenzione in queste considerazioni è il ‘linguaggio’ in quanto caratteristica
ed esclusiva facoltà attraverso cui l’uomo riesce ad obiettivare mediante simboli
fonici il moto della propria coscienza, dalla più semplice sensazione alla più
astratta costruzione razionale; ad esso la Filosofia dedica grande attenzione sia
per la funzione conoscitiva che ad esso inerisce, sia come valore culturale per la
sua partecipazione attiva alla formazione del mondo umano .
In fondo è proprio il linguaggio il modus princeps attraverso cui ogni
idea umana, non appena esce dal grembo dell’intuizione, viene formulata e comunicata
(tematizzazione), pena il suo immediato dissolversi oltre le soglie dell’intuito
stesso.
Non solo i concetti, quindi, ma anche i termini che li rappresentano rivestono un’importanza
esiziale creando chiarezza o confusione, univocità od equivocità, comprensibilità
o verbalismo. La questione ‘linguistica’ rileva poi tanto maggiormente nelle discipline
umanistiche necessitate ad un “essenzialismo metodologico” che richiede fedele corrispondenza
tra i ‘contenuti’ di un concetto e le sue modalità espressive e comunicative,
precludendo ogni forma di sostanziale nominalismo (tollerabile, invece, nelle Scienze
naturali).
Non si tratta soltanto delle questioni legate alla ‘traduzione’ tra differenti idiomi,
tanto contemporanei (lingue moderne) che di epoche diverse (latino — volgare) , ma
della corretta scelta all’interno di ciascun glossario dei termini più adatti
a comunicare i concetti utilizzati.
Proprio il linguaggio già nella sua fase ‘fontale’ costituisce una delle maggiori
debolezze strutturali della riflessione, comunicazione e conoscenza umana: una sorta
di ‘errore sistematico’ che entra a partecipare di ogni concettualizzazione, riflessione
e comunicazione umana; rivelandosi il ‘vettore’ più efficace dei ‘pre-concetti’
(o ideologie) sottesi ad ogni ragionamento.
L’esempio più macroscopico in ambito canonistico (ancora crux di molti
autori non sufficientemente consapevoli sotto il profilo metodologico) è il
termine/concetto di “Legge” , usato con superficialità allarmante nella quasi
totalità della dottrina canonistica di ogni tempo: infatti cosa “è” e cosa
“significa” il termine “legge” negli scritti veterotestamentari, nel Giudaismo, nel
Fariseismo, nel Profetismo, nelle parole di Gesù, negli scritti paolini, in
differenti contesti dell’opera di S. Tommaso, nel Decretum Gratiani, nel Corpus
Juris Canonici, nel C.I.C. pio-benedettino, nel C.I.C. 83, ecc.?
Ci limiteremo ad un sommario excursus opportunamente critico.
- Nell’AT il termine tradotto con ‘Legge’ è “Torah” che indica il nucleo
religioso teologico di base dell’Ebraismo, individuato nel Pentateuco ed opportunamente
differenziato dai ‘Profeti’ e dagli ‘Scritti’.
Pur contenendo varie raccolte normative (liturgiche, morali, igieniche, ecc.) tra
cui veri e propri ‘codici’ , la Torah si distingue comunque per una spiccatissima
essenza storico-teologica: si tratta della ‘testimonianza vincolante’ per la fede
d’Israele del rapportarsi di Dio con Abramo e la sua discendenza, del suo aver concluso
Alleanze ed effettuato promesse a questo popolo attraverso i suoi Patriarchi. Si
tratta del valore normativo —religioso— costitutivo per Israele: le tradizioni e
la storia che ‘fondano’ l’esistenza del Popolo d’Israele in rapporto al suo Dio:
un’autentica narrazione ‘Costituzionale’! Le svariate raccolte di ‘precetti’ (anche
di ‘origine’ o attribuzione mosaica) non ne sono che una ‘istituzionalizzazione’
socio-antropologica nell’orizzonte teocratico tipico dell’antichità mediorientale.
Di fatto prim’ancora che il Giudaismo si dividesse in varie correnti spirituali (Sadducei,
Farisei, Esseni…) che attribuivano diverso valore alle ‘norme bibliche’ (i Sadducei
tenevano per vincolante il solo Pentateuco, la Torah; i Farisei utilizzavano
un concetto ampio di ‘Legge’ fino ad una precettività parossistica) il movimento
profetico aveva già iniziato la propria ‘contestazione’ del degrado religioso
ed etico nell’osservanza della Torah nel periodo monarchico pre-esilico, enfatizzando
l’aspetto più ‘morale’ che spirituale della Legge, in contrapposizione ad un
atteggiamento divenuto ormai solo formalistico e quasi ‘magico’.
- Ciò che Gesù assume per ‘legge’ è l’essenzialità del rapporto
di Alleanza con Dio (la Torah nella sua interpretazione più spirituale)
in una visione teologica saldamente fondata nella storia (“all’inizio della creazione”
Mc. 10, 6) e profeticamente rivolta al futuro: “non passerà neppure un iota
o un segno senza che tutto sia adempiuto” (Mt. 5, 18). A questa ‘legge’ in cui Gesù
coglie la volontà di Dio, lo stesso Gesù contrappone le “tradizioni degli
uomini”, anche ‘legittimate’ dal Legislatore religioso (Mosè), denunciando com’esse
possano concretamente contraddire il "comandamento di Dio” . L’atteggiamento
fermo di Gesù verso la Legge intesa in senso teologico diventa così la
massima contestazione di una lettura immanentistica della Legge stessa ridotta a
vuoto formalismo.
- A riguardo di S. Paolo ci si è posti spesso la domanda circa la sua concezione
di Legge e, soprattutto, circa il suo combattuto atteggiamento nei confronti della
Legge stessa, ora ‘accusata’, ora utilizzata con proprietà e competenza giuridica;
il problema in realtà non sussiste in quanto si può ben osservare come
egli —da buon Dottore della Legge— distingua
"la Torah (Legge) come rivelazione divina, comunicata attraverso i racconti
biblici, e la Torah come istituzione che regola la vita degli israeliti. Egli
non contesta mai la Torah come rivelazione; polemizza invece contro la Torah
come istituzione.[…] Paolo nelle Lettere ai Galati e ai Romani sviluppa un discorso
di natura teologica, non giuridica sulla Legge (mosaica). Il problema di Paolo non
è se una determinata comunità abbia o no bisogno di leggi per garantire
un’ordinata convivenza ai suoi membri e come debbano configurarsi queste leggi, ma
come si compia il processo di giustificazione davanti a Dio. […] La salvezza, afferma
Paolo, non viene dalla Legge e dalle sue opere (circoncisione e osservanze alimentari),
ma dalla fede nel Signore Gesù" .
Quest’impostazione teologica di base non impedisce allo stesso Paolo di utilizzare
il temine Legge con vari altri significati com’è, p. es., in tutto il Cap. 7
della lettera ai Romani dove il termine Legge ricorre ben 24 volte con significati
alquanto differenti. In Rm 7, 21-23, addirittura, il termine ricorre cinque volte
con almeno tre significati diversi tra i quali: “condizione inevitabile”, “principio
d’azione” e —addirittura— “legge del peccato” contrapposta a “legge di Dio” .
- Per quanto concerne S. Tommaso il tema della ‘Legge’ continua a costituire una
delle ombre più marcate, non della sua dottrina, ma dell’uso che per secoli
se n’è fatto (e si continua a farne) da parte degli autori .
E’ classica la commistione dottrinale tra i testi tomistici sulla Legge in generale
(approccio filosofico al giuridico umano) e la Lex nova Evangelii (approccio
teologico alla salvezza cristiana), brutalmente trasposti allo stesso Diritto canonico,
come ben dimostra E. Corecco in un suo famoso articolo:
"la communio deve essere considerata come il principio formale del Diritto
canonico, cioè della nova lex evangelii […] la nova lex evangelii,
cioè la grazia"
quando l’Aquinate, da parte sua, non aveva neppure mai parlato del Diritto canonico:
"[in S. Tommaso] nessuna allusione alla legge canonica, nessun esempio improntato
al Diritto canonico nel suo trattato sulla legge umana; e quando gli si offre l’occasione
di parlarne accidentalmente, ne presenta una nozione assai diversa dal Diritto civile:
la legge è “ordinatio rationis ad bonum commune promulgata ab eo qui curam
habet communitatis” - una derivazione della legge naturale per semplice “conclusione”
o “determinazione”; il legislatore non è che il primo interprete del Diritto:
promulgatio; di quell’altra invece, la canonica, tutto è detto in quattro
parole: constitutio Papæ facit jus" .
Rimane tuttavia nell’esperienza di tutti i canonisti l’inevitabile domanda di ogni
esame “De universo” sulla definizione di Legge (ecclesiastica); guai non rispondere
prontamente: “ordinatio rationis ad bonum commune ”!
- Nei Codici di Diritto canonico (sia del 1917 che del 1983), trascurando ogni definizione
di ‘Legge’ , si procede semplicemente ad indicarne le condizioni di esistenza, validità
ed interpretazione, contentandosi di porla al vertice della normatività canonica
(ordinaria) e ben differenziata dagli altri strumenti normativi a disposizione dell’autorità
di regime ecclesiastico.
L’ermeneutica
L’analisi attenta e consapevole del proprio punto di osservazione del reale e
delle varie componenti che lo individuano e ‘costruiscono’, in primis i pre-concetti
che ciascuno porta con sé per il solo fatto di esistere in un ‘dato’ contesto/tempo
, comporta inevitabilmente anche una riflessione sulle tematiche legate in modo più
stretto all’Ermeneutica non tanto come specifica ‘Scienza dell’interpretazione’ ma
come ‘orizzonte’ di possibilità della comprensione stessa e, conseguentemente,
della conoscenza possibile … se non proprio dell’esistenza umana come tale . D’altra
parte ciò che qualifica l’uomo nel suo caratterizzarsi come ‘homo sapiens’
ancor prima della possibilità di comunicare (il linguaggio) è proprio la
capacità di ‘interpretare’ gli stimoli sensoriali che lo raggiungono, rendendolo
capace di sottrarsi ai ‘riflessi condizionati’ che caratterizzano, invece, il comportamento
animale.
La funzione ermeneutica (interpretativa) è una delle maggiormente attive nel
processo percettivo umano : si tratta della necessaria possibilità/capacità
di collegare agli stimoli sensoriali (percepiti anche passivamente) i ‘significati’
appropriati ‘costruendo’ nel soggetto che percepisce una sorta di ‘immagine’ di quanto
lo circonda e sollecita; dalla correttezza di questa operazione di reperimento del
corretto significato da attribuirsi allo stimolo dipende la percezione più o
meno efficace della realtà… ciò indipendentemente dalla natura o qualità
degli stimoli in questione (la musica piuttosto che il calore o un discorso). Questo
processo, come già accennato, risulta assolutamente ‘relativo’ alla quantità
e qualità di conoscenze sostanziali possedute dal soggetto e alla sua capacità
di operare correttamente la ‘giunzione’ tra sensazione provata e significato (assoluto)
da attribuirle : quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur.
Ciò in modo del tutto specifico quando si tratti di elementi con valore e/o
contenuto ‘normativo’, dove le componenti etiche, morali, culturali, sociologiche,
storiche, religiose, ecc. giocano ruoli assolutamente primari, pur nella sostanziale
non-consapevolezza di chi in esse si trova del tutto immerso ed esistenzialmente
coinvolto.
Si tratta, in altri termini, di prendere in considerazione gli elementi che sempre
partecipano alla contestualizzazione di tutto ciò che è humanum
o che attraverso l’humanum si trova a ‘transitare’ come, d’altra parte, gli
stessi studi biblici hanno abbondantemente evidenziato nell’ultimo secolo .
La ‘natura’, poi, sostanzialmente scritta del Diritto , o comunque la sua vigenza
in spazi temporali (e geografici) piuttosto estesi, rende ancor più necessaria
la corretta individuazione dei ‘punti di riferimento’ di chi ha concepito le norme,
differenziandoli, da quelli di chi le deve oggi applicare; le stesse ‘cause’ che
portarono alla nascita degli Istituti giuridici non coincidono quasi mai né
con quelle che ne imposero il mutare della configurazione e funzionalità storiche,
né con quelle cui la stessa norma deve oggi rispondere.
Senza addentrarci qui in discussioni di scuola sulle questioni più strettamente
tecniche dell’ambito ermeneutico (Betti piuttosto che Heidegger, Gadamer o altri),
va comunque rilevato come non sia possibile intraprendere ricerca giuridica alcuna
senza dare il necessario spazio alle considerazioni d’ambito ermeneutico, esplicitando
la maggior parte possibile dei fattori configuranti i differenti ‘circoli ermeneutici’
che rendano ragione delle implicazioni passate, presenti e future, in modo tale da
avere un quadro circostanziato all’interno del quale applicare la norma ai casi determinati,
poiché strutturalmente la norma non si applica mai ai ‘casi’ generali .
La ricerca
Consapevoli di ciò, il primo elemento cui prestare attenzione è l’ambito
nel quale s’intende collocare la propria ricerca: concretamente è questo il
primo ed il più ‘radicale’ dei pre-concetti: il proprio ‘circolo ermeneutico’.
Già in altra sede si è trattato di alcune problematiche inerenti la concezione
dello studio del Diritto canonico secondo gli approcci scientifico, filosofico e
teologico, ritenuti ormai assodati dalla maggioranza della dottrina; a questa tripartizione
—per quanto parziale— risulta tuttavia estremamente utile continuare a riferirsi
quale paradigma di massima (non della conoscenza ma della ricerca) per meglio individuare
l’’incipit’ e la ‘collocazione’ della ricerca che ciascuno intende attuare.
Il ‘punto di vista’ scientifico, filosofico o teologico sarà così il primo
discrimen che condizionerà i metodi ed i risultati della ricerca, offrendo
riflessioni di natura, portata (ed affidabilità) differenti —e comunque non
equivalenti— e determinando l’oggetto dell’indagine, il metodo d’indagine, la portata
dei risultati e la loro ‘tenuta’ all’interno dell’orizzonte gnoseologico globale,
poiché ciò che in ogni ambito si va ad indagare è completamente diverso
da ciò che si consegue attraverso gli altri, né può mai bastare da
solo a ‘reggere’ una conoscenza accettabile in materia: la ‘ciclicità’ degli
approcci gnoseologici suggerita da Lonergan, e non la loro commistione, potrà
assicurare saperi meno disorganici e più attendibili.
Rimanendo legati alla ‘materia’ canonistica, insegnava T. Jimenez Urresti che:
"si può studiare il Diritto canonico su due piani distinti: sul piano teologico,
che studia l’aspetto sociale della Chiesa nel suo intimo, nel suo valore interiore
e trascendente, nel mistero; e su quello canonico, che studia il suo aspetto umano,
fenomenologico e positivo.
La Teologia studia i dati rivelati; il suo intento é di formulare la verità
rivelata, muovendosi sul piano della propria adeguazione a questa verità, la
definisce con giudizi dottrinali. […]
Solo la Teologia può emettere un giudizio dottrinale, quello dell’adeguazione
alla verità oggettiva rivelata, e formularlo in varie lingue, prospettive e
con diversi gradi di profondità. […] In altre parole: la Teologia studia la
volontà del Cristo, mentre il Diritto canonico prescrive come compiere, nell’ambito
sociale della Chiesa, questa volontà di Cristo, cioè studia la volontà
della Chiesa, che deve mantenersi conforme alla volontà di Cristo" .
Lo stesso autore precisa poi per il ‘piano canonico’
"Tutto il sapere giuridico, in una visione integrale, suppone tre livelli,
come individuano con certezza gli autori fin dall’antichità: i primi due sono
livelli del giurista in quanto giurista:
- Primo, quello della Scienza del Diritto o giuridica, in senso stretto, che
tratta dell’elaborazione ed applicazione del Diritto attraverso la conoscenza razionale
immediata della norma e degli istituti giuridici e della loro applicabilità.
- Secondo: il livello della Teoria del Diritto, o trattazione organica o sistematica
di tutti i dati scientifici del Diritto.
- Terzo: il livello sapienziale, in cui ogni giurista, non già in quanto
tale, ma in quanto uomo, cerca il sapienziale, cioè, la ragionevolezza
di fondo del Diritto, la giustificazione e ragione radicali dell’origine, del fine
e della obbligatorietà del Diritto, da cui poter criticare e approvare o condannare
il prescritto e l’attuazione del Diritto. E’ il livello della Filosofia del Diritto,
nel cui retroscena si incontra una Filosofia dell’esistenza umana e la visione del
senso di tutta la storia e di tutto il cosmo" .
Gli ambiti di ricerca
Da quanto illustrato emerge concretamente che un’indagine canonistica potrà
essere:
- ‘scientifica’, quando accosta la norma giuridica sotto il profilo della sua formulazione
testuale in vista dell’applicazione concreta o dell’integrazione all’Ordinamento,
- ‘filosofica’, quando l’indagine verte sui rapporti tra i principi giuridici implicati
ed il resto dell’esperienza vitale umana,
- ‘teologica’, quando è oggetto d’indagine la coerenza del disposto normativo
col modello ecclesiologico o sacramentario di riferimento.
1) Scientifica. Ciò che si richiede ai canonisti in quanto ‘tecnici del Diritto
canonico’ è la conoscenza sistematica della norma canonica e della sua collocazione
all’interno dell’Ordinamento giuridico della Chiesa in modo tale da poterla correttamente
applicare tanto a livello ‘amministrativo’, per l’appropriata gestione della vita
quotidiana della Comunità ecclesiale, che a livello ‘giudiziale’ per ristabilire
il Diritto tra i Fedeli che ne facciano legittima richiesta. Una conoscenza, dunque,
scientifica.
Non basta però ritenere —tautologicamente— che il metodo per un approccio scientifico
debba essere ‘scientifico’: la storia ha infatti dimostrato che in ogni epoca le
coordinate individuanti la scientificità sono mutate anche radicalmente, opponendo
metodo a metodo, scuola a scuola, non solo nelle Scienze c.d. ‘umane’ ma anche in
quelle fisico-naturalistiche.
Di fatto l’orizzonte si mostra ancor oggi molto articolato in quanto parecchi autori
e ‘scuole’, soprattutto nel secolo scorso, hanno fatto le loro ‘proposte’: metodo
esegetico , metodo teologico , metodo dogmatico , riuscendo spesso solo episodicamente
ad offrire qualcosa che risponda alle vere coordinate di un ‘metodo’ come lo s’intende
in ambito scientifico; in realtà, soprattutto per qualcuno, si è trattato
solo di enunciare assiomaticamente criteri e principi generici ponendo maggiore
attenzione alle parole che ai loro effettivi contenuti .
Prima che lo specifico e concreto ‘metodo’ operativo finale è allora importante
individuare e scegliere le caratteristiche strutturali cui tale metodo dovrà
corrispondere per offrire le ‘garanzie’ minime di adeguatezza all’oggetto d’indagine
ed allo specifico punto di vista individuato dallo ‘scienziato’ come il proprium
della sua ricerca, in tal modo sarà sempre possibile ‘correggere’ in itinere
il metodo quando, col procedere della ricerca, se ne verificassero concrete insufficienze
o inadeguatezze; una tale correzione permetterebbe di rimanere fedeli ai ‘pre-supposti’
metodologici di base nonostante il mutare di alcuni elementi procedurali.
Proprio nell’individuazione della corretta ‘tipologia’ metodologica da osservarsi
è particolarmente importante considerare l’influsso dei pre-supposti soggiacenti
ad ogni scelta metodologica: occorre che chiunque intenda adottare un approccio scientifico
indichi con chiarezza i motivi della scelta del metodo adottato, illustrandone i
presupposti, le ‘funzionalità’ ed i vantaggi nel perseguire i risultati desiderati.
Solo in tal modo si renderà ragione dell’esatto contesto e dei fini cui ricondurre
le affermazioni e le conclusioni della ricerca stessa, avvalorandone i risultati
proprio attraverso l’adeguatezza e congruità delle scelte operative effettuate
ed il rigore attuativo del percorso metodologico scelto, che anche altri possano
verificare, corroborando ed estendendo tali risultati.
Fuori da quest’ottica non si potrà parlare di ‘risultati’ delle ricerca ma di
semplici ‘punti di vista’, opiniones, dicta, sententiæ, numerose quanto
l’estensione dell’ingegno umano.
2) Filosofica. L’ambito filosofico potrà apparire, probabilmente, come il meno
problematico per lo studio del Diritto canonico in quanto, negli ultimi decenni,
le maggiori tensioni sono state polarizzate tra ‘giuridicità’ (scientifica)
e ‘teologicità’, lasciando solo in retrospettiva le problematiche più attinenti
la Filosofia del Diritto. Non va neppure trascurata la convinzione di molti autori
secondo cui, trattandosi di Diritto canonico —ontologicamente sacrum, secondo
loro—, il ruolo che la Filosofia del Diritto esplica nei riguardi del Diritto statuale
in genere sia pienamente sostituito dalla Teologia del Diritto, annullando così
l’istanza filosofica del Diritto della Chiesa che rimane privo di una congrua riflessione
‘sapienziale’ sui principi specifici che informano e caratterizzano tale espressione
della giuridicità.
In quest’ottica, venendo a scomparire quasi del tutto l’elemento più tipicamente
antropologico e ‘mediatorio’, si allarga la ‘forbice’ tra i due estremi citati che
si confermano reciprocamente nell’incapacità d’incontrarsi all’interno di un
contesto più articolato in cui anche il ‘vissuto’ autenticamente umano (la sapientia)
possa intervenire con un apporto significativo, quando non del tutto decisivo. Questa
‘esclusione’ dell’approccio filosofico al Diritto canonico è a tutti gli effetti
uno dei pre-supposti di maggior portata nella scelta del ‘metodo’ e nella qualità
dei risultati perseguibili.
Di fatto lasciar cadere la riflessione ‘sapienziale’ sul vissuto giuridico umano
(non importa se credente o no) sostituendola con un dogmatismo fideista, genera l’immediata
perdita del senso stesso del Diritto, sprofondando la norma giuridica nell’indistinto
della normatività moralistica senza avvedersi della distruzione dei suoi stessi
presupposti: l’oggettività esteriore, la separabilità, la coercibilità
.
3) Teologica. Il contesto di queste considerazioni risulta —finalmente— appropriato
per esplicitare un altro ‘pre-supposto’ spesso inconsapevole nella maggioranza dei
canonisti, ma dalle ‘conseguenze’ incalcolabili: il semplice parlare di ‘Teologia’
è in realtà del tutto fuorviante ed ambiguo poiché lo stesso termine/concetto
indica tre realtà ben diverse, anche se non disorganiche:
a) la Teologia come specifico ambito di conoscenza (modus cognoscentiæ theologicus),
secondo quanto ribadito da Fides et Ratio, che la indica come conoscenza
dell’ordine della grazia attraverso la fede ;
b) la Scienza teologica (stricte dicta), che è Scienza in quanto riflessione
razionale sul dato della Rivelazione divina (dato di fede): la ragione studia il
vissuto di fede, la Rivelazione è l’oggetto di studio ; essa è, e dev’essere,
Scienza a tutti gli effetti;
c) la Scienza Teologica impropriamente detta (latu sensu dicta), quale riflessione
sui dati esperienziali (dato naturale ed antropologico) alla luce della Rivelazione
divina: la fede studia il creato, la Rivelazione è il ‘punto di vista’ sulla
vita ; una sorta di sapientia fidei, che ha una certa somiglianza con la riflessione
filosofica, sapientia vitæ.
In realtà sotto il profilo epistemologico queste ‘Teologie’ latu sensu
sono tali solo ‘in secondo grado’: costituiscono cioè un’altra realtà
teologica per nulla ex æquo con la Teologia propriamente detta, la quale
ha per oggetto la Rivelazione divina, occupandosi principaliter de Deo, principalius
de rebus divinis. Tra queste Teologie —che vengono anche dette ‘aggettivate’
(o ‘dei genitivi’)— emergono non solo “aggettivazioni determinative” (geografiche
o storiche) di specifica utilità ‘pratica’, ma anche “ideologiche” (conservatrice,
integralista, rivoluzionaria…) : è il fenomeno conosciuto come “teologizzazione”
o “teologismo” il cui pre-supposto non può essere ignorato da nessun canonista
(e teologo).
"Il teologismo consiste nel considerare l’interpretazione teologica come
l’unica versione veritiera o adeguata del reale. Questo spirito porta il teologo
ad opporre artificialmente la lettura teologica ad altre letture, come se l’unica
lettura legittima fosse la sua. Egli critica il ‘materialismo’ o la ‘parzialità’
delle altre letture, come se quella teologica fosse la lettura totale ed esaustiva
della realtà[…] Si dà teologismo laddove una Teologia ha la pretesa
di incontrare dentro le proprie mura tutto ciò che è necessario per esprimere
adeguatamente il Politico [ed il Canonico], nello stesso istante in cui essa
ignora i presupposti silenziosi, dal punto di vista delle Scienze Sociali, implicati
nella sua trattazione" .
"Il teologismo prende la Teologia come fosse un discorso universale ad
anche totalitario, e soprattutto la ‘mescolanza semantica’ ed il ‘bilinguismo’ non
permettono di pensare, in termini appropriati, la collocazione e la funzione specifiche
delle Scienze del Sociale con relazione alla Teologia e viceversa" .
"Secondo il teologismo la Storia e la Società non permettono di
essere accostate correttamente se non dalla Teologia" .
"Procedere come se la Teologia dovesse dare ordini alle altre discipline è
non solo un anacronismo, per di più inutile, ma anche l’espressione di quell’eccesso
che tenta di saper tutto[…] In ambito d’incontro con le Scienze, il ‘teologismo’
si caratterizza per questa volontà panlogista di spiegare tutto e totalmente
col ricorso esclusivo alle forze spirituali o ai fattori soprannaturali. In tal modo
non sospetta la necessità di introdurre, tra i fenomeni in questione ed il significato
teologico, le innumerevoli mediazioni disvelate dalle Scienze" .
La lucidità di queste note dovrebbe bastare a mettere in guardia ogni ricercatore
avveduto e rigoroso dal rischio di sbagliare clamorosamente l’ambito e la ‘natura’
della propria ricerca infirmando completamente gli esiti del proprio lavoro.
Conclusione
Pur nella loro apparente aridità, le trattazioni di carattere metodologico
sono in realtà, per chi ne abbia sufficiente cognizione, tutt’altro che formali,
offrendo addirittura —molto spesso— la ‘chiave’ interpretativa di tante affermazioni
‘tecniche’ altrimenti ingiustificabili: spesso è proprio la ‘formalità’
della procedura utilizzata a svelare la vera ‘sostanza’ che gli autori celano dietro
pretese ‘valutazioni tecniche’ o impressioni personali: i ‘pre-supposti’!
Non è sufficiente “parlare di metodo” per “avere un metodo”; così come
non è sufficiente dire di “avere un metodo” per saperlo applicare efficacemente.
Il ‘metodo’ in sé (nell’accezione meno teoretica fornitaci da Lonergan) non
è un toccasana, né una garanzia, ma un semplice strumento, che tuttavia
non basta avere a disposizione o maneggiare con destrezza.
Ogni metodologia dev’essere adeguata all’oggetto d’indagine ed alla prospettiva dell’indagine;
allo stesso tempo non può nulla in più rispetto alle capacità di chi
lo utilizza, né aggiunge ‘idee’ a quelle già possedute dal ricercatore.
Se la scelta del metodo da applicarsi ed il suo ‘adattamento’ all’oggetto specifico
della ricerca sono sufficientemente motivati, tali saranno anche i risultati conseguiti;
se non esistono ragioni specifiche per adottare un metodo rispetto ad altri possibili
(o necessari) anche i risultati che ne conseguono saranno generici e di scarsa utilità
alla crescita del patrimonio conoscitivo umano.
PAOLO GHERRI
Inc. Teologia del Diritto Canonico
(Pont. Univ. Lateranense - Roma)
in: IL DIRITTO ECCLESIASTICO, CXV (2004), 1061-1101.