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Canonistica, metodo ed ideologia



Questioni di metodo. Introduzione. Il metodo Affidabilità della ragione. Tutela della ragione. Cautele gnoseologiche. Il giudizio. La formazione. La logica. L’evidenza. Il linguaggio. L’ermeneutica. La ricerca. Gli ambiti della ricerca. Conclusione.


Questioni di metodo. Introduzione. La conoscenza. Il metodo. Affidabilità della ragione. Tutela della ragione. Cautele gnoseologiche. Il giudizio. La formazione. La Logica. L’evidenza. L’ermeneutica. La ricerca. Conclusione.

Questioni di metodo
La recensione di M. Mingardi allo studio “I tempi di nomina dei Parroci. Can. 522 del CIC” contesta la struttura utilizzata per l’interpretazione del Canone in oggetto manifestando meraviglia per
"l’ordine in cui è distribuita la materia: prima si fa l’analisi del contenuto del Canone (cap. Il), e solo dopo si esaminano gli antecedenti diretti della normativa vigente: la situazione precedente al Vaticano II (cap. IV), le statuizioni del Concilio (cap. V), e l’iter di revisione del Codice (cap. Vl); mentre è evidente che questo cammino ha inciso sulla formulazione del Canone e deve orientarne l’interpretazione, e quindi andrebbe logicamente affrontato prima, pena il rischio di una precomprensione derivante dalla lettura del Canone in se stesso, e che può influenzare anche la successiva analisi dei passi previ alla redazione del testo normativo" .

Si tratta di un semplice esempio della confusione che regna ancor oggi in ambito canonistico non solo a livello ‘fondazionale’ ma, ben più drammaticamente, a livello metodologico dove non pare esistere una sufficiente consapevolezza della necessità d’individuare e mettere a punto metodi efficaci, ma soprattutto fondati, di approccio al testo normativo canonico, nonostante il proliferare di saggi e pubblicazioni in materia .
In realtà lo status quæstionis in materia pare abbastanza semplice da delineare: dopo l’imposizione nel 1917 del c.d. ‘metodo esegetico’ per accostare il CIC pio-benedettino non si sono avute altre reali possibilità ‘tecniche’ al di fuori di quella —per altro ‘non-allineata’— della Scuola ecclesiasticista laica italiana, assunta poi nelle sue linee portanti dagli autori della Scuola di Navarra; l’alternativa quindi a questo approccio sistematico ed ‘ordinamentale’ è rimasta per tutti gli altri quella sostanzialmente ‘esegetica’, accolta e praticata ancor oggi —seppur in diverse ‘modulazioni’— dalla maggioranza degli autori quale l’unica possibilità ‘tecnica’ esperibile per chi non si riconosca nella linea dottrinale proposta da P. Lombardia e discepoli .
A ben vedere, tuttavia, non è neppure ‘certo’ che di vera ‘esegesi’ si tratti; più spesso infatti pare ci si accontenti di semplice ‘commento’ ai Canoni, accostati in modo piuttosto generico e, soprattutto, quali ‘attualizzazioni’ (nel senso forte del termine) di istituti e norme ormai ‘fissati’ nella storia e ritenuti come tali pressoché irreformabili quanto alla sostanza, che ci si contenta di riesporre in una sorta di contestualizzazione ecclesiologico-pastorale adatta al momento presente, quasi prescindendo "dalla lettura del Canone stesso"!

La questione stimola a prendere consapevolmente atto che l’adozione di un metodo, in qualunque ramo della ricerca ed a qualunque suo ‘livello’, costituisce sempre una pre-giudiziale alla ricerca stessa ed ai risultati che sarà possibile perseguire ed ottenere dalla sua applicazione; anzi: la ‘qualità’ di tali risultati, la loro significatività e condivisibilità dipendono proprio dal metodo adottato per ‘ottenerli’.
Si delinea in tal modo la necessità di approfondire, prim’ancora che singoli metodi d’indagine canonistica intesi quali procedimenti tecnici da adottare nello studio del Diritto canonico, ciò che li precede: la visione preconcetta che fonda la necessità di operare in un modo piuttosto che in altri; ‘visione preconcetta’ che, quando massimalizzata, o più semplicemente non riconosciuta nella sua ‘presenza’ e ‘relatività’, può diventare vera e propria ‘ideologia’, indipendentemente dalla consapevolezza che se ne possa avere. D’altra parte quando si tratta di questioni legate alla ricerca scientifica, ed ai metodi necessariamente correlati, non è possibile evitare di far riferimento, anche implicito, ad una qualche teoria della conoscenza la quale a sua volta, fornendo i cardini della ‘possibilità’ stessa del conoscere, condiziona radicalmente ogni successiva acquisizione, costituendone il vero elemento ‘previo’ discriminante.
Le note che seguono, pur caratterizzate da una certa aspecificità riguardo alla Canonistica, cercheranno di considerare in modo abbastanza generale i principali meccanismi gnoseologici comunque attivi in ogni ricercatore per offrire un utile apporto alla delineazione concreta di significativi percorsi metodologici propriamente tali anche sotto il profilo tecnico-applicativo, senza smarrirsi negli spazi eterei di troppi discorsi sul metodo .

Introduzione
Legare metodologia ed ideologia può sembrare un azzardo destabilizzante, anche se non si può negare
"una dipendenza del metodo dalla ideologia, o meglio una inerenza dell’ideologia al metodo, nel senso che il metodo implica sempre ed esprime una concezione della realtà, una visione del mondo e dell’uomo" ,

d’altra parte, risulta certamente più difficile sostenere una ‘purezza’ metodologica non intaccata da precomprensione alcuna. In effetti
"il metodo è più che un procedimento ordinato e sistematico volto a raggiungere conoscenze, fondate e tra loro connesse, su un determinato campo della realtà. Il cammino verso la verità (méthodos) può essere solo alla fine la verità stessa. Al ricercatore, che si pone il problema della verità, questa deve già brillare in antecedenza. Perciò i problemi sul metodo sono sempre già problemi di contenuto" .

Senza dubbio trattare la questione in termini di ‘ideologia’ —almeno nella sua accezione negativa normalmente recepita— risulta sproporzionato a riguardo della maggioranza delle metodologie, ciò non toglie la doverosa consapevolezza ed attenzione che ciascuno studioso deve porre ai ‘pre-supposti’ propri e del proprio metodo di lavoro, che deve sempre essere individuato e scelto in conformità (o compatibilità) coi propri ‘valori’ e principi di riferimento religioso, culturale e ‘scientifico’ .
In fondo, parafrasando molto liberamente Heisemberg nell’enunciazione del suo “Principio d’indeterminazione”, la nostra conoscenza si comporta come un ‘prodotto’ tra più fattori; al mutare di un fattore corrispondono necessariamente altri mutamenti che non permettono la ‘stabilizzazione’ del prodotto stesso, tanto che ogni intervento sul sistema in esame lo sconvolge rendendo impossibile conoscere nello stesso tempo il ‘contenuto’ (obiectum formale quod) del sistema esaminato ed il ‘punto di vista’ (obiectum formale quo) dell’osservatore.
Allo stesso modo anche le nostre pre-comprensioni. Ogni volta infatti che accostiamo il ‘reale’, vi introduciamo ‘qualcosa’ che ne muta irrimediabilmente gli equilibri e le proporzioni, permettendoci di determinare solo ‘qualcuno’ dei fattori che lo costituiscono. Né il cambiare continuamente la nostra ‘posizione’ (il ‘punto di vista’), o l’oggetto ‘osservato’, potrà condurre a risultati sufficientemente ‘complementari’ da poter conseguire in modo deduttivo ‘la’ visione completa del reale stesso.
La conoscenza e consapevolezza delle proprie pre-comprensioni diventa, allora, un fattore determinante nella ‘scelta’ o, molto di più, nella ‘creazione’ del metodo con cui investigare ciò che ci circonda, ci coinvolge o ci interessa.
La portata di questo ‘snodo’ è tale da pregiudicare irrimediabilmente tutto il lavoro di ricerca scientifica, al punto che è probabilmente questa ‘prima soglia’ il vero ostacolo col quale confrontarsi prima ancora di pensare ad un qualunque ‘metodo’ corretto di lavoro.
Ignorare o bypassare le motivazioni che hanno determinato la scelta di un metodo piuttosto che di altri, significa esporre tutta la propria fatica all’esito certo della vanità: semplici ‘opinioni’… tot capita, tot sententi¾.

D’altra parte la conoscenza umana, anche quando possa avvenire ‘per intuizione’ , non può esprimersi se non per ‘concetti’ i quali, tranne che in una prospettiva innativista (insostenibile), non risiedono già previamente dentro di noi, semplicemente ‘risvegliati’ dall’esperienza che li rende ‘attivi’.
L’uomo impara attraverso l’astrazione del ‘concetto’ dalla realtà che percepisce attraverso i propri sensi , in un processo di sempre nuovi confronti tra ciò che già conosce ‘meglio’ e ciò che ancora risulta sconosciuto. Nessun concetto nasce mai dal nulla ma ‘evolve’ per similitudini e dissimilitudini da concetti più elementari via via stratificatisi fino a costituire la stessa forma mentis del soggetto conoscente.
Ogni ‘novità percettiva’ viene in noi filtrata e vagliata attraverso complicatissime ‘griglie’ di lettura e confronto che ‘scavano’ le stesse sensazioni, ‘scarnificandole’ fino all’osso della fisionomia di base per coglierne i tratti fondamentali, il concetto sintetico non ulteriormente semplificabile, al di là di ogni accidentale apparenza sensoriale o emotiva.
Ogni conoscenza umana risulta così caratterizzata da ‘pre-comprensioni’ intimamente ‘soggettive’ poiché ‘dipendenti’ dall’esperienza vissuta da ciascun singolo ed inseparabili (forse ‘indistinguibili’) dalla sua stessa vita.
Ecco perché non basta ‘usare’ la ragione, ecco perché non basta ‘leggere’ dei dati, ecco perché non basta nessuna attività intellettiva singolarmente presa, ma è necessario considerare la globalità del complesso ambito gnoseologico, non solo in linea teorica ma, molto di più, nella concretezza —anche operativa— del suo articolarsi e dispiegarsi nell’esistenza quotidiana dell’uomo, cosciente o no della portata del suo ‘sapere’.

La conoscenza
Queste sollecitazioni conducono così al primo ‘bivio’ del nostro percorso: la scelta del ‘modello gnoseologico’ da adottare per ‘illustrare’ e comprendere il ‘come’ del conoscere umano; solo così si potrà essere coscienti anche del ‘cosa’ l’uomo possa davvero dire —o sperare— di conoscere, giungendo —solo a questo punto— a delineare le modalità più congrue di ‘conoscenza’ e ricerca nei diversi ambiti del sapere: i c.d. ‘metodi’.
Di fatto, come la storia della Scienza ben dimostra, a differenti modelli di conoscenza corrispondono differenti risultati conoscitivi, da conseguirsi applicando differenti ‘metodi’ di ricerca. Die esempi in merito:
- in una concezione gnoseologica agnostica, p.es., l’oggettività degli elementi di cui si fa esperienza è praticamente nulla con conseguente rilievo delle sensazioni (emotive ed intellettuali) del soggetto rispetto alla portata oggettiva di quanto sperimentato; in tale prospettiva le coordinate individuanti il metodo di ricerca risulteranno opportunamente cumulative ed, al contempo, alternative senza giungere a nessun ‘risultato’ preferenziale (se non statistico), né individuando ‘criteri’ di valutazione. I metodi utilizzati saranno di carattere descrittivo, formale, strutturale, con una marcata difficoltà alla sintesi teoretica unitaria; l’esegesi testuale si presenta come il ‘metodo giuridico’ più assonante con questa impostazione gnoseologica, pur senza esserne esclusivo;
- in modo del tutto contrario, un’impostazione sostanzialmente ‘realista’ privilegerà gli elementi oggettivi dell’esperienza, riconoscendo particolare credito alle componenti statistiche, storiche, funzionali… cercando la concordanza e convergenza dei ‘dati’ rispetto alla loro varietà, privilegiando le regolarità rispetto alle varianti, non contentandosi di una, pure abbondante, fase analitica ma spingendo decisamente verso gli elementi di sintesi prospettica; la componente storica appartiene al ‘fenomeno’ stesso definendolo in modo non accidentale. In ambito giuridico le metodologie adottate saranno d’ispirazione ermeneutica con forte attenzione ai contesti vitali ed agli elementi circostanziali.

A seconda delle concezioni gnoseologiche di riferimento anche gli ‘strumenti’ conoscitivi adottati saranno di differente natura e portata, così come il valore ‘probatorio’ assegnato alle idee o ai fatti sarà del tutto differente nella ‘gerarchia delle fonti’ e nel modo di argomentare.
S’inserisce qui a pieno titolo anche la differente attendibilità cognitiva riconosciuta ai risultati delle diverse Discipline o Scienze, così come l’annoso problema del rapporto tra fede e ragione che, soprattutto in ambiti di stretta attinenza alla vita ecclesiale (com’è il Diritto canonico), non può essere ritenuto non significativo sotto il profilo cognitivo e metodologico.
Proprio in quest’ottica, anzi, è necessario considerare come in una concezione ‘idealistica’ (in chiave sostanzialmente platonica e non hegeliana) non è data conoscenza se non a partire dalla fede: credo ut intelligam e l’apporto della ragione si limita ad elaborare ‘conseguenze’ deduttive, e quindi di minor portata gnoseologica, rispetto ai principi di riferimento . In tal modo i contenuti della fede costituiscono la ‘fonte’ unica di tutta la conoscenza:
"solo la Rivelazione può formulare affermazioni vincolanti. Nessuna metafisica umana —quella di Platone come quella di Aristotele o di Hegel— è capace di dire cosa sia lo Stato e il Diritto. La realtà può essere conosciuta solo con la fede e non con la Filosofia per cui l’analogia entis è sostituita con l’analogia fidei" ;
al punto che: "[Rouco Varela] Io oserei anche diagnosticare la crisi attuale del Diritto canonico come una crisi di fede di cui sono colpevoli —e vittime allo stesso tempo— canonisti, teologi, pastori e fedeli.
[Corecco] Una crisi di fede si traduce sempre non solo in una crisi di comportamento ma anche, a livello scientifico, in una crisi di metodo, poiché il cristianesimo è essenzialmente un metodo per conoscere e entrare in comunione con il Dio che si rivela" .

In una concezione ‘realistica’ (di stampo più aristotelico-tomista), invece, la fede concorre ad ‘accrescere’ non solo la quantità ma, molto di più, la qualità dei ‘dati’ disponibili per la ricerca, incrementando la portata delle conoscenze disponibili, poiché arricchisce l’esperienza umana dei contenuti della Rivelazione (accolti come reali per fede) offrendo così alla ragione un orizzonte più ampio entro cui condurre le proprie indagini, per un risultato conoscitivo maggiormente certo, corroborando in tal modo anche la stessa fede: intelligo ut credam.

Il metodo
Proprio con attenzione alla questione gnoseologica (risolta in chiave ‘realista’), risulta particolarmente efficace riferirsi alla proposta di B. Lonergan che, pur senza rinnegare i migliori risultati della riflessione teologica e metafisica ‘tradizionale’, ha saputo porre una speciale attenzione all’apporto delle Scienze naturali ed umane in una prospettiva di dialogo ed integrazione con la ‘cultura’ (scientifica, tecnica, filosofica e teologica) occidentale del XX sec. e, proprio partendo dal funzionamento e dalla struttura dell’intelligenza umana , giunse ad individuare e descrivere le ‘operazioni’ fondamentali che ogni essere umano compie nel suo rapportarsi con la realtà:
"vedere, udire, toccare, odorare, gustare, indagare, immaginare, capire, concepire, formulare, riflettere, disporre in ordine e pesare l’evidenza, giudicare, deliberare, valutare, decidere, dire, scrivere" .

Partendo da queste ‘operazioni’ —come status de facto del funzionamento della conoscenza umana— il Gesuita canadese propose i fondamenti di un ‘metodo sintetico’, ed al contempo generale, adottabile quale ‘palinsesto’ di riferimento ed integrazione tra (le) diverse tipologie di conoscenza; metodo che egli illustrò specificamente per l’ambito teologico.
Ciò che Lonergan maggiormente rileva —e propone— come fulcro del conoscere ed operare metodologico è la persona, quale ‘soggetto’ non solo sempre presente, ma sempre decisivo nel configurare ogni conoscenza:
"le nostre operazioni consce e intenzionali avvengono a quattro livelli distinti e [che] ogni livello ha un risultato ed un fine suo proprio. Così il risultato ed il fine del primo livello, quello dell’esperienza, è l’apprensione dei dati, quello del secondo livello, l’intendimento, è l’intelligenza dei dati appresi; quello del terzo livello, il giudizio, è l’accettazione o il rifiuto delle ipotesi e delle teorie avanzate dall’intendimento per spiegare i dati; quello del quarto livello, la decisione, è il riconoscimento dei valori e la scelta dei metodi o di altri mezzi che portano alla loro attuazione" .

Esperienza, intelligenza, giudizio, decisione, si susseguono in una circolarità mai conclusa e che spinge sempre più a fondo la portata dell’investigare umano, mai ‘sazio’ di quanto ‘conosciuto’.
In quest’ottica Lonergan propone un’idea di ‘metodo’ come "schema normativo di operazioni ricorrenti e connesse tra di loro che danno risultati cumulativi e progressivi" che costringe a non accontentarsi di qualunque ragionamento o accumulo di dati su di un qualche ‘fenomeno’, ma induce a spingere la propria analisi ben oltre il semplice ragionamento ‘logico’ e le sue ‘prime’ conclusioni.

Venendo più direttamente al tema in esame (presupposti e precomprensioni), è già possibile/necessario fare alcune considerazioni circa la non ‘neutralità’ dei concetti di ‘metodo’ e di conoscenza presi a riferimento da Lonergan:
1 - è manifesta, anzitutto, la convinzione assiomatica ed indimostrabile circa l’essenza strutturata o quanto meno ordinata/organizzata (almeno in modo molto elementare), del ‘reale’ oggetto dell’umana esperienza che, altrimenti, passerebbe nella categoria delle ‘casualità’ (troppo spesso usata per nascondere in realtà la propria ignoranza o irragionevolezza) alle quali non si può applicare un procedimento cumulativo e progressivo.
2 - come indicato da Lonergan, poi, il ‘punto di osservazione’ umana (e quindi conoscitiva) è ‘interno’ alla realtà stessa, le appartiene e la condiziona con la propria ‘soggettività’: giudizio e decisione, in particolare;
3 - le c.d. ‘operazioni’ attraverso cui l’intelligenza giunge alla comprensione, e quindi alla conoscenza, prendono avvio dalle ‘esperienze sensoriali’: il ‘percepito’ attraverso i sensi costituisce la ‘base’ irrinunciabile che ‘innesca’ ogni processo intellettivo e conoscitivo divenendone, allo stesso tempo, immancabile ‘verifica conclusiva’ e nuovo inizio d’indagine a partire dalle consapevolezze sino ad allora acquisite in una logica “cumulativa e progressiva” ;
4 - in questo modo:
"l’indagine trasforma la mera esperienza nell’esame della osservazione. Ciò che è osservato, è fissato in una descrizione. Descrizioni contrastanti danno origine a problemi e i problemi vengono risolti mediante scoperte. Ciò che è scoperto, è espresso in un’ipotesi. Dall’ipotesi vengono dedotte le sue implicazioni e queste suggeriscono quali esperimenti si devono fare. Per cui le molte operazioni sono in relazione tra di loro, le relazioni formano uno schema e lo schema definisce il modo in cui va eseguita l’indagine scientifica. Infine, i risultati delle indagini sono cumulativi e progressivi. Infatti, il processo della sperimentazione fornisce nuovi dati, nuove osservazioni, nuove descrizioni le quali possono confermare o no la ipotesi sottoposta a prova" .

La prospettiva di Lonergan offre, a differenza di altre teorie conoscitive (e conseguentemente metodologiche) ancora oggi utilizzate come punti di riferimento soprattutto in ambito filosofico e teologico , il grande vantaggio non solo di non-ignorare la portata delle attuali metodologie e conoscenze scientifiche ma, ben più radicalmente, di farne un effettivo punto di partenza e di ‘controllo ciclico’ per la verifica della ‘integralità’ della conoscenza umana, rivalutando —anche in ambiti più generali della conoscenza— l’imprescindibilità della conoscenza scientifica quale ‘strumento’ privilegiato ed ‘originario’ (e ‘originante’) di approccio all’esperienza, con il vantaggio —non trascurabile— di non cadere nelle angustie che la tripartizione classica del sapere (Scienza, Filosofia e Teologia) a volte comporta.
In questa prospettiva, giustamente indicata come ‘empirica generalizzata’, si supera anche la sterile contrapposizione che qualcuno ancora si ostina a propagandare tra ‘esperimento’ ed ‘esperienza’ poiché è comunque la totalità dell’agito e del vissuto del soggetto a costituirne l’orizzonte di comprensione.
L’unitarietà del modello conoscitivo e del conseguente metodo d’indagine proposto da Lonergan permette opportunamente di non contrapporre le ‘logiche’ interne dei tre citati ambiti della conoscenza come se ne fosse presunta una radicale differenza e, quasi, la ‘incompatibilità’ anche dei risultati. Ciò pare particolarmente vantaggioso ed apprezzabile per queste considerazioni su quanto si colloca ‘a monte’ delle scelte di metodo dalle quali attendiamo i risultati delle nostre ricerche.

Affidabilità della ragione
L’attenzione verso i pre-supposti soggiacenti ad ogni opzione metodologica si rivela tanto più importante in quegli ambiti del sapere nei quali la ragione —o forse meglio, il ‘ragionare’— rischia di non avere nessuna istanza critica di confronto, procedendo così in modo presuntamente ‘logico’ attraverso evidenze, deduzioni, analogie o altri procedimenti di natura unicamente intellettuale, senza poter o dover confrontare le proprie conclusioni con nessuna istanza di ‘altro’ genere che ne possa confermare la plausibilità rendendole generalmente condivisibili.
Di fatto gli ultimi due secoli di riflessione, soprattutto filosofica, hanno evidenziato con abbondanza la concretezza di questo ‘rischio’ proprio a causa del grande sviluppo di un’attività intellettiva (logico-razionale) spesso fine a se stessa o, comunque, disarticolata rispetto ad una concezione globale ed unitaria della conoscenza umana e dei suoi rapporti con l’unicum reale.
Proprio in questa linea è proficuo richiamare —in modo riassuntivo ed al contempo emblematico— quanto espresso da Giovanni Paolo II nella sua Lettera Enciclica “Fides et ratio” sui rapporti tra fede e ragione laddove, a livello introduttivo, osserva che:
"i positivi risultati raggiunti non devono, tuttavia, indurre a trascurare il fatto che quella stessa ragione, intenta ad indagare in maniera unilaterale sull’uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso una verità che lo trascende. Senza il riferimento ad essa, ciascuno resta in balia dell’arbitrio e la sua condizione di persona finisce per essere valutata con criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale, nell’errata convinzione che tutto deve essere dominato dalla tecnica. E’ così accaduto che, invece di esprimere al meglio la tensione verso la verità, la ragione sotto il peso di tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l’alto per osare di raggiungere la verità dell’essere. La Filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti.
Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l’uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di vita che provengono dall’Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l’impressione di un movimento ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è riuscita a immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina all’esistenza umana e alle sue forme espressive, dall’altra, tende a sviluppare considerazioni esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che prescindono dalla questione radicale circa la verità della vita personale, dell’essere e di Dio. Di conseguenza, sono emersi nell’uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell’essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale" (FR 5).

La ‘fallacia’ di un’attività razionale lasciata a se stessa, senza un autentico orientamento esistenziale, è richiamata anche in altri passaggi dell’Enciclica:
"non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della Filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate —o almeno orientabili— come "ragione strumentale" al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere. […]
Sulla scia di queste trasformazioni culturali, alcuni filosofi, abbandonando la ricerca della verità per se stessa, hanno assunto come loro unico scopo il raggiungimento della certezza soggettiva o dell’utilità pratica. Conseguenza di ciò è stato l’offuscamento della vera dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere il vero e di ricercare l’assoluto" (FR 47).
"Una Filosofia priva della domanda sul senso dell’esistenza incorrerebbe nel grave pericolo di degradare la ragione a funzioni soltanto strumentali, senza alcuna autentica passione per la ricerca della verità" (FR 81).

Quanto ‘contestato’, però, dal Pontefice alla Filosofia pare non estraneo anche alla stessa Teologia, pure richiamata a verificare l’universalità e l’accettabilità delle proprie conclusioni attraverso un efficace incontro con la Filosofia metafisica:
"la Teologia ha sempre avuto e continua ad avere bisogno dell’apporto filosofico. Essendo opera della ragione critica alla luce della fede, il lavoro teologico presuppone ed esige in tutto il suo indagare una ragione concettualmente e argomentativamente educata e formata. La Teologia, inoltre, ha bisogno della Filosofia come interlocutrice per verificare l’intelligibilità e la verità universale dei suoi asserti" (FR 77)

proprio per non ritrovarsi chiusa ed isolata in una propria ‘bolla speculativa’ di nessun impatto reale col vissuto umano, non solo religioso.

A questa situazione di solo parziale ‘affidabilità’ dell’umano ragionare lasciato a se stesso va tuttavia accostata —pur senza cadere nel c.d. ‘positivismo logico’— quella che costituisce senza dubbio una della maggiori novità gnoseologiche —e quindi metodologiche— del secolo appena conclusosi: il ‘successo ontologico’ del c.d. sapere scientifico.
La quantità e qualità delle conoscenze e progressi conseguiti attraverso la c.d. ‘conoscenza scientifica’ (fisico-naturalistica) agli albori del terzo millennio è infatti ormai tale e di tale efficacia da non poter più essere relegata al solo livello di ‘ciò che appare’ (il puro fenomeno) lasciando ad ‘altri’ (Filosofia e Teologia) la ricerca e la riflessione su ciò che “è”. La stessa ‘scienza nova’ che con Galileo e Newton era venuta costruendosi attraverso l’adozione intensiva di ‘ipotesi’ di lavoro del tutto teoretiche senza pretendere di individuare un’oggettivistica realtà in sé, delineandosi secondo il carattere tipicamente ipotetico del “come se” , ha dovuto cedere il passo ad una Scienza che
"superando ogni remora filosofica e epistemologica che si opponeva al passaggio del come se al come è, si spostò decisamente per quanto riguarda la cosmologia sul piano del come è, sviluppando e perfezionando gli strumenti sperimentali e teorici maturati in precedenza. Concorse a questo passaggio anche la tecnologia, che apprestò strumenti sempre più perfezionati e nuovi, fra i quali ricordiamo i radiotelescopi, la tecnologia spaziale […] e la tecnologia dei computer, che ha permesso di eseguire in tempi particolarmente ristretti calcoli altrimenti impensabili. In definitiva, nella seconda metà del Novecento pervenne a maturazione quel bagaglio teorico-sperimentale che, convergendo nella ricerca astrofisica, sancì in maniera irreversibile il passaggio dal come se al come è" .

Tutela della ragione
Forte di questi ed altri successi, l’impostazione dottrinale nota come ‘realismo critico’ propugna la non-casuale corrispondenza delle conoscenze e tecnologie scientifiche con ciò che ‘accade’ o almeno —per i più scettici— è possibile ‘far accadere’ (sperimentalmente), rivendicando legittimamente anche per l’approccio tecnico-scientifico un’innegabile portata ‘ontologica’ non trascurabile neppure per gli approcci più ‘profondi’ della conoscenza del reale (Filosofia e Teologia).
Proprio a proposito di questo approccio empirico, corrispondente alle prime cinque ‘operazioni’ di Lonergan, è necessario sottolineare come alla ragione umana non basti il semplice ‘vedere’ (percepire) che ‘qualcosa’ accade per poi interrogarsi sull’esperienza fatta (riflessione filosofica); occorre invece anche ‘osservarlo’ e ‘misurarlo’ accuratamente (anche in modo sperimentale) fino a cogliere perché accade in tal modo e ‘cosa’ presumibilmente accade, al di là di quanto l’uomo possa aver visto (o creduto di vedere) : è il c.d. ‘procedimento scientifico’.
"Quando parliamo di procedimento scientifico non ci riferiamo a ciò che distingue una Scienza dall’altra ma a ciò per cui tutte sono Scienze, nonostante le diversità degli oggetti considerati. Nello sviluppo di ogni Scienza particolare c’è un procedimento che è essenzialmente identico a tutte e che, perciò, si può chiamare procedimento scientifico.
Lo scienziato, in primo luogo, parte sempre dall’osservazione empirica.
In secondo luogo, la tensione della ricerca e dell’indagine culmina in un atto d’intelligenza. Questo momento dell’intelligenza è centrale in tutto il procedimento scientifico: ogni volta che si chiede il “perché” di qualche cosa si cerca una ragione, un motivo che spieghi un certo fenomeno. Cogliere tale ragione o motivo è capire, avere un atto di intelligenza.
In terzo luogo, una volta capito e perché ha capito, lo scienziato elabora ciò che ha capito e lo formula in una ipotesi.
In quarto luogo, c’è la verifica. Principio fondamentale del procedimento scientifico è di non accettare alcuna teoria o ipotesi che non sia verificata con opportuni esperimenti.
In quinto luogo, c’è la legge scientifica. Se l’ipotesi è verificata in un numero sufficiente di esperimenti, se tale teoria non è solo coerente con i dati del problema o gli aspetti del fenomeno, ma anche aiuta alla soluzione di altri problemi o apre la strada ad applicazioni tecniche, allora la teoria diventa legge scientifica.
Tali sono, dunque, le parti o i momenti del procedimento scientifico: l’osservazione, l’indagine che porta all’intelligenza, la formulazione in ipotesi di ciò che si è capito, la verifica dell’ipotesi, e, se la verifica è positiva, la conversione dell’ipotesi in legge scientifica" .

La questione si fa ancor più pregnante passando dalle ‘Scienze naturali’ (sperimentali) a quelle ‘antropologiche’ (esperienziali), nelle quali scopo principale della ricerca scientifica è proprio la ‘definizione’ dell’essenza del fenomeno antropologico stesso che, non potendo essere ricondotto a strutture atomiche o molecolari sulle quali esercitare poi diversi tipi di misurazione ed influssi chimico-fisici, chiede in modo specifico di essere ‘definito’ concettualmente secondo categorie che, pur essendo a tutti gli effetti ‘ontologiche’, sono tuttavia considerate —in quest’ambito— pienamente ‘scientifiche’, come ben testimonia K. Popper:
"[…] mentre i metodi delle Scienze naturali sono fondamentalmente nominalistici, la Scienza sociale è costretta ad adottare un essenzialismo metodologico. Si è detto che il compito della Scienza sociale è comprendere e spiegare quelle entità sociologiche come lo stato, l’azione economica, il gruppo sociale, ecc. E che ciò può farsi soltanto col penetrare nelle loro essenze. Ogni entità sociologica di qualche importanza presuppone termini universali per la sua descrizione, e per questo suo compito sarebbe futile introdurre liberamente […] nuovi termini. Il compito della Scienza sociale è descrivere tali entità con chiarezza e in modo appropriato, cioè distinguere l’essenziale dall’accidentale; ma ciò richiede la penetrazione della loro essenza. Problemi come: “cos’è lo stato?” e “che cos’è il cittadino?” (considerati da Aristotele come problemi fondamentali della sua Politica), oppure “che cos’è il credito?” o anche “in che cosa consiste la differenza essenziale fra il seguace di una chiesa e il seguace di una setta religiosa […]?” sono non soltanto perfettamente legittimi, ma sono precisamente quella sorta di domande alle quali le teorie sociologiche devono rispondere" .

Allo stesso tempo una certa esemplarità metodologica delle Scienze fisico/naturali non può essere rifiutata o trascurata proprio per il grado avanzato di questi campi del sapere che, nelle Scienze sperimentali e nelle loro tecnologie applicative, comportano metodi più precisi e sviluppati , facendo del rigore e della precisione la propria forza e ‘credibilità’. Senza cadere in derive sperimentaliste ciò dovrebbe tuttavia rendere avvertiti coloro che si riferiscono alla sola ‘esperienza’ della necessità irrinunciabile di diffidare di un approccio non sufficientemente ‘strutturato’ all’unico dato loro disponibile —l’esperienza, appunto— cercando comunque di corroborare le proprie percezioni con altri ‘adiuncta et elementa’ di ragionevole affidabilità empirica per giungere ad una percezione non singolarista ed individualista del reale.
Si aggiunga poi un ulteriore vantaggio del metodo scientifico moderno rispetto alla Filosofia: la non necessità di ‘parole’ e l’essenzialità e brevità degli asserti, espressi preferibilmente attraverso simboli e formule relazionali, ciò che sostanzia il c.d. ‘postulato di proposizione’; ciò difende la stessa ragione dal verboso narcisismo intellettualista, costringendola alla chiarezza concettuale e relazionale, oltre che all’universalità della portata dei propri asserti.

Proprio in questa prospettiva la rilevanza attribuita da Lonergan all’elemento ‘empirico’ fornisce un buon equilibrio all’attendibilità globale della conoscenza raggiungibile facendo tesoro delle peculiarità della conoscenza c.d. scientifica, e riportandone i migliori frutti anche agli altri ambiti del conoscere.

Cautele gnoseologiche
Queste considerazioni sull’affidabilità e la portata dell’operato della ragione vanno tuttavia ridimensionate considerando la difficoltà —tutta umana— a sottrarsi ai propri bisogni, anche intellettuali, così come la forte tensione verso risposte sempre più rassicuranti ancor più necessarie col decadere progressivo delle c.d. ‘ideologie’ (e, forse, religiosità): ciò che già S. Agostino a suo tempo chiamava “propria voluptas” , che le Scienze psicologiche chiamano ‘desiderio’ o ‘passione’ e che la Teologia chiama ‘concupiscenza’.
E’ in questa linea che appare proficuo e necessario raccogliere e valorizzare le sollecitazioni di due grandi teorici della Scienza e dei suoi metodi: K. Popper e B. Russell che, seppur sotto profili diversi, hanno però efficacemente messo in guardia dalle ‘scorciatoie’ di natura ‘emotiva’ che possono non solo intaccare ma anche pregiudicare irreparabilmente gli esiti dell’umana riflessione.
"Che le nostre intenzioni siano buone —sostiene K. Popper— non è sufficiente: dobbiamo costantemente stare attenti, facendo uso di uno spirito autocritico, alle loro conseguenze più lontane per correggere in tempo ciò che stiamo facendo. Questo è il metodo per cercare i nostri errori allo scopo di correggerli presto, prima che le loro involontarie conseguenze siano diventate troppo gravi per consentirne la correzione.
La prontezza nel correggere i nostri errori e nell’imparare consapevolmente da essi è la sostanza dell’approccio che ho denominato "razionalismo critico".
Considero l’approccio critico come un dovere. Ogni altro atteggiamento è megalomane e irresponsabile, anche se ispirato dalle migliori intenzioni" .

"L’attitudine scientifica —ammonisce da parte sua B. Russell— non è in un certo qual modo naturale all’uomo; il più delle nostre opinioni sono appagamenti di desideri, come i sogni nella teoria freudiana" .
"Gli esseri umani trovano difficile, in ogni campo, di basare le opinioni sulle prove invece che sulle proprie speranze […] Il metodo scientifico spazza via i nostri desideri e cerca di giungere a opinioni in cui i desideri non c’entrano per nulla. Vi sono, di certo, dei vantaggi pratici nel metodo scientifico; se così non fosse, non sarebbe stato mai capace di farsi strada in un mondo di fantasia" .
"La verità è che gli uomini non possono dare forma adeguata a ipotesi astratte; l’immaginazione devia sempre la logica, e fa fare quadri di avvenimenti che non possono vedersi affatto" .
"L’inferenza è completamente inconscia, salvo in quelli che si sono abituati a uno scetticismo filosofico; ma non è da credersi che una inferenza inconscia debba essere necessariamente valida. […] Molte delle nostre inferenze inconsce, che sono, in realtà, riflessi condizionati acquisiti nella nostra più tenera infanzia, sono altamente dubbie non appena si sottopongono a un esame logico. La fisica è stata costretta dalle sue stesse necessità a tener conto di alcuni di questi pregiudizi ingiustificabili".
"È facile inventare una metafisica che abbia per conseguenza che l’induzione è valida, e molti l’hanno fatto; ma non hanno offerto alcun argomento, per farci accettare la loro metafisica, oltre il fatto che essa è piacevole" .

A queste ‘intenzioni’ o ‘desideri’ spesso moralmente ineccepibili (psicologicamente impercettibili) si possono ricondurre i pre-concetti, le pre-comprensioni, i pre-supposti, i pre-giudizi, fino alla più cieca ideologia, che ‘segnano’ fin dall’inizio ogni nostra ‘percezione’ del reale sperimentato (negarlo sarebbe il massimo dell’ideologia); sono questi gli elementi non-neutrali che, poiché alterano l’equilibrio del sistema, ne permettono una ‘percezione’ solo ‘probabilistica’, secondo il linguaggio di Heisemberg.

Ecco perché diventa necessario, o almeno inevitabile, trattando di ‘metodi’ o ‘procedimenti’ d’indagine, cautelarsi contro le sviste, le ‘inerzie’, le ‘latenze’, le approssimazioni, gli abbagli, le velleità, i miti, di cui la ragione stessa soffre e può cadere vittima. Non a caso nei secoli si è parlato non tanto di ‘(sola) ratio’ quanto piuttosto di ‘recta ratio’, riconoscendo —propriamente— come la sola ‘ragione’ non basti a se stessa, né possa —di principio— riuscire a vigilare sul proprio procedere e sulla congruità dei propri pre-supposti e risultati , come pare, invece, pretendere un razionalismo idealista (ed ideologico) che non conosce ‘alterità’ alla ragione stessa. Cade a proposito la nota affermazione di J. Guitton: “ragionevole” designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza,
"nel “ragionatore” la ragione fa molto uso del ragionamento, mentre nel “ragionevole” il ragionamento è sottomesso a una specie di istinto di realtà che non può sempre fornire le proprie prove, dato che il ragionamento non interviene che come mezzo di esposizione e di controllo" .

Proprio a partire da queste basi i rapporti che progressivamente hanno legato tra loro le diverse tipologie del sapere umano, dopo la necessaria ‘divisione’ che ha permesso di distinguerle rendendo autonome le diverse Scienze e Discipline, sono divenuti sempre più ‘circolari’: la riflessione sulla correttezza dei metodi di ricerca attraverso cui indagare i ‘fenomeni’ non appartiene —cioè— alla singola Scienza che li applica, ma avviene ad un livello di astrazione superiore: la Filosofia della Scienza. Allo stesso modo i portati teoretici della riflessione filosofica ricevono la propria plausibilità dal confronto con l’esperienza quotidiana filtrata dall’opportuna conoscenza dei principali nessi di causalità che le Scienze hanno evidenziato investigando i relativi ‘fenomeni’.
Lungi dal parcellizzare —isolandoli— i diversi risultati della conoscenza umana, questo approccio ‘circolare’ li mantiene legati all’interno di un ‘campo di forze’ dove diverse modalità del sapere (Scienze, Filosofia e Teologia) contribuiscono —proprio modo et propria parte— a definire le ‘dimensioni’ dell’unica conoscenza umana conseguendo conclusioni coerenti a quelle prospettate da Lonergan.

In questa prospettiva ciò che K. Popper denomina ‘razionalismo critico’, ancorando ferreamente i risultati dell’indagine conoscitiva alla ‘verifica’ sperimentale delle ipotesi di ricerca per conseguirne ulteriori ‘corroborazioni’ o almeno ‘non-falsificazioni’, pare costituire ad oggi una posizione gnoseologica irrinunciabile e sostanzialmente equilibrata, in grado anche di guidare la ragione nel corretto esercizio di se stessa per l’elaborazione di risultati davvero ‘significativi’ e di portata più ampia delle opinioni personali o di ‘partito’ che comunque, in ogni ambito, continuano a generare ignoranza a causa dell’ambiguità, polivalenza ed equivocità della maggioranza dei concetti utilizzati da chi pretende semplicemente di ‘ragionare’: ciò che Fides et ratio ‘chiede’ alla Teologia attraverso il confronto con la Filosofia; ciò che si deve esigere dalla Filosofia attraverso il confronto con le Scienze; come pure ciò che ogni ricercatore deve chiedere alle Scienze attraverso il confronto con l’esperienza quotidiana.
Siamo così tornati, di fatto, alla questione di base: il metodo che accompagni la ragione nel proprio esercizio di riconoscimento, elaborazione e sintesi dei ‘dati’ (che la percezione sensoriale pone instancabilmente a sua disposizione), deve rispondere a precisi requisiti di ‘consapevolezza’ circa i pre-supposti (assiomi, scelte, opzioni) indimostrabili che lo precedono, così come dev’essere efficace nel conseguire i risultati ‘esperienziali’ di cui la corroborazione delle ipotesi scientifiche di ricerca ha necessità.

Il giudizio
Lo specifico ‘taglio giuridico’ cui fanno riferimento queste riflessioni non può che trovare nella proposta di B. Lonergan altri elementi di forte ‘consonanza’ proprio nel paradigma conoscitivo di base da lui prospettato: esperienza, intelligenza, giudizio, decisione.
Il giudizio, secondo Lonergan, è un elemento costitutivo della stessa conoscenza, che non può accrescersi senza esprimere ‘giudizi’ sull’adeguatezza o meno tra le ipotesi prospettate e le possibili soluzioni. Non a caso la Scienza giuridica nella sua globalità viene da sempre definita “giurisprudenza” (prudentia juris), collocandosi quale tertium genus nell’orizzonte investigativo razionale: non è sophia, non è logia ma prudentia!
Si conferma in tal modo la piena irrinunciabilità dell’apporto ‘soggettivo’ (non tanto ‘individuale’ quanto piuttosto ‘personale’) di colui che è chiamato proprio ad esprimere un ‘giudizio’ sulla realtà; giudizio che si concretizzerà in una ‘decisione’ capace, a sua volta, di influire sulla realtà stessa anche modificandola e creando nuove situazioni e realtà (giuridiche): libertà o reclusione, diritto o dovere, ecc. E’ utile, a questo proposito, ricordare come il ‘giudizio’ sia sempre un’operazione ‘globale’ che la persona (e solo la persona) compie a partire dai ‘dati’ —spesso qualitativamente non omogenei— posseduti e/o acquisiti.
Questa ‘globalità’ risalta in modo particolare nella consapevolezza che ogni giudizio va espresso —e viene comunque espresso— secondo coscienza e non solo secondo i ‘dati disponibili’ (la c.d. ‘verità processuale’). E’ questo l’ambito più specifico della ‘prudenza’ cui ogni operatore del Diritto deve attenersi affinché il suo decidere sulla/della vita di altre persone non risulti cagione di ingiustizia o nocumento per i suoi destinatari. In ragione di ciò la pratica prima, e la Scienza giuridica poi, hanno continuamente cercato di ‘proteggere’ e guidare la qualità del giudizio mettendo a punto differenti dispositivi di valutazione dei ‘dati’: dall’Arbitro accettato di comune accordo, al Giudice di pace, all’assistenza di Assessori, alla Corte giudicante, alla Giuria popolare, ecc.
Allo stesso modo la ‘prudenza’ del giudizio dev’essere espressa in modo comprensibile nelle motivazioni che accompagnano la decisione, che vale non tanto per l’autorità di chi la proclama, ma per la congruità delle ‘valutazioni’ espresse circa i ‘dati’ sui quali decidere… quando, infatti, tali motivazioni siano giudicate incongrue in rapporto ai ‘dati’ è prevista la possibilità di ricorso al altro ‘giudice’ .

Protagonista viva ed irrinunciabile del giudizio è sempre la coscienza, che di fatto esiste ‘autonomamente’ sia dai ‘dati’ in questione che dallo stesso giudizio, e che, anzi, è chiamata ad esprimere il giudizio proprio attraverso la valutazione ed il confronto dei ‘dati’ con l’intero patrimonio esperienziale ed esistenziale della persona che deve decidere.
Ciò basti, senza scendere in particolari non pertinenti queste riflessioni, a prendere atto che la coscienza giudicante è sempre ‘previa’ rispetto ad ognuna delle sue espressioni, facendo di ogni giudizio qualcosa di ‘ulteriore’ rispetto ad altri giudizi ‘anteriori’ già assodati: i ‘pre-giudizi’, la cui accezione non è necessariamente negativa, ma cronologico-funzionale: ciò che viene prima.
Pre-giudizi, pre-supposti, pre-comprensioni, costituiscono pertanto —secondo le indicazioni di Lonergan— l’unica ‘certezza’ di ogni conoscenza; ogni giudizio e decisione conoscitiva, in una dinamica gnoseologica “cumulativa e progressiva” com’è quella umana, ne risultano immancabilmente condizionati.

La formazione
Sempre nell’ottica dei pre-supposti di cui ciascuno è ‘portatore’ (attivo e passivo) occorre prendere coscienza anche delle modalità del loro crearsi e radicarsi nei diversi soggetti, poiché "la formazione, prima di tutto, è un evento che accade" !
Parlare di formazione non significa —riduttivamente— considerare l’attività intenzionalmente progettata e realizzata da una persona verso un’altra (corsi, incontri, colloqui, esperienze ‘formative’) quanto, molto più profondamente, riferirsi al processo bio-antropologico attraverso il quale un soggetto umano si struttura ed alla crescita dell’individualità, della personalità, della coscienza del soggetto; in tali prospettive la formazione avviene nella persona per il solo fatto di vivere la ‘propria’ vita .
"E’ la vita che plasma, che dà forma alla persona e alla sua coscienza. E’ lì che si formano i presupposti, le mediazioni metafisiche che la persona utilizza per la propria valutazione, giudizio e decisioni sulla realtà . […]
Per comprendere come avvenga la formazione dei presupposti bisognerebbe partire dal tema della percezione: come l’uomo percepisce il reale? […] Diciamo solo che l’uomo conosce se stesso e la realtà attraverso una serie di esperienze nelle quali si percepisce e percepisce. Questo processo è diversificato ed articolato, ed avviene in buona parte in modo non riflesso. Vi sono diversi fattori che concorrono: le caratteristiche dell’oggetto percepito, le situazioni emotive del soggetto, le pressioni di gruppo, le differenze culturali. Il processo della percezione è la risultante di questi fattori che concorrono insieme.
Quando questo processo non avviene nel modo corretto si generano delle “illusioni percettive”, cioè delle distorsioni (inevitabili) che portano a condizionare la veridicità della conoscenza del reale. Per conoscere una realtà non basta allora farne esperienza, ma bisogna creare le possibilità affinché il soggetto ne faccia un’esperienza veridica, che cioè colga la realtà nella sua verità (almeno il più possibile). […] Ogni soggetto cioè si predispone a ricevere una conoscenza a seconda della sua capacità di ricevere. Una volta poi fatta l’esperienza di un oggetto le informazioni di varia natura (emotiva, razionale, religiosa, significati…) che vengono raccolte andranno ad arricchire o a modificare il bagaglio di predisposizioni che il soggetto possedeva precedentemente. Naturalmente questo processo di acquisizione non avviene in modo “oggettivo”, ma è anche’esso predeterminato dalle predisposizioni del soggetto; avviene cioè una selezione delle informazioni a seconda che risultino più o meno accettabili e gradite al soggetto.
Questo processo di interpretazione e selezione coinvolge il soggetto in tutta la sua dinamica coscienziale, anche nella sua parte inconscia. Anzi, il grosso di questi processi normalmente rimangono ignoti (o quasi) al soggetto" .

Proprio l’esperienza, quindi, emerge in modo assolutamente condizionante ogni successiva possibilità di percezione e conoscenza del reale, contribuendo in modo sostanziale al configurarsi della forma mentis e delle categorie concettuali (e linguistiche) attraverso le quali ogni soggetto provvederà a ‘filtrare’ l’esperienza stessa per trarne i propri ‘dati’ e le proprie ‘conclusioni’; è questo uno dei portati maggiormente condivisi nell’epistemologia dell’ultimo mezzo secolo .
L’introduzione, tuttavia, dell’esperienza come elemento rilevante nel cammino della conoscenza non pare scontata ed ‘indolore’ in ambiti di riflessione che intendano o debbano relazionarsi —prima o poi— con la riflessione teologica, com’è per la Scienza del Diritto canonico.
A questo proposito più di un autore (Mouroux , Kasper , Moioli ) ha rilevato e ‘denunciato’ il forte clima di sospetto maturato a partire dagli inizi del Novecento, tanto in ambito protestante che cattolico, nei confronti dell’esperienza, evidenziando la forte fatica della Teologia ad interessarsi di questa componente dell’humanum, nel timore che, esaltando il ‘soggettivo’ della fede (Teologia liberale protestante e Modernismo cattolico), si recasse nocumento alla sua oggettività.
Tale fatica permane ancor oggi in gran parte della Teologia occidentale che continua a preferire la stabilità dei concetti rispetto alla labilità delle diverse esperienze umane , rischiando però di assumere acriticamente pre-supposti puramente teoretici che nulla hanno da spartire col datum della Rivelazione. Quando una Teologia di questo genere pretende di erigersi a condizione —unica— di possibilità di umana conoscenza, il ‘risultato’ conoscitivo conseguente non può considerarsi ‘più certo’ di quello conseguito a partire dall’esperienza.

La Logica
Altro ambito di fondamentale importanza nella riflessione critica sui ‘pre-supposti’ del conoscere è quello della ‘Logica’ cui fa riferimento la maggior parte degli strumenti razionali messi a punto ed utilizzati tanto in ambito scientifico, che filosofico, che teologico. A differenza tuttavia di quanto comunemente recepito non si tratta di un ambito univoco e ‘certo’, come parrebbe invece lasciare intendere l’idea che generalmente si dà per acquisita:
[Logica:]"Scienza […] che ha sempre avuto come orizzonte di ricerca l’analisi dei fondamenti dell’argomentazione, lo studio dei metodi attraverso i quali si giunge a costruire e articolare le teorie, la classificazione e l’indagine di alcuni concetti chiave riguardanti le strutture portanti della conoscenza" .

Il progresso delle discipline ausiliarie alla Fisica nelle sue diverse espressioni (dall’astrofisica alla fisica nucleare) e lo sviluppo delle discipline informatiche hanno finalmente smascherato il ‘mito’ della “logica”, evidenziando la possibilità (necessità) di parecchie ‘logiche’ punto differenti tra loro e del tutto funzionali agli ambiti d’indagine e riflessione che le hanno messe a punto.
Tra esse, senza dubbio, la c.d. ‘logica aristotelica’ continua ad ottenere un altissimo gradimento negli ambiti della vita quotidiana del mondo Occidentale, così come in buona parte delle discipline umanistiche in esso sviluppate e da essa dipendenti, ciò nonostante la sua frettolosa ipostatizzazione quale unica possibilità ‘argomentativa’ rappresenta una vera ‘censura’ delle possibilità speculative cui la ricerca e la conoscenza possono o devono riferirsi; la posizione di B. Russell in merito è bruciante:
"Aristotele, dobbiamo dirlo, fu una delle grandi sventure dell’umanità. Ancora oggi l’insegnamento della logica nel maggior numero delle università è pieno di stupidaggini delle quali egli è responsabile" .

Di fatto "temi, metodi e finalità [della Logica] hanno avuto una storia tutt’altro che lineare (spesso quello che per una generazione era stato il centro della problematica logica, per quella successiva divenne questione morta o marginale)" .

E’ in questa linea che non si può ignorare come il ‘problema’ sussistesse in tutta la propria forza già all’interno della stessa riflessione filosofica medioevale che troppo genericamente viene spesso identificata con la ‘Scolastica’ di matrice aristotelico-tomistica.
La matrice polemica del “Novum Organum” di F. Bacone nei confronti dell’Aristotelismo (originale e derivato) è lampante e programmatica: non è tanto problematico il ‘sillogismo’ aristotelico nella sua struttura ‘logica’ quanto il modo di giungere alla sua formulazione. Di fatto un sillogismo vale quanto valgono le sue premesse, e tanto valgono le premesse quanto valgono i concetti, ossia le definizioni, in base alle quali le premesse sono enunciate ; il vero problema è pertanto quello del metodo per ottenere le definizioni e gli assiomi e non il come ‘legarli’ reciprocamente : prima di affannarsi a cercare i modi corretti di “dedurre” da principi generali (sillogismo) è necessario scoprire come approssimarsi ad essi (da che cosa dedurre); problema che né Aristotele né la Scolastica hanno risolto, lasciando buona parte della riflessione filosofica (e poi teologica) in balia di un inefficace quanto problematico deduttivismo.
La modernità non attenua la portata della critica a questo ‘tipo’ di Logica, al punto che Kant, e dopo di lui Hegel,
"segna una tappa importante nel processo di assorbimento della ricerca logica entro quella gnoseologica: alla logica formale, di valore eminentemente propedeutico, viene contrapposta una logica trascendentale che, basandosi sull’analisi del processo conoscitivo, sarebbe l’unica in grado di spiegare che cosa sia la verità e come il discorso umano si rapporti alla realtà. Il passo decisivo in questa direzione, che segna la totale eliminazione dell’autonomia del discorso formale, si ha con la dialettica hegeliana. È questo il momento in cui la logica tradizionale “paga” la sua origine: impedita dal rapporto preferenziale con la metafisica, non riesce a porsi in contatto con i nuovi sviluppi della Scienza, in cui viene sempre più esaltato l’aspetto matematico e relazionale dei fenomeni naturali, finendo in un completo isolamento" .

Dalla fine dell’Ottocento le questioni logiche più pregnanti finirono per passare quasi completamente all’ambito delle Scienze naturali concentrandosi sugli elementi ‘formali’ di più facile matematizzazione (Frege, Tarski, Gödel) o verso gli ambiti che saranno poi della Semeiotica o dell’Ermeneutica (Husserl, Wittgenstein, Carnap), riducendo progressivamente la Logica ad una ‘caratteristica’ del procedimento attuato nella ricerca, facendone non più un ‘soggetto’ ma un ‘predicato’.
Il sorgere, necessario, di nuove ‘rappresentazioni’ del reale adatte ad ambiti di ricerca assolutamente imprevedibili tanto per la Scienza antica che per quella ‘moderna’ (quanti, relatività, ecc.), ha quasi completamente ridotto la Logica stessa a semplice requisito procedurale interno alle singole discipline scientifiche, consegnandoci tante ‘logiche’ quante le matematiche, le geometrie o comunque gli ‘ambienti’ teoretici di rappresentazione sintetica dell’esperienza e studio del reale; la portata di questa ‘conquista’ non si limita al solo ambito fisico-naturalistico ma coinvolge anche quello ‘umanistico’ e filosofico attraverso la teorizzazione delle c.d. ‘logiche intensionali’ .

Per quanto concerne, poi, l’ambito giuridico è necessario non dimenticare come la ‘logica’ che lo sostiene e lo anima non sia quella formale-modale (aristotelica), normalmente utilizzata, ma la c.d. ‘logica deontica’, di tutt’altra natura e specificità, come ben illustra T. Jiménez Urresti:
"nel sillogismo deontico, la premessa maggiore è la norma, che è di prescrizione non universale, ma generale, ut in pluribus; e la premessa minore è il concreto del suo compimento secondo le previsioni, poiché ancora non esiste, né si tratta di qualcosa di nozionale, né prefissato o sottomesso a necessità, ma atto libero di condotta prevedibile per il futuro, futuribile. Per questo non ottiene certezza, ma solo congettura di ciò che sarà quale si prevede. Si tratta di giungere a sapere se tale atto previsto, che si pone come premessa minore del sillogismo, sia consonante con la norma prefissata e ne sia compimento. Sempre sono futuribili due possibilità doppiamente ipotetiche, la cui realizzabilità fattiva si constaterà nella prassi: una, quella realizzabile secondo la previsione e in conseguenza si attua o non si attua (rimanendo nel puro futuribile); e l’altra, quella non realizzabile secondo il previsto, per cui o si corregge secondo il dettato della prassi sul momento per una nuova decisione e si attua o si rinuncia ad attuare. Nessuna di queste possibilità è affermabile con certezza; ma la prima è più prevedibile, presumibile, presupposta che si attuerà, nell’ipotesi che la previsione risulti, al momento di attuare, quale si previde" .

Il problema ‘logico’ riferito alla Canonistica risalta ancora maggiormente in quanto, di per sé, questa componente dell’ambito logico era già stata individuata e messa a fuoco da S. Tommaso, senza che però la Scolastica ed i suoi eredi ne abbiano colto la portata:
"S. Tommaso d’Aquino formulò già l’essenziale con riflessioni sulla logica normativa che avrebbero potuto essere sviluppate in seguito nella scuola. Però non è stato così come dimostrano due fatti in tema d’insufficiente formazione del Clero in metodologia deontica.
- Uno, che i futuri Chierici, nella formazione filosofica e da varie generazioni, studiano la disciplina della logica, ma solo l’enunciativa o formale; e nulla, neppure la menzione, della logica normativa, nonostante tutte le scienze pratiche di condotta o deontiche che studiano —etica, morale, pastorale, Diritto— e anche le decisioni di ciascuno quotidianamente, procedano per logica normativa.
- Secondo, che questa deficienza non è stata superata in questa era postconciliare e l’ultimo manuale di logica, testo di molti seminari, continua senza far menzione alcuna della logica normativa.
Per queste ragioni, si reclama oggi, come tema attuale e decisivo, la revisione dell’epistemologia (nel suo significato moderno di critica del metodo di una scienza) delle scienze deontiche subordinate alla Teologia" .

L’evidenza
Sorte analoga pare doversi riconoscere alla miglior ‘alleata’ della Logica: l’evidenza!
Anche questa ‘categoria’ da una fase altamente ‘oggettiva’ come quella ‘antica’ in cui veniva identificata con l’azione stessa degli oggetti sugli organi di senso (Epicurei) o col darsi delle cose ai sensi ed all’intelligenza in modo da risultarne “comprese” (Stoici) al punto che gli stessi Scettici non rifiutavano ciò che si presentava come evidente in quanto ‘oggetto’, è progressivamente scivolata verso una sostanziale soggettivizzazione a partire —principalmente— da Cartesio che ne ha spostato il ‘centro’ sul soggetto, trasformando l’evidenza da caratteristica dell’oggetto percepito in caratteristica del soggetto che ritiene ‘evidente’ ciò che percepisce in modo “chiaro” e “distinto” .
La riflessione epistemologica attuale ha recuperato tanto l’accezione oggettiva nell’ambito della riflessione sui fondamenti epistemologici delle Scienze empiriche, che quella soggettiva nella forma di una teoria della giustificazione epistemica .
Senza nulla togliere all’importanza dell’evidenza nella relazione che deve esistere tra l’ipotesi o la teoria da verificare ed i dati sperimentali ed osservativi (primo ambito) , rimane tuttavia necessario considerare —in questa sede ‘critica’— che l’evidenza continua a profilarsi come una ‘proprietà’ afferente il soggetto conoscente e non l’oggetto conosciuto , poiché solo le ‘credenze’ possono conferire evidenza ai contenuti ed i contenuti stessi non sono evidenti al soggetto se non in quanto egli vi crede .
"Una proposizione è evidente se ogni uomo che ne ha presente il significato alla mente, e che si chiede espressamente se essa è vera o falsa, non può in nessun modo dubitare della sua verità. […]
Non basterebbe [tuttavia] dire che una proposizione è evidente se un uomo che la pensi non può dubitare che essa sia vera, infatti questa impossibilità di dubitare può essere tipica del suo stato mentale (alienazione, passione, pregiudizio, educazione, ecc.); e il linguaggio comune a ragione distingue ciò che sembra evidente (a un individuo) e ciò che lo è effettivamente (per ogni mente).
Inversamente, sarebbe eccessivo chiedere che l’intelligenza cui appare l’evidenza fosse sottratta a ogni influenza dell’abitudine, del sentimento o della volontà. Questo isolamento è infatti soltanto un’astrazione irrealizzabile, forse anche contraddittoria, e la forza dell’evidenza si manifesta appunto nel fatto di vincere le ripugnanze" .
"Quale supporto evidenziale per l’evidenza? Il legame tra esperienza e credenza è del tutto problematico, poiché la sola credenza non autorizza a ritenere immediatamente la realtà tale come ci appare, e viceversa la costituzione della realtà non sempre produce in noi la giusta credenza: in effetti problemi analoghi a questi sono suscitati dalle indagini sulla nostra conoscenza del mondo esterno e sulla conoscenza delle altre menti e Feldman ha rilevato che ritenere l’evidenza fondata allorché un soggetto ha una credenza perché coglie il legame tra l’evidenza e la proposizione creduta è eccessivamente intellettualistico" .

Di fatto la ‘soggettività’ dell’evidenza è oggetto di quotidiana riprova per chiunque si trovi ad operare in situazioni di pluralità, al punto da metterne spesso in dubbio l’efficacia concreta: nulla è meno evidente dell’evidenza;
"anzi, a partire dai maestri del sospetto si è affermato che noi dobbiamo dubitare proprio di ciò che ci appare massimamente evidente (a cominciare dai dati della coscienza) e che l’evidenza, in quanto segno o criterio di verità, è solo un’illusione prodotta da interessi, convenzioni sociali, equivoci linguistici, razionalizzazioni secondarie ecc." .

Se in una prospettiva di ‘realismo critico’ la radicalità di questa posizione non può essere assunta come conclusiva, non si può tuttavia neppure ignorare come molto (troppo) spesso la dichiarata evidenza di una connessione ‘logica’ sia, in realtà, la ‘confessione’ formale della propria incapacità ‘dimostrativa’ nei confronti del risultato che s’intende ottenere.

Il linguaggio
Un’altra ‘componente metodologica’ cui è necessario accordare opportuna attenzione in queste considerazioni è il ‘linguaggio’ in quanto caratteristica ed esclusiva facoltà attraverso cui l’uomo riesce ad obiettivare mediante simboli fonici il moto della propria coscienza, dalla più semplice sensazione alla più astratta costruzione razionale; ad esso la Filosofia dedica grande attenzione sia per la funzione conoscitiva che ad esso inerisce, sia come valore culturale per la sua partecipazione attiva alla formazione del mondo umano .
In fondo è proprio il linguaggio il modus princeps attraverso cui ogni idea umana, non appena esce dal grembo dell’intuizione, viene formulata e comunicata (tematizzazione), pena il suo immediato dissolversi oltre le soglie dell’intuito stesso.
Non solo i concetti, quindi, ma anche i termini che li rappresentano rivestono un’importanza esiziale creando chiarezza o confusione, univocità od equivocità, comprensibilità o verbalismo. La questione ‘linguistica’ rileva poi tanto maggiormente nelle discipline umanistiche necessitate ad un “essenzialismo metodologico” che richiede fedele corrispondenza tra i ‘contenuti’ di un concetto e le sue modalità espressive e comunicative, precludendo ogni forma di sostanziale nominalismo (tollerabile, invece, nelle Scienze naturali).
Non si tratta soltanto delle questioni legate alla ‘traduzione’ tra differenti idiomi, tanto contemporanei (lingue moderne) che di epoche diverse (latino — volgare) , ma della corretta scelta all’interno di ciascun glossario dei termini più adatti a comunicare i concetti utilizzati.
Proprio il linguaggio già nella sua fase ‘fontale’ costituisce una delle maggiori debolezze strutturali della riflessione, comunicazione e conoscenza umana: una sorta di ‘errore sistematico’ che entra a partecipare di ogni concettualizzazione, riflessione e comunicazione umana; rivelandosi il ‘vettore’ più efficace dei ‘pre-concetti’ (o ideologie) sottesi ad ogni ragionamento.

L’esempio più macroscopico in ambito canonistico (ancora crux di molti autori non sufficientemente consapevoli sotto il profilo metodologico) è il termine/concetto di “Legge” , usato con superficialità allarmante nella quasi totalità della dottrina canonistica di ogni tempo: infatti cosa “è” e cosa “significa” il termine “legge” negli scritti veterotestamentari, nel Giudaismo, nel Fariseismo, nel Profetismo, nelle parole di Gesù, negli scritti paolini, in differenti contesti dell’opera di S. Tommaso, nel Decretum Gratiani, nel Corpus Juris Canonici, nel C.I.C. pio-benedettino, nel C.I.C. 83, ecc.?
Ci limiteremo ad un sommario excursus opportunamente critico.
- Nell’AT il termine tradotto con ‘Legge’ è “Torah” che indica il nucleo religioso teologico di base dell’Ebraismo, individuato nel Pentateuco ed opportunamente differenziato dai ‘Profeti’ e dagli ‘Scritti’.
Pur contenendo varie raccolte normative (liturgiche, morali, igieniche, ecc.) tra cui veri e propri ‘codici’ , la Torah si distingue comunque per una spiccatissima essenza storico-teologica: si tratta della ‘testimonianza vincolante’ per la fede d’Israele del rapportarsi di Dio con Abramo e la sua discendenza, del suo aver concluso Alleanze ed effettuato promesse a questo popolo attraverso i suoi Patriarchi. Si tratta del valore normativo —religioso— costitutivo per Israele: le tradizioni e la storia che ‘fondano’ l’esistenza del Popolo d’Israele in rapporto al suo Dio: un’autentica narrazione ‘Costituzionale’! Le svariate raccolte di ‘precetti’ (anche di ‘origine’ o attribuzione mosaica) non ne sono che una ‘istituzionalizzazione’ socio-antropologica nell’orizzonte teocratico tipico dell’antichità mediorientale. Di fatto prim’ancora che il Giudaismo si dividesse in varie correnti spirituali (Sadducei, Farisei, Esseni…) che attribuivano diverso valore alle ‘norme bibliche’ (i Sadducei tenevano per vincolante il solo Pentateuco, la Torah; i Farisei utilizzavano un concetto ampio di ‘Legge’ fino ad una precettività parossistica) il movimento profetico aveva già iniziato la propria ‘contestazione’ del degrado religioso ed etico nell’osservanza della Torah nel periodo monarchico pre-esilico, enfatizzando l’aspetto più ‘morale’ che spirituale della Legge, in contrapposizione ad un atteggiamento divenuto ormai solo formalistico e quasi ‘magico’.
- Ciò che Gesù assume per ‘legge’ è l’essenzialità del rapporto di Alleanza con Dio (la Torah nella sua interpretazione più spirituale) in una visione teologica saldamente fondata nella storia (“all’inizio della creazione” Mc. 10, 6) e profeticamente rivolta al futuro: “non passerà neppure un iota o un segno senza che tutto sia adempiuto” (Mt. 5, 18). A questa ‘legge’ in cui Gesù coglie la volontà di Dio, lo stesso Gesù contrappone le “tradizioni degli uomini”, anche ‘legittimate’ dal Legislatore religioso (Mosè), denunciando com’esse possano concretamente contraddire il "comandamento di Dio” . L’atteggiamento fermo di Gesù verso la Legge intesa in senso teologico diventa così la massima contestazione di una lettura immanentistica della Legge stessa ridotta a vuoto formalismo.
- A riguardo di S. Paolo ci si è posti spesso la domanda circa la sua concezione di Legge e, soprattutto, circa il suo combattuto atteggiamento nei confronti della Legge stessa, ora ‘accusata’, ora utilizzata con proprietà e competenza giuridica; il problema in realtà non sussiste in quanto si può ben osservare come egli —da buon Dottore della Legge— distingua
"la Torah (Legge) come rivelazione divina, comunicata attraverso i racconti biblici, e la Torah come istituzione che regola la vita degli israeliti. Egli non contesta mai la Torah come rivelazione; polemizza invece contro la Torah come istituzione.[…] Paolo nelle Lettere ai Galati e ai Romani sviluppa un discorso di natura teologica, non giuridica sulla Legge (mosaica). Il problema di Paolo non è se una determinata comunità abbia o no bisogno di leggi per garantire un’ordinata convivenza ai suoi membri e come debbano configurarsi queste leggi, ma come si compia il processo di giustificazione davanti a Dio. […] La salvezza, afferma Paolo, non viene dalla Legge e dalle sue opere (circoncisione e osservanze alimentari), ma dalla fede nel Signore Gesù" .

Quest’impostazione teologica di base non impedisce allo stesso Paolo di utilizzare il temine Legge con vari altri significati com’è, p. es., in tutto il Cap. 7 della lettera ai Romani dove il termine Legge ricorre ben 24 volte con significati alquanto differenti. In Rm 7, 21-23, addirittura, il termine ricorre cinque volte con almeno tre significati diversi tra i quali: “condizione inevitabile”, “principio d’azione” e —addirittura— “legge del peccato” contrapposta a “legge di Dio” .
- Per quanto concerne S. Tommaso il tema della ‘Legge’ continua a costituire una delle ombre più marcate, non della sua dottrina, ma dell’uso che per secoli se n’è fatto (e si continua a farne) da parte degli autori .
E’ classica la commistione dottrinale tra i testi tomistici sulla Legge in generale (approccio filosofico al giuridico umano) e la Lex nova Evangelii (approccio teologico alla salvezza cristiana), brutalmente trasposti allo stesso Diritto canonico, come ben dimostra E. Corecco in un suo famoso articolo:
"la communio deve essere considerata come il principio formale del Diritto canonico, cioè della nova lex evangelii […] la nova lex evangelii, cioè la grazia"

quando l’Aquinate, da parte sua, non aveva neppure mai parlato del Diritto canonico:
"[in S. Tommaso] nessuna allusione alla legge canonica, nessun esempio improntato al Diritto canonico nel suo trattato sulla legge umana; e quando gli si offre l’occasione di parlarne accidentalmente, ne presenta una nozione assai diversa dal Diritto civile: la legge è “ordinatio rationis ad bonum commune promulgata ab eo qui curam habet communitatis” - una derivazione della legge naturale per semplice “conclusione” o “determinazione”; il legislatore non è che il primo interprete del Diritto: promulgatio; di quell’altra invece, la canonica, tutto è detto in quattro parole: constitutio Papæ facit jus" .

Rimane tuttavia nell’esperienza di tutti i canonisti l’inevitabile domanda di ogni esame “De universo” sulla definizione di Legge (ecclesiastica); guai non rispondere prontamente: “ordinatio rationis ad bonum commune ”!
- Nei Codici di Diritto canonico (sia del 1917 che del 1983), trascurando ogni definizione di ‘Legge’ , si procede semplicemente ad indicarne le condizioni di esistenza, validità ed interpretazione, contentandosi di porla al vertice della normatività canonica (ordinaria) e ben differenziata dagli altri strumenti normativi a disposizione dell’autorità di regime ecclesiastico.

L’ermeneutica
L’analisi attenta e consapevole del proprio punto di osservazione del reale e delle varie componenti che lo individuano e ‘costruiscono’, in primis i pre-concetti che ciascuno porta con sé per il solo fatto di esistere in un ‘dato’ contesto/tempo , comporta inevitabilmente anche una riflessione sulle tematiche legate in modo più stretto all’Ermeneutica non tanto come specifica ‘Scienza dell’interpretazione’ ma come ‘orizzonte’ di possibilità della comprensione stessa e, conseguentemente, della conoscenza possibile … se non proprio dell’esistenza umana come tale . D’altra parte ciò che qualifica l’uomo nel suo caratterizzarsi come ‘homo sapiens’ ancor prima della possibilità di comunicare (il linguaggio) è proprio la capacità di ‘interpretare’ gli stimoli sensoriali che lo raggiungono, rendendolo capace di sottrarsi ai ‘riflessi condizionati’ che caratterizzano, invece, il comportamento animale.
La funzione ermeneutica (interpretativa) è una delle maggiormente attive nel processo percettivo umano : si tratta della necessaria possibilità/capacità di collegare agli stimoli sensoriali (percepiti anche passivamente) i ‘significati’ appropriati ‘costruendo’ nel soggetto che percepisce una sorta di ‘immagine’ di quanto lo circonda e sollecita; dalla correttezza di questa operazione di reperimento del corretto significato da attribuirsi allo stimolo dipende la percezione più o meno efficace della realtà… ciò indipendentemente dalla natura o qualità degli stimoli in questione (la musica piuttosto che il calore o un discorso). Questo processo, come già accennato, risulta assolutamente ‘relativo’ alla quantità e qualità di conoscenze sostanziali possedute dal soggetto e alla sua capacità di operare correttamente la ‘giunzione’ tra sensazione provata e significato (assoluto) da attribuirle : quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur.
Ciò in modo del tutto specifico quando si tratti di elementi con valore e/o contenuto ‘normativo’, dove le componenti etiche, morali, culturali, sociologiche, storiche, religiose, ecc. giocano ruoli assolutamente primari, pur nella sostanziale non-consapevolezza di chi in esse si trova del tutto immerso ed esistenzialmente coinvolto.
Si tratta, in altri termini, di prendere in considerazione gli elementi che sempre partecipano alla contestualizzazione di tutto ciò che è humanum o che attraverso l’humanum si trova a ‘transitare’ come, d’altra parte, gli stessi studi biblici hanno abbondantemente evidenziato nell’ultimo secolo .
La ‘natura’, poi, sostanzialmente scritta del Diritto , o comunque la sua vigenza in spazi temporali (e geografici) piuttosto estesi, rende ancor più necessaria la corretta individuazione dei ‘punti di riferimento’ di chi ha concepito le norme, differenziandoli, da quelli di chi le deve oggi applicare; le stesse ‘cause’ che portarono alla nascita degli Istituti giuridici non coincidono quasi mai né con quelle che ne imposero il mutare della configurazione e funzionalità storiche, né con quelle cui la stessa norma deve oggi rispondere.
Senza addentrarci qui in discussioni di scuola sulle questioni più strettamente tecniche dell’ambito ermeneutico (Betti piuttosto che Heidegger, Gadamer o altri), va comunque rilevato come non sia possibile intraprendere ricerca giuridica alcuna senza dare il necessario spazio alle considerazioni d’ambito ermeneutico, esplicitando la maggior parte possibile dei fattori configuranti i differenti ‘circoli ermeneutici’ che rendano ragione delle implicazioni passate, presenti e future, in modo tale da avere un quadro circostanziato all’interno del quale applicare la norma ai casi determinati, poiché strutturalmente la norma non si applica mai ai ‘casi’ generali .

La ricerca
Consapevoli di ciò, il primo elemento cui prestare attenzione è l’ambito nel quale s’intende collocare la propria ricerca: concretamente è questo il primo ed il più ‘radicale’ dei pre-concetti: il proprio ‘circolo ermeneutico’.
Già in altra sede si è trattato di alcune problematiche inerenti la concezione dello studio del Diritto canonico secondo gli approcci scientifico, filosofico e teologico, ritenuti ormai assodati dalla maggioranza della dottrina; a questa tripartizione —per quanto parziale— risulta tuttavia estremamente utile continuare a riferirsi quale paradigma di massima (non della conoscenza ma della ricerca) per meglio individuare l’’incipit’ e la ‘collocazione’ della ricerca che ciascuno intende attuare.
Il ‘punto di vista’ scientifico, filosofico o teologico sarà così il primo discrimen che condizionerà i metodi ed i risultati della ricerca, offrendo riflessioni di natura, portata (ed affidabilità) differenti —e comunque non equivalenti— e determinando l’oggetto dell’indagine, il metodo d’indagine, la portata dei risultati e la loro ‘tenuta’ all’interno dell’orizzonte gnoseologico globale, poiché ciò che in ogni ambito si va ad indagare è completamente diverso da ciò che si consegue attraverso gli altri, né può mai bastare da solo a ‘reggere’ una conoscenza accettabile in materia: la ‘ciclicità’ degli approcci gnoseologici suggerita da Lonergan, e non la loro commistione, potrà assicurare saperi meno disorganici e più attendibili.
Rimanendo legati alla ‘materia’ canonistica, insegnava T. Jimenez Urresti che:
"si può studiare il Diritto canonico su due piani distinti: sul piano teologico, che studia l’aspetto sociale della Chiesa nel suo intimo, nel suo valore interiore e trascendente, nel mistero; e su quello canonico, che studia il suo aspetto umano, fenomenologico e positivo.
La Teologia studia i dati rivelati; il suo intento é di formulare la verità rivelata, muovendosi sul piano della propria adeguazione a questa verità, la definisce con giudizi dottrinali. […]
Solo la Teologia può emettere un giudizio dottrinale, quello dell’adeguazione alla verità oggettiva rivelata, e formularlo in varie lingue, prospettive e con diversi gradi di profondità. […] In altre parole: la Teologia studia la volontà del Cristo, mentre il Diritto canonico prescrive come compiere, nell’ambito sociale della Chiesa, questa volontà di Cristo, cioè studia la volontà della Chiesa, che deve mantenersi conforme alla volontà di Cristo" .
Lo stesso autore precisa poi per il ‘piano canonico’
"Tutto il sapere giuridico, in una visione integrale, suppone tre livelli, come individuano con certezza gli autori fin dall’antichità: i primi due sono livelli del giurista in quanto giurista:
- Primo, quello della Scienza del Diritto o giuridica, in senso stretto, che tratta dell’elaborazione ed applicazione del Diritto attraverso la conoscenza razionale immediata della norma e degli istituti giuridici e della loro applicabilità.
- Secondo: il livello della Teoria del Diritto, o trattazione organica o sistematica di tutti i dati scientifici del Diritto.
- Terzo: il livello sapienziale, in cui ogni giurista, non già in quanto tale, ma in quanto uomo, cerca il sapienziale, cioè, la ragionevolezza di fondo del Diritto, la giustificazione e ragione radicali dell’origine, del fine e della obbligatorietà del Diritto, da cui poter criticare e approvare o condannare il prescritto e l’attuazione del Diritto. E’ il livello della Filosofia del Diritto, nel cui retroscena si incontra una Filosofia dell’esistenza umana e la visione del senso di tutta la storia e di tutto il cosmo" .

Gli ambiti di ricerca
Da quanto illustrato emerge concretamente che un’indagine canonistica potrà essere:
- ‘scientifica’, quando accosta la norma giuridica sotto il profilo della sua formulazione testuale in vista dell’applicazione concreta o dell’integrazione all’Ordinamento,
- ‘filosofica’, quando l’indagine verte sui rapporti tra i principi giuridici implicati ed il resto dell’esperienza vitale umana,
- ‘teologica’, quando è oggetto d’indagine la coerenza del disposto normativo col modello ecclesiologico o sacramentario di riferimento.

1) Scientifica. Ciò che si richiede ai canonisti in quanto ‘tecnici del Diritto canonico’ è la conoscenza sistematica della norma canonica e della sua collocazione all’interno dell’Ordinamento giuridico della Chiesa in modo tale da poterla correttamente applicare tanto a livello ‘amministrativo’, per l’appropriata gestione della vita quotidiana della Comunità ecclesiale, che a livello ‘giudiziale’ per ristabilire il Diritto tra i Fedeli che ne facciano legittima richiesta. Una conoscenza, dunque, scientifica.
Non basta però ritenere —tautologicamente— che il metodo per un approccio scientifico debba essere ‘scientifico’: la storia ha infatti dimostrato che in ogni epoca le coordinate individuanti la scientificità sono mutate anche radicalmente, opponendo metodo a metodo, scuola a scuola, non solo nelle Scienze c.d. ‘umane’ ma anche in quelle fisico-naturalistiche.
Di fatto l’orizzonte si mostra ancor oggi molto articolato in quanto parecchi autori e ‘scuole’, soprattutto nel secolo scorso, hanno fatto le loro ‘proposte’: metodo esegetico , metodo teologico , metodo dogmatico , riuscendo spesso solo episodicamente ad offrire qualcosa che risponda alle vere coordinate di un ‘metodo’ come lo s’intende in ambito scientifico; in realtà, soprattutto per qualcuno, si è trattato solo di enunciare assiomaticamente criteri e principi generici ponendo maggiore attenzione alle parole che ai loro effettivi contenuti .
Prima che lo specifico e concreto ‘metodo’ operativo finale è allora importante individuare e scegliere le caratteristiche strutturali cui tale metodo dovrà corrispondere per offrire le ‘garanzie’ minime di adeguatezza all’oggetto d’indagine ed allo specifico punto di vista individuato dallo ‘scienziato’ come il proprium della sua ricerca, in tal modo sarà sempre possibile ‘correggere’ in itinere il metodo quando, col procedere della ricerca, se ne verificassero concrete insufficienze o inadeguatezze; una tale correzione permetterebbe di rimanere fedeli ai ‘pre-supposti’ metodologici di base nonostante il mutare di alcuni elementi procedurali.
Proprio nell’individuazione della corretta ‘tipologia’ metodologica da osservarsi è particolarmente importante considerare l’influsso dei pre-supposti soggiacenti ad ogni scelta metodologica: occorre che chiunque intenda adottare un approccio scientifico indichi con chiarezza i motivi della scelta del metodo adottato, illustrandone i presupposti, le ‘funzionalità’ ed i vantaggi nel perseguire i risultati desiderati. Solo in tal modo si renderà ragione dell’esatto contesto e dei fini cui ricondurre le affermazioni e le conclusioni della ricerca stessa, avvalorandone i risultati proprio attraverso l’adeguatezza e congruità delle scelte operative effettuate ed il rigore attuativo del percorso metodologico scelto, che anche altri possano verificare, corroborando ed estendendo tali risultati.
Fuori da quest’ottica non si potrà parlare di ‘risultati’ delle ricerca ma di semplici ‘punti di vista’, opiniones, dicta, sententiæ, numerose quanto l’estensione dell’ingegno umano.

2) Filosofica. L’ambito filosofico potrà apparire, probabilmente, come il meno problematico per lo studio del Diritto canonico in quanto, negli ultimi decenni, le maggiori tensioni sono state polarizzate tra ‘giuridicità’ (scientifica) e ‘teologicità’, lasciando solo in retrospettiva le problematiche più attinenti la Filosofia del Diritto. Non va neppure trascurata la convinzione di molti autori secondo cui, trattandosi di Diritto canonico —ontologicamente sacrum, secondo loro—, il ruolo che la Filosofia del Diritto esplica nei riguardi del Diritto statuale in genere sia pienamente sostituito dalla Teologia del Diritto, annullando così l’istanza filosofica del Diritto della Chiesa che rimane privo di una congrua riflessione ‘sapienziale’ sui principi specifici che informano e caratterizzano tale espressione della giuridicità.
In quest’ottica, venendo a scomparire quasi del tutto l’elemento più tipicamente antropologico e ‘mediatorio’, si allarga la ‘forbice’ tra i due estremi citati che si confermano reciprocamente nell’incapacità d’incontrarsi all’interno di un contesto più articolato in cui anche il ‘vissuto’ autenticamente umano (la sapientia) possa intervenire con un apporto significativo, quando non del tutto decisivo. Questa ‘esclusione’ dell’approccio filosofico al Diritto canonico è a tutti gli effetti uno dei pre-supposti di maggior portata nella scelta del ‘metodo’ e nella qualità dei risultati perseguibili.
Di fatto lasciar cadere la riflessione ‘sapienziale’ sul vissuto giuridico umano (non importa se credente o no) sostituendola con un dogmatismo fideista, genera l’immediata perdita del senso stesso del Diritto, sprofondando la norma giuridica nell’indistinto della normatività moralistica senza avvedersi della distruzione dei suoi stessi presupposti: l’oggettività esteriore, la separabilità, la coercibilità .

3) Teologica. Il contesto di queste considerazioni risulta —finalmente— appropriato per esplicitare un altro ‘pre-supposto’ spesso inconsapevole nella maggioranza dei canonisti, ma dalle ‘conseguenze’ incalcolabili: il semplice parlare di ‘Teologia’ è in realtà del tutto fuorviante ed ambiguo poiché lo stesso termine/concetto indica tre realtà ben diverse, anche se non disorganiche:
a) la Teologia come specifico ambito di conoscenza (modus cognoscentiæ theologicus), secondo quanto ribadito da Fides et Ratio, che la indica come conoscenza dell’ordine della grazia attraverso la fede ;
b) la Scienza teologica (stricte dicta), che è Scienza in quanto riflessione razionale sul dato della Rivelazione divina (dato di fede): la ragione studia il vissuto di fede, la Rivelazione è l’oggetto di studio ; essa è, e dev’essere, Scienza a tutti gli effetti;
c) la Scienza Teologica impropriamente detta (latu sensu dicta), quale riflessione sui dati esperienziali (dato naturale ed antropologico) alla luce della Rivelazione divina: la fede studia il creato, la Rivelazione è il ‘punto di vista’ sulla vita ; una sorta di sapientia fidei, che ha una certa somiglianza con la riflessione filosofica, sapientia vitæ.
In realtà sotto il profilo epistemologico queste ‘Teologie’ latu sensu sono tali solo ‘in secondo grado’: costituiscono cioè un’altra realtà teologica per nulla ex æquo con la Teologia propriamente detta, la quale ha per oggetto la Rivelazione divina, occupandosi principaliter de Deo, principalius de rebus divinis. Tra queste Teologie —che vengono anche dette ‘aggettivate’ (o ‘dei genitivi’)— emergono non solo “aggettivazioni determinative” (geografiche o storiche) di specifica utilità ‘pratica’, ma anche “ideologiche” (conservatrice, integralista, rivoluzionaria…) : è il fenomeno conosciuto come “teologizzazione” o “teologismo” il cui pre-supposto non può essere ignorato da nessun canonista (e teologo).
"Il teologismo consiste nel considerare l’interpretazione teologica come l’unica versione veritiera o adeguata del reale. Questo spirito porta il teologo ad opporre artificialmente la lettura teologica ad altre letture, come se l’unica lettura legittima fosse la sua. Egli critica il ‘materialismo’ o la ‘parzialità’ delle altre letture, come se quella teologica fosse la lettura totale ed esaustiva della realtà[…] Si dà teologismo laddove una Teologia ha la pretesa di incontrare dentro le proprie mura tutto ciò che è necessario per esprimere adeguatamente il Politico [ed il Canonico], nello stesso istante in cui essa ignora i presupposti silenziosi, dal punto di vista delle Scienze Sociali, implicati nella sua trattazione" .
"Il teologismo prende la Teologia come fosse un discorso universale ad anche totalitario, e soprattutto la ‘mescolanza semantica’ ed il ‘bilinguismo’ non permettono di pensare, in termini appropriati, la collocazione e la funzione specifiche delle Scienze del Sociale con relazione alla Teologia e viceversa" .
"Secondo il teologismo la Storia e la Società non permettono di essere accostate correttamente se non dalla Teologia" .
"Procedere come se la Teologia dovesse dare ordini alle altre discipline è non solo un anacronismo, per di più inutile, ma anche l’espressione di quell’eccesso che tenta di saper tutto[…] In ambito d’incontro con le Scienze, il ‘teologismo’ si caratterizza per questa volontà panlogista di spiegare tutto e totalmente col ricorso esclusivo alle forze spirituali o ai fattori soprannaturali. In tal modo non sospetta la necessità di introdurre, tra i fenomeni in questione ed il significato teologico, le innumerevoli mediazioni disvelate dalle Scienze" .

La lucidità di queste note dovrebbe bastare a mettere in guardia ogni ricercatore avveduto e rigoroso dal rischio di sbagliare clamorosamente l’ambito e la ‘natura’ della propria ricerca infirmando completamente gli esiti del proprio lavoro.

Conclusione
Pur nella loro apparente aridità, le trattazioni di carattere metodologico sono in realtà, per chi ne abbia sufficiente cognizione, tutt’altro che formali, offrendo addirittura —molto spesso— la ‘chiave’ interpretativa di tante affermazioni ‘tecniche’ altrimenti ingiustificabili: spesso è proprio la ‘formalità’ della procedura utilizzata a svelare la vera ‘sostanza’ che gli autori celano dietro pretese ‘valutazioni tecniche’ o impressioni personali: i ‘pre-supposti’!
Non è sufficiente “parlare di metodo” per “avere un metodo”; così come non è sufficiente dire di “avere un metodo” per saperlo applicare efficacemente.

Il ‘metodo’ in sé (nell’accezione meno teoretica fornitaci da Lonergan) non è un toccasana, né una garanzia, ma un semplice strumento, che tuttavia non basta avere a disposizione o maneggiare con destrezza.
Ogni metodologia dev’essere adeguata all’oggetto d’indagine ed alla prospettiva dell’indagine; allo stesso tempo non può nulla in più rispetto alle capacità di chi lo utilizza, né aggiunge ‘idee’ a quelle già possedute dal ricercatore.
Se la scelta del metodo da applicarsi ed il suo ‘adattamento’ all’oggetto specifico della ricerca sono sufficientemente motivati, tali saranno anche i risultati conseguiti; se non esistono ragioni specifiche per adottare un metodo rispetto ad altri possibili (o necessari) anche i risultati che ne conseguono saranno generici e di scarsa utilità alla crescita del patrimonio conoscitivo umano.


PAOLO GHERRI
Inc. Teologia del Diritto Canonico
(Pont. Univ. Lateranense - Roma)


in: IL DIRITTO ECCLESIASTICO, CXV (2004), 1061-1101.