Note sullo Ius puniendi della Chiesa nella prospettiva della Teologia del Diritto canonico




Sommario

1. Un problema di principio. 2. Un problema di fondo. 3 Legittimazione e fondazione. 4. Dalla fondazione al fondamento. 5. Principio giuridico e principio evangelico. 6. L’attività apostolica. 7. Un problema di “tutela”. 8. Punire o coercere.



1. Un problema di principio

L’affermazione di principio del Can. 1311 con la quale si dichiara il “diritto nativo e proprio” della Chiesa di “sanzionare” i Christifideles delinquentes – al di là della stretta e del tutto preponderante funzione gius-publicistica ad extra necessaria a configurare i rapporti coi Sistemi penali statali (soprattutto in sede concordataria) – pone evidenti problemi, almeno di linguaggio, nell’esprimere una realtà certamente originaria ed autonoma della Chiesa, sebbene in modalità molto diversa da come oggi espressa (e comprensibile). “Originaria”, ma anche problematica, come in effetti si è visto lungo i secoli nel difficile bilanciamento tra Morale (anche espressamente religiosa) e Diritto nella loro indeterminatezza e ‘relatività’ storica. Per contro: in proposito non rilevano minimamente le più diverse contestazioni di principio del Diritto penale canonico formulate lungo i secoli (partendo da Marsilio da Padova a tutti i suoi epigono più diversi) in modo quasi sempre ideologico e delle quali danno ragione le “Introduzioni” della quasi totalità dei manuali esistenti.

Di fatto è palese per molti – soprattutto non addetti ai lavori – lo stridore della solenne proclamazione (dottrinale) del c.d. “ius Ecclesiæ puniendi” rispetto alla parola chiave del Vangelo e all’imperativo (e vera ‘minaccia evangelica, al termine del “Padre nostro” e non solo) dello stesso Gesù Cristo: perdono! Sempre (settanta volte sette – Mt 18,22), comunque (neanche io ti condanno – Gv 8,11), pure agli uccisori (Lc 23,34)! Questa, d’altra parte, è stata la “buona novella” (= il Vangelo) della quale Gesù Cristo si è fatto portatore tra gli uomini:

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; / per questo mi ha consacrato con l’unzione

e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, / a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista;

a rimettere in libertà gli oppressi, / a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).

Questa è stata anche la sua “opera” maggiore: «e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”» (Mc 2,12).

Nondimeno anche le parole d’ordine del pontificato in corso vanno con sicurezza in quella direzione: accoglienza e perdono. Non tuttavia per mere questioni di “sensibilità soggettiva” (di un Pontefice rispetto ad altri) ma per ragioni specificamente “dogmatiche”, come scrive Papa Francesco nella sua “Evangelii Gaudium”: la Chiesa «non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (n. 47). Non si tratta di sensibilità o di gusti soggettivi, ma dell’identità stessa della Chiesa «veluti sacramentum seu signum et instrumentum intimæ cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis» (LG 1). E ciò senza interruzione rispetto alla più radicata consapevolezza ecclesiale che nel Can. 2214 del CIC-17 (fonte sostanziale dell’attuale) incorporava molto utilmente una lunga citazione testuale del Concilio di Trento – sostanzialmente ripresa nel Can. 1401 del CCEO – che ricordava ai Vescovi ed a tutti gli Ordinari «se pastores non percussores esse»; senza, per altro, che la maggior parte delle altre “fonti” ufficiali dell’attuale Can. 1311 offrano elementi – fondativi – radicalmente differenti.

Allo stesso tempo davanti alle (spesso ben modeste) reazioni ecclesiastiche avutesi nel tempo verso determinati comportamenti – soprattutto di chierici – emersi in modo gravissimo negli ultimi decenni, continua a levarsi, dall’esterno della Chiesa e non senza espresse componenti ideologiche, un altro coro di dubbi e richieste circa la necessità d’intervenire autonomamente (e preventivamente) da parte della Chiesa per contrastare al proprio interno specifiche condotte di palese e condivisa gravità anche sociale e non solo ecclesiale. Una situazione che, dopo i decenni post-conciliari della critica ideologica al Diritto penale canonico, ne ha sollecitato una (troppo) pronta ripresa ed incremento, soprattutto normativo, spesso più per condiscendenza mediatica che sulla scorta di una sua – finalmente – adeguata concezione e strutturazione.

Come, dunque, possono stare insieme queste cose all’interno della Chiesa? Compassione, accoglienza, perdono, misericordia, per tutti (secondo il Vangelo) …e “punizione” per i battezzati (secondo il Diritto)?

Da una parte uno specifico Sacramento per il perdono e dall’altra una specifica Normativa per la punizione. Per di più: entrambi espressamente oggetto di Norme giuridiche all’interno della stessa Legge generale ordinaria della Chiesa: i Libri IV e VI del CIC.

È inevitabile, pertanto, chiedersi se un tal (genere di) problema sia soltanto formale, in quanto meramente linguistico-espressivo, oppure sostanziale.

Nondimeno è necessario chiedersi se sia anche corretto parlare – come fa ordinariamente la dottrina – di “ius puniendi”, oppure occorra maggiore attenzione al linguaggio effettivo del Legislatore che parla, da almeno un secolo, di “Sanctionibus cöercitio”? “Punizione” e “coercizione”, infatti, non sono la stessa cosa (v. infra)!

Sebbene già una risposta anche solo “ordinamentale” (che consideri anche il CCEO insieme al CIC) sarebbe interessante dal punto di vista espressamente giuridico, non pare tuttavia inutile cercare qualcosa di più profondo e definitivo di una semplice formulazione testuale ‘alternativa’. Verificare soprattutto se di vero e proprio “ius” si tratti e, nondimeno, se sia proprio la “punizione” ciò che la Chiesa intende perseguire “nativamente”.

2. Un problema di fondo

La tematica è di tutto interesse non solo per i cultori del Diritto penale canonico ma per la Canonistica contemporanea come tale, sia come stimolo che come verifica della (non) avvenuta maturazione di una seppur minima consapevolezza, tanto epistemologica che metodologica, in grado di gestire correttamente le relazioni tra Diritto canonico e Teologia, evidenziando ancora una volta la necessità di un’adeguata concezione della Teologia del Diritto canonico. Per parte propria, la ricerca – o anche solo la verifica – dei “fondamenti del Diritto penale canonico”, più che di un mero ius puniendi da parte della Chiesa (v. infra), costituisce pure un ottimo banco di prova per ‘collaudare’ l’efficacia e, quindi, la validità delle posizioni epistemologiche che continuano a contendersi l’identità stessa della giovane Disciplina canonistica, delineandone il peculiare profilo epistemologico, oltre che la reale utilità per la vita ecclesiale.

Il tema pratico e contenutistico allo stesso tempo, che s’intende affrontare in queste note, seppure in modo soltanto strutturale, permette di mostrare la piena plausibilità – oltre che la specifica funzionalità e reale utilità – della Teologia del Diritto canonico concepita in chiave metodologica, secondo una prospettiva che non cerchi il “fondamento teologico” del Diritto (canonico), cioè: perché esso esista o debba esistere dal punto di vista della fede o di Dio stesso, ma che indaghi la correttezza teologica strutturale di una necessaria soluzione istituzionale (com’è quella giuridica) a reali problemi che affliggono la vita concreta della Comunità cristiana. Problemi che non possono trovare risposta se non nella feconda interazione tra due ambiti specifici dell’identità stessa della Chiesa: la fede e la condotta (= ortodossia ed ortoprassi). Ambiti ormai oggetto di specifici studi e competenze in campo teologico (da una parte) e canonistico (dall’altra).

Una ‘tale’ feconda interazione, però, non è possibile se non nella consapevolezza (prima) e corretta relazione (poi) delle specifiche identità e differenze dei due ambiti disciplinari. Identità e differenze epistemologiche e metodologiche che impediscono “travasi” estemporanei di “contenuti” non adeguatamente considerati nelle loro specificità… come se si volessero travasare sale e latte tra due secchi o tra un secchio ed un cesto, mostrando come anche il ‘contenitore’ (= lo strumento, il metodo) possa interferire in modo sostanziale con i ‘contenuti’… fino, pure, a perderli del tutto (sic).

È in questo contesto che emerge la questione espressamente metodologica del corretto approccio da parte dei canonisti al testo biblico quale autentica “fonte” – nel senso più proprio del termine – dalla quale attingere princìpi e contenuti e non come semplice repertorio fattuale di legittimazione (a posteriori) di condotte (e, più ancora, di Norme) o categorie teoretiche già acquisite per altra via.

Nondimeno la questione biblica, dal punto di vista metodologico, costituisce la ‘soglia’ stessa di accesso ad una realistica (e davvero utile) Teologia del Diritto canonico o, se lo si vuole, ad un approccio canonistico che sia davvero “teologico” nel senso proprio del termine (e del concetto sotteso). Teologico (dal punto di vista del metodo) e non sacrale (dal punto di vista dei contenuti).

Si tratta, innanzitutto, della consapevolezza della strutturale diversità che deve caratterizzare il modo di accedere alla sacra Scrittura da parte del canonista rispetto a quello di altri cultori delle Scienze teologiche. Il suo interesse, infatti, riguarda prioritariamente le esigenze della Comunità di fede rispetto a quelle individuali dei fedeli come tali: questo, d’altra parte, differenzia il Diritto canonico dalla Morale e dalla Spiritualità. In particolare, dovrà costantemente risaltare come il soggetto del quale s’interessa il canonista – come anche, p.es., l’ecclesiologo – è sempre la Comunità credente, mentre il singolo fedele entra nella considerazione canonistica “in” ed “attraverso” la Chiesa come tale.

Si tratta, prima di tutto, di accostare i testi della sacra Scrittura attraverso gli strumenti dell’Esegesi biblica attuale: solo un approccio biblico tecnicamente aggiornato e corretto, infatti, può offrire risultati significativi al canonista del terzo millennio che cerchi soluzioni davvero evangeliche per problematiche spesso socio-culturali. Proprio in quest’ottica [a] va considerata, innanzitutto, la radicale differenza di possibili apporti tra Antico Testamento (= la vita del Popolo d’Israele) e Nuovo Testamento (= la vita della prima Comunità ecclesiale): è solo a quest’ultimo, infatti, che va riconosciuta portata giuridica costitutiva nei confronti della Chiesa come tale e della sua specifica vita (ed organizzazione). [b] Non si può, infatti, trascurare come, pur entro i limiti della comportamentalità, l’approccio giuridico sia essenzialmente diverso da quello etico e morale: quello giuridico, infatti, è sempre strutturalmente connesso ad una specifica società/comunità umana, mentre quello etico e quello morale sono, di per sé, antropologici. [c] Le tematiche bibliche di specifica natura e portata teologica (così come gli istituti giuridici) vanno altresì sempre approcciate e gestite nella loro globalità, senza spezzettamenti né contrapposizioni prospettiche, riconoscendo specifica portata alle tematiche come tali, prima che alle loro eventualmente differenti modalità espositive da parte dei singoli Agiografi o delle loro ‘scuole’ di pensiero (lucana, paolina, giovannea, ecc.).

Approcciare la sacra Scrittura, infatti, non è come approcciare le “sententiæ” dei Padri o dei Dottori scolastici, né i “sistemi” dei teologi moderni e contemporanei. La Scrittura, infatti, possiede una propria organicità, complessa ed articolata, non riconducibile – per propria natura – a schemi, modelli, assiomi, princìpi, ecc. I concetti biblico-teologici, infatti, non sono atomici ma olistici, organizzandosi per dinamiche più che per costruzioni e strutture.

Esattamente alla dialettica tra [a] fonte/fondamento e [b] legittimazione (nella sacra Scrittura) delle condotte istituzionali dei fedeli all’interno della Comunità cristiana è ora necessario dedicare l’attenzione.

3. Legittimazione e fondazione

Nell’approccio canonistico ordinario anche del nuovo millennio, il tema dello ius puniendi, col quale tendenzialmente viene identificato il nucleo più profondo del Diritto penale canonico (indirettamente concettualizzato nel Can. 1311), è solitamente affrontato alla luce della domanda sulla sua legittimità e legittimazione all’interno della Chiesa, secondo il modo di procedere – che, in effetti, non è un “metodo” – dell’approccio “fondazionale”, attuando un processo, puramente retorico, di deduzione (di fatto ‘inversa’) che risale dall’elemento terminale: la legittimità dello ius puniendi (già ‘data’ ed indiscussa) ad una sua qualche collocazione all’interno di un ambito giuridico generale che lo renda genericamente ‘accettabile’ ut in pluribus, come avrebbero detto gli scolastici. In questa dinamica non può sfuggire come la prevalenza dell’elemento terminale (= il ‘già dato’) ed il suo costituire il vero incipit dell’argomentazione siano in qualche modo strutturanti la stessa attività di “legittimazione”. Essa, infatti, per propria natura è un’attività terminativa, effettuata cioè a posteriori rispetto alla realtà in discussione la quale, proprio perché “da legittimare”, è già presente, per di più – spesso – al di fuori di una ‘collocazione’ condivisa sin dall’inizio. D’altra parte la legittimazione consiste proprio nel fare spazio – per via giuridica o, comunque, formale – a realtà di fatto presenti ma non (ben) accolte da tutti o anche contestate: rispetto a chi ne reclama l’eliminazione, la legittimazione offre una ‘protezione’ formale, spesso non risolutiva, ma altrettanto spesso sostanzialmente pacificatoria.

Dal punto di vista logico una tale operazione comporta un mero sillogismo del quale, come sempre (sic !), è già nota la conclusione (= lo ius puniendi nella Chiesa è legittimo) e per il quale occorre ‘trovare’ una premessa maggiore di portata ‘universale’ o almeno generale (o anche soltanto ut in pluribus), in base alla quale trovare poi una premessa minore (il c.d. medio) che trasporti in casu ciò che vale in pluribus. Vigendo lo Ius publicum ecclesiasticum pre-conciliare l’operazione sarebbe (stata) assolutamente elementare: tutte le società giuridiche perfette possiedono un Diritto penale (premessa maggiore), la Chiesa di Cristo è societas iuridice perfecta (premessa minore), anche nella Chiesa è presente il Diritto penale (conclusione).

La costrittività del procedimento su indicato (essendo già nota ed indiscussa la conclusione) sollecita così a concentrare l’attenzione nella ricerca (inventio, la chiamavano i logici antichi) delle ‘premesse’, sia maggiori che minori, che possano in qualche modo essere proposte, pure in modo alternativo o parallelo tra loro, per rinforzare da più parti la conclusione e renderla più solida e convincente, dissimulando come ‘dimostrazione’ (rigorosa) ciò che in realtà è solo un’argomentazione (retorica) strumentale.

Tre sono, generalmente, gli ambiti per tale inventio: 1) quello storico/fattuale, 2) quello teoretico, 3) quello teologico, secondo la gerarchia gnoseologica ‘classica’ adottata anche nelle varie Scolastiche: ens, esse, DeusHistoria, Philosophia, Theologia, in un crescendo della referenza autoritativa che dovrebbe lasciar senza repliche anche l’interlocutore più dubbioso. Così, d’altra parte, voleva il ‘manifesto’ dogmatico della neo-Scolastica (filosofica) quando invocava

«quelle chiare doti che rendono la Teologia scolastica tanto terribile per i nemici della verità “vale a dire, come aggiunge lo stesso Pontefice [Sisto V – ndr], quella concatenazione delle cose e delle loro cause tra sé, quell’ordine e quella disposizione come di soldati schierati a battaglia, quelle limpide definizioni e distinzioni, quella sodezza di argomenti e quelle sottilissime dispute per le quali la luce è separata dalle tenebre e il vero dal falso, e le menzogne degli eretici, avviluppate da molti inganni ed intrighi, come se fosse loro strappata di dosso la veste, sono rese manifeste e messe a nudo”».

a) Nell’ambito storico/fattuale ci si muove all’interno di un approccio sostanzialmente retrospettivo che risale dagli istituti giuridici vigenti a quelli che li hanno preceduti lungo i secoli, confermando così una concreta plausibilità di fatto, tanto degli stessi istituti che della loro necessità e, pertanto, sostanziale appropriatezza alla storia ecclesiale. Usus e diuturnitas che manifestano comportamenti e loro continuità ragionevolmente integratisi nella prassi ecclesiale “di sempre”, in una logica simile al c.d. antico possesso di stato… una sorta di diritto a così operare derivante dalla costanza della condotta e della sua efficacia, sostanzialmente mai sconfessata o contraddetta. Anche l’apporto positivo e l’accoglienza di tali condotte ecclesiali da parte delle diverse Autorità civili in diversi luoghi e tempi contribuiscono a rafforzare tale prospettiva.

b) Nell’ambito teoretico generale (= filosofico) si ricorre alle varie teorizzazioni proprie della c.d. Teologia politica (in quanto Filosofia della legittimazione dello Stato) in una prospettiva pienamente compiutasi nello Ius publicum ecclesiasticum che, partendo dalla comune base ontologica degli Stati moderni (= la societas iuridice perfecta), applica – come effettivamente fatto – alla Chiesa gli stessi presupposti e le stesse conseguenze, rafforzati dall’eminenza del fine ecclesiale (che la rende societas necessaria) rispetto a tutti i fini umani. Un procedimento a minori ad maius tra gli Stati moderni/contemporanei e la Chiesa che, in tal modo ratione æternæ salutis, risulta addirittura maggiormente legittimata a punire rispetto agli Ordinamenti statuali.

c) Ultimo filone argomentativo, ed eccellenza del ragionamento tipicamente ‘ecclesiastico’, è la motivazione espressamente “teologica” (rectius: divina) da rinvenirsi, per quanto possibile, a livello biblico in qualche affermazione o almeno gesto dello stesso Signore Gesù, fondatore della Chiesa, suo sommo ed originario Legislatore e fonte primordiale e definitiva di ogni “potere in cielo e sulla terra” (Mt 28,18) affidato alla sua Sposa. In mancanza, poi, dell’apporto espressamente evangelico potrebbe comunque essere utile qualche elemento neo-testamentario (= apostolico) o anche solo magisteriale (= pontificio).

È in quest’ottica che, ancor oggi, gli autori ritengono pienamente congruo far riferimento al c.d. potere delle chiavi che da Cristo stesso conduce – “rigorosamente”, se non proprio direttamente – sino all’asserita legittimità dello ius puniendi ecclesiale.

In effetti la “potestas solvendi et ligandi”, tanto di Pietro che di tutti gli Apostoli (cfr. Mt 18,18), contiene già ogni cosa… per Diritto divino positivo: «tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19).

Con ogni evidenza dunque, e reiteratamente, Cristo stesso avrebbe consegnato in modo deliberato, consapevole e volontario, a Pietro ed agli Apostoli tutti un “potere di legare” la cui efficacia, non solo non risulta limitata a nessun elemento specifico (si consideri l’uso del “tutto ciò” – “ ” / “ ” – “quodcumque” / “quæcumque”), ma si estende addirittura all’eternità, cosicché quanto “legato” nella/dalla Chiesa resti legato anche presso Dio… in eterno!

Secondo questa prospettiva non sono ammissibili dubbi o esitazioni in merito: lo ius Ecclesiæ puniendi sarebbe assolutamente fondato – oltre che legittimato – dalla potestas solvendi et ligandi attestata in Mt 16,19 e Mt 18,18. Lo Ius divinum positivum garantisce! Senza che, sul tema, possa concretamente incidere la stratificazione tra il livello “gesuano” (= i c.d. ipsissima verba Jesu) e quello ecclesiale: il solo Pietro o tutti gli Apostoli, a questo proposito non fanno alcuna differenza.

A ciò si aggiunge, inoltre, l’apporto pontificio diretto addotto quale “fonte” dell’attuale Can. 1311: «E come sarebbe interessante studiare in S. Paolo la coscienza ch’egli ha della sua potestà di governo, sia in senso affettuoso e positivo con impareggiabile dedizione; sia in senso normativo; e sia in senso punitivo».

4. Dalla fondazione al fondamento

In tutt’altra prospettiva chi non si preoccupi principalmente del “perché” (= legittimazione/fondazione) dei comportamenti istituzionali o giuridici già posti in atto dalla Chiesa lungo i secoli, ma cerchi il “come” della loro originaria ‘presenza’ deve intraprendere un percorso – anche espressamente tecnico – che lo porti non tanto a ‘leggere’ ma ad ‘ascoltare’ ciò che i testi del N.T. hanno tramandato circa le modalità e le scelte operative della Chiesa apostolica per mettere in luce i ‘processi’ di discernimento e deliberazione che hanno progressivamente portato la Comunità cristiana a gestire un determinato ambito comportamentale ed operativo al proprio interno.

In quest’ottica un approccio teologicamente consapevole al citato testo sul c.d. potere delle chiavi (= potestas solvendi et ligandi) dovrebbe muovere da alcune considerazioni espressamente tecniche non derogabili.

- Si tratta di considerare, prima di tutto, il fatto che le due affermazioni pressoché identiche presenti in Matteo hanno anche un sostanziale parallelo – e pertanto una ulteriore conferma quanto a “fondamenti” – in Gv 20,23, dove però, il matteano “tutto ciò” si traduce e limita ai soli “peccati”… come, in realtà, era già ex natura rei in Mt 18,18. Peccati, per di più, difficili da individuare nella loro portata generale o individuale: [a] qualunque peccato di qualunque battezzato oppure [b] solo quello di un fratello verso un altro? Il testo di Mt 18,15 infatti non è ben definito poiché l’espressione “εις σε” «manca in autorevoli manoscritti, come B S, provenendo probabilmente dal v. 21 (per analogia)». La differenza però è importante poiché occorre capire se la correptio riguarda ogni peccato che un battezzato può commettere (approccio assoluto) oppure solo quello contro la persona “offesa” (approccio relativo). La “Vulgata”, tanto “Clementina” (del 1592) che “Nova” (del 1979), incorpora “in te” (= “εις σε”) costituendo ad ogni buon conto la versione “ufficiale” del testo biblico per i cattolici: quella utilizzata dal Magistero. In essa, così, il peccato oggetto di correptio è solo quello relativo e non l’assoluto!

- Allo stesso modo non si può trascurare neppure l’estrema differenza che intercorre tra il “legare” (=δέω) usato da Matteo in entrambe le formulazioni ed il “ritenere” (=κρατέω) usato da Giovanni. Ben diverso, in effetti, è il “legare” in conseguenza di un peccato e il “lasciar legato” in conseguenza del peccato stesso: azione pro-attiva la prima (= si lega ciò che era sciolto), azione non-attiva la seconda (= non si scioglie ciò che è già legato), in una prospettiva nella quale è il peccato stesso che “lega” o “tiene legato”, mentre – di per sé – alla Chiesa è dato di “sciogliere”.

L’evangelica potestas solvendi et ligandi risulta pertanto attestata due volte nei Vangeli in riferimento alla totalità degli Apostoli ed una in riferimento al solo Pietro ed alle “chiavi”. In più: la sua origine sarebbe Cristo stesso secondo Matteo, lo Spirito santo secondo Giovanni. Tale discontinuità, tuttavia, non attenua il fatto che, dal punto di vista teologico (ed anche secondo la Tradizione), si tratta di un unico ed identico “evento” (così che sia impossibile divaricare e contrapporre le due posizioni), come confermato dal celebre passo agostiniano secondo il quale proprio in Mt 16,19 «Petri excellentia prædicatur […] quod omnibus traditum est», poiché «has enim claves non homo unus, sed unitas accepit Ecclesiæ».

Sulla “materia”, poi, di tale attività i dubbi teologici non esistono: si tratta dei peccati! Allo stesso modo che il “solvere” (o il non farlo) risulta assolutamente prevalente – e sostitutivo – del “ligare”. Al tempo stesso rimane indeterminato – o comunque non univoco – il reale significato delle “chiavi” come strumento adatto a “legare”… ad eccezione infatti del carcere, in cui “legare” e “chiudere a chiave” sono di fatto sostanzialmente equifunzionali, la “chiusura a chiave” manifesta significati più adatti ad indicare la “messa in sicurezza”, la “protezione”, la “custodia”.

Il che ‘diluisce’ notevolmente la posizione fondazionale precedentemente illustrata.

Quanto, poi, alla “natura” – e subordinata funzione – delle proposizioni poste sulla bocca di Gesù nei due brani in questione non è inutile, per il canonista, osservare l’evidente assenza degli elementi “potestativi” generalmente presupposti in sede dottrinale.

- In Mt 18,18 si tratta di una “dichiarazione”: “αμην” (= in verità) che appare esplicativa di quanto indicato in precedenza circa i tre ‘gradi’ della correzione del fratello peccatore. La differenza con Mt 16,19 è evidente: per le “chiavi” si parla di vera e propria “consegna”… e il significato delle chiavi non è equivocabile rispetto all’ambito potestativo.

- In Gv 20,23 Gesù “trasmette/infonde” lo Spirito santo: il Paraclito – che è Dio col Padre ed il Figlio – che doveva prendere il posto stesso di Gesù tra i discepoli (cfr. Gv 14,15-25). Non si tratta né di “potere” né di “potestà”… tanto meno giuridici, ma di una presenza (e realtà) operativa assolutamente “teologica”.

- Nella stessa prospettiva dev’essere letto anche Mt 28,18, dove “πασα εξουσια” (= omnis potestas) non è l’oggetto del conferimento agli Apostoli ma il fondamento cristologico ed il rafforzamento del mandato loro affidato (ex plenitudine divinæ potestatis) per la missione evangelizzatrice: un mandato assolutamente vincolante ed autoritativo ratione potestatis mandantis.

Ciò che, pertanto, occorre mettere a fuoco non è uno specifico istituto o principio giuridico (nel caso attuale lo ius puniendi) ma i criteri fondamentali di soluzione dei problemi concreti che rendono difficile o addirittura mettono a rischio la sopravvivenza o, più radicalmente, l’identità stessa della Comunità cristiana.

Non si tratta, cioè di chiedersi (per il Legislatore ma anche per la Comunità come tale) se si possieda o no il “diritto”, la “facoltà” o cos’altro per intervenire avverso condotte disgregative e compromissorie della vita ed identità ecclesiale, ma di comprendere [a] che cosa stia accadendo, [b] quali ne siano le origini/cause, [c] quali le conseguenze individuali e comunitarie e, da ultimo, [d] se sia moralmente e concretamente possibile per la Comunità cristiana come tale assumere provvedimenti efficaci in merito… [e] qual genere di provvedimenti, almeno compatibili con la sua identità evangelica.

In tal modo: [a] l’oggetto d’indagine non è istituzionale o giuridico, statico (già in qualche modo formalizzato e definito) ma pratico, esistenziale, in divenire; a suo riguardo pertanto [b] occorre mettere a fuoco con certezza quale sia il “vissuto” cristiano coinvolto o connesso al problema oggetto di studio al fine [c] d’individuarne le componenti teologiche, spirituali, etiche e morali che ne permettano un’adeguata lettura evangelico-ecclesiale che solo in seguito assumerà anche un’espressione giuridica, in sede applicativa valida per la Comunità come tale e non per il singolo soltanto (= nel foro esterno e non in quello della coscienza).

Solo a questo punto si potranno ‘interrogare’ i diversi ambiti della Teologia, soprattutto “positiva” (= le fonti), alla ricerca di congrue risposte alle corrette domande che nascono dai concreti problemi del vivere ecclesiale, seppure non sempre ‘evangelico’.

Detto in termini più pratici: si tratta di partire dalla domanda sulla consistenza ed identità di quanto effettivamente presente nella vita ecclesiale (= la condotta inadeguata, in questo caso) cercando di verificarne la reale incidenza sull’identità della Chiesa stessa, per poi indicare possibili vie – eventualmente anche giuridiche – di soluzione ai problemi che ne derivano.

5. Principio giuridico e principio evangelico

Venendo così allo ius Ecclesiæ puniendi, proposto dalla dottrina quale principio giuridico canonico e – pretesamente – legittimato de Iure divino positivo ac de pontificio Magisterio, la prima domanda da porsi riguarda la sua compatibilità di principio col “Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio” (cfr. Mc 1,1) giunto alla Chiesa e da essa sancito normativamente nella quadruplice presentazione “secondo” gli Evangelisti canonici.

In tale prospettiva: 1) esiste nei Vangeli un mandato espressamente punitivo affidato da Cristo alla Chiesa? 2) Esistono – e contrario – affermazioni di principio (o anche solo fatti dogmaticamente rilevanti) che possano portare ad escluderlo con maggiore o minore probabilità o certezza?

Il dimostrabilissimo esito negativo della ricerca pone in evidenza che la domanda è, quanto meno, sbagliata… se non completamente priva di alcun senso, poiché non è questo il modo corretto di approcciare la sacra Scrittura come “fonte”, secondo la dinamica dell’auditus fidei.

Ciò impone d’impostare in tutt’altro modo la ricerca, suggerendo innanzi tutto l’utilizzo di un approccio induttivo che parta dai testi evangelici e, attraversando l’intero Nuovo Testamento, metta in evidenza quali siano stati gli eventuali elementi ‘critici’ nella vita della Chiesa apostolica e le soluzioni (o linee di soluzione) in essa adottate, secondo il metodo della ecclesiogenesi utilizzato in Teologia. In questo modo verranno in rilievo sia le criticità sperimentate che, molto maggiormente, i criteri assiologici ed operativi utilizzati per affrontarle. Sarà così il vissuto proto-ecclesiale a rendere ragione del Vangelo nella sua globalità, anche applicativa, all’interno della quale gli stessi quattro testi evangelici canonici si sono ‘condensati’, spesso ‘dopo’ altre espressioni della stessa fede nel Cristo salvatore.

a) In questa prospettiva si è già visto come la questione sulla “punibilità” non sia compatibile con la “potestà” evangelicamente fondata (cfr. Gv 20,23): tale potestà, infatti, dal punto di vista evangelico, non può contenere né esprimere alcuna punibilità… anche se ciò avviene ordinariamente nel campo giuridico civile nel quale proprio la punizione è una delle concretizzazioni e manifestazioni ‘tipiche’ della potestà: si veda la già esplicitata ‘premessa maggiore’ del sillogismo legittimante-fondazionale (v. supra). «Tra voi, però non è così» (Mc 10,43).

Ciò che emerge, anzi, è il contrario:

«Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,36-38).

b) La stessa questione dello sciogliere e del non-farlo (ben diverso dal legare!) in riferimento ai peccati non può essere affrontata in modo isolato rispetto al resto del messaggio evangelico, né essere compresa autonomamente. Il contesto nel quale Matteo la riporta al Cap. 18 pare abbastanza chiaro in merito: la colpa della quale non si chieda la “remissione” rimane tale. Mentre, al contrario, quella di cui la remissione è chiesta anche sette volte al giorno dev’essere rimessa:

«Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai» (Lc 17,3b-4).

Esiste, tuttavia, anche una seconda domanda da porsi in riferimento all’insegnamento – orale e fattuale – di Gesù stesso: un insegnamento esplicito, sebbene spesso indiretto come nel caso delle parabole; un insegnamento che – su questo tema – gode specifiche ‘garanzie’ di autenticità, almeno nel proprio nucleo portante. Un’autenticità che emerge dalla strutturale differenza tra quanto rinvenuto e trasmesso dagli Apostoli sulla sua bocca e quanto umanamente ammissibile, anche in ambito religioso (storico e culturale). Mt 18,21-22 ne costituisce la prova più esplicita ed inequivocabile: «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”». Umanamente inammissibile, ma altrettanto irrinunciabile per il Maestro di Nazareth, che pare non voler in alcun modo accogliere la ‘costituzione’ automatica di qualcuno nello status di “peccatore” come, invece, accadeva nella concezione religiosa giudaica del tempo (pur nelle diverse modulazioni proprie delle varie correnti spirituali e dottrinali evidenziate anche nei Vangeli) secondo la quale la violazione formale ed esteriore di alcuni precetti (idealmente mosaici) costituiva nella “condizione” pubblica di “peccatore”. E così era per tutti coloro che, anche solo per necessità vitale, non potevano osservare tali precetti: la maggior parte di chi svolgeva mestieri e lavori connessi al bestiame (= pastori), al commercio (con non Ebrei), alla pubblica amministrazione (= pubblicani), fino a molti degli stessi ammalati (lebbrosi in primis). Sono questi i “peccatori” – formali, giuridici – del Vangelo ai quali Gesù si affianca e si rivolge per offrire salvezza da parte di Dio stesso (cfr. Mt 9,10-13; Lc 19,10).

Quelli di Gesù, però, non sono atteggiamenti e comportamenti superficiali e qualunquistici – in fondo a-morali – nei quali ogni cosa ed il suo contrario sono indifferenti. Per Gesù, infatti, l’idea di peccato è molto chiara, né si trova nel suo comportarsi ed insegnare alcuna ambiguità in proposito: basti pensare alla Samaritana coi suoi cinque mariti (Gv 4,18) o al paralitico della piscina di Betzatà destinatario del monito «Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio» (Gv 5,14). Per Gesù il peccato verso il prossimo ostacola addirittura il rapporto cultuale con Dio (cfr. Mt 5,23-24) a causa dello sfasamento strutturale tra osservanza del primo e del secondo “Comandamento” (cfr. Mt 22,37-40). La “parola di Dio” – e non le “tradizioni degli uomini” (Mc 7,13) – è la base unica di riferimento; il “cuore” e non il corpo è la sede del peccato (Mc 7,21-23).

Il perdono, o meglio: la salvezza dal peccato (cioè la non-condanna, anche da parte di Dio stesso) è il vero cuore del Vangelo di Gesù Cristo; un cuore che la riflessione giovannea evidenzia ed incrementa proprio in prospettiva costitutiva e non solo operativa (come maggiormente visibile nei Vangeli sinottici). L’epilogo del dialogo con Nicodemo è definitivo in merito:

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» (Gv 3,16-18).

Al tempo stesso perdono e non-condanna non danno spazio a nessun disimpegno né irrilevanza riguardo al peccato. Il contesto di Mt 18 è chiarissimo: il fratello che commette colpa deve essere richiamato a tre ‘livelli’ incrementali (tu per tu, due o tre testimoni, l’assemblea/ekklesia) dopo di che va trattato come un pagano o un pubblicano, una persona cioè che non ha conosciuto Cristo e la sua salvezza… uno da rievangelizzare.

Nondimeno Gesù è chiarissimo anche sull’esistenza e rigore di un giudizio finale sulle opere di ciascuno (cfr. Mt 16,27: 25,31-46) e sulla precarietà della condizione di ogni uomo in vista di esso: molti sono chiamati, pochi eletti (Mt 22,14). Il rimanere o l’essere gettati fuori – nelle tenebre – dove «sarà pianto e stridore di denti» (Lc 13,27; Mt 8,12; 13,42; 13,50; 22,13; 24,51; 25,30) non è un puro espediente letterario: esiste una vera e propria esclusione definitiva dalla salvezza offerta da Dio! È possibile rimanere “chiusi fuori” in quanto “operatori d’iniquità” (Mt 7,23)… o anche solo perché non adeguatamente vigilanti e preparati (Mt 25,10-13).

Anche le parole sullo “scandalo” arrecato ai ‘piccoli’ sono fortissime: «Chi […] scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare» (Mt 18,6) e continua: «Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!» (Mt 18,7).

A questo monito potrebbero, forse, connettersi le uniche due situazioni di scandalo rinvenibili in qualche modo nei Vangeli: il tradimento di Giuda ed il rinnegamento di Pietro; due episodi molto concreti che hanno trafitto la vita della Comunità apostolica. Circa l’esito del comportamento di Giuda non è possibile andare oltre i meri fatti (autoconcludenti – Mt 27,5); non va sottovalutato invece l’esito della condotta di Pietro come narrato da Giovanni al Cap. 21 del Vangelo: “pasci, pasci, pasci, seguimi”.

Senza dubbio dal punto di vista evangelico il giusto comportamento sollecitato e promosso da Gesù in riferimento al peccato non è affatto la condanna/punizione (di un altro) ma la (propria) conversione (cfr. Lc 13,4-5).

6. L’attività apostolica

All’attività originaria – e fondante – di Gesù è necessario affiancare pure quanto operato dagli Apostoli così da cogliere ulteriori elementi per esplicitare e chiarire i criteri concreti individuati ed applicati nella Chiesa delle origini [a] per rimanere fedele alla propria identità (coincidente col mandato stesso del Signore Gesù) e, al contempo, [b] far fronte a condotte inadeguate sia di singoli che di intere Comunità o loro parti. Condotte inadeguate da comprendere più nella linea dello “scandalo” (σκανδαλον) pubblico nei confronti della stessa Comunità di fede che non del “peccato” individuale considerato in capo al suo autore. “Scandalon” d’altra parte è l’inciampo, la pietra dissestata lungo la strada, il mattone sconnesso nel pavimento, che ostacola il quieto cammino, inducendo la caduta dei più deboli (nella fede): la questione degli “idolotiti” affrontata da Paolo nella prima Lettera ai Corinzi (cfr. 1Cor 8,1-13) e in quella ai Romani (cfr. Rm 14,1-23) è emblematica, non meno della “spiegazione” addotta per l’intervento contro l’incestuoso di Corinto (v. infra).

«Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1Cor 8,11-13).

«E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti [...]. Non è bello che voi vi vantiate. Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi» (1Cor 5,2a.6-7a).

È questa, d’altra parte, la prospettiva originaria sottesa agli interventi apostolici: evitare che all’interno delle Comunità cristiane non tanto “accadano” (ut in singulis) ma prendano piede (ut in pluribus) condotte deviate – ma soprattutto devianti – tali da trascinare fuori della corretta fede le stesse Comunità. Un problema che rileva non principalmente per le singole condotte personali ma per i “fondamenti” teorici e dottrinali che le sostengono e che rischiano di diffondersi inquinando la fede delle Comunità. Non la Morale ma il “dogma” è in pericolo e con esso l’identità stessa della Chiesa: non si tratta di questioni “disciplinari/penali” (individuali) ma “teologiche” (generali) nelle quali non è in gioco una – eventuale – potestas Ecclesiæ ma la veritas Evangelii. Allo stesso modo, e in pari materia (= idolotiti, fornicazione, adulterio) e prospettiva, si muoverà Giovanni nelle c.d. Lettere alle Chiese dell’Asia (cfr. Ap 2,14-15. 20-22).

Il quadro neotestamentario è chiaro in merito: sia Paolo che Giovanni hanno lottato strenuamente contro evidentissime influenze e devianze (soprattutto gnostiche) che minacciavano sin dalle origini l’annuncio del kerygma evangelico nel mondo ellenistico, giungendo a significative infiltrazioni nelle Comunità cristiane attraverso la ‘promozione’ di devianze non-individuali verso comportamenti licenziosi ed immorali (v. supra).

A questa componente problematica ‘primaria’ (di carattere dogmatico) se ne affianca una seconda in riferimento alla condotta di specifiche figure ecclesiali: i “lupi rapaci” dei quali parla Paolo in At 20,29, i falsi Apostoli di 2Cor 11,13-15 e specifici individui ai quali si riferisce Giovanni in 3Gv 9. Seppure non sia dato di conoscere come concretamente ci si sia poi comportati verso tali soggetti, è intuibile che qualche provvedimento possa essere stato adottato nei loro confronti (cfr. 3Gv 10); provvedimenti connessi al “ruolo ecclesiale” più che alla “persona” in sé, manifestando così un’attenzione prettamente tutoria della Comunità di fede piuttosto che punitiva di qualche singolo.

Sotto il profilo metodologico va osservato anche – e non è di poco conto in questa materia – il deciso passaggio [a] dall’insegnamento originario e fondante di Gesù narrato nei Vangeli [b] a fatti e decisioni contingenti riportati negli Atti e nelle Lettere: un cambio drastico non tanto di “genere espressivo” ma degli elementi effettivamente in gioco. A ciò si aggiunga il maggior valore della “Parola del Signore” (che verrà fissata nei Vangeli anche dopo un certo numero di fatti) rispetto al mero operato degli Apostoli e loro collaboratori. Valga la pena dedicare attenzione a qualche episodio concreto in proposito.

Emblematico anche per la sua completezza narrativa è, senza dubbio, quello riguardante Anania e Saffira, al Cap. 5 degli Atti degli Apostoli: un fatto che ha attirato l’interesse dei “penalisti” canonici prima facie per le evidenti conseguenze di una condotta inadeguata all’interno della Comunità cristiana, condotta che ha visto implicato lo stesso Apostolo Pietro. A tal proposito, tuttavia, non è superfluo osservare – a differenza della dottrina tradizionale – che non si parla affatto di un giudizio né di una condanna (che sarebbe “a morte”!) da parte di Pietro ma di interpretazione e profezia di quanto il giudizio stesso di Dio stava già realizzando quale risposta concreta ad un evidente “peccato contro lo Spirito santo” (cfr. Mt 12,31-32), vero referente, custode e Signore della Chiesa secondo la Teologia lucana. Una questione espressamente spirituale e teologica: «Anania, perché Satana ti ha riempito il cuore, cosicché hai mentito allo Spirito santo [...]? [...] Perché vi siete accordati per mettere alla prova lo Spirito del Signore?» (At 5,3.9), completamente spoglia di qualsiasi elemento potestativo ecclesiale o apostolico (=potestas solvendi et ligandi, et similia). Tant’è che «all’udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò. […] Ella all’istante cadde ai piedi di Pietro e spirò» (At 5,5.10), senza alcun intervento ‘apostolico’ di alcun genere: meri fatti!

Una serie importante di episodi, non sempre delineabili in modo chiaro, coinvolge anche l’Apostolo Paolo in rapporto alle sue Comunità. Paradigmatico ed esemplare proprio in chiave ‘penale’ è quello – già ricordato – riguardante la Comunità di Corinto:

«Ebbene, io, assente con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato, come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione. Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù, questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore» (1Cor 5,3-5).

Un intervento di assoluta ed inequivocabile chiarezza circa l’attività da realizzare e la sua finalità, seppure di estrema nebulosità – invece – circa le sue modalità concrete e lo stesso “presupposto” dogmatico fondativo. Un intervento, tuttavia, che permette di mettere a fuoco alcuni elementi effettivamente costitutivi per la prassi ecclesiale successiva. Il contesto del fatto, a causa del ricorrere di “orgoglio” e “vanto” (cfr. 1Cor 5, 2.6), non pare semplicemente fattuale ma probabilmente riconducibile alla deriva gnostica sempre attiva nel cristianesimo ellenistico: chi è già salvato per la “conoscenza” (= gnosi) di Cristo non può essere più toccato dal male così che qualunque condotta esteriore risulta insignificante. Così è per le carni sacrificate agli idoli (cfr. 1Cor 8, 1-13, dominati dalla “scienza” e dal “sapere”) e per il “tutto mi è lecito” (cfr. 1Cor 6,12-13); le stesse problematiche affrontate anche da Giovanni (cfr. Ap 2,20-24). In gioco non sarebbe pertanto l’immoralità individuale ma il kerygma di salvezza nella sua corretta comprensione ed attuazione (v. supra).

In tal modo, ciò che s’intravede sullo sfondo e sollecita l’intervento apostolico non pare essere il peccato individuale, ma lo scandalo comunitario che deriva dalla diffusione – e condivisione – dei presupposti dottrinali dai quali le condotte riprovate prendono origine e forza, sollecitando un’attenzione non tanto singolarmente ‘repressiva’ quanto invece comunitariamente ‘tutoria’. Una linea interpretativa valida anche al di là di condotte espressamente immorali, come rinvenibile nell’intervento a Tessalonica verso coloro che, nella presunta imminenza della parusia (elemento dottrinale!) si estraniavano dalle ordinarie attività della vita quotidiana creando scompiglio nella Comunità (cfr. 2Ts 3,11-12).

7. Un problema di “tutela”

Precisamente nell’ottica della tutela, sia del kerygma che della Comunità, sembrano potersi leggere gli interventi apostolici nei confronti della situazioni problematiche già indicate.

7.1 Paolo e Giovanni

a) Dal punto di vista dell’Apostolo delle genti la conseguenza della condotta riprovata (= la “consegna a Satana” – 1Cor 6,5) ha una chiarissima funzione “medicinale”, essendo finalizzata alla salvezza (finale) e non alla rovina del peccatore. Si tratta sicuramente della partecipazione alla vita della Comunità e, più ancora, ai suoi momenti comuni: la “mensa” (del Signore, cioè l’Eucaristia), sebbene non sia oggi chiara l’eventuale referenza alla Scomunica. Il doppio verbo “togliere” (εκκαθαρατε, εξαρατε, 1Cor 5,7.13b), per di più, è chiaro nell’indicare il soggetto operativo al quale Paolo si rivolge: la Comunità e non “il malvagio”. È la Comunità il soggetto che deve “agire”, non l’individuo che deve “subire”! Chi “toglie” tutela se stesso, non punisce qualcun altro.

La “consegna a Satana”, per parte propria, ricorrerà ancora formalmente in 1Tm 1,20 per Imeneo e Alessandro, senza che l’utilizzo tardivo della formula (o anche di un vero “istituto”) aggiunga alcunché alla sua comprensione.

Totalmente disputata, ancor oggi, rimane invece la modalità operativa ed il suo significato soprattutto in chiave “potestativa”:

«Sembrerebbe che la Comunità debba radunarsi e pronunciare un verdetto pubblico di condanna. Ma in tal modo l’assemblea agirà in veste di semplice esecutrice della sentenza di Paolo? Oppure agirà in nome proprio e con propria autorità, godendo del pieno consenso dell’Apostolo? E quale parte avranno i capi della Comunità di Corinto nell’erogazione della condanna?».

La questione, in realtà, vista la ‘titolarità’ della decisione (“nel nome del Signore nostro Gesù Cristo” – 1Cor 5,4) ed i suoi ‘autori’ (“voi, il mio spirito e la potenza del Signore nostro Gesù” – ibidem) non pare ricoprire specifico rilievo in tema di “autorità apostolica”… non ponendone neppure la necessità. L’Apostolo, d’altra parte, quando intende far riferimento autoritativo al proprio status/ministero – e proprio all’interno della stessa 1Cor – utilizza altre formule: «dico io, non il Signore» (1Cor 7,12a) «non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» (1Cor 7,25); pur tardiva, 1Tm 5,14 usa un esplicito “voglio” (βουλοπαι) attraverso cui l’Apostolo ‘trasmette’ al suo collaboratore (e successore) una esplicita disposizione operativa.

b) Dal punto di vista sostanziale 1Cor 11,17-22 offre anche un altro esempio di intervento tutorio ma non punitivo da parte dell’Apostolo. Si tratta della celebrazione della “Cena del Signore” che non avviene “per il meglio” (εις το κρεισσον): le disparità sociali, infatti, che stratificano e dividono la Comunità al proprio interno rischiano di «gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio» (= lo scandalo), oltre che trasformare in “condanna” (individuale) il Sacramento della salvezza (cfr. 1Cor 11,34).

Anche qui: nessuna “punizione” ma un deciso richiamo alla Traditio («ho ricevuto quello che vi ho trasmesso» – 1Cor 11,23) ed alla responsabilità personale («ciascuno esamini se stesso» per evitare di “mangiare e bere la propria condanna” – 1Cor 11,28-29). Nondimeno, secondo Paolo, «è necessario che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova» (1Cor 11,19), indicando così come proprio la tensione strutturale tra fede (professata) e vita (vissuta) finisca per operare una vera e propria “selezione” all’interno della Comunità stessa: una selezione essenzialmente spirituale – ma anche materiale – che aiuti tutti e ciascuno a verificare l’adeguatezza della propria adesione a Cristo ed al suo Vangelo di salvezza.

c) In questa linea si sviluppa quanto l’Apostolo ordina (= παραγγελλομεν) ai cristiani di Tessalonica proprio al fine di una corretta vita ecclesiale, prima di tutto dal punto di vista della vera fede.

«Fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, vi ordiniamo di tenervi lontani da ogni fratello che conduce una vita disordinata, non secondo l’insegnamento che vi è stato trasmesso da noi. […] Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello» (2Ts 3,6.14-15).

L’indicazione operativa è chiara: interrompere i rapporti! Così come chiara ne è la finalità: perché si vergogni. Come già in 1Cor 5 – pur in un contesto molto meno problematico e formale – l’indicazione è per la Comunità e non per il singolo; nessuna “punizione”, poi, ma la sola “vergogna” che stimoli alla conversione. Anche la precisazione che segue è significativa della condotta ecclesiale: non si tratta di “nemici” (da combattere o, almeno, evitare) ma di “fratelli” da ammonire… e ri-accogliere penitenti.

d) Da ultimo è necessario verificare la portata dell’unica espressione paolina riferita alla “punizione”: «siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta» (2Cor 10,6); citazione espressamente utilizzata anche da Paolo VI in quella che viene indicata come “fonte” del Can. 1311 (v. supra). Osserva in merito P. Rossano:

«Non sarà inutile notare che l’immagine dev’essere presa cum grano salis e interpretata secondo le leggi dello stile apocalittico, senza pregiudicare gli elementi del dialogo e della libera decisione personale, essenziali in ogni opera di evangelizzazione».

Lo “stile apocalittico”, dunque, e non la Teologia paolina del Ministero apostolico come tale (= autorità, potestà, diritti, espressamente esposti e difesi in altri contesti) introduce tale “punizione”; una punizione, tra l’altro, che interverrà (solo) quando l’“obbedienza sarà perfetta”… al contrario di quanto accade di solito: si punisce quando l’obbedienza è venuta a mancare! Si punisce la dis-obbedienza!

La cosa è tanto più interessante per il successivo riferimento proprio alla «nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina» (2Cor 10,9). In cosa, dunque, dovrebbe consistere una punizione inferta a chi sia perfetto nell’obbedienza (sic) da parte di chi abbia autorità (anche divina) per l’edificazione?

e) Per parte propria, anche l’Evangelista e veggente apocalittico (tale secondo la Tradizione) si trova in situazioni non radicalmente diverse da quelle evidenziate da Paolo, manifestando la necessità d’intervenire all’interno della vita delle Comunità proprio in ragione delle stesse problematiche di tutela della corretta fede e dei corretti comportamenti ecclesiali, prima che individuali.

Si tratta, inizialmente, degli “anticristi” (cfr. 1Gv 2,18-19; 2Gv 1,7) per passare poi ai reprobi delle Lettere alle Chiese dell’Apocalisse (v. supra).

Anche Giovanni conosce, poi, problematicità di natura istituzionale, come dimostra la brevissima terza Lettera nella quale si contesta, indirettamente, un comportamento scorretto da parte di un responsabile della Comunità cristiana (Diotrefe); è nei propositi dell’Apostolo “ricordargli” (υπομνησω) le azioni che compie, anche contro di lui, utilizzando discorsi maligni (cfr. 3Gv 10): un “ricordo” che non evoca punizione ma consapevolezza del proprio operare.

 

f) Anche il ‘minore’ degli Agiografi neo-testamentari, Giuda, dedica la propria attenzione alle stesse tematiche con chiaro riferimento ai presupposti di fede soggiacenti a condotte definite “empie”. Lo scrive espressamente motivando la propria missiva: «esortarvi a combattere per la fede, che fu trasmessa ai santi una volta per sempre» (v. 3). Anch’egli, poi, si muove nella linea tutoria della Comunità in riferimento a chi assuma condotte inadeguate: «Siate misericordiosi verso quelli che sono indecisi e salvateli strappandoli dal fuoco; di altri infine abbiate compassione con timore, stando lontani perfino dai vestiti, contaminati dal loro corpo» (vv. 22-23).

7.2 Un quadro complessivo

Il percorso assolutamente sommario (in prospettiva sostanzialmente metodologica) sin qui articolato attraverso l’intero Nuovo Testamento ha mostrato con sicurezza come la quasi totalità dei riferimenti a situazioni di “crisi” all’interno della Comunità cristiana delle origini non possa essere immediatamente ricondotta agli elementi normalmente individuati dalla dottrina come “penali”: lo ius puniendi, in primis.

Si tratta, invece, di comportamenti deterrenti e dissuasivi suggeriti o adottati dagli stessi Apostoli – spesso attraverso la Comunità stessa o ad essa sollecitati – nei confronti di chi stava deviando dalla retta via soprattutto dottrinale o di chi utilizzava la vita ecclesiale per fini personali e in modo non corretto (= successo, potere, guadagno…).

Il tema dello “scandalo” risulta dominante e risolutivo in merito, ponendo in luce come ciò che viene ‘colpito’ dall’intervento apostolico/ecclesiale non è tanto il “peccatore” in sé (ciò che, invece, rileva ed è centrale nelle prospettive penalistiche, sempre rigidamente personali) ma il disorientamento e la confusione in materia di fede che deriverebbero ai più deboli dalla tolleranza – effettiva – di comportamenti radicalmente difformi dall’autentica Tradizione evangelica. Confusione e disorientamento dei fedeli che ricadrebbero sulla Chiesa (e/o i suoi Ministri) in termini di sfiducia, inaffidabilità, non-credibilità.

In tal modo ciò che emerge come primario e decisivo a livello neotestamentario (e teologico) è la necessità e volontà di tutelare l’identità del messaggio evangelico (= il depositum), l’identità dei suoi portatori (= il legittimo ministero), l’identità delle Comunità cristiane (= la Traditio).

- Una prospettiva che non trova rispondenza – né può adeguatamente concretizzarsi o risolversi – in un “diritto” come quello indicato a fondamento nativo del Can. 1311. Dal punto di vista teologico – e quindi costituzionale – la Chiesa non ha il “diritto” (giuridicamente inteso) ma la “necessità” (ontologica) di tutelare la propria identità! Come qualunque soggetto. Una necessità di tutela che si realizza non tanto nell’intervento sulla vita e/o la persona del deviante (= punizione), ma nella opposizione e resistenza (realizzata come non-ammissione e delegittimazione) che la Comunità oppone a tale soggetto (“sia per te come un pagano o un pubblicano”).

- In quest’ottica cade anche la prospettiva della “punizione” come normalmente intesa, poiché la resistenza opposta dalla Comunità all’accesso ed attività di un soggetto è cosa ben diversa dal “privare” il soggetto stesso di qualcosa… sebbene, a conti fatti, il risultato possa apparire del tutto identico, almeno dal punto di vista funzionale. Nondimeno: la resistenza è passiva, mentre la punizione è attiva… allo stesso modo che per resistere non occorre alcuna “potestà” ma basta la sufficiente motivazione; un intervento punitivo, invece, chiede anche la disponibilità di adeguati mezzi e strumenti materiali e morali.

8. Punire o coercere

Gli ultimi spunti critici di queste note metodologiche riguardano in modo diretto la terminologia utilizzata – e da (non) utilizzare – in ambito penale canonico. Una terminologia che chiede una radicale rivisitazione semantica e concettuale per evitare che elementi, fattori ed istanze, che nulla hanno a che vedere col Vangelo rimangano, invece, i referenti chiave di un ambito così delicato e prezioso della vita della Chiesa.

In quest’ottica punire e coercere, sono i termini principali ai quali dedicare specifica attenzione, soprattutto nella loro alternativa – escludente –, anche tenuto conto che il Legislatore canonico, impostando la materia, ha utilizzato in entrambi i Codici latini il verbo “coercere” anziché “punire” (cfr. Cann. 2214 CIC-17; 1311 CIC-83).

 “Punire” è diverso da “coercere”; “punizione” è diverso da “coercizione”: la punizione indica, infatti, «pena, castigo inflitto a chi ha commesso una trasgressione o dimostrato cattiva condotta, allo scopo di correggerlo», mentre la coercizione indica «l’obbligare altri a fare o non fare una cosa, usando la forza o minacciando d’usarla; coazione, costrizione, limitazione della libera volontà».

Nondimeno: la coercizione indica una modalità operativa mentre la punizione costituisce uno strumento; la coercizione è un modus operandi, la punizione è un instrumentum… per raggiungere uno scopo!

Come già visto: ciò che la Chiesa riconosce a se stessa è la possibilità, corrispondente alla – triste – necessità, di coercere (= far pressione ed operare) i fedeli per mantenerli aderenti al Vangelo, per contenerli e trattenerli all’interno di un minimo di vita cristiana condivisa e condivisibile. La punizione, per contro, non offre gli stessi esiti… soprattutto se evitabile da parte di chi – p.es., abbandonando la Chiesa – ne resterebbe completamente immune.

La Chiesa, infatti è comunità di salvezza nel duplice significato di “accesso” alla salvezza e “permanenza” in essa. Due dimensioni che comportano anche modalità differenti di gestione: innesco e mantenimento, sollecitazione e preservazione. Allo stesso tempo rimane ben chiaro che ciascuno è assolutamente libero anche di recedere dallo “stato di salvezza”: tornare nella condizione del “pagano e pubblicano”, del peccatore che deve convertirsi… con anche le conseguenze che questo può generare rispetto alla precedente ‘fase’ di corretta vita cristiana ed appartenenza alla comunità di salvezza.

Di fatto i “beni” che la Chiesa possiede e dispensa (Parola e Sacramenti – cfr. Can. 213) sono beni spirituali la cui fruizione può essere perduta da parte dei singoli (attraverso il proprio peccato, come accade per la Comunione eucaristica a chi sia consapevole di non essere in “grazia di Dio” – cfr. Can. 916) oppure a loro parzialmente negata (attraverso espressi interventi della Comunità credente: la Chiesa) proprio in conseguenza di tale ‘originaria’ perdita individuale pubblicamente rilevante e verificabile. Non per nulla perché esista il Delitto canonico occorre che esista anche il peccato, cioè la piena imputabilità del Delitto stesso (cfr. Can. 1321).

In quest’ottica: se la punizione – in quanto “afflittiva” – risulta ad ogni buon effetto anti-evangelica (v. supra), la coercizione invece no. Tanto più quando essa si manifesti e realizzi in chiave prettamente negativa, com’è nell’esclusione, nel divieto di accesso o di esercizio (verso Sacramenti, Uffici, Ministeri, attività…): esattamente ciò in cui consistono – alla fin fine – Sospensione, Interdetto e Scomunica (cfr. Cann. 1331-1333).

Sono queste, d’altra parte, le Sanzioni canoniche “tipiche”: quelle che la Chiesa utilizza nella maggior parte dei casi al fine di “sollecitare” i fedeli che si pongano in condizioni di vita troppo difformi dal Vangelo e dalla santità della vita cristiana. Sanzioni “medicinali” che – proprio come un “embargo”, parziale o totale – denuncino senza possibile ambiguità l’antievangelicità di qualche specifica condotta, così da difendere la Comunità credente dal “contagio”, segnalando al contempo al fedele in questione la sua ormai “estraneità” alla vita evangelica: ciò che s’indica tecnicamente come “Contumacia”… l’essere “come il pagano o il pubblicano”, il “malato” per il quale Cristo è venuto come medico, la “pecorella smarrita” che mette in agitazione il pastore, il “figlio/fratello perduto e morto” del quale, però, si continua ad attendere il ritorno. Proprio la natura medicinale e redentiva delle Sanzioni canoniche, nondimeno, le rende anche “evangeliche” in quanto stimolanti a quella conversione che costituisce l’anima stessa della buona Novella di Gesù Cristo.

Si noti pure, in questa prospettiva, come il vocabolario canonico post-conciliare utilizzi la semantica della “sanzione” anziché quella della “pena”. Si tratta infatti di una risposta formale ed autorevole espressa a fronte di una condotta individuale che, attraverso la sanzione, viene messa in adeguata luce e così promossa ed incentivata, oppure rifiutata e contrastata: come la mamma che dice “bravo!” al bimbo oppure lo “sgrida”, non meno che ricevere un’Onorificenza o un’Ammonizione.

Che il peccato – ed anche il Delitto – possa e debba essere “rimesso” al “convertito” in quanto persona non significa, però, né comporta sempre e comunque la sua irrilevanza nella concretezza della vita ecclesiale, soprattutto quando proprio questa – e la sua credibilità in rapporto all’annuncio del Vangelo – siano state gravemente ferite (= lo scandalo)… quando si siano recati danni (morali ed economici) ingenti e permanenti alla Comunità, quando ci siano state vere e proprie “vittime” la cui vita sia rimasta sconvolta e compromessa da tali condotte.

Accoglienza, perdono, salvezza e dignità della persona, a norma di Vangelo, non coincidono infatti con le “funzioni” o i “ruoli” eventualmente esercitati in precedenza all’interno della Comunità cristiana. Si aprono in tal modo gli ambiti [a] delle “penitenze” in senso lato e non tecnico (cfr. Can. 1340) attraverso le quali prendersi cura in modo più specifico ed intenso della propria santificazione e [b] delle oggettive “inadeguatezze” rispetto all’esercizio di specifiche attività ecclesiali di maggior importanza, visibilità, protagonismo e responsabilità. Ciò che costituisce ad oggi l’ambito – teoretico e non teologico – delle c.d. Pene espiatorie (cfr. Cann. 1336-1338), secondo un linguaggio di tutta inadeguatezza, sebbene già molto migliorato rispetto alla loro “vendicatività” prospettata nel Codice pio-benedettino (cfr. Cann. 6; 985; 1939; 1948; 2216; 2229; 2230; 2232; 2236; 2248; 2255; 2286; 2287; 2289; 2290; 2291; 2298).

Proprio in quest’ultima prospettiva non si può trascurare neppure che la maggior parte del c.d. Diritto penale canonico viene posta in opera in relazione non a tutti i fedeli come tali ma specificamente per chierici e parzialmente religiosi/consacrati … Ciò proprio per dare alla Comunità cristiana maggiori possibilità di protezione e tutela nei confronti di chi, almeno formalmente, opera o dovrebbe operare in nome e per conto della Chiesa o come “eccellenza” della vita evangelica!

È corretto, d’altra parte, che chi è stato istituzionalmente assunto e posto in ruoli/condizioni di specifica importanza nella vita della Comunità, divenendo vero referente della vita cristiana, in caso di problemi di una certa portata (soprattutto quanto alla ricaduta sulla fede generale della Comunità o di qualche suo specifico membro) venga dalla Chiesa stessa limitato o impedito di proseguire in una funzione ormai non più veritiera, che diventerebbe, anzi, una contro-testimonianza, implementando così una tutela più che una punizione.

Una siffatta prospettiva che vede l’Autorità ecclesiale intervenire all’interno della vita della Comunità stigmatizzando atteggiamenti e condotte palesemente anti-ecclesiali al fine di tutelare prima di tutto la verità dell’annuncio evangelico e con essa l’identità stessa della Chiesa non è, tuttavia, l’unica ratio né il tutto del Diritto penale canonico. L’attività e l’insegnamento degli ultimi due Papi hanno infatti progressivamente posto in primo piano le c.d. vittime di tali condotte (tra cui la stessa Comunità cristiana): vittime che impediscono un’autoreferenzialità del Diritto penale canonico circoscritto all’interno del proprio “sistema”, come se si trattasse solo di gestire ed equilibrare forze intra-ordinamentali contrastanti. La presenza costante (e pressoché costitutiva dell’ambito penale stesso) di un “offeso” (anche non individuale) impone infatti non solo [a] di portare a conversione un peccatore, ma – più profondamente – [b] di riconciliarlo con la vita della Comunità di fede ed i suoi membri (e la stessa comunità umana, se del caso), oltre che – spesso – con se stesso, attraverso un concreto “progetto di bene”.

È questa la prospettiva ed il campo della c.d. giustizia riparativa che concepisce se stessa proprio in alternativa alla mera punizione di un anonimo “reo/delinquente” volendolo cogliere, invece, ed accogliere ancora come membro dello stesso Popolo di Dio redento dal peccato ed incamminato nella santità verso il Regno dei cieli.

L’apporto espressamente metodologico di queste note si arresta su questa soglia, aprendo agli apporti, ben più specifici dei quali anche la dottrina canonistica inizia a beneficiare.





in: APOLLINARIS, XCIII (2020), 73-106