Amministrazione e gestione dei beni temporali della Chiesa: apporti teoretici per una concettualizzazione canonistica



Sommario

 1. Qualche premessa canonistica. 2. Amministrazione e gestione: problematicità attuali. 3. Possibili apporti teoretici dal Diritto civile (italiano). 4. Per concludere.



Negli ultimi anni sta consolidandosi l’interesse dei canonisti, e non solo, intorno alla tematica della “gestione” degli Enti canonici principalmente a motivo della crescente necessità di evitare che le loro numerose attività (scuole, cliniche ed altro) – svolte in gran parte da Istituti religiosi – si trasformino per essi stessi in pericolosi boomerang dal punto di vista patrimoniale a causa soprattutto di questioni finanziarie connesse (1) alla “responsabilità” per danno, (2) alle sempre maggiori rigidità del Diritto del lavoro e, non ultime, (3) questioni di carattere fiscale e (4) previdenziale.

Tale interesse, tuttavia, si trova a dover fare i conti in Diritto canonico con la sostanziale assenza del concetto di “gestione” non solo (e non tanto) all’interno della Normativa vigente, quanto – molto maggiormente – della Scienza e dottrina canonica connessa soprattutto al Libro V del Codice latino (e Canoni paralleli del CCEO), tradizionalmente incentrata sull’amministrazione patrimoniale dei beni. Sebbene, in realtà, qualche elemento concettuale in termini di “gestione” potrebbe dedursi utilmente dal riferimento al Libro II del CIC, che regolamenta esplicitamente – sebbene in modo insufficiente – le figure ed attività degli “Economi”, diocesani e religiosi (cfr. Cann. 239 §1; 249; 636), nei fatti la riflessione langue… e non ci si può accontentare più oltre di prendere semplicemente atto che «il concetto di amministrazione nella Chiesa non è tuttavia univoco».

Rimane pertanto fondata, se non proprio urgente, la necessità di dedicare tempo e riflessione al tema, cercando anche – come si tenterà in queste note – supporto extra-canonico, seppure il più giuridico possibile, per evitare i rischi – in realtà già giunti ad esito in dottrina – di cambiare completamente l’orizzonte di trattazione della tematica, lasciando che i giuristi continuino a brancolare nel buio a livello concettuale… che – invece – dovrebbe essere il ‘loro’ livello peculiare. La situazione, oltre che complessa, si è fatta ormai pericolosa, avendo già dato crescente spazio (anche normativo) ad approcci e dinamiche di tutt’altro tenore, orientamento e finalità.

1. Qualche premessa canonistica

a) Per realizzare una riflessione giuridica significativa in tema di amministrazione e gestione dei beni temporali della Chiesa è necessario partire da una consapevolezza di specifica natura tecnica che sappia differenziare il contesto economico attuale rispetto a quello in cui si è formato il Diritto patrimoniale canonico, come – significativamente – lo si è chiamato a lungo. Ed è proprio questo riferimento, un tempo costitutivo, al “patrimonio” che concentra in sé la maggior parte della tematica e problematica derivata. Finché, infatti, lo standard di riferimento dell’attività economica ecclesiale era quello di origine agraria, immediatamente produttiva (= il romanistico “fondo”), non si è posta la necessità di distinguere giuridicamente tra gestione ed amministrazione. Il regime beneficiale, poi, basato sul sistema feudale delle fides interpersonali non permetteva di differenziare a livello formale ciò che era invece ben chiaro nella prassi, che distingueva tra titolarità e conduzione: dominium e gestio (seppure approssimativamente).

In merito si consideri inoltre come, fino alla metà del XX sec., le reali differenze tra un terreno ed un fabbricato (non urbano), nella maggior parte dei casi, fossero praticamente nulle dal punto di vista del proprietario, soprattutto se il fabbricato non era direttamente utilizzato: la praticamente totale assenza di “impianti”, p.es., faceva sì che locare l’uno o l’altro non creasse reali differenze. Allo stesso modo la pressoché totale assenza di Norme urbanistiche, igieniche, di sicurezza, artistiche, ecc. rendeva la proprietà dei fabbricati un puro “fatto”, spesso del tutto statico, come per i terreni. A ciò si aggiunga che, poiché la maggior parte dei fabbricati ecclesiastici extraurbani si trovava all’interno di un “fondo” agricolo, essi formavano corpo unico coi terreni, applicandosi ad entrambi l’unico Diritto agrario (spesso enfiteutico), mentre il Diritto tributario non aveva ancora iniziato a tassare in modo estremamente diverso i fabbricati “civili” rispetto a quelli “agricoli”. Al tempo stesso: la maggioranza assoluta del patrimonio ecclesiastico era di natura agraria e pertanto – si conceda questa approssimazione tecnica – “auto-produttiva”: era la terra infatti che, lavorata, produceva reddito praticamente immediato, oltre che ripetitivo, anno dopo anno. I fabbricati urbani, a loro volta, erano direttamente residenziali, o in proprio (= conventi), o a servizio di bisognosi (= ospitali, ricoveri, scuole, orfanotrofi, ecc.), risultando in massima parte di fruizione immediata e diretta da parte degli Enti proprietari (soprattutto religiosi), ai quali la proprietà diretta – casomai ricevuta in donazione – permetteva di evitare i costi per la disponibilità dei fabbricati nei quali svolgere le proprie “Opere” (= scuole, cliniche, ecc.).

Al giorno d’oggi, invece, è necessario considerare che la maggior parte del patrimonio ecclesiale, ormai quasi esclusivamente abitativo urbano, non solo non è affatto produttiva ma, anche, comporta il vero e proprio, costante e prolungato “acquisto” – e relativo pagamento – di un numero crescente di “forniture” e “servizi”, oltre ad oneri di tenuta in sicurezza e a Norma, del tutto estrinseci rispetto alla natura, funzione e fruizione del patrimonio come tale. Forniture, servizi ed oneri imposti spesso in modo coattivo dalla legislazione civile. È questo nuovo scenario complesso che invita (o costringe, addirittura) a dotare la Canonistica attuale di concetti, anche giuridici, adatti alle nuove necessità e – forse maggiormente – adatti alla redazione delle Norme canoniche che prima o poi dovranno essere emanate in materia economica.

 

b) La seconda premessa – in realtà corollario della precedente – riguarda l’attuale configurazione delle dinamiche economiche in prospettiva quasi unicamente finanziaria: un nuovo stato di cose che ha ormai reso completamente non utilizzabile il concetto dottrinale di “bene” che polarizzava sia le logiche che le funzionalità della precedente concezione ed attività di amministrazione, appunto, dei “beni” canonici; concettualizzazione dalla quale – in buona sostanza – sono state formalmente dedotte le Norme del Libro V del CIC . Oggi, non solo non contano più i “beni”, quanto invece il loro “valore”, ma addirittura risulta spesso più conveniente utilizzare beni altrui (= locazione, concessione, leasing, ecc.) che non propri, viste la generale e crescente penalizzazione tributaria dei “fabbricati” (= Imposte sulla proprietà, sebbene dissimulate come “servizi” collettivi), le smisurate tutele accordate a chi utilizza fabbricati di terzi (= impossibilità di eseguire sfratti, soprattutto residenziali) e gli oneri di sicurezza, messa e tenuta a Norme e manutenzione straordinaria – anche degli impianti – oltre, ultimamente, al c.d. efficientamento energetico imposti ai proprietari. Al giorno d’oggi la Chiesa si scontra sempre più col fatto che i “beni” posseduti non sono più tali! Non sono più, cioè, fonti di sostegno ed alimento per le varie attività cultuali, pastorali e caritative, o per il sostentamento dei ministri (cfr. Can. 1254 §2), ma solo cause continue di spese, preoccupazioni ed attività tecniche e legali dispendiosissime che non bastano neppure più alla tutela e gestione “autonoma” di tale patrimonio, rischiando – anzi! – di distogliere altre risorse dal campo più direttamente pastorale.

Non immotivatamente il vocabolario economico attuale non usa più il termine “bene” ma “risorsa” per indicare qualunque cosa (= res) o dinamica (= processum) che in qualche modo possa offrire vantaggi economicamente significativi.

 

c) Da ultimo occorre premettere pure la consapevolezza che una reale distinzione, sia teoretica che pratica, tra amministrazione e gestione non può essere operata oggi in ambito canonico riferendosi ai compiti – del tutto generici – che il Legislatore codiciale ha affidato quarant’anni fa agli “Amministratori” nel Can. 1284, né alle categorie (più che veri concetti) giuridico-canoniche di “amministrazione ordinaria” e “amministrazione straordinaria” che il Libro V del CIC utilizza esattamente sulla base e quale conseguenza, forse inevitabile, delle due premesse sopra illustrate. Tanto più che dalla maggior parte dei canonisti esse vengono trattate come vere monadi concettuali, incapaci di dialogare ed interagire con quel mondo economico-organizzativo contemporaneo che spesso suscita i maggiori interrogativi e pone le maggiori difficoltà, soprattutto nei casi maggiormente problematici.

Allo stesso modo non risulta utile neppure il (neo-)concetto di “patrimonio stabile” degli Enti canonici al quale qualche Dicastero romano sta cercando di dare nuovo impulso sollecitando attività che, pur di per sé giuridicamente possibili in un certo numero di Ordinamenti statuali, risultano comunque inutili in molte delle circostanze giudiziarie che hanno visto sino ad ora la perdita di consistenti patrimoni ecclesiastici poiché, ad ogni effetto, si tratta di un istituto giuridico “domestico” (= intra-ordinamentale) non esportabile nei rapporti con gli Ordinamenti giuridici statuali.

2. Amministrazione e gestione: problematicità attuali

2.1 Un equivoco poco percepito

A ben vedere il problema della corretta concettualizzazione, e successiva definizione – se possibile – di “gestione” ed “amministrazione” in ambito canonistico deve fare i conti con un equivoco – comunemente ignorato dai canonisti – la cui portata è andata crescendo negli ultimi anni: quello riguardante l’ambito tecnico di trattazione o, se si vuole, il contesto al quale far riferimento nell’utilizzare i due termini. Il crescente interesse per la materia sviluppatosi da più punti di vista negli ultimi anni ha infatti creato la spiacevole situazione in cui gestione ed amministrazione, pur venendo distinte anche in modo abbastanza chiaro entro singoli ambiti disciplinari, non riescono però ad essere identificate in modo univoco e stabile a livello propriamente giuridico.

L’equivoco si è generato – all’esterno dell’ambito strettamente canonistico – tra l’approccio contabilistico (minoritario), da una parte, e quello aziendalistico (maggioritario), dall’altra, in modo che, mentre in ambito contabilistico la gestione costituisce una delle funzioni interne dell’amministrazione, nell’ambito aziendalistico, invece, vale il contrario: l’amministrazione è funzione subordinata alla gestione. La dinamica sottesa a tale contraddittorietà va ricondotta al rapporto tra la prospettiva finalistica e quella strumentale: per i contabilisti, infatti, l’amministrazione è finalistica e la gestione è strumentale, mentre per gli aziendalisti è la gestione ad implementare le finalità, mentre l’amministrazione non fa che tenere in ordine i numeri e le attività concrete.

La dialettica tra le due posizioni, di per sé ‘tecniche’, diventa maggiormente complessa a causa del progressivo affermarsi nel settore economico di due ulteriori fattori, ormai pressoché egemoni, che hanno sequestrato a sé la maggior parte delle attenzioni degli autori: strategia e trasparenza.

1) Il problema strategico ha cominciato a delinearsi in via congiunturale (e non intenzionale) quando un certo numero di Enti canonici (IVC in primis), caratterizzati da attività di notevole impegno economico (= scuole, cliniche, istituti assistenziali, ecc.), ha iniziato a chiedere aiuto ai professionisti per intraprendere revisioni o ristrutturazioni o anche solo adeguamenti delle proprie operatività in vista di un futuro più solido rispetto alle forti incertezze delle strutturazioni e funzionalità e, soprattutto rischi, del presente. Quasi inevitabilmente le domande riguardati assetti e strategie sono state poste agli specialisti di queste tematiche nel mondo dell’Economia e dell’Impresa: le Scienze e Discipline “aziendalistiche”, appunto. A poco, infatti, sembravano ormai utili i “contabili” (in genere: Commercialisti e Tributaristi) che, casomai da anni, erano già stati introdotti nelle dinamiche delle attività degli Enti, senza tuttavia offrire ‘prospettive’ dal punto di vista generale e strategico, ma contentandosi di stabilizzare numeri e Bilanci, spesso rimasti del tutto aleatori (per non dire: meramente “simbolici”) per decenni.

In tal modo, con l’entrata in scena dei nuovi protagonisti e del loro apparato concettuale e semantico, è cambiata anche la lingua parlata dai c.d. utenti finali: Economi, Superiori/Vescovi e loro Consiglieri, oltre che quella utilizzata nelle poche occasioni dottrinali ed editoriali connesse alla materia, contribuendo – non intenzionalmente ma effettivamente – a trasferire tale ambiguità anche all’ambito normativo canonico.

 

2) Il tema della trasparenza ha preso progressivamente piede negli ultimissimi decenni all’interno di un mondo economico ed imprenditoriale divenuto ormai completamente ‘societario’, in cui nessuno opera più da sé né per sé (com’era per l’imprenditore o l’artigiano del secondo dopoguerra) ma ogni attività di qualche rilievo economico va considerata di fatto commerciale in linea di principio, cosicché non solo il suo “valore” ma la sua stessa “esistenza” dipenderà dalla sua possibilità e facilità di effettivo incontro con qualcuno che sia interessato a fruirne, senza una sostanziale differenza tra “beni” o “servizi” o anche solo “attività”, in una dinamica che va ben oltre lo scambio di cose/beni (oggetto classico di compravendita) ma che spesso si concretizza in semplici “accessi” (da parte di “utenti”). Nell’attuale contesto economico globalizzato ai produttori/venditori non stanno più innanzi reali o potenziali acquirenti/clienti/utenti, ma quasi soltanto teorici “portatori di interessi” (= c.d. stakeholders) spesso completamente indifferenti rispetto all’oggetto/servizio/attività di cui si tratta, ma interessati soltanto a sue specifiche caratteristiche (= la provenienza, la sostenibilità, l’identità del produttore, l’eticità, ecc.). Ne è derivata una dinamica attenta alla “trasparenza”, intesa come identificabilità e tracciabilità di soggetti e processi intervenienti (o intervenuti) nella produzione dell’oggetto/servizio/attività in questione, al di là delle materie delle quali si tratti, assistenza e beneficienza incluse. La tematica (e problematica) sta assumendo valore crescente per gli Enti ecclesiali, a partire da quelli che principalmente devono rapportarsi col ‘pubblico’, soprattutto per quanto concerne la loro sussistenza economica (= offerte, donazioni, sovvenzioni, ecc.)… non esclusa la stessa Santa Sede, profondamente impegnata in questi anni a raggiungere e consolidare standard ormai indiscutibili anche soltanto per non restare esclusa dal mondo economico e finanziario occidentale. Proprio la trasparenza costituisce ormai uno dei fattori di maggior interesse nell’ambito economico, ponendo un particolare accento su ciò in cui consiste, alla fine, la gestione, ben più che l’amministrazione.

La questione assume uno specifico rilievo nell’ambito canonistico per il fatto che, mentre la letteratura in materia si sta progressivamente sbilanciando in chiave aziendalistica, la prospettiva più specificamente giuridica è connaturalmente più legata a quella contabile con la quale s’interfaccia continuamente, vista la vera “dipendenza” del Diritto commerciale e tributario da tali Discipline scientifiche.

2.2 Prospettiva aziendalistica: gestione come strategia

Nel nuovo millennio le tematiche connesse all’uso dei beni ecclesiastici (in modo particolare degli Istituti religiosi e delle Diocesi) stanno progressivamente subendo un sensibile slittamento verso gli approcci più tipici dell’Economia aziendale, secondo la quale la “gestione” va essenzialmente intesa in termini di strategia operativa dell’Impresa e di quanto riguarda sia le sue attività dirette (ed indirette) che i suoi “proprietari/titolari” (Soci, Azionisti, ecc.) ed i ‘risultati’ da conseguire.

Una tal prospettiva, in effetti, non trova limitazioni di principio all’applicazione anche agli Enti canonici, in nulla diversi – sotto questo profilo – dagli ‘altri’ proprietari/titolari… tanto più che il mondo dell’Impresa è sempre più popolato di soggetti diversi dall’imprenditore in senso tradizionale (= il singolo che “imprende”) e vede come protagonisti non soltanto soggetti “for profit” (Società per Azioni, multinazionali, ecc.) ma anche molti soggetti istituzionali, oltre a quelli appartenenti all’ormai amplissimo orizzonte del “non profit” (c.d. Terzo settore – in Italia –, Fondazioni, ecc.). Per tutte queste attività si pone ormai da anni non solo il tema della capacità di ‘stare sul mercato’ o almeno di ‘reggere il mercato’ producendo utili anno per anno o intercettando adeguati finanziatori ma, molto maggiormente, di progettare il proprio ‘mercato futuro’, attraverso la predisposizione di adeguate “strategie” pluriennali d’azione (nell’ottica dei c.d. Piani industriali, di cui si occupa in primis l’Economia aziendale) capaci di coordinare ed integrare l’attività svolta quotidianamente con l’orizzonte più ampio nel quale la stessa è collocata, o deve o vuole esserlo.

Utile – e necessaria per gli Enti canonici – è anche l’attenzione (strategica) ai proprietari/titolari di strutture ed attività ed alla loro volontà di modulare la qualità e quantità del proprio coinvolgimento nella concreta attività svolta a livello ‘aziendale’: le varie possibili trasformazioni del c.d. assetto (istituzionale/societario) che permettano, p.es., di mantenere il controllo sostanziale dell’attività (e conseguirne i profitti finanziari) senza però mettere in gioco il proprio patrimonio individuale, tenuto conto anche di interventi normativi statali volti a mutare “per Legge” l’identità stessa di specifici soggetti aziendali.

L’apporto specifico dell’approccio aziendalistico, inoltre, assume ulteriore e peculiare importanza per gli Enti canonici in quanto strutturalmente interessati allo svolgimento delle attività come tali (le c.d. Opere), come avviene in generale per il non profit, ben prima che al beneficio economico che possa derivarne per l’Ente stesso (= attività for profit) il quale spesso, addirittura, finanzia tali attività intaccando il proprio patrimonio. Non solo, pertanto, l’importanza dell’approccio strategico non va misconosciuta né disattesa, ma dev’essere sempre maggiormente incrementata, anche in ambito ecclesiale/canonico.

Questo, tuttavia, non basta per la riflessione giuridico-canonistica in tema di “gestione” ed “amministrazione” poiché l’approccio aziendalistico, considerando la “gestione” essenzialmente in termini di management o, meglio ancora di governance, ne sollecita – e costruisce – una concezione che, di fatto, “contiene” l’amministrazione (intesa come semplice “unità operativa”, sostanzialmente ridotta alla mera contabilità, quando si parla di beni), come ben si legge in ambito “aziendalistico”: «L’amministrazione (anche quando essa è di qualità) non è più sufficiente anche per gli Enti ecclesiastici, poiché essa ha natura sostanzialmente formale e procedurale». In particolare:

«Il Bilancio di esercizio nasce nell’economia dell’Azienda come strumento a supporto della gestione e non come adempimento. […] Inoltre il Bilancio di esercizio non è uno strumento che può essere appannaggio dei soli Organi amministrativi. Questa è l’impostazione formale e giuridico-amministrativa, ma non quella gestionale oggi necessaria».

Proprio tale Bilancio, poi, in riferimento agli Enti canonici viene indicato come «un documento redatto dagli ‘Amministratori’, ma non è detto che essi (insieme all’Economo/a) siano sempre i migliori interpreti dello stesso in chiave gestionale».

Quanto questa prospettiva risulti concretamente estranea all’intero impianto teoretico sotteso al Diritto canonico in materia di beni ecclesiastici non lascia dubbi; allo stesso modo di quanto possa risultare problematica per una corretta ed efficace concettualizzazione canonistica di gestione ed amministrazione.

Un conto, infatti, è far crescere l’approccio strategico nella sua valenza e portata ‘politica’ (= volontà di specifico futuro), un conto del tutto diverso è usare questo criterio per delineare cosa siano amministrazione e gestione.

2.3 Prospettiva contabilistica e giuridica: gestione come corretto funzionamento

Come già anticipato, la prospettiva contabilistica (e giuridica strutturalmente connessa) si muove in tutt’altra direzione prospettando la “gestione” come funzione subordinata e parziale della “amministrazione”: presupposto strutturale per il funzionamento corretto, efficace ed efficiente degli Enti canonici, cosicché passo dopo passo (Esercizio dopo Esercizio, Bilancio dopo Bilancio) le loro attività corrispondano alle intenzionalità e finalità dei loro promotori (= gli Enti canonici stessi), realizzando nell’oggi gli scopi fondativi e preparandosi a continuarne la realizzazione anche nel futuro. A nulla varrebbero, d’altra parte, le grandi idealità e ‘strategie’ se lo stesso fatto di esistere ed operare nel presente pregiudicasse strutturalmente il futuro a causa dell’assunzione di costi ed obbligazioni che compromettono il patrimonio dell’Ente… e, con ciò, la sua stessa esistenza (almeno entro i confini giuridici di singoli Stati).

Si tratta, in altri termini, di prendere atto che le concrete problematiche con cui gli Enti canonici si confrontano (o scontrano) quotidianamente non riguardano affatto l’ottimalità del “futuro strategico” – ben difficilmente prescrivibile in sede normativa (!) –, ma la gravissima insufficienza di un “presente tecnico” ancora incapace di riconoscere e concretizzare dal punto di vista giuridico – e quindi normativo – differenze tecniche strutturali come quelle che intercorrono tra amministrazione e gestione, oppure: Bilancio e Rendiconto, o ancora: controllore e controllato, ecc. che non riguardano qualche Parrocchia soltanto o qualche Convento, ma fin anche la stessa Santa Sede, nell’attuale assenza di concettualizzazioni tecnicamente adeguate.

In questa prospettiva, per la concettualizzazione che qui ci occupa, va considerato che dal punto di vista delle Scienze contabili l’amministrazione «comprende sia l’adozione delle scelte strategiche generali sia il compimento delle singole operazioni gestorie», dove per gestione (o attività gestoria) s’intende, in linea di principio, soltanto «il complesso delle operazioni economico-finanziarie relative a un’attività aziendale»; complesso di operazioni che, in quanto parziale (poiché solo economico-finanziario) e concretamente delimitabile (= soltanto “attività”), potrebbe anche essere affidato ad altro soggetto rispetto all’Amministratore: il “Gestore”, appunto, come sono identificati in genere gli Economi nel Diritto canonico.

Di tutt’altro parere chi (in prospettiva, ormai, aziendalistica – sic) ritiene invece che si possa

«parlare in generale della “gestione” dei beni ecclesiastici e, al suo interno, dell’amministrazione di essi, intesa come quella parte necessaria della gestione che comporta la presa di decisioni più importanti, la responsabilità ultima della destinazione dei beni ai fini della persona giuridica che ne è titolare, la programmazione, ecc. Quindi, secondo questo approccio pratico, ogni atto di amministrazione dei beni è un atto di gestione (di “alta” gestione), ma non tutti gli atti di gestione sono anche atti di amministrazione».

La distinzione, utile dal punto di vista canonico, si fonda proprio nella possibilità di scorporare un certo tipo di “operazioni” rispetto alle “scelte” che le hanno determinate: una certa operatività parziale, rispetto all’intenzionalità globale sottostante. È questo che – probabilmente – ha portato il Legislatore canonico ad imporre ex Lege la presenza di Gestori (chiamati “Economi” nel Libro II del CIC) per i livelli maggiori di organizzazione degli Enti canonici: Diocesi, Seminari, Istituti religiosi e loro Province, mentre per le altre realtà minori (dal punto di vista istituzionale) si è concretamente presupposto che l’esiguità delle operazioni gestorie non ne richiedesse lo scorporo obbligatorio ma potessero permanere entro la normale attività di amministrazione degli Enti.

In questa prospettiva occorre tener conto che il rapporto tra amministrazione e gestione non è meramente operativo, cosicché la prima “contenga” e “comporti” la seconda. Tale rapporto, infatti, è – prima di tutto ed essenzialmente – un rapporto di espressa natura giuridica, guidato dall’effettiva portata legale degli istituti giuridici coinvolti i quali, di fatto, riconducono ai soli Amministratori propriamente detti (e fissati per Legge – cfr. Can. 1279) la titolarità capitale delle funzioni, visto che: «L’amministrazione appartiene al governo»! «Amministrare [infatti – ndr] significa disporre dei beni, e implica l’esercizio del diritto di dominio», individuando nell’amministrazione l’attività che, prima di tutto ed essenzialmente, esercita il dominio sui beni: l’attività, cioè, che “crea” la volontà strategica dell’Ente stabilendo “se” (“cosa”, “chi”, “quanto”) comprare, vendere, intraprendere, dismettere, investire, locare, restaurare, ampliare, manutenere, assumere, ecc. Corrisponde, infatti, alla peculiarità più radicale del dominus l’affermazione sostanziale della voluntas circa le res di cui si tratta:

«La administración de los bienes en sí es un derecho que corresponde al “dominus” de las cosas. […] El proprietario – el dueño – es quien de por sí administra sus bienes, dispone de ellos, puede además encomendar la administración de los mismos a otra persona».

È fermo nella dottrina giuridica che l’amministrazione, in quanto potere, “consiste nel potere di decisione”, senza che in nulla rilevi l’identità del proprietario (persona fisica o giuridica, pubblica o privata) dei beni dei quali si tratta. Dal punto di vista espressamente canonistico è questa voluntas che costituisce il vero fulcro della materia.

Nondimeno si consideri che quanto aziendalisticamente si tende a chiamare “gestione” (v. supra) in realtà viene realizzato dai Consigli d’amministrazione o dagli Amministratori delegati: principali (quando non anche unici) responsabili e depositari delle strategie sia di Bilancio che di sviluppo (= strategic management/governance), mostrando l’effettiva differenza ed irriducibilità della figura dell’Amministratore rispetto a quella del Gestore: differenza che richiede ‘rispetto’ e continuità concettuale, oltre che semantica, anche nella scelta dei verbi (amministrare vs. gestire) e nelle astrazioni concettuali (amministrazione vs. gestione).

3. Possibili apporti teoretici dal Diritto civile (italiano)

3.1 Ambito civilistico generale

Poiché il sommario incontro con le Discipline aziendalistiche e contabilistiche nel loro complesso ha confermato, di fatto, le difficoltà – non solo/tanto canonistiche – a focalizzare sufficientemente la distinzione tra amministrazione e gestione, risultando insufficienti per offrire elementi adatti ad una loro – pur iniziale – concettualizzazione, il giurista ecclesiale può (o, forse, deve) legittimamente rivolgere – ora – la propria attenzione all’orizzonte giuridico più ‘generale’ per verificare la presenza di eventuali elementi – espressamente giuridici – utili ad indirizzare a plausibile risoluzione, la problematica in oggetto, sebbene in via soltanto euristica (= ispirazione) e non emulativa (= copiatura), data la radicale differenza ed irriducibilità tra gli Ordinamenti giuridici considerati.

Di fatto – seppure contro le attese più immediate (sic) – è necessario constatare come lo scenario giuridico generale in materia non muti passando dall’ambito canonico a quello civile, dovendosi prendere atto che il riferimento teoretico ai concetti di amministrazione e gestione anche nel Diritto statuale contemporaneo non porta immediati vantaggi alla problematica canonistica. Si legge, infatti, indirettamente:

«Autorevoli studi hanno mostrato che il temine “gestione” denota “l’attività spiegata in funzione dello svolgimento dell’iniziativa economica dell’imprenditore”, predeterminata nell’ambito e nei criteri del suo svolgimento; al di fuori di questi limiti la gestione “abbraccia l’intero esercizio dell’Impresa, senza esclusione di alcuna categoria di atti”. Il termine, pur con qualche incertezza, viene usato come sinonimo di amministrazione; sicché, per questa accezione, partecipare alla gestione (straordinaria) equivale ad esercitare l’Impresa. Sul piano aziendalistico il termine designa un “coordinato compimento di funzioni gestionali che si traducono in operazioni tipiche, mediante le quali l’Azienda (leggasi Impresa) consegue la sua durevole efficienza”. La gestione denota, per la Ragioneria aziendale, l’aspetto organizzativo dell’Azienda, ossia le funzioni operative, distinte in iniziali, continuative e terminali; e tale gestione si accentra, quanto alle responsabilità decisionali, nell’Organo volitivo aziendale. Trasponendo questa nozione tecnica di gestione sul piano giuridico, può affermarsi che nell’Impresa familiare la gestione dovrebbe essere comprensiva dell’organizzazione iniziale, continuativa, terminale, spettante quanto alle decisioni volitive ai familiari. […] Il quadro non è ancora completo se non si fa riferimento anche agli atti di amministrazione ricondotti, secondo l’opinione corrente, alla gestione, mentre non manca chi distingue tra gestione ed amministrazione».

Di fatto, si assiste in materia ad una vera latenza di cui è chiara testimone la scarsa consistenza che gli stessi termini/concetti mostrano in ambito giuridico civilistico, laddove le maggiori opere giuridiche generali (spesso in decine di volumi) non conoscono né la voce “amministrazione” né la voce “gestione” come tali, dovendocisi accontentare di quanto scritto (indirettamente) ormai sessant’anni orsono, in termini non dissimili dalle concettualizzazioni canoniche già incontrate:

«Si può dire in generale che amministrare consiste in un’attività diretta allo scopo di ricavare la ragionevole utilità dagli elementi che compongono il patrimonio senza che ne diminuisca il complessivo valore sostanziale. L’attività di amministrazione è pertanto diretta ad un compito di varia natura che comprende quanto è necessario al fine descritto; i singoli atti, a lor volta, possono essere diretti alla custodia, allo sviluppo, all’alienazione dei vari elementi patrimoniali che ne compongono l’oggetto».

Ad ogni buon conto: la ricerca attraverso differenti ambiti normativi ed istituti giuridici più espressamente orientati ad una strutturale amministrazione e/o gestione di patrimoni, prima che di persone, potrà offrire elementi di attenzione e di rilievo utili ad approfondire la tematica, arricchendo la riflessione con ciò che l’esperienza giuridica civile, sia plurisecolare che contemporanea, è stata in grado di mettere a fuoco sul delicato tema.

3.2 Diritto societario

Guardando – per mera comodità esplorativa – al Diritto italiano, la preponderanza degli elementi giuridicamente significativi in tema di amministrazione e gestione può essere indirettamente rintracciata nelle Norme del Codice civile in materia di “Società per Azioni” che, essendo le maggiormente strutturate dal punto di vista normativo a causa della loro complessità, esprimono di fatto il maggior sforzo anche concettuale sul tema. Uno sforzo che, tuttavia, richiede ancora forti mediazioni poiché il Codice parla di “Amministratori” anziché di “amministrazione”, mentre gli autori, nondimeno, utilizzano la categoria “amministrazione” in modo del tutto generico per indicare e raggruppare ‘altri’ elementi e fattori.

La cautela già illustrata nei confronti dell’approccio aziendalistico trova immediate ricadute nell’approfondire la prospettiva espressamente giuridica della distinzione e relazione tra amministrazione e gestione in quanto “attività”, evidenziando la necessità di un approccio appropriato e non generico: tecnico-giuridico e non semplicemente tematico. A tal fine le disposizioni degli Artt. 2325-2451 del Codice civile, offrono elementi significativi e concettualmente adatti allo scopo, facilmente fruibili anche a livello canonistico.

a) La prima evidenza conferma le difficoltà già anticipate circa la sostanziale non-formalizzazione terminologica e concettuale della materia, alla quale si unisce l’ampiezza della radice semantica “gestire/gestione” nel linguaggio non-tecnico utilizzato anche dai diversi Legislatori. Si legge così che «la gestione dell’Impresa spetta esclusivamente agli Amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale» (Art. 2380-bis): un’affermazione che non offre alcuna distinzione tra gestione in senso tecnico ed amministrazione propriamente detta. Nondimeno: «Se lo Statuto o l’Assemblea lo consentono, il Consiglio di amministrazione può delegare proprie attribuzioni ad un Comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti» (Art. 2381), i c.d. Amministratori delegati i quali, però, non svolgono l’amministrazione come tale e neppure la gestione dell’Art. 2380-bis, ma soltanto determinate funzioni “esecutive”. Tanto più che

«il Consiglio di amministrazione determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega; può sempre impartire direttive agli Organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della Società; quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della Società; valuta, sulla base della relazione degli Organi delegati, il generale andamento della gestione» (Art. 2381).

Ne deriva la possibilità d’individuare un insieme di funzioni ed attività che ‘concentrano’ in sé il concreto funzionamento dell’Impresa in vista dei risultati perseguiti dalla Società: funzioni complesse ma parziali che non coincidono con l’intera amministrazione della Società stessa. A ciò si aggiunga che una parte delle “attribuzioni” native e generali degli Amministratori non possono essere delegate (v. infra). Si tratta di pochi elementi – non specificamente tecnici – dai quali, tuttavia, è sostanzialmente possibile delineare – principalmente per esclusione – una figura/funzione di “Gestore”.

 

b) Il tema delle attribuzioni non delegabili da parte del Consiglio di amministrazione permette di evidenziare ciò che compete agli Amministratori come tali nella loro funzione più peculiare (e perciò individuativa e concettuale) e quanto, invece, può essere affidato a diverse figure meramente operative riconducibili, ancora una volta, al “Gestore”.

Significativamente, ai fini dell’individuazione tecnica della (attività di) gestione rispetto alla più ampia (attività di) amministrazione, va osservato come le attribuzioni non delegabili siano esattamente quelle che ricadono con immediatezza sul patrimonio. Tali sono, infatti: l’emissione di obbligazioni convertibili (cfr. Art. 2420-ter), la redazione del Bilancio (cfr. Art. 2423), l’aumento di capitale (cfr. Art. 2443), la riduzione del capitale per perdite (cfr. Art. 2446) e la riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale (cfr. Art. 2447). A queste attività espressamente patrimoniali se ne uniscono altre due che, di per sé, mettono in discussione la stessa identità e/o esistenza della Società come tale: i progetti di fusione o di scissione (cfr. Artt. 2501-ter e 2506-bis).

 

c) Un terzo approccio rilevante a livello concettuale è quello che considera la possibile strutturazione delle Società secondo i sistemi c.d. dualistico o monistico, evidenziando nel primo la costitutiva distinzione – e disgiunzione – tra le funzioni “di gestione” e quelle “di sorveglianza” (affidate a due differenti Consigli) mentre nel secondo il Consiglio di amministrazione opera attraverso un “Comitato esecutivo” affiancato da un “Comitato per il controllo” sulla gestione (cfr. Art. 2409-octiesdecies). Facile dedurne che le funzioni del “Consiglio di gestione” e del “Comitato esecutivo” siano del tutto assimilabili e, soprattutto, che si tratti – dal punto di vista tecnico – di gestione e non di amministrazione propriamente detta.

 

d) Secondo l’Art. 2381, inoltre,

«gli Organi delegati curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’Impresa e riferiscono al Consiglio di amministrazione e al Collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo Statuto e in ogni caso almeno ogni sei mesi, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla Società e dalle sue controllate».

Una disposizione che individua con chiarezza l’importanza del concreto “assetto organizzativo, amministrativo e contabile” dell’Impresa condotta dalla Società: assetto riconducibile al concetto di gestione dal punto di vista tecnico. Lo stesso comma, nondimeno, pone in espressa evidenza anche il concetto di “andamento della gestione” di cui gli Organi delegati (= i Gestori) devono dar periodicamente conto agli Amministratori come tali.

 

e) Anche il riferimento del tutto generico dell’ultimo comma dell’Art. 2381 alle “informazioni relative alla gestione della Società” che «ciascun Amministratore può chiedere agli Organi delegati» si riferisce palesemente al summenzionato “andamento della gestione”; in caso diverso, infatti, tali informazioni riguarderebbero la stessa attività di amministrazione propriamente detta che il Consiglio stesso svolge in prima persona, e pertanto conosce direttamente.

In questo modo il quadro che emerge in ambito societario risulta chiaramente distribuito su tre livelli differenti di operatività: quello deliberativo, quello amministratorio e quello gestionale, secondo una struttura gerarchica che vede il “dominio” (romanisticamente inteso) concentrato ed esercitato unicamente al livello deliberativo: è infatti l’Assemblea che elegge gli Amministratori, conferisce loro il relativo incarico, ne approva l’operato – principalmente attraverso l’approvazione del Bilancio da loro redatto –, aggiungendo, se del caso, specifici ulteriori compiti/deleghe a livello finalistico. Gli Amministratori, poi, sono tali proprio perché non operano su res propriæ con pieno potere dispositivo uti domini, ma su res alienæ. Gli Amministratori, inoltre, di solito non svolgono direttamente l’intera attività necessaria al funzionamento dell’Impresa ma la demandano, a vario titolo, a soggetti (personali o plurali) che si occupano della messa a regime di ciò in cui, alla fine, consiste l’Impresa stessa: ciò di cui si occupano le Scienze gestionali o dell’organizzazione entro un dominio/ambito epistemologicamente diverso da quelle aziendalistiche.

Sebbene una tale struttura non abbia un’immediata riferibilità all’ambito canonico, tuttavia l’individuazione delle tre specifiche funzioni connesse all’attività dell’Ente (imprenditoriale in questo caso) risulta certamente utile. Distinguere, infatti, dal punto di vista tecnico deliberazione, amministrazione e gestione amplia le prospettive ermeneutiche ed euristiche alle quali riferirsi in materia, aprendo, p.es., la possibilità d’individuare – seppure soltanto per gli Istituti religiosi – la funzione deliberante nei Capitoli, quella amministratoria nei Superiori maggiori, quella gestionale negli Economi. Per i c.d. Enti gerarchici, invece, il cammino da compiere resta ancora lungo poiché la loro estrema giovinezza (= CIC 1983) rispetto al millennio del sistema beneficiale li ha resi – di fatto – poco più che “sperimentali”, sebbene l’Ufficio ecclesiastico capitale in essi esercitato unifichi nella stessa persona fisica sia la deliberazione che l’amministrazione (da cui il facile uso canonistico di “Amministratore unico” per Vescovo e Parroco, in primis).

3.3 Altri apporti civilistici pertinenti

Ai contributi maggiormente espliciti offerti dal Diritto societario possono affiancarsi anche quelli, per nulla inferiori quanto a portata e significatività concettuale, derivanti da altri ambiti civilistici e che si riferiscono ad istituti giuridici in qualche modo connessi alla problematica della gestione ed amministrazione di beni economici, sebbene da punti di vista anche molto diversi, che non sempre offrono riconducibilità immediate, soprattutto terminologiche.

In particolare sarà necessario far tesoro della preziosa tripartizione già emersa: gestione, amministrazione, deliberazione, così da seguire – e verificare – la reale ‘traccia’ concettuale della ricerca, anziché quella meramente semantica. Si tratterà, infatti, di leggere le attribuzioni proprie di tutte le figure di Amministratore/amministrazione nella consapevolezza che la maggior parte di esse non si colloca affatto né a livello deliberativo, né amministratorio, ma – e lo si vedrà con chiarezza – meramente gestorio.

a) Addentrandosi nel Diritto commerciale un primo tornante significativo per la concettualizzazione a cui si sta lavorando è costituito dalla “amministrazione di fatto”, quale «interferenza di un soggetto terzo, privo della veste formale di Amministratore, nella gestione della Società»: tematica più pratica che espressamente normativa, ma concettualmente significativa poiché capace di esplicitare – sebbene in modo indiretto – ciò in cui consiste la sostanzialità dell’amministrazione (rispetto ad una mera gestione) facendo leva su «elementi quali la tipicità e la sistematicità dell’attività […] posta in essere e la totale assenza di subordinazione», rinvenibili principalmente nella

«sussistenza di un tipo di attività che per la pluralità, la sistematicità, il coordinamento funzionale complessivo e la natura stessa degli atti esercitati costituisce indice sicuro dell’effettivo esercizio dell’attività gestoria, in via del tutto autonoma ed anzi sovraordinata rispetto al soggetto che risulta formalmente investito dell’incarico di Amministratore».

È da segnalare, nel caso, la particolare importanza attribuita all’upgrade – sebbene solo fattuale – dall’attività svolta all’interno dell’Impresa (o ad un ramo soltanto della Società) a quella svolta in seno alla Società come tale alla quale l’Impresa fa capo: un salto che non è puramente operativo o funzionale ma che muta effettivamente la portata dell’intervento, in termini di ‘profondità’ ed ‘ampiezza’, mostrando il passaggio dalla mera gestione (commissoria e parziale) all’amministrazione (autonoma e globale) vera e propria. Un’amministrazione identificabile col fatto che

«il soggetto tenga comportamenti costanti e significativi di esercizio dei poteri caratteristici delle funzioni amministrative, con atti autonomi e plurimi, realizzando funzioni di alta amministrazione, capaci di incidere sulle prospettive finanziarie e commerciali dell’Impresa. Tra dette funzioni deve considerarsi in primo luogo il controllo della gestione sotto il profilo contabile e amministrativo, oltre all’attività di gestione stessa, intesa sia quale organizzazione interna che esterna, con riguardo alla formulazione di programmi, alla selezione delle scelte e all’emanazione delle direttive necessarie alla loro attuazione».

Particolarmente significative a livello concettuale sono proprio le accennate funzioni di “alta amministrazione”, ben diverse da meri «atti di gestione corrente o circoscritti a specifici rami dell’Azienda»:

«Ad essa sono infatti causalmente connesse tutte quelle competenze di carattere organizzativo e strutturale, l’assunzione delle quali sembra ora costituire un elemento confermativo ai fini della configurazione di un’amministrazione di fatto, ora di per sé idoneo a qualificare le stesse quali “atti tipici” dell’Amministratore di fatto».

b) Il Diritto commerciale offre ulteriori spunti ed elementi attraverso un altro approccio alla materia, questa volta in chiave lavoristico-previdenziale in relazione alla necessità di chiarire se esista – e nel caso, in cosa consista – un “rapporto di amministrazione” e, più ancora, uno specifico “rapporto di lavoro” che leghi contrattualmente Società ed Amministratori, laddove comunque tali Amministratori siano quelli “chiamati” a svolgere tale attività all’interno della sopraddetta triade: decisione, amministrazione, gestione, come avviene per le Società di capitali e per Azioni, o in tutte quelle nelle quali ‘proprietà’ ed amministrazione non coincidono. La specificità della tematica offre pochi elementi dai quali ricevere ausilio nella ricerca, sebbene – ancora una volta indirettamente – risaltino in modo cristallino le attribuzioni indubitate del ruolo di Amministratore, e di esso soltanto, preclusive come tali rispetto ad altri rapporti giuslavoristici. Innanzi, p.es., alla sussistenza del requisito di subordinazione (situazione effettivamente riscontrabile in alcune forme di tipo contrattuale) quale elemento tipico qualificante del rapporto intrapreso, occorre prendere senz’altro atto che proprio

«tale requisito consiste nell’effettivo assoggettamento, nonostante la carica di Amministratore rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’Organo di amministrazione della Società nel suo complesso, cosicché sia riscontrabile la formazione della volontà imprenditoriale in modo autonomo rispetto a quella del predetto Amministratore, ed in guisa da rendere evidente l’esistenza di un centro di imputazione delle decisioni direttive dell’Azienda diverso e superiore, anche gerarchicamente, a quello dell’Amministratore medesimo».

Un tale assetto in effetti configurerebbe una situazione puramente nominalistica anziché di reale amministrazione, tanto più che, proprio in ragione di ciò in cui consiste essenzialmente il ruolo di Amministratore,

«la qualifica di Amministratore unico di una Società non è ritenuta compatibile con la condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della stessa Società, stante l’immedesimazione in un unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e quella di unico Organo competente ad esprimerla».

c) Passando al Diritto privato, occorre evidenziare tra le forme regolamentate di “amministrazione” di beni quella che si rivolge ai beni ereditari, sia immediatamente, che attraverso l’apposita figura processuale del Curatore dell’eredità giacente. Indipendentemente dalle diverse e peculiari attribuzioni proprie di ciascun interveniente, risultano proficue per la ricerca in corso le principali fattispecie operative tipizzate per la materia: le attività di c.d. vigilanza, conservazione ed amministrazione temporanea, utili ad individuare più una gestione che un’amministrazione propriamente intesa. Concretamente: mentre la vigilanza viene indicata come accertamento delle cause di possibile pregiudizio allo stato giuridico e all’integrità dei beni, la conservazione tende ad evitare «un pericolo attuale di danno che possa derivare da una modificazione dello stato giuridico o della sostanza dei beni». L’amministrazione temporanea, dal lato proprio, ha «lo scopo di mantenerne integri il valore economico e la capacità produttiva», sia dal punto di vista operativo (come il «procedere alla riparazioni necessarie ad impedire il deperimento dei beni») che anche solo giuridico (= tutela giudiziale).

Tutte attività palesemente finalizzate al consolidamento della funzionalità intrinseca dei beni dei quali si tratta, coerentemente con la miglior comprensione del concetto di gestione.

 

d) Contributo utile alla tematizzazione in corso è anche quello derivante dall’istituto dell’“amministrazione controllata”, sebbene essa non costituisca una modalità tipica né di amministrazione né di gestione ma una “procedura giudiziaria civile” attraverso la quale «la gestione dell’Impresa […] sia esercitata, sotto il controllo giudiziario e creditorio, dallo stesso imprenditore oppure da un Commissario giudiziale». Una “gestione d’Impresa” che coincide, di fatto, col suo solo funzionamento tipico in esecuzione di quanto già deliberato da altri (= il Giudice, nel caso), dovendosi e potendosi semplicemente dare corso alla contrattualistica (= acquisti, vendite, lavoratori dipendenti) e alle attività produttive e commerciali già validamente intraprese. Significativa risulta in merito la distinzione tra “amministrazione del patrimonio del debitore” (tutelato – staticamente – in prospettiva di garanzia di solvenza residua) e “gestione della sua Impresa”, volta al proseguimento dell’attività produttiva e commerciale in cui consiste l’Impresa stessa.

Pochi, ma significativi, gli elementi utili alla riflessione in corso, riguardanti principalmente gli effetti per il precedente Amministratore ridottosi però a mero Gestore:

«Egli conserva l’amministrazione del suo patrimonio e la gestione dell’Impresa – salvo l’ipotesi di gestione commissariale […] – sotto la direzione del Giudice delegato e la vigilanza del Commissario giudiziale. […] Il debitore non deve compiere atti di straordinaria amministrazione (come, p.es., mutui, transazioni, compromessi, alienazioni di immobili, ecc.) senza l’autorizzazione scritta del Giudice delegato: qualora tali atti siano posti in essere dal debitore senza detta autorizzazione, essi sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori all’amministrazione controllata».

Utile, ancora una volta, la specifica circa l’identificazione della amministrazione straordinaria – esclusiva dei soli Amministratori pleno Iure –: «Per giudicare dell’appartenenza dell’atto alla categoria di quelli di straordinaria amministrazione è necessario poter ravvisare in quello una anormalità rispetto allo scopo della gestione e all’entità del patrimonio».

e) Rimanendo entro i confini dell’ambito processuale civile può essere considerato un altro istituto giuridico funzionalmente non troppo distante dall’amministrazione controllata (di un’Impresa): la “amministrazione di sostegno” (di una persona fisica) quale «istituto diretto a proteggere “con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana”». Il riferimento a tale istituto permette di porre bene in luce uno dei fattori portanti nell’individuazione del concetto di gestione: l’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. A tale fattore, che potrebbe esser individuato come ‘oggettivo’, se ne deve tuttavia affiancare immediatamente un secondo – di portata ‘soggettiva’ – riguardante il fatto che l’Amministratore di sostegno viene investito di poteri da esercitare «nell’esclusivo interesse del beneficiario. [...] Il Legislatore ha espressamente posto in capo all’Amministratore stesso, il dovere di tenere conto, nello svolgimento dei suoi compiti, dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario». Tale specifica evidenzia con chiarezza uno degli elementi tipici e peculiari della gestione, rispetto all’amministrazione: l’attuarsi in bono aliorum, «nell’esclusivo interesse del beneficiario»; interesse – si badi bene – non generico ed impersonale (qualunquistico) ma strutturalmente connesso a “bisogni ed aspirazioni” dello specifico beneficiario. Trattasi di un apporto che ricade in modo irrinunciabile sul concetto di gestione: il Gestore, infatti, deve perseguire uno specifico interesse altrui, secondo la altrui intenzionalità.

Di particolare rilievo concettuale risulta pure il c.d. oggetto di tale attività, che il Giudice deve fissare nel proprio Decreto di istituzione dell’Amministratore: si tratta degli atti

«che l’Amministratore può compiere in nome e per conto del beneficiario, nonché quelli che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’Amministratore; i limiti, anche periodici, delle spese che l’Amministratore di sostegno può sostenere utilizzando somme nella disponibilità del beneficiario; la periodicità con cui l’Amministratore deve riferire al Giudice circa la attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario».

 

È questo un ulteriore apporto a livello concettuale poiché ne emerge un fattore costitutivo rimasto sin qui in penombra: il Gestore – a differenza del mandatario – utilizza beni altrui! Beni che appartengono allo stesso beneficiario della sua attività, circa i quali non gode di piena libertà e discrezionalità, dei quali deve rendere periodicamente conto a chi gli ha conferito l’incarico ed ai quali potrebbe anche poter accedere soltanto in misura prestabilita e periodizzata. Fuori campo, ma non fuori tema, le questioni – del tutto naturali, date le circostanze – della necessaria identificazione di un’area di disposizione giuridico-economica sottratta all’Amministratore stesso (= l’amministrazione straordinaria), oltre alla necessaria limitazione del c.d. potere di rappresentanza nei confronti del beneficiario, anch’essa disposta dal Giudice caso per caso.

f) A chiusura di quanto sin qui illustrato è necessaria una considerazione – cautelativa, questa volta – circa un ulteriore istituto giuridico: la aliorum negotiorum gestio, attraverso la quale un soggetto capace di agire assume, senza però esservi obbligato, la gestione di uno o più affari di un altro soggetto non in grado di provvedervi. In merito va osservata la non pertinenza di tale istituto giuridico con il tema in oggetto, trattandosi di una mera suggestione fonetica (= falso amico) poiché, non solo tale “gestione” non risulta in alcun modo ‘commissoria’, ma pure ha come presupposto – sebbene non esclusivo – l’altrui impossibilità di provvedere (nel proprio interesse): due fattori che difficilmente potranno risultare integrabili nel quadro teorico e concettuale di gestione di beni in rapporto alla loro amministrazione. Non va neppure taciuta l’assenza di riferimenti (e riferibilità) ad una eventuale amministrazione straordinaria, poiché «qualsiasi affare, purché lecito, è passibile di utile gestione». Va inoltre considerato che tale attività rileva giuridicamente per due profili sostanziali completamente estranei alla materia in trattazione: 1) in quanto fonte di (auto-)obbligazione, visto che “chi l’assume è tenuto a continuarla e portarla a termine”, 2) in quanto fonte di obbligazione non pattuita ma effettivamente tale quanto al necessario rimborso dei costi. Elementi, entrambi, di assoluta non riconducibilità al concetto di “gestione” qui in elaborazione.

4. Per concludere

L’ampio giro d’orizzonte giuridico generale, più che propriamente comparatistico, sin qui effettuato suggerisce ormai in modo sufficientemente chiaro che cosa possano essere “gestione” ed “amministrazione” dei beni economici, anche ecclesiastici, senza sembrar richiedere di spingersi più oltre. Basterà pertanto riprendere alcuni elementi fondamentali tra quelli già illustrati, augurandosi non solo che i canonisti riescano a far tesoro delle nozioni proposte, ma che ne sviluppino pure di complementari (o anche migliori) a beneficio anche dei Legislatori canonici.

4.1 Individuazione del concetto di amministrazione

Dal punto di vista di principio, l’amministrazione è l’attività che, prima di tutto ed essenzialmente, esercita il dominio sui beni, poiché risponde alla peculiarità più radicale del dominus: l’affermazione sostanziale della voluntas circa le res di cui si tratta; in tal modo: l’amministrazione, in quanto potere, consiste nel potere di decisione. «Amministrare – infatti – significa disporre dei beni, e implica l’esercizio del diritto di dominio».

Dal punto di vista operativo.

- L’amministrazione si caratterizza per «la tipicità e la sistematicità dell’attività posta in essere e la totale assenza di subordinazione»;

- si tratta di un’attività caratterizzata da pluralità, sistematicità, coordinamento funzionale complessivo, in via del tutto autonoma, oltre che dalla tenuta di comportamenti costanti e significativi di esercizio dei poteri caratteristici delle funzioni amministrative, con atti autonomi e plurimi, realizzando funzioni di “alta amministrazione” (cioè politiche), capaci di incidere sulle prospettive patrimoniali dell’Ente.

- Tra dette funzioni deve considerarsi in primo luogo il controllo della gestione sotto il profilo contabile e amministratorio, oltre al controllo dell’attività stessa di gestione, intesa sia quale organizzazione interna che esterna, con riguardo alla formulazione di programmi, alla selezione delle scelte e all’emanazione delle direttive necessarie alla loro attuazione. Ad essa sono causalmente connesse tutte le competenze di carattere organizzativo e strutturale.

- La qualifica di Amministratore esclude qualsiasi assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’Organo di amministrazione dell’Ente nel suo complesso, cosicché sia riscontrabile la formazione della volontà in modo autonomo rispetto a quella di altri soggetti, non risultando possibile l’esistenza di un centro di imputazione delle decisioni direttive diverso e superiore, anche gerarchicamente, a quello dell’Amministratore medesimo.

- Al contrario: chi amministra può sempre impartire direttive agli Organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Sulla base delle informazioni ricevute, egli valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministratorio e contabile dell’Ente; esamina i piani strategici e finanziari dell’Ente; valuta, sulla base della relazione degli Organi delegati, il generale andamento della gestione (v. supra).

- Gli Amministratori, inoltre, posseggono “attribuzioni” native e generali che non possono essere delegate, come quelle che ricadono con immediatezza sul patrimonio (quali l’emissione di obbligazioni convertibili, la redazione del Bilancio, l’aumento di capitale, la riduzione del capitale per perdite e la riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale); a queste si uniscono quelle che mettono in discussione la stessa identità e/o esistenza dell’Ente come tale: i progetti di fusione, scissione o scioglimento (v. supra).

4.2 Individuazione del concetto di gestione

Per parte propria, e in linea di principio, la gestione costituisce una funzione subordinata e parziale (spesso delegata) dell’amministrazione, commessa ad una o più persone, volta ad assicurare il concreto ed efficace espletamento delle ordinarie funzioni organizzative dell’attività affidata, nell’esclusivo interesse dell’Ente al cui servizio opera e dei cui beni si serve in modo proporzionale all’attività richiesta (senza godere su di essi di piena libertà e discrezionalità), secondo l’intenzionalità e le disposizioni degli Amministratori.

Dal punto di vista operativo.

- La gestione costituisce innanzitutto un «complesso di operazioni economico-finanziarie, tra loro collegate e coordinate, effettuate […] in vista degli obiettivi immediati e finali da raggiungere», secondo le delibere e gli obiettivi fissati dagli Amministratori;

- il Gestore compie tali atti di natura economica e contrattuale entro limiti assegnati di spesa (= Budget), anche periodici, dei quali deve periodicamente riferire agli Amministratori e sui quali è soggetto a vigilanza da parte degli stessi o di loro incaricati;

- spetta pure al Gestore fornire agli Amministratori, per la parte di sua competenza, tutti i dati, le informazioni e le notizie necessarie ed utili alla stesura del Bilancio dell’Esercizio.

- Oltre all’operatività economica, appartengono alla gestione anche le funzioni ed attività da cui dipende il concreto funzionamento dell’attività: funzioni complesse ma parziali che non coincidono con l’intera amministrazione dell’Ente di riferimento e di cui deve rendere conto.

- Spetta pure al Gestore curare che l’assetto organizzativo, amministratorio e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’attività, rifendo agli Amministratori, secondo la periodicità fissata, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate o da effettuarsi (v. supra).

- Il Gestore può compiere, ordinariamente, soltanto atti di gestione corrente o circoscritti a specifici rami dell’attività (la c.d. ordinaria amministrazione) che, per loro natura, non intaccano il patrimonio economico o giuridico dell’Ente; atti, cioè, che per tipologia e valore non costituiscano «anormalità rispetto allo scopo della gestione e all’entità del patrimonio», con espressa esclusione di mutui, transazioni, compromessi, alienazioni di immobili, e simili, essendogli – inoltre – radicalmente precluse le funzioni c.d. di “alta amministrazione” (v. supra).

Quanto questi modesti esiti, più pratici che teoretici, possano giovare ad una miglior concettualizzazione canonistica non è qui prevedibile; ci si augura, tuttavia, che possano efficacemente contribuire allo sforzo introduttivamente delineato di giungere quanto prima ad una sufficiente chiarezza ed univocità concettuale e terminologica canonisticamente utile.


in: APOLLINARIS, XCIII (2020), 229-264.