testo dell’articolo senza le note - per la versione integrale consultare la versione a stampa


recensione

P. BUSELLI MONDIN, Il sistema dei ricorsi e dei decreti nelprocesso matrimoniale canonico, Roma 2004.



L’opera di Paola Buselli Mondin “Il sistema dei ricorsi e dei decreti nel processo matrimoniale canonico” si presenta come un’accurata rielaborazione delle norme codiciali in materia di decreti e ricorsi processuali secondo un approccio che, come lei stessa afferma nella Prefazione, tende “ad individuare le ragioni per le quali la struttura giuridica del Processo matrimoniale canonico assume la configurazione che ha e non un’altra”. Si tratta, dunque, di una riflessione sistematizzante in cui la fedeltà allo schema assiologico e formale costituisce la garanzia di continuità ed organicità che attraversa i vari istituti canonico-processuali, col ‘pregio’ di non allontanarsi dal linguaggio abituale alla dottrina ormai da lungo tempo: causa efficiente, formale, materiale prossima e materiale remota.
L’opera, di lettura non immediata per i non-processualisti, manifesta due precipuità che permettono di ricondurla —forse— più all’area della Teoria generale del Diritto canonico (l’Atto giuridico) che non all’ambito processuale: a) il tentativo (riuscito, ci pare) di continuare il cammino di teorizzazione e sistematizzazione intrapreso a suo tempo da O. Robleda a riguardo della Sentenza canonica, estendendone la logica portante al resto degli Atti giuridici processuali (atti di parte, provvedimenti interlocutori ed incidentali); b) la specifica sensibilità ‘personalista’ individuata quale elemento ‘ontologico’ di riferimento per l’intera elaborazione sistematica intorno ai concetti di esistenza, validità ed efficacia giuridica.
Proprio la chiave ‘personalista’ appare l’elemento di maggior pregio concettuale dell’intero lavoro.
Già Olis Robleda aveva percepito a suo tempo il valore ‘personale’ di ogni azione giuridico-canonica definendo l’Atto giuridico come un atto della volontà esterno, diretto alla produzione di determinati effetti giuridici, riconoscendo ed accogliendo il valore dell’autodeterminazione personale rispetto alle conseguenze strettamente giuridiche dell’agire, sicché gli effetti giuridici di ogni atto sarebbero da imputarsi in modo diretto non alla legge ma alla volontà del soggetto agente. In quest’ottica Robleda non ha assolutizzato od ontologicizzato l’esperienza giuridico-canonica del fedele ma l’ha piuttosto autodeterminata, facendo del fedele stesso e delle sue scelte concrete il ‘motore’ dell’Ordinamento giuridico canonico. In tale operazione di autodeterminazione causale Robleda aveva riconosciuto la specifica figura della esistenza giuridica, diversa e distinta tanto dalla validità che dalla efficacia dell’Atto giuridico, sicché la loro assenza determinerebbe non tanto la nullità quanto appunto l’inesistenza dell’Atto, accertabile mediante l’imprescrittibile azione dichiarativa di nullità.

L’efficace proposta dell’autrice trova ampio fondamento nell’insegnamento filosofico di Giovanni Paolo II (in realtà del giovane prof. K. Wojtyla ) secondo cui tutte le analisi relative alla soggettività umana possiedono sempre un proprio limite categoriale, talché esse sono sempre strettamente vincolate all’oggettività dell’esperienza. Con ciò non viene proposta una riflessione puramente fenomenica o sintomatica, bensì “transfenomenica” consapevole, cioè, del fatto che l’uomo è dato nell’esperienza non solo come suppositum, ma come agente dinamico: colui che di fatto sceglie di esistere ed agire in un modo piuttosto che un altro. Conseguentemente la soggettività metafisica insita nel suppositum deve necessariamente manifestarsi come soggettività personale, in modo tale che quanto era tradizionalmente definito come actus humanus (teorico e generico) merita piuttosto il nome di actus personæ (concreto e specifico). In forza, infatti, della autodeterminazione personale l’uomo va ritenuto come l’autore cosciente e responsabile (causa) non solo dei suoi atti e delle loro conseguenze, ma anche di se stesso, nella sua irriducibile ed irripetibile singolarità di persona (autodeterminazione): è l’agire dell’uomo che ne manifesta e realizza l’essere profondo.
L’approccio alla realtà (anche giuridica) diventa così esperienziale ed esistenziale insieme, non limitandosi mai al solo ‘fenomeno’ ma esigendo una metodologia trans-fenomenica che colga l’essere al di là delle sue manifestazioni; è questo che consente di non cadere nell’equivoco di ontologizzare (attribuire fondamento ontologico) la stessa esperienza giuridica che, proprio in quanto ‘esperienza’, è necessariamente connessa alle dinamiche e mutevoli esigenze del vivere quotidiano.
Il maggior pregio della proposta ‘fondativa’ dell’opera in esame risalta —a questo punto— per il corretto riferimento alla ‘persona’ in quanto concreta ed esistenzialmente attiva, senza cadere nelle ‘trappole’ di vaghi antropologismi che —riferendosi ad un etereo “uomo creato e redento in Cristo”— non riescono, in realtà, a dare nessun apporto concreto e credibile all’esperienza giuridica ecclesiale.

Le conseguenze di questo approccio si fanno apprezzare anche nella parte più tecnica del lavoro (Capitoli secondo, terzo e quarto) dove l’intero Processo di nullità matrimoniale viene letto in chiave partecipativa attraverso gli Atti giuridico-canonici legittimamente e doverosamente posti da ogni singolo interveniente, in modo tale che ciascuno sia prima di tutto persona che prende parte attiva ad un cammino di verità. L’imputabilità diretta degli effetti giuridici alla volontà del fedele non impedisce tuttavia la giusta individuazione e collocazione anche del Fatto giuridico-canonico, in cui si ravvisa un’imputabilità degli stessi effetti alla volontà del fedele solo presuntamente, essendo invece questa direttamente riferibile alla legge.

All’interno di questa dimensione personal-partecipativa, nel Processo matrimoniale canonico i soggetti processuali (giudice e parti) agiscono dunque per risolvere una data controversia non in un modo qualsiasi, bensì in uno determinato: insieme, responsabilmente. Il Processo si presenta così come una realtà partecipata perché in esso non è sufficiente che i soggetti processuali agiscano per risolvere una controversia, ma è necessario anzitutto che essi scelgano di agire insieme, realizzando così tutto ciò che caratterizza un Processo. Conseguentemente le condizioni assiologiche della co-esistenza Processuale non sono date dalla sola azione comune rivolta alla risoluzione di ‘una’ controversia, bensì dalla scelta personale di ciascun soggetto processuale di voler risolvere ‘quella’ determinata, concreta, controversia.
Si spiega in tal modo non solo la specifica articolazione dell’esistenza giuridica negli Atti processuali canonici ma anche il fenomeno dell’efficacia dell’Atto processuale nullo. Il carattere partecipato del Processo infatti giustifica la rilevazione in termini inter-esistenziali degli Atti processuali tale per cui essi possono ritenersi efficaci, per il semplice fatto di esistere giuridicamente, anche se non sono stati validamente posti. La partecipazione processuale, inoltre, spiega il principio dell’æquitas ed altresì il fatto irrinunciabile che la risoluzione di una controversia non possa essere intesa staticamente, ma dinamicamente, in conformità al principio della razionalità dialogica, necessario per individuare in una situazione di opposizione come quella processuale ciò che è vero e giusto, lasciando da parte gli orientamenti o predisposizioni prettamente soggettivi di ciascun soggetto processuale.
Il carattere contemporaneamente personale e comune della responsabilità dei soggetti processuali appare con particolare evidenza nella funzione e nella struttura assegnate alla motivazione nei loro Atti.
Negli Atti di parte essa assume la funzione di condicio iuris di validità, definendo la loro credibilità soggettiva ed oggettiva, ossia la loro idoneità a produrre in modo utile effetti giuridici comprensibili ed accoglibili; tale funzione viene poi a giustificare nella motivazione degli Atti di parte una struttura relazionale-utilitaristica che presuppone l’autonomia personale delle parti non tanto nei confronti della legge, quanto piuttosto nei confronti del ruolo processuale in ordine al quale viene interpretata la legge di riferimento.
Negli Atti giudiziali viene distinta la motivazione dei Provvedimenti interlocutori (decreto presidenziale e provvedimenti endoprocessuali) da quella della Sentenza. Nei primi essa assume costantemente la funzione di condicio iuris di esistenza, essendo l’atto del motivare un modo di essere e non semplicemente di operare di tutti provvedimenti endoprocessuali, conformemente ai principi dell’æquitas, della razionalità dialogica e del contraddittorio. Nella sentenza la motivazione può assumere invece sia la funzione di condicio iuris di efficacia che di condicio iuris di validità: il discrimine va individuato nella natura sacramentale o meno dell’oggetto trattato, ovvero nel fatto che essa assuma la veste di Fatto (un Sacramento) o Atto giuridico-canonico.

Merita senz’altro nota il ruolo attribuito alla significazione metafisica (personalista) dell’Atto giuridico, rappresentando essa un nuovo possibile strumento di ermeneutica giuridica, e non semplicemente di esegesi.
La possibilità ben dimostrata di rilevare un fondamento metafisico ‘di spessore’ anche in un ambito spesso disdegnato dai teorici del Diritto, quale quello processuale, fa ben sperare per il crescere l’affermarsi tra i canonisti di una vera sensibilità ‘personalista’ e non genericamente (banalmente) soltanto ‘antropologica’.



Prof. Paolo Gherri
Incaricato Teologia del Diritto canonico - Pont. Univ. Lateranense


in: IL DIRITTO ECCLESIASTICO, (2005), 411-413.