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recensione

M. VISIOLI, Il diritto della Chiesa e le sue tensioni alla luce di un’antropologia teologica, Roma 1999.


La tesi dottorale in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Gregoriana di Matteo Visioli è probabilmente la prima opera in ambito cattolico che abbia tentato un approccio ‘integrato’ tra l’ambito canonistico, in senso lato (non un argomento tecnico specifico ma un discorso di respiro più generale), e quello direttamente teologico; è l’autore stesso che, prendendo atto del perdurare della difficile comunicazione tra i due ambiti cerca d’impostare il proprio lavoro in un’ottica d’interdisciplinarità (avendo conseguito in precedenza la Licenza in Teologia fondamentale) che, almeno a livello ipotetico apra qualche prospettiva. All’autore va senz’altro riconosciuta la novità dell’impostazione che prende in esame più ‘questioni’ canonistiche e le rapporta ad un unico autore dell’ambito teologico mentre, di solito, i canonisti preferiscono il contrario: affrontare un unico tema dottrinale utilizzando l’apporto teologico di diversi autori.
L’opera (423 pagine di trattazione, cui se ne aggiungono altre 45 di bibliografia) si articola in tre Parti: I) le tensioni del diritto ecclesiale, II) l’antropologia teologica di Hans Urs von Balthasar, III) sintesi teologico-canonica; ciascuna Parte è articolata in quattro Capitoli e completata da una propria Conclusione.
Già dall’Introduzione l’autore esplicita le proprie scelte di campo ponendosi immediatamente all’interno di una precisa prospettiva di ‘scuola’:
“il nostro cammino di ricerca parte dalla convinzione che l’uomo in quanto pensato alla luce della rivelazione porta in sé elementi fondamentali dell’esistenza della giuridicità. Ovvero: che l’uomo creato e redento in Cristo presenta una dimensione teologale che lo costituisce a pieno titolo in un contesto giuridico” (pag. 8).

La Prima Parte dell’opera prende in esame alcune ‘tensioni del diritto ecclesiale’ che l’autore non motiva nella loro individuazione e nella scelta rispetto ad altre possibili: si tratta di quattro coppie di concetti-istituti che la dottrina e la storia conoscono come problematiche: I) potestà primaziale e potestà collegiale, II) Chiesa particolare e Chiesa universale, III) pubblico e privato, IV) foro esterno e foro interno; ciò che risalta immediatamente è la disomogeneità degli elementi ‘tensionali’ scelti: disomogeneità reciproca (si tratta di realtà molto differenti tra loro) ma anche disomogeneità rispetto alla dichiarata prospettiva ‘antropologica’ alla quale non pare facile ricondurre ciascuna delle ‘tensioni’ indicate.
L’esposizione analitica che l’autore propone delle quattro quæstiones costituisce certamente un ottimo strumento per ‘riappropriarsene’ in modo adeguatamente chiaro ed aggiornato: una buona opportunità per conoscere lo status quæstionis della dottrina in merito ed, eventualmente, per iniziare di lì altri percorsi di studio in materia.
La Seconda parte delle tesi è costituita da una presentazione ‘mirata’ della dottrina teologica di H.U. von Balthasar adottato concretamente come l’esponente più significativo dell’Antropologia teologica dello scorso secolo, nella linea —almeno— seguita dall’autore. Non è senza interesse segnalare come gli studi canonistici di don Visioli siano stati ‘preparati’ da una Licenza in Teologia fondamentale, presso la stesa Università Gregoriana.
La Terza Parte dell’opera (Sintesi teologico-canonica) supera la sostanziale ‘compilatività’ delle pagine precedenti cercando di connettere tra loro i diversi ‘dati’ emersi, “affinché dal confronto tra essi e da una loro valutazione sincronica possa scaturire il novum che la ricerca intende porre in luce” (pag. 329): è questo, in fondo, il cuore dello studio. Il percorso si articola in quattro tappe: 1) ricupero dei dati emersi, 2) implicazioni antropologiche delle tensioni giuridiche, 3) Codice e tensioni, 4) funzioni del diritto ecclesiale.
Il Nono Capitolo appare il maggiormente denso di contenuti; in esso l’autore ‘raccoglie’ i tre cardini del proprio pensiero a cavallo tra ‘universo giuridico’ e ‘pensiero teologico sull’uomo’: tensionalità, reciproca immanenza, unità e molteplicità.
- Della tensionalità nell’universo giuridico si offre un’efficace prospettiva di lettura secondo due schemi emergenti: la tendenza “fideista” e quella “razionalista” che concretizzano la “risoluzione delle tensioni” attraverso o la sottrazione della natura della Chiesa a “qualsiasi riflessione sistematica che porti a collocare la sua componente istituzionale sulla linea delle altre istituzioni mondane” (pag. 331), oppure “nel tentativo di dare credibilità all’aspetto istituzionale della Chiesa di fronte agli altri ordinamenti” attraverso una pianificazione delle tensioni, ricercando la maggiore armonizzazione possibile tra i poli contrapposti, finendo per far prevalere un termine sull’altro (pag. 331-332). Una volta tanto, tuttavia, il bi-polarismo non è gradito all’autore che dichiara di voler
“indagare sulla possibilità di una terza via tra la prospettiva fideista e quella razionalista, via che renda ragione della coesistenza di termini teologico-giuridici tra loro in tensione, senza per questo rifugiarsi in definizioni formali di fede, e senza necessariamente costituirli in un rapporto di supremazia-sudditanza che avrebbe come conseguenza la diminuzione della rilevanza di uno rispetto all'altro” (pag. 332).
La tensionalità nel pensiero teologico sull’uomo è completamente ricondotta alla dottrina di von Balthasar che proprio su di essa costruisce il suo pensiero antropologico: il ‘gioco forte’ dell’autore sono le tensioni “primordiali” che von Balthasar rileva nell’uomo creato: spirito-corpo, uomo-donna, individuo-collettività; l’uomo creato è un essere carico di tensione iscritta nello stesso disegno salvifico e “la redenzione operata da Dio mediante il Verbo incarnato non attenua tale tensione ma la estende ulteriormente caricandola di significato” (pag. 334).
- La reciproca immanenza è presentata da Visioli come la soluzione, non riduzionistica, delle opposizioni inevitabilmente configuratesi nell’universo giuridico. E’ il “criterio di opposizione e coinerenza” di cui von Balthasar fa uso intenso: la libertà di Dio (increata) e quella umana (creata) si ‘coappartengono’ poiché la libertà finita scaturisce dall’espressione di amore della libertà infinita (pag. 337); anche all’interno di ciascuna delle tre ‘tensioni primordiali’ ogni elemento implica il proprio corrispettivo. In modo tutto specifico l’evento dell’Incarnazione del Verbo si pone come “momento di assunzione della dinamica di reciproca inerenza dei poli tra loro relazionati”.
- Unità e molteplicità costituiscono, di fatto, il punto d’arrivo della tensione argomentativa dell’autore: in ambito antropo-teologico la posizione di von Balthasar (frontale rispetto alla filosofia moderna e contemporanea) si concentra infatti nello sforzo di “mantenere attiva e dinamica la differenza dell’essere” che è ontologica e “si giustifica in forza della stessa natura dell’essere”; anche l’ambito giuridico potrebbe trovare in questa prospettiva il proprio equilibrio-dinamico. S’inserisce qui l’evocazione della esemplarità dogmatica calcedonense che riconoscerebbe il Cristo stesso quale ‘prova’ e testimonianza di questa attiva e dinamica differenza dell’essere. Ciò che tuttavia pare sfuggire a Visioli nella sua opera di ‘estensione’ totalizzante di criteri cristologici ed antropo-teologici è la portata esiziale di una sua stessa espressione, un ‘inciso’, secondo cui —correttamente sotto il profilo dogmatico— l’identità singolare del Figlio di Dio costituisce un “vero apax ontologico”: qualcosa, cioè, di assolutamente unico ed irripetibile …nonostante qualsiasi ‘analogia’, che non potrà mai, comunque, assumere portata ontologica nel trasferire al altre realtà ciò che è “di Cristo” soltanto (pag. 347-348). Ciò non di meno si ginuge, articolatamente, alla conclusione che
“anche i rapporti giuridici, come fondamentalmente tutto il fenomeno giuridico teologicamente compreso, sono custoditi, protetti e rivelati nell’unità e differenza cristologica: in essa l’essere lascia spazio alla molteplicità degli enti, la conoscenza è possibile per il fatto che il soggetto si lascia vedere dall’oggetto (Gesù è il volto del Dio invisibile: Col 1,15), e nell’esperienza dell’alterità l’io è tale nella misura in cui si lascia riconoscere dal tu che gli sta di fronte come diverso da sé” (pag. 351).

Il Capitolo Decimo (Implicazioni antropologiche delle tensioni giuridiche esaminate) si apre con la domanda cruciale per lo studio intrapreso dall’autore: “quale apporto può fornire la visione cristiana sull’uomo all’assunzione delle tensioni sotto il profilo giuridico?” (pag. 353) Viene scartata immediatamente la via ‘formale’ che permetterebbe una regolamentazione del rapporto placando le tensioni ed appianando le aporie interne attraverso la riconduzione di ciascun termine ad un proprio, specifico, ambito di esercizio; questo infatti mortificherebbe “un rapporto che per sua natura è dinamico” e deve mantenere la distanza tra i fattori “pur lasciandoli in relazione di reciproca appartenenza” (pag. 354; 355).
La seconda articolazione del Capitolo si apre con la domanda —necessaria dopo 350 pagine di lavoro— circa la legittimità del cammino sin lì articolato. Confortato dalla convinzione di F. D’Agostino secondo cui “la teologia è in grado di cambiare efficacemente il mondo pur rispettandolo nella sua identità” , Visioli s’avventura in una sintesi, a suo parere stringente, del miglior pensiero teologico-canonistico del secolo scorso:
“la giuridicità teologicamente intesa è espressione peculiare dell’uomo nella sua dimensione creazionale e nella sua valenza mondana: […] La teologia pertanto fornisce all’uomo credente gli strumenti per comprendersi in quanto relazionato agli altri uomini credenti in un vincolo giuridico che ne esprime i diritti e gli obblighi: anche attraverso di essi l’economia di salvezza di Dio si realizza nella storia, creando quella comunione ecclesiale che abbiamo visto essere la specifica natura della Chiesa, e rinsaldandone i vincoli di carità attraverso la prassi e le istituzioni. […] Si comprende in questo modo che la fondazione del diritto canonico non può che assumere una caratterizzazione dogmatica, al di fuori della quale si perderebbe il suo senso proprio e si ridurrebbe il diritto della Chiesa a un mero complesso di norme positive” (pag. 360; 361-362).
Ne deriverebbero —a stretto giro di logica— due conseguenze: innanzitutto che non si dà un concetto di diritto ecclesiale valido se non partendo dalla domanda sull’uomo alla luce della rivelazione cristiana; in secondo luogo che alcune dinamiche proprie della natura dell’uomo si riflettono con gli stessi parametri in ambito più strettamente giuridico, anche là dove si tratta della regolamentazione di alcuni istituti giuridici o della positivizzazione di norme che traducono il giuridico ecclesiale (pag. 362).
Le “conseguenze in campo giuridico” rappresentano il vero profilo della tesi che l’autore intende proporre: “la derivazione del rapporto giuridico dalla natura antropologica di cui l’uomo è depositario” ed “il rapporto di simultaneità tra la singolarità dell’uomo e l’universalità del suo essere giuridico, in particolare dei diritti e obblighi che egli esprime” (pag. 376-377) fanno sì che quando si tratta di diritto canonico “tale natura non può che essere letta alla luce di quella emergenza cristologica di cui l’antropologia è radicalmente informata”, fino all’estremo che “anche il diritto, attraverso la mediazione della persona umana, ha in Dio il suo fondamento ultimo” (pag. 377).
Ne deriva, in ambito prettamente(?) giuridico, che
“il diritto nella sua formulazione positiva deve assumere il dato antropologico oltre che quello ecclesiologico: ed assumere il dato antropologico cointende il radicamento in quella cristologia che motiva l’esistenza dell’uomo e dà significato alla sua dimensione giuridica. Il fondamento cristologico del diritto pertanto esiste, ma è “mediato” dall’antropologia e dall’ecclesiologia che, in modi differenti, rendono ragione del legame profondo tra l’istituzione normativa espressiva del giuridico ecclesiale e il mistero cristiano” (pag. 378-379).
L’autore s’indirizza poi a concludere proponendo due riflessioni a partire dalla ‘acquisizione’ testé enunciata. La prima, condivisibile, richiama come “il tentativo di spiegare il fenomeno giuridico ecclesiale alla luce di un solo aspetto particolare del mistero rivelato” si manifesta parziale ed inconcludente; non è, infatti, corretto “concentrare l’attenzione solo su un ambito della dottrina ecclesiologica, quale potrebbe essere l’atto fondativo di Cristo, o le categorie nominali accreditate dal Concilio, per esempio ‘popolo di Dio’, ‘Corpo mistico di Cristo’, o ancora Parola e Sacramento ecc.” occorre invece un’attenzione “alla globalità della Rivelazione” (pag. 379).
Di ben altra fondatezza è, invece, la seconda:
“la nostra indagine ha voluto cogliere le componenti antropologiche presenti nel fenomeno giuridico per evidenziare la loro portata all’interno della riflessione sulla natura teologica del diritto della Chiesa, senza che esse siano necessariamente relegate, come spesso accade, in ambito filosofico o sociologico. […] La tensionalità dell’uomo si ripercuote in campo giuridico, e può essere in questo ambito positivamente assunta nella misura in cui il diritto la pone in riferimento alla persona di Gesù e alla sua singolarità ontologica. In questo modo il diritto accetta non come fallimento ma come esercizio della propria funzione il fatto di non definire in modo omogeneo e privo di conflittualità la realtà ecclesiale che gli è data. Anzi, adempie alla sua funzione se è capace di conservare la complessità del reale in riferimento al mistero dell’uomo, della Chiesa, e ultimamente del Verbo incarnato: mistero che non può essere semplificato se non con forte detrimento della verità rivelata” (pag. 379-380).
La trattazione sostanziale si chiude evidenziando ‘forza’ e ‘limite’ del diritto della Chiesa, non senza lasciar trasparire una sensazione di elegiaca decadenza (o di velato imbarazzo canonistico):
“ciò permette al diritto della Chiesa di sottrarsi a un’aura di scienza esatta che troppe volte ha avocato a sé, e di collocarsi più realisticamente a fianco dell’uomo credente nel suo pellegrinaggio verso la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo, per ordinare la sua vita cristiana nell’aspetto dei diritti e degli obblighi.
Essendo questo pellegrinaggio prerogativa propria di tutta la Chiesa, in questo modo il diritto canonico sarà uno strumento che permette a tutto il Corpo mistico di Cristo di procedere nella via della redenzione” (pag. 380).

L’Undicesimo Capitolo, in una continuità non evidente con quanto precede, tenta di rintracciare l’atteggiamento del Codice latino di fronte alle ‘tensioni emergenti’ prese in esame finendo però con l’analizzare l’operatività del Legislatore canonico al quale si offre una riflessione sulla distinzione logica tra domanda e problema per aiutarlo a “valutare con più accortezza il genere d’intervento richiestogli”; in modo del tutto irrealistico ed anti-storico si chiede così al Legislatore non di ‘risolvere’ i concreti problemi indotti dal vissuto dell’uomo (peccatore) ma di partecipare alla formulazione delle risposte che l’intero humanum finisce col suscitare.

Nell’ultimo Capitolo (le funzioni del diritto ecclesiale) culmina il lungo cammino percorso dall’autore, convinto di aver significativamente contribuito ad “una configurazione del diritto ecclesiale fortemente rafforzata nella sua natura teologica”; da qui la duplice consapevolezza: che anche il diritto costituisce uno strumento essenziale, anche se non esclusivo, per cogliere il fondamento ultimo del cristianesimo, e che la natura teologica del diritto permette di specificarne il metodo e le peculiarità (pag. 396) …ovviamente ‘teologiche’.
Ciò che, tuttavia, appare innovativo dopo queste ‘professioni di fede’ —dovute— è lo schema delle ‘funzioni’ del diritto ecclesiale che Visioli giunge a proporre come risultato ‘metodologico’ della propria elaborazione: a) funzione conoscitiva, b) funzione di comunicazione, c) funzione di identificazione, d) funzione di controllo, illustrate nel loro significato, fondazione e conseguenze.
a) Secondo l’autore sarebbe “proprio della natura del diritto conoscere, comprendere fondamentalmente un contenuto”; per di più, ogni norma, ogni disposizione del diritto positivo, eserciterebbe il compito di promuovere una conoscenza sempre più profonda del reale, così che la Chiesa possa trasparire anche dalla sua accezione istituzionale come sacramento visibile del Verbo incarnato (pag. 398; 399).
b) La seconda funzione “indica il carattere dialogico che muove il diritto della Chiesa fin dalla sua origine”. La scienza giuridica ecclesiale, cioè, “pone in atto un confronto tra le argomentazioni che rileva nella propria indagine” cercando un’intesa universale sul “fondamento del giuridico ecclesiale”: una seconda fattispecie della funzione di conoscenza.
c) “La funzione di identificazione si pone come esigenza di interpretazione della realtà ecclesiale, in quanto strutturalmente connessa con la sua funzione ordinatoria”; il diritto della Chiesa, infatti, “interpreta la realtà antropologica ed ecclesiale, e la ordina attraverso la sua comprensione concettuale” conferendo all’attività giuridica ragionevolezza ed attitudine all’approccio scientifico (pag. 406).
d) “Corrispettiva della precedente”, è la funzione del “controllo oggettivo delle affermazioni e delle pretese veritative avanzate dalla comunità in ordine al giuridico ecclesiale”; sotto questo profilo deve risaltare ed essere tutelata concretamente “l’autenticità dell’asserto giuridico che è primariamente autenticità teologica dalla quale anche l’esperienza prende corpo”, con ricaduta critica e normativizzante nei confronti dell’esperienza stessa (pag. 411-412).

Le ultime tre pagine più che una vera ‘conclusione’ dello studio —in realtà già fornita negli ultimi Capitoli— portano a compimento il dinamismo innescato all’inizio, riproponendo la ratio sintetica dell’intero percorso.
Alla domanda sulle “ragioni dell’esistenza di un diritto nella Chiesa e sulla natura di tale diritto” si cerca risposta attraverso il rilievo della presenza di “elementi di tensione giuridica non attribuibili solamente ad una difficile ed insufficiente opera di elaborazione del testo legislativo” ma recepiti quali “costanti che si pongono nell’universo giuridico ecclesiale in un equilibrio dinamico, e che come tali vanno assunte”; di fronte a tale constatazione il ricorso “alla prospettiva antropologica di Hans Urs von Balthasar ha evidenziato che anche (notare la ‘forza’ di questo connettivo logico al quale si vorrebbe far reggere l’intero impianto teoretico dell’opera: anche!) l’uomo è carico di tensioni” strutturali in continuo movimento e di fatto non ‘risolvibili’ (pag. 421).
L’apporto specifico dell’autore sta nella ‘creazione’ del ‘rapporto’ tra questi due aspetti:
“a maggior ragione il diritto della Chiesa, inteso in una prospettiva storico-salvifica, dovrà assumere, riflettere, esprimere le medesime tensioni antropologiche”! (pag. 422)
Una certa onestà intellettuale pone tuttavia il dubbio che non si tratti solo di “pura e semplice risonanza di intuizioni proprie di altre discipline teologiche”; tale dubbio è però prontamente risolto nell’affermazione che “tale operazione debba avvenire su un piano proprio ed esclusivo: quello della giuridicità”. Cosa questo significhi e ‘come’ sia stato concretamente ed effettivamente realizzato non è tuttavia evidente, visto che la ‘giuridicità’ parrebbe costituire uno dei due ‘momenti’ logici che articolano la problematica così imbastita. L’esito che ne segue ‘vale’ quanto le premesse e la pregnanza delle connessioni logiche addotte:
“se dunque all’origine fondazionale del fenomeno giuridico ecclesiale si pone l’uomo come parte attiva e dinamica della storia della salvezza, e se la persona di Gesù, nell’atto della creazione e della redenzione, configura a sé ogni uomo, allora nell’autocomprensione della propria identità il diritto della Chiesa sarà risolto in ultima analisi dal suo riferimento al Verbo incarnato.
Nel nostro percorso abbiamo rilevato in particolare come le tensioni giuridiche potessero trovare una sede di senso proprio nella singolarità della persona di Gesù, nel suo essere simultaneamente vero Dio e vero uomo: egli ricapitola nella propria identità le prerogative di unità e di molteplicità presenti nel reale, e che si manifestano all’esperienza giuridica dell’uomo.
Le bipolarità espresse dal giuridico dogmatico e positivizzate dalle leggi ecclesiastiche possono si apparire contraddittorie sotto un’ottica puramente formale che ne sottolinea le incongruenze e le aporie. Tuttavia, in prospettiva antropologica e dunque cristologica, vengono assunte nella storicità della persona del Verbo incarnato, nella sua singolarità che diventa criterio ermeneutico teologico di coesistenza dell’unità e della molteplicità nella Chiesa e nell’uomo stesso” (pag. 422-423).

Ciò che tuttavia non inizia neppure a convincere delle oltre quattrocento pagine in esame è l’estrema fragilità, per non dover dire ‘arbitrarietà’, dello snodo portante l’intera costruzione: un troppo semplice “anche” posto a connettere la Prima Parte con la Seconda nella speranza/pretesa di fondare così la Terza.

Il grande pregio dell’opera di Visioli può, comunque, essere individuato ed opportunamente valorizzato quale ‘ultima tappa’ raggiunta ed ottima prospettiva di sviluppo delle derive teologistiche innescate dalla Scuola di Monaco e reinterpretate nella sola ‘forma’ dall’attività del Prof. Ghirlanda (Relatore della tesi dottorale).


prof. Paolo Gherri
(Inc. Teologia Diritto Canonico - PUL)


in: APOLLINARIS, (2005), 941-949.